Vita da Fuorilegge

di Beatrix Bonnie
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il primogenito maschio ***
Capitolo 2: *** Fretta di vivere ***
Capitolo 3: *** Il giovane musicista ***
Capitolo 4: *** Il cugino nobile ***
Capitolo 5: *** Destini diversi ***
Capitolo 6: *** La banshee ***
Capitolo 7: *** Trinity College ***
Capitolo 8: *** Zucchero filato ***
Capitolo 9: *** Le scarpe di Hermes ***
Capitolo 10: *** Gli Extraiures ***
Capitolo 11: *** Insegnare le buone maniere ***
Capitolo 12: *** Il patto ***
Capitolo 13: *** Gelosia furibonda ***
Capitolo 14: *** Per sempre ***
Capitolo 15: *** Caccia al tesoro_parte prima ***
Capitolo 16: *** Caccia al tesoro_parte seconda ***
Capitolo 17: *** Il nuovo professore ***
Capitolo 18: *** Preparativi ***
Capitolo 19: *** Vecchi ricordi ***
Capitolo 20: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Il primogenito maschio ***


Nota dell'autrice: la storia, pur facendo parte della serie “Trinity College” è sufficientemente indipendente, tanto da poter essere letta anche da chi non avesse presente i precedenti racconti. Tuttavia, ne è vivamente consigliata la lettura, perché l'autrice darà per scontati certi aspetti riguardanti la scuola irlandese di magia.



Il primogenito maschio


Gennaio 1955, villa Saiminiu


Sextans Mes Gergra Saiminiu di Sir Eriu Luachra non era il tipo di uomo che si faceva impressionare facilmente. Se ne stava tranquillo in salotto a leggere il Corriere del Mago, come se non stesse accadendo nulla di speciale. Avrebbe fischiettato, se solo a un mago Purosangue di un'antica stirpe celtica fosse permessa una tale frivolezza. Ma, dopotutto, di che avrebbe dovuto preoccuparsi? Il parto era una cosa assolutamente naturale, anche se sua moglie Onoria stava facendo nascere due gemelli. Sperava tanto che fossero maschi: due eredi forti e sani per i Saiminiu e la stirpe di Mes Gergra.
Suo fratello Antilius entrò in salotto proprio in quel momento. Si sedette sulla poltrona di pelle rossa al suo fianco e rimase un attimo in silenzio, a contemplare la grossa croce dorata da cardinale che portava sul petto. «Quando saranno nati i due bambini, bisognerà pensare al battesimo. Sai che non è saggio attendere troppo» disse Sua Eccellenza, osservando le fiamme del camino che creavano stani giochi di luce sul pavimento di marmo.
Sextans si arrese a mettere da parte il giornale e si voltò verso il fratello. «Certo, Antilius, non temere».
«Speriamo siano maschi, Sextans» continuò il cardinale. «Come pensavate di chiamarli?»
Proprio quel momento un urlo un po' più forte degli altri si fece sentire dal piano di sopra. Sextans sollevò gli occhi al soffitto per un attimo, poi rispose: «Septimius e Menrwald».
Sua Eminenza non contemplò nemmeno l'ipotesi di chiedere come si sarebbero chiamate se fossero state femmine. Erano maschi, ne era certo.
In quel momento si sentirono dei vagiti provenire dal piano di sopra. Sextans si alzò dalla poltrona di scatto, come se qualcosa l'avesse punto, improvvisamente vigile e attento a qualsiasi suono. Rimase immobile per qualche momento, poi scambiando una veloce occhiata con il fratello cardinale, fece per dirigersi verso la porta, ma apparve Wolly l'elfo domestico sull'uscio. Aveva uno sguardo preoccupato e esitante, come quando temeva di essere punito per qualche mancanza.
«Che succede, Wolly?» domandò allora Sextans, in tono duro. L'elfo si guardò intorno per cercare un'ancora di salvezza. «Deve aspettare ancora, signore. I guaritori si stanno adoperando. Wolly la verrà a chiamare, signore, quando avranno finito.» E con quelle parole uscì dalla stanza.
Sextans si pietrificò. In un secondo gli crollò addosso il mondo intero: che cosa stava succedendo al piano di sopra? Perché Wolly era preoccupato e per che cosa si stavano adoperando i guaritori?
«Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla» recitò Sua Eccellenza. «Abbi fede, fratello mio, e andrà tutto bene».
Sextans si lasciò cadere sulla poltrona e prese a riflettere osservando le fiamme che danzavano nel camino. Non era da lui, ma ora cominciava a essere preoccupato. Temeva per la vita della moglie e per quella dei due piccoli. Finalmente i Saiminiu stavano per avere un'erede e per riportare in auge il nome della famiglia all'interno della stirpe di Mes Gergra, e invece quel parto si stava rivelando più complicato del previsto. Non era mai stato particolarmente credente, a differenza del fratello, che aveva scelto la carriera ecclesiastica, diventando una delle voci più influenti nel mondo magico cattolico, eppure in quel momento si ritrovò a pregare. “Falli sopravvivere, Signore, non posso fallire ora!”
In quel momento apparve nuovamente Wolly. «Signore, sono nati. Venga, venga!» esclamò il piccolo elfo, incitando il suo padrone a seguirlo.
L'uomo si alzò immediatamente dalla sedia e si affrettò a salire le scale, seguito dal fratello.
Si precipitò dentro la loro camera da letto dove sua moglie Onoria ansimava stanca tra i cuscini e le coperte. Aveva uno sguardo indecifrabile, strano per una donna che aveva appena dato alla luce due creature. Il guaritore se ne stava in un angolo, come se si sentisse colpevole di qualcosa, e fissava il signor Saiminiu con occhi pieni di attesa angosciosa.
I due gemelli erano stati adagiati in una culla, a fianco del letto. Sextans si avvicinò cauto, temendo di scoprire qualcosa di terribile, viste le facce degli occupanti della stanza.
Finalmente osservò i suoi figli: un maschio e una femmina.
Il bambino a sinistra era un po' magrino, ma tutto sommato sano: piangeva come un disperato e agitava al cielo i pugnetti.
Ma quella al suo fianco... era uno sgorbio. Il braccio sinistro non era altro che un moncherino e le gambine erano irrimediabilmente storte.
Storpia.
«Cosa è quella?»
Aveva una figlia storpia. Lui, erede dei Saiminiu di Mes Gergra aveva una figlia storpia.
«Signor Saiminiu...» farfugliò il guaritore. «I due bambini, essendo gemelli, non aveano abbastanza spazio e la femmina non è riuscita a formarsi del tutto».
«Stupide scuse!» sbraitò Sextans, voltandosi verso il guaritore, che in un baleno si vide passare davanti tutta la sua vita.
«Io... non ho potuto fare nulla».
Sextans estrasse la bacchetta dalla tasca, furioso. Il guaritore sgranò gli occhi e indietreggiò di un passo. Non avrebbe potuto ucciderlo, al St. Bartleby sapevano che lui era dai Saiminiu per un parto. Se l'avesse ucciso, tutti avrebbero capito che era stato quel fanatico di Saiminiu.
Non avrebbe avuto il coraggio, o sì?
I suoi occhi scuri non lasciavano presagire nulla di buono. «Oblivion» sussurrò Sextans. «Noi abbiamo avuto solo un figlio maschio. Un bel maschietto sano» ordinò al guaritore, che annuì con uno sguardo vacuo.
E poi Sextans si voltò verso la culla e squadrò con serietà quel piccolo sgorbio che strillava.




Eccoci qua con la nuova storia dedicata agli Extraiures... non un inizio propriamente allegro, lo ammetto, ma sono voluta partire proprio dalle origini, con la nascita dei due gemelli Saiminiu. Lo schema, lo ammetto, è ripreso dal magnifico lavoro di Julia Weasley, “Eroi non si nasce, si diventa”, anche se ovviamente molto meno elaborato: si tratta di 3 capitoli a testa per l'infanzia di Septimius e Reammon, 7-8 per la loro amicizia al Trinity, 2 a testa per l'età adulta e un epilogo finale con la riappacificazione. Potrei definirla una sorta di MissingMoment alla mia stessa saga del Trinity, che vede come protagonisti i due Extraiures. In alto ad ogni capitolo, il luogo e la data a cui fa riferimento l'episodio, utili per capire dove ci troviamo e quanti anni hanno i personaggi.
Spero che questo breve capitolo vi sia piaciuto... dal prossimo cominciano i divertimenti, perché sarà descritta la nascita di Reammon!
A presto, Beatrix


EDIT: comincia anche per questo racconto l'opera di risistemazione dei dialoghi!

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Capitolo 2
*** Fretta di vivere ***


Fretta di vivere

Settembre 1955, casa Boenisolius

«Aaroooon!» un urlo lacerò la tranquillità di quella fresca mattina di settembre. Una donna con una selvaggia criniera di capelli rossi e un'enorme pancione stava sbraitando sull'uscio della porta di casa. Indossava una semplice camicia da notte troppo tirata sul davanti, scalza e con le gambe scoperte. «Aaron!» chiamò di nuovo, disperata. Intorno a lei c'era solo la serena campagna irlandese, con i suoi verdi campi e le nuvole pannose che si rincorrevano nel cielo.
E finalmente comparve, un omino magro e allampanato, con gli occhialetti e la faccia sorridente. O meglio, fu sorridente fin tanto che non vide lo stato in cui versava la moglie e le occhiate furenti che gli lanciava. «Joey, tesoro, cos'è successo?» domandò agitato, appoggiando a terra il cesto di funghi che aveva raccolto.
«Mi si sono rotte le acque!» sbraitò la donna, quasi volesse accusare il marito di quel parto prematuro.
«Ehm, oh... ah».
«Non fare quella faccia! Portami al St. Bartleby!» strillò Joey, in preda al furore.
Al sentir nominare l'ospedale, l'uomo si riscosse. «Giusto. Al St. Bartleby» disse, allungando il suo braccio verso la moglie. Dopodiché fece un breve giro su se stesso e si smaterializzò.
Il pronto soccorso del St. Bartleby era particolarmente affollato quella mattina. Aaron fece sedere la moglie su una di quelle seggioline rosse delle sale d'attesa e andò alla ricerca di un guaritore. «Ehm... mi scusi» domandò ad un infermiera che stava passando.
«Se cerca un'informazione, vada al bancone là a destra.» rispose la donna.
Aaron si voltò nella direzione indicata dall'infermiera e per poco non ebbe un colpo: almeno dieci maghi stavano in fila davanti ad uno sportello. Si rivoltò verso la donna, ma questa era già scomparsa. «Io...» provò a dire, ma nessuno lo prese minimamente in considerazione. Al che si rassegnò a mettersi in fila.
«Aaron, ti vuoi sbrigare? O preferisci che partorisca tuo figlio in sala d'aspetto?» gli strillò Joey, con gli occhi fuori dalle orbite.
Aaron lanciò occhiate supplicanti ai maghi in fila davanti a lui e qualcuno si impietosì a tal punto da lasciarlo passare avanti.
Ma la strega davanti a lui stava letteralmente litigando con la donna dietro il bancone.
«Senta, non è affare mio se lei si è ingoiata un paiolo intero, la sezione Incidenti Magici è al secondo piano» stava dicendo l'infermiera alla reception.
«Ma il mio non è stato un incidente, mi hanno costretta!» rispose la strega, sbraitando come un'ossessa.
«Quello sarà problema dei Tiratri Scelti a cui farà la denuncia!»
Andarono avanti per parecchio tempo, finché la strega non ottenne che uno dei Tiratori Scelti di guardia venisse a portarla nel suo ufficio.
Finalmente venne il turno di Aaron. «Buongiorno» salutò educatamente, anche se era parecchio agitato.
L'infermiera grugnì qualcosa, poi cominciò a recitare, come se stesse sgranando il rosario: «Malattie Infettive sotterraneo, Incidenti Magici primo piano, Morsi di Animali e Vari Esseri Mostruosi secondo piano, Gravi Ustioni da Maledizione terzo piano ala est, Gravi Ustioni da Incidente terzo piano ala ovest, Avvelenamento da Pozioni e Affini, quarto piano, Lesioni da Incantesimi quinto piano».
Aaron rimase un attimo stordito da tutte quelle informazioni, ma alla fine riuscì a sussurrare timidamente: «Mia moglie sta per partorire».
«Oh, ma poteva dirlo subito!» lo rimbeccò l'infermiera. «Comunque è nel posto sbagliato, il reparto di Ostetricia è nel distaccamento di O'Saoirse sraid».
«Grazie» rispose flebilmente Aaron.
Joey l'avrebbe ammazzato.
Quando si avvicinò a lei, non riuscì a sostenere il suo sguardo infuocato. «Ehm, tesoro, cara... siamo nel posto sbagliato» provò a dire, con un mezzo sorriso.
Joey si alzò di scatto dalla sedia, come se fosse stata punta da qualcosa. «Be', che ci facciamo ancora qui?» gli domandò, allungando il braccio verso di lui. L'uomo lo afferrò timidamente, poi girò su se stesso e si smaterializzò.
L'ingresso del distaccamento di O'Saoirse sraid era, se possibile, ancora più affollato. Ciò che atterrì maggiormente Aaron fu l'interminabile coda davanti allo sportello. Lanciò un'occhiata alla moglie, ma il suo sguardo determinato lo spaventò.
«Ora facciamo a modo mio».
E con quelle parole si mise al centro dell'ingresso e cominciò a strillare: «Per tutte le chiappe dei goblin albini, sto per partorire, sant'Iddio! Non c'è uno straccio di guaritore in questo stramaledetto ospedale?»
Più o meno tutti, tranne un mago che aveva chissà come la testa infilata in una boccia per pesci rossi e non poteva sentire un bel niente, si voltarono verso di loro.
«Oddio!» esclamò Joey aggrappandosi al braccio del marito.
Aaron la guardò terrorizzato. «Che succede?»
«Le contrazioni!» rispose la donna, afferrandosi il pancione con la mano libera.
Improvvisamente comparvero ben quattro guaritori che li circondarono. Uno fece sedere Joey su una sedia a rotelle e la portò velocemente verso il reparto di Ostetricia. Aaron intravide la moglie che si girava verso di lui e gli faceva una fugace strizzata d'occhio prima di sparire oltre le porte scorrevoli. Dopodiché si rese conto che forse era il caso di seguirli e si affrettò per raggiungerli.
Li ritrovò davanti ad una sala vuota.
«Vuole entrare anche lei?» gli domandò un guaritore, ma Aaron non ebbe modo di rispondere.
«Certo che vuole entrare! Sua moglie sta per avere un bambino!» esclamò Joey.
Né Aaron né il guaritore ebbero modo di ribattere.
Veder nascere suo figlio fu una delle esperienze più terrificanti e insieme meravigliose della sua vita. Terrificanti perché, tra le urla disperate di Joey e le esclamazioni concitate dei guaritori, gli sembrava di essere stato catapultato in uno stadio di Quidditch. Meravigliose perché, nel momento stesso in cui il vagito di suo figlio riempì la stanza credette di toccare il cielo con un dito.
«Complimenti, è un bel maschietto» disse il guaritore, tagliando il cordone ombelicale. Joey allungò le braccia verso il piccolino che scalciava e piangeva come un disperato, desiderosa di prenderlo in braccio per la prima volta. Il guaritore lo adagiò delicatamente sul seno della donna.
Aaron si pulì con il dorso della mano la lacrima di commozione che gli aveva attraversato il volto.
«Ciao, piccolo» sussurrò Joey, con voce incredibilmente dolce.
Il bimbo aveva smesso di piangere al solo contatto con il battito accelerato del cuore della mamma. Si mise un pugnetto in bocca e sembrò accoccolarsi al corpo caldo e accogliente della donna.
Aaron allora allungò la mano per accarezzare la pelle ancora viscida per la placenta di suo figlio e trattenne a stendo una seconda lacrima.
«Aveva fretta di vivere il piccolino: è prematuro di quasi tre settimane, ma è sano» spiegò il guaritore.
Aaron sorrise commosso. «Benvenuto nel mondo, Reammon».


Come promesso, in questo capitolo cominciano le avventure divertenti! L'accoppiata Joey-Aaron è fantastica e adoro scrivere su di loro! Lui è così teneramente imbranato e lei così intraprendente e decisa! =)
Dal prossimo capitolo entriamo nel vivo della storia e quindi prometto che sarà un po' più lungo; metterò in scena i miei piccoli protagonisti... credo che, per chi li conosce già, vi farà piuttosto impressione leggere dei personaggi che siete abituati a vedere agire da adulti!
Grazie a tutti quelli che hanno cominciato a leggere le avventure dei due maghi irlandesi!
Alla prossima,
Beatrix

EDIT: continua l'opera di risistemazione dei dialoghi!

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Capitolo 3
*** Il giovane musicista ***


Il giovane musicista

Agosto 1961, villa Saiminiu

Septimius si stava aggiustando il colletto della camicia e il panciotto davanti allo specchio, rimirando soddisfatto la sua immagine riflessa.
«Perché non posso venire anche io? Perché devo stare a casa con Wolly?» protestò una vocina alle sue spalle.
Septimius si voltò compassionevole verso sua sorella: si reggeva al suo bastone di ebano con la testa di un drago d'argento e lo osservava con sguardo truce e afflitto insieme. «Mamma ha detto che se esci ti ammali, Scilla. Lo sai che sei cagionevole» rispose Septimius comprensivo.
Cagionevole. Non era affatto vero: lei non si era mai ammalata, nemmeno una semplice influenza, mentre suo fratello era a letto con la febbre ogni tre per due. Ma a lei era proibito di uscire, a lui no.
Forse Septimius intuì i pensieri di sua sorella, leggendoli negli occhi scuri così uguali ai suoi. «Mi dispiace» sussurrò allora, accarezzandole la spalla. La camicetta bianca, all'altezza del gomito sinistro, era chiusa con un nodo.
«Dai, vieni giù in salotto. Dovrebbe arrivare il signor Maleficium con suo figlio: possiamo spiarli da dietro la porta, si ti va» esclamò Seprimius, nel tentativo di rincuorare sua sorella. A lei non era permesso di presentarsi a nessuno, non doveva vedere nessuno che non fosse della famiglia perché secondo i genitori avrebbe rischiato di prendere qualche malattia.
Priscilla sembrò pensarci sopra qualche secondo, poi sorrise.
I due fratelli scesero silenziosamente le scale e si nascosero dietro la porta che conduceva in cucina.
Proprio in quel momento qualcuno bussò al portone e Wolly l'elfo domestico andò ad aprire. «Prego, signor Maleficium, signorino Maleficium» esclamò la vocetta dell'elfo, conducendo in salotto i due ospiti.
Il signor Maleficium era un bell'uomo alto, dall'aria importante, elegante e curato nel vestire. Lo seguiva un ragazzino sui dieci anni, con i capelli biondi pettinati all'indietro e il nasino all'insù. Nell'insieme era un bel bambino, soprattutto vestito con quel piacevole completino azzurro che si intonava ai suoi occhi celesti.
«È carino» ridacchiò Priscilla, osservando il giovane Maleficium. La sua opinione ovviamente valeva quel che valeva, pronunciata da una bambina di sei anni che non aveva mai visto nessun coetaneo ad esclusione del fratello gemello. Però era indubbio che il ragazzino avesse un certo fascino.
Onoria MacGaril, ormai signora Saiminiu da parecchi anni, fece il suo ingresso in salotto. Era una donna altera, con i capelli biondi raccolti in un nodo dietro la testa e il mento perennemente rivolto verso l'altro, come se fosse per lei un peccato anche solo abbassare gli occhi su qualcosa che fosse sotto di lei. «Abharrach Maleficium» disse la donna, sorridendo e allungando le mani verso l'ospite per salutarlo con due baci sulle guance. «È un piacere rivederti».
«Il piacere è mio» rispose cordialmente l'uomo.
Gli occhi di Onoria indugiarono sul ragazzino biondo che accompagnava il mago. «E questo gentile ometto?» domandò con un sorriso.
Il mago mise una mano sulla spalla del bambino e lo presentò alla donna: «Questo è Eoin, mio figlio».
Il giovane Eoin fece un inchino molto educato rivolto alla signora.
«Com'è cresciuto!» esclamò invece Onoria. «Me lo ricordo che era alto così!» e a quelle parole fece un gesto con la mano per segnare l'altezza.
«Oh, così la mamma lo conosce» bisbigliò Priscilla, all'orecchio del fratello.
«Certo» rispose Septimius, in tono risaputo. «I Maleficium sono della schiatta di Iuchar Tuiren, come la mamma».
Priscilla allungò il collo per scrutare meglio il ragazzino. «Ma non siamo parenti, vero?» domandò con circospezione. Chissà se i genitori le avrebbero permesso di conoscere il giovane Eoin, anche se non era della famiglia.
Suo fratello scosse lentamente il capo. «No. Zio Belisar dice sempre che appartenere alla stessa schiatta non vuol dire essere per forza parenti» spiegò alla sorellina.
«Non mi piace lo zio Belisar» commentò con astio Priscilla, riferendosi al fratello della loro madre, anche se effettivamente lei non ci aveva mai parlato, per via del fatto che era cagionevole e non poteva vedere nessuno. Ma le era bastato uno sguardo per capire che Belisar MacGaril era un pallone gonfiato, almeno quanto suo figlio Giustinianus.
Nel frattempo, Onoria aveva condotto il suo ospite in un'altra stanza, per mostrargli un vecchio quadro di un suo antenato che Abharrach si era gentilmente offerto di restaurare.
Il giovane Eoin, invece, era restato in salotto. Si stava guardando distrattamente in giro, quando il suo occhio fu rapito da un bel pianoforte a mezzacoda che si trovava in un angolo della stanza. Controllando con circospezione che non ci fosse nessuno (non poteva, infatti, immaginare di essere spiato dai due gemellini Saiminiu), si sedette allo sgabello del piano e cominciò a suonare.
Proprio in quel momento sbucò da dietro una porta un bimbetto moro. Forse la natura gli aveva donato altre qualità, ma non certo la bellezza: il naso era adunco e un po' sproporzionato per il visino magro, gli occhi scuri erano resi più cupi da un paio di occhiali con uno spesso bordo blu e i capelli neri e lisci erano tagliati sotto le orecchie. Nel complesso, non era affatto un bel bambino.
«Ciao» lo salutò con la sua vocetta acuta.
«Ciao» rispose Eoin, con un mezzo sorriso.
Il bambino si avvicinò al pianoforte e schiacciò a caso qualche tasto bianco. «Sai, questo è mio» disse, indicando il piano.
«Oh, scusa» rispose il ragazzino, credendo che il bambino si fosse offeso.
Ma quando fece per scendere dallo sgabello, lui lo fermò: «Stai pure, tanto io non so suonare. Tu invece sei bravo».
«Papà dice che ce l'ho nel sangue» rispose Eoin con semplicità. Qualcuno sosteneva che nei Maleficium ci fosse una vena artistica: da sempre, c'era un qualche membro della famiglia che sapesse padroneggiare una delle arti. Suo padre Abharrach era un pittore e restaurava dipinti per hobby, mentre lui aveva una particolare predisposizione per la musica.
«Io sono Eoin Maleficium, comunque» si presentò il ragazzino.
«Septimius Saiminiu» rispose il bambino. Era stata Priscilla a convincerlo a presentarsi al giovane Maleficium: sperava che, mandando avanti il fratello, poi, magari, avrebbe potuto fare conoscenza anche lei con il ragazzino biondo.
Ma proprio in quel momento Onoria e il suo ospite rientrarono in salotto e le speranze di Priscilla si infransero: sua madre non le avrebbe mai permesso di farsi vedere da un estraneo. Onoria parve stupita di vedere il figlio in giro, ben sapendo che nascosta da qualche parte doveva esserci la sorellina, ma decise di sfruttare velocemente la situazione.
«Questo è Abharrach Maleficium, tesoro. Saluta come si conviene ad un giovanotto della tua età» disse rivolta al piccolo Septimius.
Il bimbo si fece avanti e si produsse in un buffo inchino che fece intenerire il signor Maleficium.
«Io e Septimius dobbiamo raggiungere mio marito Sextans al magione Deamundi, per la festa di fidanzamento del giovane rampollo. Perché non sfruttiamo tutti il nostro metrombino?» propose Onoria in tono gioviale.
In realtà il signor Maleficium avrebbe preferito non presentarsi a quella festa, perché i Deamundi non gli andavano molto a genio, ma visto che non sapeva come declinare l'offerta senza far insospettire la signora Saiminiu, fu costretto a fare buon viso a cattivo gioco. Fu così che i quattro si diressero verso l'uscita, lasciando Priscilla, delusa e amareggiata, nascosta dietro la porta della cucina.
La proprietà dei Deamundi si estendeva su un'area di circa cento ettari, al centro dei quali si erigeva una dolce collina che ospitava il castello, che fin dai tempi più antichi era stata la residenza della potente famiglia di maghi. In occasione del fidanzamento dell'unico figlio, Meccorin Deamundi, i genitori avevano dato una festa di particolare sfarzo, invitando tutte le famiglie purosangue più in vista della società magica.
Unici assenti, perché non avevano ricevuto l'invito (ma non si sarebbero presentati nemmeno se l'avessero ricevuto), erano la sorella e con il marito della signora Evangeline Deamundi. Sua madre l'aveva implorata di riallacciare i rapporti con la sorella, ma lei nemmeno ci aveva provato, perché sapeva che non c'era possibilità di riappacificarsi con Josephine.
Per la grande occasione, uno stuolo di elfi domestici aveva preparato un sontuoso buffet nel giardino antistante il castello.
Septimius si guardò intorno con aria annoiata, osservando con scarso interesse i maghi e le streghe dall'aria importante, vestiti con abiti di lusso, che erano impegnati in noiose conversazioni da adulti. Pensò che gli dispiaceva di aver lasciato a casa la sorella senza essere riuscito a presentarle il giovane musicista, ma, forse, se le avesse portato un po' di quelle prelibatezze del buffet, lei l'avrebbe perdonato. Così si avvicinò con aria circospetta al tavolo di fronte a lui e cominciò a ficcarsi in tasca qualche tartina e pasticcino.
«Ti stai intascando i dolcetti?» gli chiese una voce divertita alle sue spalle.
Septimius si voltò allarmato, ma si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo quando riconobbe il giovane Maleficium.
«Sono per il mio elfo domestico» si giustificò con un mezzo sorriso. I suoi genitori gli avevano sempre detto di non rivelare a nessuno l'esistenza di Priscilla, altrimenti sarebbero venuti dei guaritori a portarsela via per curare le sue malattie. Per fortuna Eoin non commentò ulteriormente la cosa. «Bella festa» disse allora Septimius, tanto per fare conversazione. In realtà non gli pareva affatto che fosse una bella festa, ma i suoi genitori gli avevano insegnato ad essere educato.
Tuttavia il ragazzino biondo fece una smorfia tale che Septimius fu costretto a chiedere: «Perché fai quella faccia?»
«Mah, niente. È che non mi piacciono molto i Deamundi» rispose quello scrollando le spalle.
«Perché, che hanno?» domandò allora Septimius, incuriosito.
Eoin incrociò le braccia al petto. «Be', si considerano superiori a tutti gli altri» rispose con malcelato astio.
Septimius sgranò gli occhi. «E non lo sono?» chiese incredulo, con tutta l'innocenza di un bambino di sei anni.
«No, affatto!» esclamò l'altro con decisione.
Septimius era spiazzato: gli avevano sempre insegnato il contrario. «Ma sono l'unica famiglia rimasta delle nobile stirpe di Con Cetchthach!» protestò, facendo leva su argomentazioni logiche, per quanto fosse possibile data la sua giovane età.
«Non mi interessa! Essere nobile Purosangue non significa considerarsi sempre superiori! Certo, bisogna essere orgogliosi delle proprie origini, ma anche gli altri hanno la loro dignità in quanto maghi, in quanto persone» rispose invece Eoin, come se stesse facendo un'arringa in mezzo alla folla.
Il piccolo Septimius era sempre più scioccato: nessuno gli aveva mai parlato in quel modo. «E tutte queste cose chi te le ha insegnate?» chiese ancora, rivolto al ragazzino.
«La musica!» proruppe Eoin, con entusiasmo. «Vedi, in musica ci sono tante note, ma non sono tutte uguali, altrimenti non si potrebbe nemmeno suonare. Però, nella loro diversità, hanno tutte la stessa importanza. E così si ottiene la più nobile delle arti umane, la musica».
Il ragazzino fece una pausa, perché un gruppo di adulti si era avvicinato al tavolo, poi riprese con un tono di voce più basso: «Lo stesso vale per una società: siamo tutti diversi, per origine e attitudine, ma abbiamo tutti la stessa dignità, come le note musicali. Mio padre mi ha insegnato queste cose. Sai, il motto della mia famiglia è Pax ordum pax orbis: pace degli ordini, pace del mondo».
«Uau...» fu l'unica cosa che riuscì a dire Septimius, sebbene non avesse afferrato proprio tutto di quel discorso. Tuttavia, si ritrovò anche lui a pensare al motto della sua famiglia, Faoi sciath na Firinne, Sotto lo scudo della Verità. Strano, visto che i suoi genitori gli avevano da sempre insegnato a mentire su sua sorella gemella, anche se a fin di bene, perché non se la portassero via i guaritori. Però non sembrava proprio che il loro motto li avesse ispirati come invece aveva fatto con il giovane musicista e le sue teorie sulla concordia..



Eoin Maleficium! *-* Come si fa a non adorare questo tenero bambino biondino? Ahahah! Che effetto vi fa vedere l'austero ed elegante signore a cui siete abituati nelle vesti di un ragazzino? Per chi non lo conoscesse, il caro Eoin è il padre di uno dei miei protagonisti della saga sul Trinity ed è anche uno dei miei personaggi preferiti.
Una piccola nota: così come la Rowling fa dire a Sirius che le famiglie purosangue sono tutte imparentate tra loro, anche io ho sfruttato questo cliché. In realtà, come specifica Septimius, esiste la Schiatta di appartenenza (una sorta di clan, sono 8 in tutto) dentro cui si ritrovano diversi ceppi familiari non necessariamente imparentati tra loro. Tuttavia, è vero che le 20 famiglie che vantano il titolo di nobili sono tutte un po' incrociate tra loro! Così i figli di Belisar MacGaril (Giustinianus e Aretè, che qui non è ancora nata) si sposeranno con due fratelli O'Brian, cugini di Joey. La sorella di Joey, Evangeline appunto, è invece sposata con i Deamundi... insomma, un bel caos! Presto (ovvero quando pubblicherò il primo capitolo de “Il torneo Trecolonie”) vi farò avere una breve storia delle schiatte nobili d'Irlanda e gli alberi genealogici degli O'Brian e dei MacGaril, così avrete tutte le parentele sott'occhio (scommetto che non vedere l'ora! Ahahaha!).
Alla prossima,
Beatrix

EDIT: continua l'opera di risistemazione dei dialoghi!

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Capitolo 4
*** Il cugino nobile ***


Il cugino nobile

Fine agosto 1961, Dubh Cliathan

Reammon leccava il suo gelato con tranquillità, osservando le provette e i calderoni esposti nella vetrina del negozio "L'allegro pozionista". Il bambino in realtà non sapeva ancora leggere, perché avrebbe iniziato la scuola elementare solo fra pochi giorni, quindi non si preoccupava affatto del nome bizzarro che recitava l'insegna: si divertiva semplicemente ad osservare lo gnomo che sputava nel calderone autopulente per dimostrare che funzionava davvero e non erano solo fandonie da venditori.
«Mon, tesoro?» lo chiamò la voce di sua madre.
Il bimbo si voltò di scatto e la pallina di fiordilatte del suo cono si spiaccicò bellamente sulla maglietta pulita. «Oh» commentò quando vide il disastro che aveva fatto.
«Cielo, Reammon!» lo rimproverò sua madre, scuotendo la testa rassegnata. Poi estrasse la bacchetta dalla borsa ed esclamò: «Gratta e netta».
Il gelato sparì, ma restò sulla maglietta una macchia oleosa. Joey distorse il naso: non era mai stata brava con quegli incantesimi da casalinga.
Reammon fece un sorrisetto angelico e sbatté le ciglia, sperando di evitare la strigliata. Joey non parve essere affatto raddolcita, ma prima che potesse sgridarlo, suo figlio strillò: «Andiamo in libreria, mamma?»
«Ma non sai leggere!» protestò Joey, scuotendo la testa.
Reammon sorrise, mostrando il grosso buco causato dalla caduta dei due denti davanti, non ancora ricresciuti. «Però mi piace il profumo dei libri» ridacchiò, facendo brillare di furbizia i suoi occhi verdi.
Chissà come faceva ad intenerire sempre tutti, con quel suo visino innocente! Il problema era che aveva bisogno di sfoggiare la sua migliore espressione angelica almeno dieci volte al giorno, perché era talmente imbranato che combinava più pasticci di quanti si potessero umanamente commettere in 24 ore. Non lo faceva apposta: sembrava che i guai fossero attirati da lui. Ogni volta che accadeva qualcosa, Reammon diceva che non era colpa sua, ma nessuno gli credeva. Infondo, anche se non lo faceva di proposito, era sempre lui a combinare una marea di casini.
Una volta, si era andato a schiantare con la bicicletta contro suo padre, mentre stava imparando a guidarla. Nell'impatto aveva fatto cadere la bacchetta ad Aaron e aveva cercato di raccoglierla, ma era inciampato nei suoi stessi piedi, aveva spinto la bacchetta e quella era rotolata dritta dentro in un metrombino. Inutile dire che non era stato più possibile ritrovarla. Il tecnico del Dipartimento dei Trasporti aveva detto che gli oggetti che cadevano nei metrombini senza che nessuno esprimesse una destinazione venivano automaticamente raccolti e spediti all'ufficio Oggetti Accidentalmente Perduti da Maghi Sbadati, al Ministero; tuttavia, quando i coniugi Boenisolius si erano recati a Dubh Cliathan, l'impiegata dell'ufficio del Ministero aveva detto che non c'era traccia della bacchetta perduta. Reammon era sicuro che si sarebbe ricordato per sempre la strigliata che sua madre gli aveva dato quel giorno.
Dopo quella volta, però, i genitori si erano abituati, o forse rassegnati, alla sua sbadataggine. Lo sgridavano ancora, certo, quando combinava guai, ma alla fine avevano accettato il fatto che non c'era rimedio al suo essere così imbranato. Tanto più che anche il padre Aaron non si poteva definire la persona più precisa del mondo, visto che pure lui combinava talmente tanti pasticci a causa della sua distrazione che la moglie Joey aveva smesso di farci caso.
«Allora, mamy, andiamo in libreria?» cantilenò il piccolo Reammon, dondolandosi avanti e indietro sui piedi.
Joey scosse la testa rassegnata, poi prese suo figlio per la mano e lo condusse al negozio.
Reammon non sapeva dire il motivo esatto per cui adorava andare in libreria. Semplicemente si rintanava nella sezione del libro usato e si perdeva via ad osservare quei grossi volumi stipati in scaffali alti fino al soffitto, ammucchiati, un po' impolverati, su scansie e tavolini, a volte perfino impilati l'uno sull'altro in terra. Gli piaceva passare il suo ditino sottile sulle costine di pelle dei libri, sfogliarne le pagine che profumavano di antico, immaginare quante persone prima di lui avevano tenuto in mano quegli scrigni del sapere.
Quel giorno la libreria era parecchio affollata, perché molte famiglie si erano recate a Dubh Cliathan per comprare il materiale per il nuovo anno scolastico al Trinity. Reammon sgattaiolò tra i clienti, intrufolandosi verso gli scaffali e prendendo a caso qualche vecchio volume per sfogliarne le pagine in pace, rannicchiato in un angolo della libreria. Adorava accarezzare la pergamena dei libri più antichi, che era ruvida al tatto e produceva quel leggero fruscio quando veniva agitata. Dopo aver osservato con calma alcuni manuali dedicati all'erboristeria (anche se lui non poteva immaginare di che cosa parlassero, visto che non sapeva ancora leggere), puntò gli occhi su un volume piuttosto massiccio, con una raffinata rilegatura in pelle.
Ovviamente si trovava in fondo ad una pila.
Reammon si guardò introno con circospezione, poi gattonò fino al libro che gli interessava, schivando le gambe degli altri clienti. Piccolo e mingherlino com'era, nessuno si accorse di lui e così riuscì a raggiungere incolume il suo obiettivo, ignaro del fatto che la madre lo stesse cercando da un buon quarto d'ora. Con le sue dita sottili, cercò di estrarre il volume dalla pila senza provocare danni, cosa impossibile per un adulto normale, figuriamoci per un bambino di sei anni particolarmente sbadato e maldestro. La torre di libri cominciò ad ondeggiare pericolosamente, davanti agli occhi sgranati del piccolo Reammon.
Fu solo una scintilla, ovviamente.
Un'ondata di vecchi volumi polverosi si riversò addosso agli altri scaffali, producendo una reazione a catena senza precedenti. Reammon osservò il tutto con la bocca semiaperta e il naso all'insù. Alcuni maghi cercarono di fermare il disastro con qualche magia, ma i loro tentativi furono pressoché inutili. Pagine di pergamena svolazzavano nell'aria, nuvole di polvere investivano i clienti e libri vecchi di cent'anni piovevano dal cielo.
Un pandemonio.
Un urlo risuonò nel negozio: «Reammon!»
E il bambino capì che era il caso di darsela a gambe.

Reammon ruzzolò fuori dal negozio, lasciandosi alle spalle il casino che aveva combinato, ma per poco non andò a sbattere contro un signorino impettito che stava per entrare in libreria. «Scusa» balbettò il bambino, alzando gli occhi sul ragazzo che aveva quasi investito: era piuttosto alto, con i capelli neri e gli occhi di un blu profondo; indossava un completo grigio scuro dall'aria piuttosto costosa, con un colletto viola che a Reammon parve davvero buffo. Gli riservò uno sguardo sprezzante e piuttosto schifato, ma Reammon era troppo piccolo, o forse troppo ingenuo, per capirne davvero il significato.
«Sei lercio, ragazzino» commentò quello in un tono disgustato.
Reammon si tirò la maglietta per osservarla meglio: in effetti, oltre alla macchia di gelato, era ricoperta da uno strato di polvere. Immaginò che anche i suoi capelli, già perennemente spettinati di loro, e la sua faccia non dovevano avere un aspetto migliore, visto che era appena fuggito da una balena-divora-libri-impolverati.
Proprio in quel momento sopraggiunse una signora vestita elegante, con dei vaporosi capelli rossi. Reammon la osservò per qualche tempo: il suo viso gli pareva familiare, ma non sapeva dire dove l'avesse già incontrata.
«Meccorin, che stiamo aspettando?» domandò in tono severo, rivolta al ragazzo impettito.
Il giovanotto di nome Meccorin indicò Reammon con il capo.
La donna sgranò gli occhi e si portò le mani al cuore. «Cielo, figliolo, dov'è tua madre?» gli domandò, storcendo il naso.
Reammon si voltò all'indietro, verso il caos infernale da cui era appena uscito. «Non lo so, ed è meglio così, si fidi» rispose con un sorrisetto a mo' di scusa.
Proprio in quel momento una Joey indemoniata uscì dalla libreria.
Oh, le cose si mettevano male per Reammon! Bastava vedere i suoi occhi verdi che mandavano scintille nella direzione del figlio.
Fece qualche passo verso di lui con aria minacciosa, ma quando vide le due figure dietro Reammon si fermò di colpo. «Evangeline» pronunciò in un tono indecifrabile.
«Josephine.» rispose la signora elegante, senza fare una piega.
Le due donne si squadrarono per parecchi secondi, mentre Reammon passava lo sguardo da una all'altra, percependo l'aria tesa che regnava fra le due.
Finalmente Evangeline proruppe: «Questo è tuo figlio?»
Il tono tagliente con cui aveva pronunciato quelle parole, faceva intuire l'assoluto disprezzo che provava nei confronti dell'altra e del suo piccolo disgraziato.
Jeoy afferrò Reammon per le spalle e lo avvicinò a sé. «Sì» rispose in tono di sfida. «E questo è il tuo?»
Il giovane Meccorin Deamundi gonfiò il petto, impettito e tronfio, con il naso rivolto all'insù. Era assolutamente convinto che non ci fosse nessuno migliore di lui in tutta l'Irlanda, lui nobile rampollo della più insigne famiglia magica. Certo quella donnetta da poco non aveva il diritto di rivolgergli la parola a quel modo.
«Non fare quella faccia da sanguinista schizzinoso, giovanotto» lo ammonì Joey, con un tono imperioso che smascherava la sua origine nobile. «Anche se tua madre non ti ha mai parlato di me, io sono sua sorella, tua zia» rivelò con un sorrisetto compiaciuto.
Meccorin aprì la bocca scioccato e si voltò verso la madre, certo che lei avrebbe smentito la notizia, ma la donna rimase impassibile a fissare Joey. Quindici anni di differenza separavano le due sorelle O'Brian, ma non era mai stata l'età il vero problema: ciò che realmente le divideva era la completa disuguaglianza di vedute, per cui Evangeline, legata all'ideale di purezza del sangue, aveva sposato il conte Cassian Deamundi, mentre Josephine, sebbene non avesse mai apertamente sfidato la sua famiglia, aveva una visione del mondo molto più aperta, tanto che nulla le aveva impedito di sposare l'uomo che amava, quantunque avesse origini Babbane.
Reammon fu piuttosto veloce, per la sua età, a trarre le conclusioni di quel discorso: se le due donne erano sorelle, la signora elegante era sua zia e quindi... il giovanotto impettito doveva essere suo cugino!
Reammon si liberò dalla presa della madre, che ancora lo teneva per le spalle, e abbracciò d'impeto il ragazzo, cingendogli la vita con le sue braccina magre. «Che bello, non ho mai avuto un cugino!» esclamò pieno di entusiasmo.
Meccorin indietreggiò scandalizzato, ma non riuscì a scollarsi di dosso il moccioso. «Sangue benedetto, levati!» prorompette, liberandosi con uno strattone violento dalla presa del bambino.
Reammon, troppo esaltato dalla faccenda per cogliere i segnali del disprezzo nei suoi confronti, non si fece scalfire da quel gesto poco gentile. «Puoi venire a giocare da noi, quando vuoi!» gli propose, tutto occhioni verdi e sorriso sdentato.
Meccorin rispose con una smorfia di disgusto.
Joey, capendo che non ci sarebbe mai potuto essere un terreno comune di dialogo, afferrò il figlio per un braccio e lo trascinò via. «Andiamo, Mon, qui non siamo i benvenuti» sibilò, incendiando con lo sguardo sua sorella, tanto simile fisicamente quanto diversa nelle scelte di vita.
Reammon saltellò dietro alla madre, ma prima che zia e cugino sparissero dalla sua vista, inghiottiti dalla folla, si girò un'ultima volta verso di loro e con un sorriso infantile sul volto, li salutò con la manina.
Certo non poteva immaginare che proprio quell'uomo, suo cugino Meccorin Deamundi, sarebbe stato la causa di tanti suoi guai, in futuro.


In questo capitolo vi ho inondato con tenerezza a palate! XD Già trovo che Reammon sia tenero da adulto, figuratevi a sei anni, innocente, imbranato e soprattutto sdentato! Che caro! *-*
Ok, lasciamo perdere il mio amore platonico verso Reammon e discutiamo di cose più serie. Primo, per chi non avesse letto gli altri racconti, Dubh Cliathan è una sorta di Diagon Alley irlandese. Secondo, i guai che il caro Meccorin causerà a Reammon (anche se non ho dubbi che qualcuno possa già averli intuiti) non posso rivelarveli finché non avrete letto (se intenderete farlo, ovviamente!) il primo capitolo del prossimo racconto, Il torneo Trecolonie, perché non voglio rovinarvi la sorpresa. Ultima cosa, questo è il link di un'immagine che rappresenta Meccorin ed Evangeline: in origine era quella che doveva introdurre il capitolo, portando il titolo, ma non sono riuscita a fare immagini per tutti i capitoli, quindi ho abbandonato l'idea e, nel caso, vi metterò il link di quelle che ho realizzato.
Con il prossimo capitolo torniamo dai Saiminiu e troveremo i due gemelli un po' più cresciuti e pienamente consapevoli della loro situazione.
A presto!
Beatrix

EDIT: continua l'opera di risistemazione dei dialoghi!

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Capitolo 5
*** Destini diversi ***


Destini diversi

Dicembre 1965, villa Saiminiu

«Rosa, rosae, rosae, rosam, rosa, rosa» cantilenò Septimius, rigirandosi la penna d'oca tra le mani.
Il suo anziano precettore annuì soddisfatto. «Molto bene, signorino Saiminiu».
Septimius sfoderò il suo migliore sorriso a quella lode, che sapeva essere ben meritata. Dopotutto, per avere solo dieci anni, non se la cavava affatto male in latino. Non sapeva bene perché, ma adorava quella lingua, con le sue belle regole da studiare a memoria. Era tutto preciso, niente eccezioni, niente scuse.
I signori Saiminiu avevano affidato il loro pargolo primogenito alle cure di un precettore perché gli impartisse un po' di nozioni preliminari di cultura irlandese, di letteratura, di storia e di latino. Non volevano che un signorino perbene come il piccolo Septimius arrivasse al Trinity College ignorante e rozzo alla maniera di uno zotico qualunque. Così, tre volte alla settimana il noioso signor Pullivan, insigne istruttore irlandese apprezzato per i suoi metodi rigorosi e poco inclini alla mollezza, si presentava a villa Saiminiu per educare il giovane rampollo. Septimius prendeva anche lezioni di pianoforte per volere della madre e si esercitava due volte al giorno con un esperto logopedista per imparare a modulare la voce.
I Saiminiu avevano una lunga tradizione che li legava all'oratoria giudiziaria e encomiastica. Quando, nelle alte sfere della società, qualcuno aveva bisogno di un oratore, c'era sempre di mezzo un Saiminiu. La famiglia si vantava del fatto che il primo discorso ufficiale rivolto alla nazione, tenutosi all'Indipendente Parlamento Magico nel 1897, fosse stato pronunciato dal celebre Tullius Saiminiu. Lo stesso Sextans era stato ingaggiato in numerose occasioni per recitare orazioni all'apertura di eventi pubblici o durante commemorazioni importanti. Per questo motivo era quasi naturale che anche il piccolo Septimius, in qualità di ultimo discendente maschio della famiglia, fosse indirizzato verso quella carriera.
Quel piovoso pomeriggio di dicembre, il signor Pullivan aveva chiesto a Septimius di ripetere tutte le cinque declinazioni latine e lui non poteva esserne più contento. Per lui era semplice ricordarsi a memoria le terminazioni e, orgoglioso com'era, trovava gratificante riuscire a recitarle tutte senza sbagliare. La lezione passò tranquilla, mentre il docente faceva domande di vario genere al suo promettente alunno, che non solo dimostrava di avere studiato, ma anche metteva alla luce la sua predisposizione per quella materia.
Non appena il signor Pullivan, una volta affidati al suo pupillo i compiti per la volta successiva, se ne uscì dalla stanza, il visino non particolarmente aggraziato di una bambina fece capolino dietro una porta.
Il povero signor Pullivan non poteva sapere che i coniugi Saiminiu lo pagavano per dare le lezioni ad un alunno, ma in realtà erano in due ad ascoltarlo: Priscilla, nascosta e riparata dietro una parete magica a specchio, si sorbiva le noiose ore di insegnamento del vecchio barboso Pullivan senza essere vista da nessuno. A quella storia del suo essere cagionevole, ormai, non ci credeva più: aveva capito che c'era qualcosa in lei per cui i suoi genitori volevano tenerla nascosta agli altri. Solo, non riusciva a capire cosa.
«Che palle questa lezione!» si lamentò la ragazzina, lanciando i suoi libri sulla scrivania dove il fratello stava chino a studiare.
«Scilla!» protestò Septimius, osservando il disastro che i volumi buttati in malo modo sul tavolo avevano provocato alla sua pergamena.
«Mi fa schifo il latino» rispose quella con il naso arricciato in una smorfia, lasciandosi cadere sulla sedia al suo fianco.
Septimius lisciò per bene il foglio dove aveva preso appunti, controllando che non si fosse strappato, poi si rivolse alla sorella. «Anche se il professor Pullivan non ti interroga, non sei dispensata dallo studiare, sai?» la provocò, ben sapendo che lei odiava imparare a memoria quelle stupide declinazioni.
Priscilla rispose con una sonora linguaccia. «È inutile che fai così. Quando saremo al Trinity ti toccherà studiarlo comunque» la rimbeccò con la faccia da saputello.
A quelle parole Priscilla sorrise e i suoi occhi scuri brillarono di furbizia. «Perché dovrei? Tanto mi aiuterà il mio fratello sapientone» esclamò con una smorfia di vittoria.
Septimius scosse la testa in segno di disappunto.
«Dai, andiamo a fare merenda» propose Priscilla chiudendo con il suo bastone da passeggio il libro su cui il fratello stava studiando.
Septimius la seguì rassegnato al piano di sotto verso la cucina, dove Wolly l'elfo domestico doveva aver appena finito di preparare una torta al cioccolato, a giudicare dal profumo.
Passando davanti al salotto, i due gemelli notarono che la porta era socchiusa: i loro genitori e lo zio paterno, il cardinale Antilius, stavano discutendo sommessamente di qualcosa che sembrava essere piuttosto importante.
«Scilla, non possiamo stare qui ad origliare!» protestò Septimius, strattonando la sorella lontana dalla porta.
«Zitto, scemo!» rispose quella, facendogli segno con il dito di restare in silenzio. «Stanno parlando di noi» aggiunse in un sussurro tendendo l'orecchio verso il salotto. Le buone intenzioni di Septimius furono vinte dalla curiosità quando scoprì che l'oggetto della conversazione erano proprio loro due, così si avvicinò cheto alla porta per origliare.
«Non si può fare» stava dicendo lo zio Antilius, che occupava una delle poltrone rosse di fronte al caminetto acceso. Teneva come sempre le mani incrociate sul petto, sopra la grossa croce d'oro da cardinale che portava al collo. «Tra poco i gemelli compiono undici anni ed è bene provvedere subito alla questione» aggiunse, nel suo tono calmo e ragionevole.
«Non vedo quale sia il problema, fratello» rispose il signor Saiminiu in modo burbero, passeggiando avanti e indietro davanti al caminetto.
«Non potete semplicemente non mandarla a scuola, Sextans» disse Sua Eminenza, scuotendo il capo.
I due fratelli si scambiarono uno sguardo sfuggente: stavano parlando di Priscilla e del suo futuro. Septimius si sentiva quasi in colpa per sua sorella e gli dispiaceva che lei non potesse godere di tutti i suoi privilegi, ma non voleva nemmeno andare contro ai suoi genitori, come invece stava cominciando a fare lei.
«Perché no?» domandò il signor Saiminiu, con malcelata indifferenza.
Il cardinale fece un movimento impercettibile sulla poltrona, come se volesse raddrizzarsi per far meglio vedere la sua autorità. «Perché il Ministero sa che qui ci sono due minori dotati di capacità magiche e se voi ne mandate solo uno a scuola, il Dipartimento per l'Istruzione Magica manderà dei delegati ad indagare» spiegò al fratello, con un tono di voce calmo. «Vuoi che scoppi un finimondo? Septimius Saiminiu ha nascosto in casa per dieci anni la figlia storpia!» esclamò, con un improvviso innalzamento di voce.
Septimius sentì al suo fianco la sorella che sibilava astiosa verso i genitori. Come darle torto, dopotutto?
«Possiamo dire che vogliamo istruirla a casa» propose la signora Saiminiu, cercando di mediare tra i due fratelli.
«Non è conveniente» rispose Antilius, di nuovo calmo. «Bisogna giustificare tale scelta al Dipartimento con motivi più che validi per ottenere la dispensa».
«Diremo che ha problemi di salute» tentò ancora Onoria, portandosi le mani al petto.
Il cardinale scosse lentamente la testa. «Manderanno degli ispettori e dei medimaghi per controllare».
Sembrava che i tre adulti avessero esaurito le idee. Per un attimo rimasero in silenzio, ma Septimius capì dalla posizione vigile di suo zio che lui aveva ancora una risorsa nascosta, ma aspettava il momento giusto per rivelarla.
E il momento giusto arrivò: Sextans Saiminiu si lasciò cadere su una poltrona. «Come facciamo, allora?» domandò, arreso all'evidenza dei fatti.
Il cardinal Saiminiu unì la punta delle dita, poi prese un profondo respiro. «C'è una sola soluzione: mandarla in una scuola dove nessuno conosca la nostra famiglia e dove l'infermità di Priscilla possa passare inosservata, senza che nessuno la colleghi ai Saiminiu di Mes Gerga» disse molto lentamente. I due coniugi fissarono il cardinale con il cuore in gola, ben consapevoli di dove sarebbe andato a parare quel discorso. Non potevano sapere che anche i loro figli stavano aspettando la conclusione della storia. Priscilla stringeva il pomolo d'argento del suo bastone da passeggio con tale forza che le nocche erano sbiancate e Septimius la sentiva digrignare i denti per la rabbia.
Il cardinale Antilius tornò nella sua posa abituale, con le dita incrociate sulla croce d'oro. «C'è solo un modo» continuò, con sicurezza. «Priscilla deve andare a Hogwarts».

Era assurdo. Assolutamente assurdo.
Perché volevano cacciare Priscilla a Hogwarts, la scuola di magia inglese? Non poteva anche lei andare al Trinity? Perché volevano dividerli?
Questo significava non solo che i due gemelli sarebbero stati separati, ma anche che Priscilla avrebbe cominciato la scuola già il prossimo settembre, mentre Septimius avrebbe dovuto aspettare un altro anno, fino ai dodici. E, una volta al Trinity, avrebbe dovuto fingere di essere figlio unico, come d'altronde aveva sempre fatto. Non poteva certo spiegare ai suoi compagni che la sua sorella gemella era stata cacciata a Hogwarts.
A Hogwarts, tra i nemici inglesi! Era quanto di più impensabile si potesse proporre ad una nobile famiglia celta, ma il loro genitori avevano accettato il consiglio dello zio Antilius. Tutto, pur di nascondere Priscilla alla comunità magica irlandese.
Septimius di voltò verso la sorella con uno sguardo apprensivo. Il suo volto era una maschera impassibile, gli occhi fissi sullo spiraglio che lasciava intravedere l'interno del salotto. «Scilla...» provò a dire il ragazzino, posandole una mano sulla spalla.
«Lasciami!» sibilò Priscilla liberandosi con uno strattone dalla presa del fratello. Finalmente si voltò verso di lui: sembrava arrabbiata, ma anche impaurita. Septimius si sentì terribilmente in colpa con lei per il diverso trattamento che riservavano loro i genitori, anche se sapeva di non esserne il diretto responsabile. Cosa ci poteva fare se lui era nato sano, mentre Priscilla storpia?
«Mi dispiace» sussurrò Septimius, con lo sguardo carico di amorevole apprensione.
Una singola lacrima attraversò il volto pallido di Priscilla. «Vi odio tutti!» gli sputò addosso, con cattiveria. Poi si asciugò la lacrima con il dorso della mano e si allontanò claudicando sul suo bastone.
Septimius la osservò mentre se ne andava, provando per lei un'immensa pietà. Ma che cosa ci poteva fare? Non era certo il caso di andare contro i suoi genitori. Non era colpa sua se la famiglia Saiminiu aveva scelto per loro due destini diversi.
Certo, non poteva sapere quanto si sarebbero rivelati diversi.





Eccoci tornati a villa Saiminiu, in un'atmosfera tutt'altro che allegra! Se Priscilla prima vi faceva pena, immagino adesso... forse, però, è meglio chiarire il comportamento dei familiari nei suoi confronti. Il cardinal Saiminiu non è più buono nei suoi confronti, come apparirebbe nel suo progetto di mandarla a scuola e non chiuderla in casa: è semplicemente più logico e la proposta di Hogwarts è la più ragionevole, a suo giudizio. I genitori non hanno avuto il coraggio di “sbarazzarsi” di lei solo perché è sangue del loro sangue, ma certo non la amano come si dovrebbe amare una figlia. Quanto a Septimius, per lei prova pena, si sente in colpa e vorrebbe proteggerla; probabilmente è l'unico legato a lei da un sincero sentimento di affetto, però non andrà mai contro la sua famiglia e i genitori per lei, o almeno non li sfiderà apertamente.
Nel prossimo capitolo tornerà il caro Reammon, un po' più cresciuto... e alla fine apparirà un altro personaggio già noto, ma non voglio rovinarvi la sorpresa! ;-) Nel frattempo, questa è l'immagine dei gemelli Saiminiu a 10 anni. Spero che vi piaccia!
A presto!
Beatrix

EDIT: continua l'opera di risistemazione dei dialoghi!

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Capitolo 6
*** La banshee ***


La banshee

Agosto 1967, Wexford

Reammon afferrò al volo un panino alla marmellata dal vassoio che la mamma aveva preparato e sconsideratamente abbandonato in cucina; poi sgattaiolò fuori di casa, nella speranza di non essere visto.
«Reammon!» chiamò invece mamma Joey, affacciandosi alla finestra del salotto.
Il ragazzino si bloccò fuori dall'uscio di casa e nascose il suo bottino dietro la schiena, ma la bocca sporca di marmellata rivelava il delitto.
La madre gli riservò un'occhiataccia, ma non era quello il motivo per cui l'aveva richiamato. «Dove stai andando?» gli chiese con circospezione.
Reammon fece spallucce. «In città» rispose semplicemente, ma lo sguardo di sua madre lo fece preoccupare.
«Ieri pomeriggio, la signora O'Finn mi ha detto che quando comincerete la scuola, a settembre, potrai andare a dormire a casa loro tutti i venerdì sera» gli annunciò in tono di rimprovero.
Reammon si ficcò in bocca il resto del panino, con distratta nonchalance, ma il risultato fu che rischiò di soffocare e fu costretto a sputacchiare buona parte del cibo. Il sorriso innocente che riservo alla madre, alla fine di quel teatrino, non migliorò la situazione.
«Quando hai intenzione di dire a Sebastian che l'anno prossimo andrai al Trinity?» gli chiese mamma Joey.
Reammon si ripulì la bocca con il braccio, poi tentò un altro sorriso.
«Non fare quella faccetta innocente» lo rimproverò sua madre. «Parla con Sebastian, oggi. E digli che non frequenterai il liceo di Wexford con lui».
Reammon annuì malamente, poi si diresse con il capo chino verso la sua bicicletta. Il cottage dove abitava la famiglia Boenisolius si trovava in campagna, poco fuori dalla cittadina di Wexford. Reammon aveva frequentato la primary school Babbana e, per quanto i suoi coetanei lo considerassero un po' strambo, almeno aveva avuto l'occasione di socializzare un po'. Aveva stretto amicizia con Sebastian O'Finn, l'unico che non lo prendeva in giro per le sue stranezze, ma anzi, condivideva con lui la passione per folli giochi d'avventura, come la caccia alle zanne di mammut o lo studio delle tane dei Lepricani.
Solo che Sebastian era un Babbano, mentre lui era un mago. Sebbene settembre non fosse poi così lontano, Reammon non aveva ancora avuto il coraggio di rivelare al suo amico che non avrebbero frequentato il liceo assieme, perché lui sarebbe andato al Trinity. Come avrebbe potuto dirglielo?
«Ehi, Mon, è mezz'ora che ti aspetto!» protestò una voce che lo strappò dai suoi pensieri.
Sebastian lo stava aspettando con le braccia incrociate, fermo davanti alla sua bicicletta. Aveva una finta aria di rimprovero sul volto, ma Reammon sapeva che doveva essere arrivato sì e no da dieci minuti: la puntualità non era il loro forte.
«Mamma mi ha beccato a rubare la marmellata» si giustificò con una scrollata di spalle, anche se detta così sembrava davvero una scusa. «È vero!» aggiunse infatti, poco dopo, in risposta alla faccia perplessa del suo amico.
«Dai, andiamo alla spiaggia nascosta, così possiamo catturare i granchi» disse invece Sebastian, alludendo alla riva del fiume Slaney, dove i ragazzi avevano individuato una piccola baia riparata. «Ehi, ma che hai?» esclamò d'un tratto, vedendo la faccia pensierosa del suo amico.
Reammon alzò le spalle. «Niente, niente. È meglio se andiamo, o comincerà a piovere».
E con quelle parole i due amici si avviarono con le loro biciclette verso la spiaggetta.
Sebastian riuscì a mettere nel suo secchiello almeno sette diversi esemplari di granchio, oltre a qualche inutile e spaurito paguro, mentre Reammon si limitò a un misero granchietto che aveva l'aria di essere piuttosto malaticcio. Quando Sebastian controllò il bottino del suo amico, rimase piuttosto sorpreso: di solito era lui che si lasciava prendere dall'entusiasmo in quel genere di giochi, mentre quel giorno era decisamente troppo apatico. «Reammon, si può sapere che hai?»
Il ragazzino si stritolò le mani a disagio. «Io ti devo dire una cosa, Sebastian».
Dopodiché prese un profondo respiro e sputò il rospo: «Non verrò al liceo con te, l'anno prossimo».
Ecco, l'aveva detto. Solo che in quel momento non si sentiva affatto più leggero, anzi. Adesso sarebbe arrivata la parte difficile: far capire al suo amico il motivo per cui doveva frequentare il Trinity, senza potergli dire la verità.
«Perché non vieni al liceo?» domandò scioccato Sebastian. «Credevo che avessi scelto, ormai. Vuoi fare un professionale?»
Ovviamente il ragazzino non poteva sapere che la scuola che avrebbe frequentato il suo amico non era un normale istituto Babbano.
Reammon evitò di guardarlo negli occhi, come se dovesse confessare una malefatta e non ne trovasse il coraggio. «Io andrò al Trinity College» annunciò in fine, con un filo di voce.
Sebastian rimase interdetto per qualche secondo, poi...
«College? Vuol dire che... starai via per tutto l'anno?» esclamò incredulo. «Ma... perché?»
Già, perché... come avrebbe potuto spiegarglielo? Reammon si azzardò ad alzare gli occhi sul suo amico e quello che vide non gli piacque per niente: Sebastian pareva essere parecchio arrabbiato per quello storia.
«È che...» cominciò a dire Reammon. «Vedi, ci sono andati anche i miei genitori ed è una scuola molto prestigiosa».
In realtà quella non fu la scusa migliore da dire, perché Sebastian si arrabbiò ancora di più. «Ah, scusa! Il liceo di Wexford non è abbastanza per il nobile Boenisolius!» lo insultò con sarcasmo.
Reammon fece per dire qualcosa, ma un suono in lontananza richiamò la sua attenzione: sembrava un grido straziante di un animale ferito. «L'hai sentito anche tu?» domandò il ragazzino, strizzando gli occhi per vedere meglio.
Sebastian nemmeno rispose, convinto che si trattasse di un pessimo tentativo dell'amico per cambiare discorso. Ma poco dopo sentì anche lui uno strano lamento. «Che cosa diavolo...?» domandò, voltandosi anche lui nella direzione in cui stava guardando Reammon, ma la voce gli morì in gola.
Una cosa... non sapeva come definirla; sembrava una donna, con un vestito cencioso e strappato e con dei lunghi capelli neri che le incorniciavano il viso scheletrico e verdastro. Emetteva un pianto stridulo, come un lamento funebre, e si avvicinava velocemente verso di loro, ma non sembrava che camminasse... aleggiava ad un palmo da terra.
Sebastian non sapeva bene di cosa si trattasse, ma non gli piaceva per niente quella situazione. Si voltò verso Reammon e vide che il suo amico era praticamente pietrificato. «Mon!» lo supplicò, aggrappandosi alla sua manica.
Finalmente il ragazzino si girò verso di lui, ma il suo sguardo era perso nel nulla. «È Smer, la banshee degli O'Brian» sussurrò in tono apatico. E poi...
«Nonno!»
A quelle parole prese a correre verso la sua bicicletta e, senza dare nessuna spiegazione al suo amico, cominciò a pedalare velocemente verso la città.
Sebastian, spaventato dalla strana donna che si avvicinava sempre di più, prese ad inseguire Reammon, finché questo non imboccò un vicoletto. Lo ritrovò inginocchiato davanti ad un tombino, che cercava di aprire a fatica. «Reammon, si può sapere che caspita succede?» gli domandò, cercando di riprendere fiato dopo la veloce pedalata.
Il suo amico aveva una faccia sconvolta. «Smer era la banshee degli O'Brian» spiegò il ragazzino, in tono concitato.
Sebastian aveva sempre saputo che il suo amico era un tipo un po' strano e a volte se ne usciva con storie che non stavano né in cielo né in terra, ma questa volta gli sembrava davvero esagerato. «Mon. Le banshee non esistono: è solo cultura popolare» gli disse in tono perentorio.
Reammon, che era finalmente riuscito ad aprire il tombino, si alzò da terra e prese il suo amico sulle spalle, per squadrarlo con serietà. «No, Sebastian. Stammi a sentire: tutte quelle cose del folclore, le banshee... sono vere. La magia esiste e io sono un mago, come tutta la mia famiglia. Il Trinity è una scuola di magia ed è per quello che ci devo andare, capisci?»
Sebastian scosse la testa, allibito. Di solito si divertiva a seguire il suo amico nelle sue folli avventure, ma quel gioco non gli piaceva per niente, soprattutto per il tono serio con cui Reammon gli stava dicendo tutte quelle cose. Gli metteva addosso paura.
«Senti, Sebastian. Quella che abbiamo visto era una banshee, una vera banshee, di quelle che con il loro pianto annunciano la morte di un membro della famiglia che proteggono. E lei... era Smer, la banshee protettrice degli O'Brian» gli disse ancora Reammon. I suoi occhi verdi erano pieni di angoscia e non sembrava affatto che si trattasse di un gioco. «Fidati di me. Ti spiegherò tutto quando sarò tornato».
«E adesso dove vai?» domandò preoccupato Sebastian, visto che il vicolo dove si trovavano era cieco.
Reammon si diresse verso il tombino che aveva aperto. «Dai miei nonni» rispose, voltandosi un poco verso il suo amico. Dopodiché si gettò nel buco, gridando nel frattempo: «Castello degli O'Brian!»

Sebastian non riuscì a reagire in tempo, quando il suo amico si buttò nel tombino. «Reammon!» gridò con gli occhi sgranati. Si affacciò a spiare dentro il buco, ma del ragazzino non c'era più traccia. «Reammon!» provò ancora, ma gli rispose solo l'eco della sua voce. Dove diavolo era finito?
«Ehi, senti, ci mettiamo ancora molto?» domandò una voce alle sue spalle.
Sebastian si voltò verso l'uomo che aveva appena parlato: indossava un bizzarro abito lungo fino ai piedi e un cappello a punta con ricamato un gufo che Sebastian avrebbe potuto giurare di averlo visto muovere. «No...» sussurrò il ragazzino, con gli occhi fissi sull'uomo.
«Be', allora spicciati oppure levati!» rispose quello, agitando il suo bastone da passeggio in direzione del tombino dentro cui era appena sparito Reammon.
Sebastian si scostò leggermente, troppo intimorito per rispondere. Esattamente come aveva fatto il suo amico, anche l'uomo si gettò nel buco, gridando uno strano nome che non aveva mai sentito.
Oh, sì, Reammon avrebbe dovuto spiegargli un bel po' di cose, una volta tornato a casa.

Reammon sbucò dal metrombino collegato con il castello di proprietà degli O'Brian, dove vivevano i suoi nonni materni. Appena aveva visto apparire Smer, aveva capito che doveva essere successo qualcosa a suo nonno: era tempo che il vecchio mago era malato, ma nessuno avrebbe potuto immaginare una tale precipitosa caduta. Eppure, se Smer gli era apparsa, non poteva che essere per la morte del membro più anziano della famiglia, suo nonno Galwayn O'Brian.
Reammon corse attraverso il prato curato per raggiungere l'entrata delle mura. Ma quando fece per attraversare l'arcata di ingresso, sbatté contro qualcosa e cadde a terra. Alzò gli occhi verso l'entrata, massaggiandosi la testa dolorante, ma non capì che cosa lo avesse fermato. Si alzò e si avvicinò all'arcata: allungò la mano ma una parete invisibile bloccò il suo tentativo. Strano. Di solito era sempre aperta. Forse avrebbe potuto usare l'entrata sul retro. Si incamminò velocemente per aggirare le mura, finché non sgattaiolò nel grande giardino sul retro attraverso il cancellino laterale. Si diresse con passo svelto verso la scalinata che portava al castello, ma ancora una volta qualcosa gli impedì di avvicinarsi al suo obiettivo. Questa volta fu una fattura pietrificante ben lanciata che lo colpì alla schiena, facendolo piombare al suolo come un peso morto.
Chiunque lo avesse atterrato, poco dopo si avvicinò e gli fece la controfattura.
Reammon rotolò su se stesso, finché non entrò nel suo campo visivo un giovane mago con la divisa da Auror che gli puntava contro la sua bacchetta. «Dove pensavamo di andare, eh?» gli domandò, con un sorrisetto provocatorio.
Reammon si alzò da terra, con i palmi rivolti verso l'Auror, per dimostrare le sue buone intenzioni.
Il mago lo lasciò fare, ma non smise di puntargli contro la sua bacchetta.
Una volta in piedi, Reammon poté osservare meglio l'Auror: aveva la mascella squadrata, i capelli neri lunghi fino alle spalle e un pizzetto curato. I suoi occhi blu erano fissi in quelli del ragazzino, come se volessero carpire qualche verità nascosta. «Allora?» gli domandò, con un sorriso che a Reammon ricordò tanto quello di uno squalo.
«Io... devo entrare, per favore» supplicò il ragazzino.
«Non se ne parla nemmeno» rispose l'Auror, in tono categorico. «Nessuno può mettere piede qui dentro, fintanto che ci sono io di guardia: c'è il Presidente del Parlaimint e dobbiamo proteggerlo».
Il Presidente del Parlaimint... certo, suo nonno era stato Parlamentare per ben quattro legislature e gli O'Brian avevano una tradizione all'interno del Parlamento, ma Reammon temeva di sapere il motivo della presenza al castello dell'alta carica della Repubblica. «Che cosa ci fa qui?» chiese, con il cuore in gola.
«Fa le condoglianze alla vedova O'Brian» rispose tranquillamente l'Auror.
Reammon si portò le mani alla bocca e si lasciò sfuggire un singhiozzo. Allora era successo davvero... suo nonno era morto. Non appena aveva riconosciuto Smer, aveva capito quello che era accaduto, ma una parte di lui sperava che si fosse sbagliato. Invece... non riuscì ad evitare che un paio di grossi lacrimoni gli attraversassero le guance. Il nonno se n'era andato: non gli avrebbe più raccontato le storie della sua infanzia, non l'avrebbe più tenuto sulle sue ginocchia, non lo avrebbe più guardato con quei suoi luminosi occhi verdi che si accendevano ogni volta che sorrideva.
«Ti prego, fammi entrare» supplicò rivolto verso l'Auror.
Il giovanotto scoppiò a ridere di gusto. «Non ci penso nemmeno» rispose, mettendogli una mano sulla spalla. «Anzi, sai che ti dico? Ora chiamo il mio superiore» continuò, premendo con la punta della bacchetta una piccola arpa celtica ricamata sul petto della divisa da Auror.
Una manciata di secondi dopo, un uomo dall'aria austera si materializzò al loro fianco. «Che succede?» chiese il mago, gonfiando il petto per mostrare la sua autorità.
Il giovane Auror accennò con il capo a Reammon. «Cercava di sgattaiolare dentro».
«È così, ah? Ti volevi intrufolare?» gli domandò il capo Auror, con un tono indagatore.
«Signore, vi prego...» mormorò Reammon, asciugandosi le lacrime con il dorso della mano. «Galwayn O'Brian era mio nonno».
Quelle parole furono seguite da un attimo di silenzio, poi i due Auror scoppiarono a ridere. «Questa è la scusa più assurda che io abbia mai sentito» esclamò il capo, scuotendo la testa divertito. «Vorresti davvero farci credere che un ragazzetto sporco di fango e vestito da Babbano sia il discendente di una delle più nobili famiglie d'Irlanda?» lo provocò, guardandolo dritto negli occhi.
Lo stavano sfidando apertamente.
«Sì» rispose Reammon, con un moto di coraggio.
«Mon!» gridò una voce alle loro spalle, proprio in quel momento. Una donna con un nugolo di capelli rossi stava correndo loro incontro.
«Mamma!» esclamò il ragazzino, gettandosi tra le braccia della strega. La donna lo strinse a sé con foga, baciandogli delicatamente i capelli.
«Il nonno...» sussurrò Reammon, tra i singhiozzi. Madre e figlio si fissarono per una frazione di secondo negli occhi, entrambi così verdi ed espressivi, e non ci fu bisogno di parole.
«Come hai fatto a scoprirlo?» gli domandò teneramente Joey, accarezzandogli la nuca.
«Ho visto Smer, sulla spiaggia, con Sebastian» rispose Reammon, anche se le sue parole si capirono a stento, visto che aveva il volto soffocato dall'abbraccio della madre.
Infine, lo sguardo di Joey si posò sui due Auror, di cui aveva completamente ignorato la presenza fino a quel momento. «Ho visto dalla finestra che non volevate farlo entrare!» li aggredì con il tono che solo un O'Brian sapeva usare.
«Signora» intervenne il giovane Auror, ritto sull'attenti, ma per nulla intimorito dalla donna. «Stavo solo facendo il mio lavoro: mi hanno espressamente ordinato di non far entrare nessuno».
Il suo capo gli mise una mano sulla spalla. «Sempre così scrupoloso, il mio ragazzo» lo lodò con un sorriso compiaciuto. «Credi a me: tu farai strada, giovane McPride».





Ecco qui il capitolo dedicato al dodicenne Reammon... questa volta è un po' meno spensierato, ma ho cercato di affrontare l'argomento con la maggiore serenità possibile e anche con un pizzico di allegria. Quanto alle banshee, mi sono rifatta alla tradizione popolare, che vede in questi spiriti di donne, delle protettrici dei più importanti clan irlandesi: le banshee, infatti, piangono (con le urla stridule che tanto spaventavano Seamus Finnegan) per la morte dei più importanti membri della famiglia e accompagnano le loro anime nell'aldilà.
Qualcuno, tempo fa, in una recensione, mi aveva detto che i miei babbani erano sempre antipatici... be', ora ho rimediato con Sebastian: lui è un tipo a posto e, non temete, farà pace con Reammon!
Infine, passiamo al personaggio sorpresa di questo capitolo: chi aveva riconosciuto nell'Auror scrupoloso il giovane McPride? XD Alla fine del secondo racconto, mi pare, avevo detto che McPride aveva cominciato come Auror durante la prima guerra magica: be', qui siamo nel '67 e lui ha appena passato l'esame (mica per niente gli assegnano noiosi compiti di sentinella che svolge con troppi scrupoli!), ma presto il suo nome diventerà famoso. Per chi non lo sapesse, il caro McPride è destinato a diventare Presidente della Repubblica Magica d'Irlanda! Per questo il capo gli rivolge quella battuta finale che è un po' una profezia!
Ecco, sono riuscita ad aggiungere qui il link dell'immagine: sono McPride con la divisa da Auror che tiene la mano sulla spalla di un giovane e spaurito Reammon; sullo sfondo Smer, la banshee degli O'Brian. (ps. ho scelto questo nome per la banshee perché “smer” è la radice indoeuropea per indicare il destino!).
Queste invece sono due immagini di Castel Thun (in Trentino) al quale mi sono ispirata per il Castello degli O'Brian: avanti (dove Reammon sbatte contro la parete invisibile) e retro (dove sta di guardia McPride).
Alla prossima,
Beatrix

EDIT: continua l'opera di risistemazione dei dialoghi!

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Capitolo 7
*** Trinity College ***


Il Trinity college

Settembre 1967, stazione di Dublino

Reammon spingeva il carrello con il suo immenso baule attraverso la stazione affollata di Dublino, perso nei propri pensieri: prima di partire per il college era riuscito a fare pace con il suo amico Sebastian e lui aveva perfino accettato quella storia assurda sulla magia, ma Reammon era comunque in apprensione per la nuova scuola. Non conosceva nessuno, non sapeva come si sarebbero rivelati gli insegnanti e sarebbe stata tutta un'altra cosa se insieme a lui ci fosse stato Sebastian. Ma lui era un Babbano e quindi avrebbe frequentato il liceo, mentre Reammon si apprestava a raggiungere la scuola di magia.
Sua madre aveva insistito per riempirgli il baule di mille cose inutili, perché era in apprensione per il suo primo anno al Trinity. «Ti dimenticherai qualcosa, Reammon caro» gli aveva detto mentre lo aiutava a fare i bagagli.
Certo, la sua memoria non era mai stata particolarmente efficace, ma diffidare così delle sue potenzialità mnemoniche era davvero esagerato. «Ma no, mamma, vedrai».
E invece aveva quasi lasciato a casa la sua bacchetta nuova, tanto che erano stati costretti a tornare indietro per cercarla e così erano arrivati in ritardo alla stazione.
Reammon si affrettò a raggiungere il binario magico attraverso lo stanzino delle scope, insieme ai suoi genitori. La banchina era affollata di maghi e streghe che salutavano i propri figli e li riempivano di raccomandazioni. Sebbene fossero in ritardo, Joey non poté frenare il suo istinto materno. «Non dimenticarti in giro le tue cose, ascolta sempre i professori e non combinare pasticci, ti prego» gli raccomandò, sistemando la giacca grigia della divisa (che poi si sarebbe colorata in base alla casa di appartenenza), sebbene fosse ormai rassegnata al fatto che la sbadataggine del figlio avrebbe avuto in ogni caso la meglio anche sui suoi buoni propositi.
«Sì, mamma» rispose apatico Reammon, che aveva ricevuto quelle raccomandazioni almeno dieci volte al giorno da un mese a questa parte.
«E scrivici questa sera per dirci in che casa sei finito» aggiunse Joey.
«Sì, mamma».
Il treno cominciò a sbuffare nuvole di vapore e Reammon fece per dirigersi verso l'entrata.
«Fai il bravo!» gli gridò dietro sua madre.
Il ragazzino si lasciò sfuggire un sorriso furbo. «Ma io sono bravo, mamma».
«Ti vogliamo bene, figliolo!» proruppe invece Aaron.
Reammon era ormai salito sul treno e non riuscì a rispondere, ma gli fece ugualmente piacere sentirsi dire quella frase dal padre, che di solito era molto silenzioso, quasi schiacciato dall'esuberanza della moglie.
Reammon cominciò a percorrere il treno in tutta la sua lunghezza: gli scompartimenti erano ormai pieni, tranne l'ultimo dove stava seduto solo un ragazzetto moro dallo sguardo torvo, che guardava distrattamente fuori dal finestrino. «Posso?» domandò Reammon, entrando con un sorriso gioviale sul volto.
Gli occhi scuri del ragazzo, circondati da un paio di occhiali dallo spesso bordo blu che gli davano un'aria corrucciata, lo scrutarono a lungo. «Se proprio devi» disse infine, sollevando le spalle.
«Grazie!» esclamò Reammon, posizionando il suo baule sulla retina sopra la sua testa. «Sei anche tu al primo anno?» domandò poi al compagno, accennando con il capo alla sua divisa scolastica, ancora grigia.
L'altro lo squadrò con poco interesse: a quanto pareva non aveva alcuna intenzione di fare conversazione, perciò si limitò ad un cenno del capo.
«Anche io sono del primo anno! Mi chiamo Reammon» si presentò il ragazzo, contento di aver già trovato qualcuno con cui fare amicizia.
Il suo compagno di scompartimento, alzò un sopracciglio e lo guardò con aria di sufficienza, poi rispose: «Io sono Septimius Mes Gergra Saiminiu di Sir Eriu Temair».
Reammon aprì la bocca con aria scioccata. «Quello è tutto il tuo nome?» domandò allibito.
L'altro si schiarì la voce, come se dovesse spiegare una cosa banale ad uno sciocco. «Septimius è il mio nome, Mes Gergra è la nobile schiatta celta a cui appartiene la mia famiglia, Saiminiu è il mio cognome e Sir Temair è la contea di Eriu del ramo di schiatta della mia famiglia» disse in tono saccente.
«Oh» commentò Reammon in tono affascinato. «Io non ho tutta questa roba da dire quando mi presento!»
«Perché questa roba ce l'hanno solo i nobili Purosangue di origine celta» spiegò Septimius, con aria di superiorità. Certo non si aspettava che il suo interlocutore scoppiasse a ridere. Lo guardò con aria allibita, sicuro che non avesse proprio tutte le rotelle a posto quello lì.
«Ganza, 'sta cosa!» esclamò entusiasta Reammon. «Quindi tu sei un nobile?»
Septimius si aggiustò le pieghe del vestito con aria superiore. «Già. Tu invece, sei Babbano di nascita?»
«Oh, no! I miei sono entrambi maghi irlandesi. Anche mia mamma ha quella storia lì della schiatta d'appartenenza, in effetti, ma non dà gran peso alla cosa» rispose Reammon con un sorriso.
«Almeno sono irlandesi...» bofonchiò tra sé Septimius, chiedendosi come fosse possibile che un'esponente di una nobile schiatta magica potesse ignorare le sue origini e vivere come un mago comune.
«In che casa speri di finire tu?» chiese poi Reammon, tanto per fare un po' di conversazione.
«Io non spero di finire in nessuna casa. Io so già che sarò un Nagard» gli rispose l'altro con tono sicuro.
Reammon annuì affascinato. «Uau! Ganzo. Io non lo so dove finirò. Mio papà era un Llapac e mia mamma una Nagard, però non so. Ehi, magari diventerò un Nagard anche io!»
«Ma speriamo proprio di no! Non credo che io e te ci frequenteremo molto, dopo di questo» rispose Septimius, con aria disgustata. Passò il resto del viaggio a rispondere a monosillabi, tanto che perfino l'allegria di Reammon si smorzò di fronte alla sua freddezza.
Man mano che il treno penetrava nell'entroterra irlandese, un'ansia crescente si impadronì del cuore dei due ragazzini. Passarono quasi tutto il pomeriggio immersi ciascuno nei propri pensieri, troppo occupati ad immaginarsi il loro primo anno al Trinity per poter dare retta all'altro.
Verso sera, il treno cominciò a rallentare, segno che dovevano essere ormai nelle vicinanze di Doolin. Senza una parola, i due ragazzini presero i propri bauli e si riversarono nel corridoio. Mentre gli studenti degli anni successivi si sarebbero recati al castello con delle carrozze, quelli del primo anno dovevano attendere l'arrivo della vicepreside, la professoressa O'Connel. Quando arrivò l'insegnante, una giovane donna dall'aria altera, i ragazzini si raccolsero intorno a lei, mentre questa faceva un discorso generale sul comportamento che avrebbero dovuto tenere al Trinity. Poi condusse gli studenti alle carrozze, con le quali avrebbero raggiunto il castello, che sorgeva su un isolotto al centro di un lago marino, collegato alla terraferma da un ponte ad arco in pietra.
La sala d'ingresso aveva un soffitto altissimo e le pareti erano fatte con blocchi di roccia talmente grandi da lasciare a bocca aperta i ragazzini del primo anno. Reammon si avvicinò al muro e sfiorò la roccia con deferenza.
1317, l'anno in cui il Trinity College era stato fondato da padre Patrick di Wexford. Quanto erano vecchi quei pietroni e chissà quante cose avevano visto! Se solo avessero avuto la bocca per parlare, gli avrebbero potuto raccontare storie di epoche passate e antiche leggende dimenticate.
«Ehi, tu, là in fondo. Ci siamo capiti?» lo richiamò una voce.
Reammon si voltò verso la professoressa O'Connel. «Certo» rispose, sfoderando la sua migliore faccia da angelo, sebbene non avesse seguito una sola parola dell'insegnante.
Con un segno d'assenso del capo, la donna si voltò verso il portone alle sue spalle e lo aprì sulla Sala Mor. Un immenso e meraviglioso salone apparve agli occhi dei ragazzini del primo anno. Reammon avanzò con il naso all'insù, perso ad osservare il magnifico soffitto a cassettoni della sala. Le travi di legno erano decorate antichi stemmi, frasi in latino e in irlandese prese da chissà quali opere e vari simboli magici.
«Fermo lì, non ti ho chiamato!» gridò la professoressa O'Connel.
Reammon smise di guardare il soffitto e si immobilizzò dov'era, con il piede sollevato in aria. Si accorse che a un soffio da lui era stato disegnato in terra un cerchio. Qualcuno nella sala si lasciò sfuggire una risata divertita, mentre la professoressa O'Connel fulminava con lo sguardo il ragazzino distratto. Quando Reammon si accorse di essere al centro dell'attenzione, se la defilò, ritirandosi tra i compagni.
«Abarrus Melany» chiamò la vicepreside e una ragazzina tremante si fece avanti, entrando nel cerchio. Dopo qualche attimo di silenzio, delle fiamme azzurrine la avvolsero completamente, mentre una voce gridava: «LLAPAC!»
Melany, con la divisa colorata di blu, si andò a sedere al tavolo al centro della sala.
Reammon si trattenne dal lanciare esclamazioni di sorpresa, davanti a quello spettacolo, e cominciò ad aspettare sempre più impaziente il proprio turno.
«Boenisolius Reammon» chiamò la professoressa O'Connel e non poté evitare di storcere il naso quando si fece avanti proprio il ragazzetto imbranato che era quasi entrato nel cerchio per sbaglio.
«Oh, ma cosa vedo qui?» esclamò una voce dentro la testa di Reammon.
Il ragazzino sgranò gli occhi per la sorpresa e si guardò intorno come per scoprire la fonte di quella magia. «È inutile che cerchi, sono nella tua testa che, a quanto vedo, è piuttosto ingarbugliata» rispose la voce, con disappunto. Reammon non poté trattenersi dal sogghignare. «C'è poco da ridere, signorino... e adesso in che casa ti metto?»
Il ragazzetto alzò le spalle, incapace di rispondere a quella domanda. «È una scelta difficile, ma sotto questi infiniti strati di tortuosa sbadataggine, vedo una discreta dose di coraggio e determinazione. Sei anche molto intraprendente e ti piace parecchio darti all'avventura. Sì, direi... RALOI!»
La divisa di Reammon si colorò di un verde smagliante e il ragazzino si unì pieno di entusiasmo alla tavolata sulla destra, dove lo accolse un fragoroso applauso.
Septimius aspettò con una certa ansia il suo turno. Cioè, sapeva che sarebbe stato un Nagard, come tutta la sua famiglia, sia da parte di madre che da parte di padre, ma sentiva una spiacevole stretta allo stomaco che di solito segnalava un senso di colpa irrisolto. E poi realizzò: Priscilla. Quante volte avevano immaginato di attendere insieme quel momento, di stringersi la mano mentre aspettavano che l'insegnante chiamasse il loro nome. Ora invece Priscilla era a Hogwarts, tra i Serpeverde, mentre lui doveva restare lì da solo a spazientirsi perché arrivasse il suo turno.
Finalmente la professoressa O'Connel esclamò: «Saiminiu Septimius»
Il ragazzino si fece avanti con meno sicurezza di quanta avrebbe voluto mostrare. «Bene» disse una voce nella sua testa. «Vedo un certo orgoglio per le proprie origini e una notevole ambizione. Hai voglia di dimostrare a tutti la tua intelligenza che, lasciamelo dire, è piuttosto notevole. Direi che non ci sono dubbi: NAGARD!»
Septimius tirò un sospiro di sollievo quando la sua divisa si colorò di rosso. Decisamente più sollevato, andò ad unirsi al tavolo dei Nagard alla sua sinistra. Nemmeno badò a chi si stava sedendo vicino, finché questi non lo chiamò in tono sorpreso: «Saiminiu?»
Il ragazzino si voltò a guardare chi aveva parlato e riconobbe subito i capelli biondi pettinati all'indietro e i vispi occhi azzurri del giovane musicista.
«Ti ricordi di me? Ci siamo visti la prima volta qualche anno fa, per il fidanzamento di Meccorin Deamundi» gli domandò gentilmente il ragazzo, che ora doveva essere al terzo o al quarto anno.
Septimius mugugnò qualcosa perché aveva in mente la figura del musicista, ma non ricordava il suo nome.
«Maleficium!» esclamò proprio in quel momento un ragazzo poco lontano. Aveva i capelli neri e lisci, il naso aquilino e uno sguardo sprezzante che non prometteva nulla di buono. Si vedeva benissimo che tra lui e il biondo Maleficium non correva buon sangue, sebbene entrambi mostrassero un'apparente cortesia nei confronti dell'altro.
«Sei già dietro ad indottrinare i primini con le tue idiozie sull'uguaglianza?» lo provocò con studiata perfida.
Maleficium adottò un atteggiamento apparentemente neutro. «No; semplicemente ricordavo al qui presente Saiminiu la prima volta che ci siamo visti» rispose tranquillamente.
L'altro fece una smorfia che doveva essere un sorriso, anche se era chiaro che non fosse affatto convinto di quella spiegazione. «Allora lascia che mi presenti anche io, al tuo amico Saiminiu» disse poco dopo, allungandosi sul tavolo per offrire la sua mano a Septimius.
«Scipio Diabliaiocht» si presentò, con un'apparente neutralità. Eppure Septimius, nello stingergli la mano, ebbe come l'impressione di essere una preda caduta nella trappola del cacciatore. Sembrava che Diablaiocht volesse portarlo dalla sua parte, come se si trattasse di una scadente corsa al seggio elettorale. «I Saiminiu sono una famiglia nobile, non è vero? Della schiatta di Mes Gergra».
Quella di Diablaiocht non era una vera e propria domanda, quindi Septimius si limitò ad annuire. Non c'era nulla da dire: non gli piaceva proprio quel tipo, che pareva essere uno squalo sul punto di divorarlo. Era certo che il suo interesse per lui dipendeva dal fatto che apparteneva alla nobiltà irlandese; o forse voleva solo sottrarlo all'influenza del suo avversario Maleficium.
Proprio in quel momento il preside Captatio si alzò da tavola e Diablaiocht fu costretto a rivolgere la sua attenzione verso l'insegnante. Tuttavia, Maleficium si voltò impercettibilmente verso Septimius e gli sussurrò all'orecchio: «Saiminiu, mi sembri un tipo a posto; per questo ti avverto, non dare mai retta a gente come Scipio Diablaiocht: Purosangue sanguinisti a caccia di un titolo nobiliare».




Ah, mi mancava proprio il Trinity! Sono contenta di esservi tornata... era un po' come sentire la nostalgia di casa!
Reammon è adorabile, con la sua sbadataggine! E poi, che non si lamenti più di sua figlia, visto il modo in cui lui ha risposto a sua madre! ;-) Comunque, è evidentemente un archeologo già adesso... tutto preso a fissare la struttura del castello del Trinity! A proposito di castello, questa è un immagine di un castello (in Scozia, in realtà) al quale mi sono da sempre ispirata per il Trinity. Ah, e nel vecchio capitolo ho aggiunto la famosa immagine di McPride e Reammon.
Spero che vi sia piaciuto il primo incontro tra i due futuri amici... Septimius mi sembra snob quanto basta, anche se in realtà è un ragazzino molto debole e insicuro; Reammon, al contrario, è proprio fuori! E dovreste vederlo nei prossimi capitoli!
Ah, non potevo evitare di far tornare il caro Eoin... ovviamente insieme al suo peggior nemico: Scipio Diablaiocht! Sono entrambi al quarto anno e non possono fare a meno di odiarsi, anche se si fingono gentili uno con l'altro (di quella gentilezza che si capisce subito quanto odio nasconda!). Eoin odia Scipio perché lo ritiene un idiota sanguinista, Scipio odia Eoin perché è convinto che “sprechi” il suo essere nobile, con quelle idiozie sull'uguaglianza. Attenzione, Eoin non è affatto per l'uguaglianza: i suoi sono i valori di un “liberale laico”, non contrario all'ascesa sociale di chi nasce povero ma con ottime qualità, ma tendenzialmente convinto che ognuno debba occupare con onestà il proprio posto in società per il migliore funzionamento di quest'ultima. Ovviamente Scipio scambia questa apertura mentale con uguaglianza.
Ok, ho parlato fin troppo! Alla prossima,
Beatrix

EDIT: continua l'opera di risistemazione dei dialoghi!

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Capitolo 8
*** Zucchero filato ***


Zucchero filato

Novembre 1967, Trinity college

Septimius osservava pensieroso il gufo che si allontanava in volo. Era davvero stupido, ma a volte si sentiva meglio appollaiato sul davanzale della torre della gufiera, piuttosto che in sala comune tra i suoi compagni Nagard. Quel Diablaiocht continuava a fargli da lacchè: aveva ragione Maleficium a dire che cercava solo di accaparrarsi l'appoggio dei potenti. Septimius trovava che fosse una cosa veramente squallida: o eri nobile, o non lo eri. Punto.
Nemmeno con i coetanei aveva legato molto, in realtà. Certo, non aveva giovato alla sua popolarità, già di per sé scarsa a causa della sua introversione cronica, il lungo encomio che gli aveva riservato l'anziano professor Ferrus, insegnante di Latino e Irlandese, quando aveva scoperto la profonda conoscenza che quel ragazzino aveva della sua materia. Da allora, i suoi compagni o lo odiavano o lo ignoravano. Era il classico studente modello, bravo a scuola e ligio alle regole, che veniva lodato dagli insegnanti e evitato da tutti gli altri.
Gli mancava terribilmente sua sorella Priscilla. Se ci fosse stata lei, almeno non si sarebbe sentito così solo. Invece lei era lontana, a Hogwarts: un mare li divideva e l'unico contatto che avevano erano delle lunghe ma sporadiche lettere. Lei, finalmente libera dall'opprimente prigionia familiare, aveva spiegato le ali della sua estroversione, facendo amicizia facilmente con un'altra ragazza, una certa Mary Weasley. Lui, invece, che a casa si era sempre sentito protetto e al sicuro, nonostante tutto, ora si sentiva perso in quell'oceano di persone e volti. Non potendo avere al suo fianco Priscilla, nessuno gli sembrava davvero degno di meritare la sua compagnia.
«Ehi, ciao!» esclamò una voce allegra alle sue spalle.
Septimius si voltò appena in tempo per vedere quell'imbranato di Boenisolius che inciampava nell'ultimo gradino della scala a chiocciola e finiva faccia a terra, rovesciando nel frattempo una ciotola con il mangime per i gufi. Septimius scosse lentamente la testa, mentre l'altro si rialzava con tutta la naturalezza del mondo, come se non fosse successo niente.
«Che fai di bello quassù?» domandò Reammon con un sorriso, tanto per scambiare due parole.
Septimius storse il naso. «Secondo te? Scrivo una lettera, no?» gli rispose, con disgusto. In realtà, sebbene fingesse di disprezzarlo, Septimius non riusciva a togliersi di dosso la sensazione di essere peggio di un escremento di troll: Boenisolius era l'unico che si dimostrava gentile con lui e lui lo trattava a pixie in faccia.
Reammon non si fece troppi problemi per la scortesia dell'altro. «Anche io scrivo una lettera» rispose, accennando al foglio di pergamena che aveva in mano. In realtà aveva dovuto riscrivere il testo almeno quattro volte, perché la prima volta gli era caduto nel lago mentre cercava reperti fossili, la seconda ci aveva rovesciato sopra un intero vasetto di inchiostro e la terza l'aveva perso nelle serre. Ma questa, ne era certo, era la volta buona.
«La spedisco al mio amico Sebastian, sai?» spiegò all'altro, legando il foglio alla zampa di un barbagianni dall'aria piuttosto assonnata. «Lui è Babbano, ma gli ho spiegato prima di partire come funziona la posta via gufo. Non credo che qui al Trinity recapitino posta Babbana, o sì?»
«Ehm, no» rispose Septimius, sinceramente dubbioso sulla sanità mentale del Raloi. «Io vado, eh?» aggiunse poco dopo, mentre Reammon lanciava il barbagianni fuori dalla finestra.
«Ci vediamo alla lezione di Pozioni!» gli gridò dietro Reammon, ma quando si voltò, l'altro era già sparito, ingoiato dalla scala a chiocciola. «Oh, be'» commentò stingendosi nelle spalle.
Reammon adorava stare al Trinity. All'inizio non era del tutto sicuro di essere finito nella casa giusta, visto che era decisamente troppo imbranato per essere coraggioso, ma il cerchio magico non poteva sbagliare. Se era finito tra i Raloi, doveva esserci un motivo.
Inoltre era entusiasta delle nuove materie, di quello che doveva studiare, dei professori... insomma, di ogni cosa!
Quando aveva un po' di tempo libero, andava in giro ad esplorare ogni singolo anfratto del castello, per poi disegnare a carboncino i rilievi delle varie stanze, oppure faceva ispezioni nella foresta o nella zona del lago alla ricerca di chissà quali tesori nascosti. I suoi compagni avevano cominciato a ritenerlo un po' strambo da quando era tornato in sala comune con la borsa piena di sassi e ciottoli di varie dimensioni e aveva passato la serata a spennellarli con cura per pulirli da polvere e terra.
Solo alla fine si era scoperto il motivo di tale assurdo lavoro: esattamente come pensava Reammon, le pietre si erano rivelati frammenti di terracotta che, una volta assemblati come un puzzle, avevano dato vita ad un vaso del secolo XI d.C (datazione determinata dalla forma e dal tipo di materiale analizzati dal ragazzino).
Reammon avrebbe voluto portare la sua brillante scoperta al professor Codail, insegnante di Storia della Magia, senonché era inciampato sulle scale con il vaso in mano, riducendolo in mille pezzi. Avrebbe proprio dovuto sistemarlo... era un peccato buttare vita tutto il lavoro che aveva fatto su quello splendido reperto.
Al gracidare stridulo di un gufo, Reammon si riscosse dai propri pensieri: doveva darsi una mossa, o sarebbe arrivato in ritardo alla lezione di Pozioni. Si fiondò giù dalla scaletta a chiocciola e raggiunse l'aula al secondo piano. Il druido Uisce, l'insegnante di Pozioni, era già in classe quando il ragazzino spalancò la porta con un sorriso a trentadue denti, che gli causò un'occhiataccia da parte del professore, ma almeno gli evitò una punizione o, peggio, che venissero tolti dei punti alla sua casa.
«Mettiti al calderone insieme a Saiminiu, che è da solo» gli disse l'insegnante, in tono sbrigativo.
Reammon si affrettò ad eseguire l'ordine, anche se il Nagard, a giudicare dalla sua faccia, avrebbe preferito mille volte restare da solo.
La pozione che avrebbero dovuto preparare quel giorno si chiamava Crescentia e serviva per far ingrandire piccoli oggetti solidi. Non era particolarmente complicata, ma tutte quelle istruzioni precise e la successione delle indicazioni non erano proprio fatte per Reammon.
«No, non in quel modo!» esclamò esasperato Septimius, bloccando la mano dell'altro sopra il calderone. «Solo un pizzico di polvere di chakra» lo ammonì, indicando il passo sul libro dove veniva indicata la quantità.
Reammon ridacchiò per l'ennesimo errore che stava per commettere, poi osservò la reazione della pozione alla spolverata di chakra: una buffa schiuma lanosa si era formata sulla superficie del liquido. «Ehi, guarda, sembra zucchero filato!» esclamò estasiato, aggiungendo un altro po' di polvere per osservarne ancora l'effetto.
«No, basta» lo bloccò Septimius, guardando la pozione con occhio critico. «E poi, cos'è lo zucchero filato?»
Reammon alzò lo sguardo dal calderone e fissò la faccia dell'altro come se gli fosse appena stata rivelata la data della fine del mondo. «Non hai mai mangiato lo zucchero filato?» gli domandò, con la bocca semiaperta.
Septimius scosse leggermente il capo, senza capire che ci fosse di strano.
«Che infanzia triste!» sbottò allora Reammon e, quasi inconsciamente, svuotò l'intero barattolo di polvere di chakra dentro il calderone.
Ci fu un piccolo blop e poi...
«Oh-oh» fu l'unica cosa che riuscì a dire Reammon.
La schiuma cominciò a gonfiarsi e crescere finché non straboccò dal paiolo.
E poi crebbe ancora, e ancora, e ancora, tanto che pareva un'enorme nuvola di panna montata.
«Che sta succedendo là in fondo?» sbraitò il professor Usice, avvicinandosi a grandi passi.
Septimius indietreggiò di mezzo metro, terrorizzato, come se non volesse avere niente a che fare con quella storia.
Reammon invece sperimentò l'effetto della schiuma provando ad immergerci la sua piuma per scrivere: quando la ritirò fuori, questa era visibilmente aumentata di volume. «Ganzo!» commentò entusiasta, sventolando il risultato del suo esperimento.
Un botto proveniente dal calderone sottolineò le sue parole.
Reammon fece appena in tempo a voltarsi che l'intera pozione esplose in tutta l'aula, ricomprendo ogni cosa con un liquido viscoso e appiccicaticcio. Ogni piccolo oggetto che era stato colpito, dai libri, alle penne, alle boccette di inchiostro, agli amuleti druidici che il professore portava al collo, venne ingrandito a dismisura.
Fu così che Septimius si ritrovò bagnato e vischioso, con un'espressione dolente sul volto e un paio di enormi occhiali sul naso che lo facevano sembrare un clown di uno scadente circo di periferia.
Reammon si stropicciò le mani, osservando i bottoni della sua giacca verde che si gonfiavano fino a raggiungere la dimensione di un carciofo. «Eh-eh...» ridacchiò a disagio.
Sulla classe scese un silenzio innaturale.
«Per tutti i falcetti d'oro di Merlino, si può sapere chi stato?» sbraitò il professor Uisce, facendo trasalire gli studenti.
Septimius, senza un minimo di esitazione, alzò il dito indice verso il suo compagno Reammon, sperando in questo modo di evitare la punizione.
L'insegnante si voltò verso Reammon. «Boenisolius, dovevo aspettarmelo. Non passa giorno che tu non combini qualche pasticcio» commentò, scuotendo la testa. «Voglio che tu e il tuo collega Saiminiu mi portiate per la prossima lezione un tema di tre rotoli sulle funzioni della polvere di chakra».
«Ma io che c'entro, signore?» protestò Septimius con voce lagnosa, mentre gli enormi occhiali gli scendevano dal naso.
«Eri in coppia con Boenisolius: avresti dovuto fermarlo» rispose l'insegnante in tono risaputo.
Septimius riservò uno sguardo traboccante di odio al suo compagno, che rispose con un sorrisetto innocente.
«Almeno la pozione ha funzionato, signore» esclamò Reammon spingendo in fuori il petto per mostrare i bottoni della sua divisa.
Pessima mossa.
Il filo, già teso per lo sforzo, si ruppe definitivamente e il bottone grosso come un carciofo schizzò come un proiettile, andando a spiattellarsi sulla fronte del professore.
Il sorriso angelico di Reammon si congelò all'istante.
«Boenisolius. In presidenza!»





Buongiorno a voi! E buona Pasqua, anche se un po' in ritardo! Devo ammettere che lunedì scorso non avevo fatto il calcolo che il prossimo aggiornamento sarebbe avvenuto a pasquetta (nonché anniversario della liberazione), quindi non ho avvertito che forse non avrei aggiornato di mattina... comunque, eccomi qui con il nuovo capitolo. In realtà questo pezzo non l'avevo programmato, ma si è scritto da sé. Chi sono io per bloccare l'ispirazione? Anzi, ho confezionato anche una bella immagine, questa, con Septimius e Reammon nel post-bagno-nella-pozione... fanno spanciare dal ridere! XD E poi mi era mancato un sacco disegnare le divise del Trinity!
Comunque, come promesso, ho per voi una sorpresa pasquale... su idea e suggerimento di Natalie, ho creato un quiz per scoprire in quale casa del Trinity sareste smistati! Io sono uscita Nagard (e non per niente ho il loro stemma nella pag di EFP) ma per chiunque volesse scoprirlo, basta che mi mandi un messaggio personale o me lo scriva nella recensione, che provvederò a inviare il quiz (e poi, per chi volesse, i codici dei banner della rispettiva casa, che tempo fa aveva fatto una gentilissima Julia).
Per oggi è tutto, alla prossima!
Beatrix


EDIT: continua l'opera di risistemazione dei dialoghi!

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Capitolo 9
*** Le scarpe di Hermes ***


Le scarpe di Hermes

Novembre 1967, Trinity college

Reammon se ne stava seduto su una seggiola nella grande sala adibita a segreteria, proprio a fianco dell'ingresso principale. Sebbene non fosse particolarmente basso, la sedia era abbastanza imponente e i piedi non toccavano terra, perciò si ritrovò a dondolare le gambe avanti e indietro, manco avesse due anni. Il capo era chino, le spalle curve.
Chiunque l'avesse visto, avrebbe potuto dire che era la personificazione del pentimento.
Proprio alla sua sinistra si snodava la scala a chiocciola che conduceva all'ufficio del preside.
«Ecco, signore, glie l'avevo detto che ce n'era uno qui pronto ad aspettarla» esclamò una voce, in quel preciso istante.
Reammon alzò gli occhi da terra: un giovanotto scorbutico, con indosso una casacca marrone da mago, coronata da una zazzera di capelli arruffati e un paio di lepri morte sulle spalle, era entrato in segreteria a passo di marcia.
Il ragazzino non capì con chi stesse parlando, finché il giovanotto -che, a giudicare dall'aspetto, doveva essere Armandus, il custode del castello- non si scansò di lato. Dietro di lui apparve niente meno che il professor Caius Iulius Emilianus Captatio, preside del Trinity College.
Non poteva esistere uomo più buffo di lui: alto al massimo un metro e mezzo, aveva un naso veramente spropositato per la sua corporatura minuta, sormontato da un paio di occhialetti tondi, e un due enormi baffoni bianchi. Compensava la sua scarsa altezza con dei ridicoli cappelli a punta, sempre in tinta con la veste che indossava. Poteva benissimo essere uscito da un libro di fiabe per Babbani.
Eppure non c'era studente sulla faccia della terra che non lo rispettasse.
«Signore, non l'ho fatto apposta!» esclamò immediatamente Reammon, nel tentativo di mettere subito in chiaro le cose.
«Andiamo nel mio ufficio, che è più tranquillo» rispose invece il professor Captatio, con una voce davvero calma e profonda per un omino così minuto.
Sebbene fosse a rischio punizione, Reammon non poté evitare di ammirare con interesse l'ufficio del preside: era una stanza molto luminosa, grazie alle tre bifore che si aprivano sulle pareti, ma ciò che attirò maggiormente l'attenzione di Reammon fu l'immenso caos di libri che affollavano gli scaffali e gli armadi.
«Siediti pure» lo invitò il preside, indicando una poltroncina davanti alla scrivania. «Allora, perché non mi racconti cosa è successo?»
Reammon cominciò a narrare l'incidente con la polvere di chakra, con una dovizia di particolari e un entusiasmo tali che sembrava si fosse dimenticato di essere lì per ricevere una punizione. «...e poi il bottone mi è partito dalla giacca e si è spiattellato in fronte al professor Uisce. Ma non l'ho fatto apposta!» concluse il suo animato racconto.
C'era da ammettere, a sua discolpa, che nulla di quello che combinava, era “fatto apposta”; ciò non toglieva che provocava più danni di un troll ubriaco in una cristalleria.
«Senti, facciamo così: per aiutarti a darti un po' una calmata, come punizione aiuterai il nostro bibliotecario a fare il catalogo dei miei libri. Che ne dici?» propose il preside, indicando gli scaffali stracolmi di volumi del suo ufficio.
Per chiunque altro, vista la mole di noioso lavoro, quella sarebbe stata una punizione terribile, ma per Reammon era una specie di paradiso. Ovviamente, evitò di farlo notare al professore.
«Bene, ora torna nella tua sala comune» lo congedò il preside, con un sorriso bonario. «E fai in modo di non combinare altri guai: non ti voglio più vedere qui, chiaro?» lo ammonì, prima che uscisse.
Reammon gli rivolse un sorrisetto innocente, ma nessuno dei due poteva immaginare quanto quell'avvertimento si sarebbe rivelato inutile.
Reammon scese la scala a chiocciola decisamente più sollevato: la punizione non era stata poi così malvagia e il preside non aveva nemmeno tolto punti alla sua casa. Sarebbe potuta andare molto peggio!
Stava per tornare alla torre dei Raloi, quando un suo compagno dei Llapac gli si fece incontro con un pacco sottobraccio.
«Ah, eccoti!» esclamò quando lo vide. «È arrivato questo per te, mentre eri in presidenza» aggiunse, tendendo verso di lui il pacco.
«Grazie, Louis» farfugliò distrattamente Reammon, troppo preso a scartare ciò che aveva ricevuto. Quando scoprì che era una scatola di cartone, sorrise soddisfatto: era sicuramente il regalo di compleanno che i suoi genitori avevano ordinato per lui qualche mese prima.
Era proprio il caso di provarlo.

Finite le lezioni, Septimius aveva pensato bene di farsi un giro verso le scogliere di Moher, per ammirare l'incantevole paesaggio della terra che si buttava a capofitto nell'oceano. Era frustrato per la punizione che gli aveva assegnato il professor Uisce, ma non poteva negare con se stesso di sentirsi vagamente in colpa per quell'imbranato di Boenisolius: l'aveva accusato senza un minimo di rimorso e adesso lui era finito in presidenza. Se lo avessero espulso, sarebbe stata anche colpa sua.
Scacciò quel brutto pensiero dalla mente e si perse via ad osservare la potenza della natura, le onde che si infrangevano fragorose contro la rocca, il vento che soffiava potente sulla cima delle scogliere. Era un paradiso di pace e desolazione. Il suo paradiso.
«Ciao» mormorò una voce malinconica alle sue spalle.
Septimius si voltò perplesso: aveva riconosciuto il timbro, ma gli sembrava impossibile che lui usasse quel tono triste. Invece, era proprio lui, quel matto di Boenisolius. Ma aveva qualcosa che non andava: invece della solita aria spensierata, aveva una faccia da funerale.
Uno spiacevole senso di colpa piombò addosso a Septimius. «Non ti avranno mica...?» provò a chiedere, senza osare pronunciare la fatidica parola.
«Sì» mormorò l'altro con voce sommessa. «Mi hanno espulso».
Tra i due calò un silenzio teso. Septimius si stropicciò le mani a disagio, ma alla fine azzardò un: «Mi dispiace».
Reammon tirò su con il naso.
Santo folletto, sono proprio un attore nato! pensò tra sé, con un sorrisetto. Quando aveva riconosciuto la sagoma di Saiminiu, non aveva potuto evitare di giocargli quel brutto scherzo. Ma il meglio doveva ancora venire, proprio grazie al suo regalo di compleanno.
«Il mondo è crudele con me» piagnucolò con la faccia a terra, a prima vista per nascondere le lacrime, in realtà per celarne l'assenza.
Septimius si azzardò a mettergli goffamente una mano sulla spalla, nel tentativo di consolarlo. «Ma no, dai. Potresti sempre andare a Hogwarts» provò a dire, in un tono che doveva sembrare rincuorante.
Reammon allora cacciò un urlo. «Buuuh, la scuola inglese degli sfigati!» frignò sonoramente, mettendo sempre più a disagio il povero Septimius.
«Sono solo un perdente, la mia vita non ha senso» aggiunse poco dopo, in tono dimesso. Singhiozzando in modo forse troppo patetico, fece qualche passo all'indietro verso la scogliera.
«Sono sicuro che ai tuoi amici qui a scuola non sembri affatto un perdente» disse Septimius, con una risatina nervosa.
A quelle parole, Reammon alzò gli occhi per guardare dritto in quelli scuri dell'altro. «Io non ce li ho degli amici».
E, in quel mare di bugie, quella era l'unica cosa vera. Nessuno ce l'aveva con lui o lo odiava particolarmente, ma, in effetti, il giovane Reammon non aveva stretto dei veri legami con i coetanei, forse perché tutti lo consideravano un tantino strambo.
Dopo quella sconcertante rivelazione, fece un altro paio di passi verso la scogliera. Ormai era quasi al limite: se avesse messo un piede in fallo, sarebbe scivolato di sotto e nessuno gli avrebbe risparmiato un bel tuffo mortale.
Septimius, che aveva ancora la mano poggiata sulla spalla dell'altro, aumentò la pressione della sua presa. Una singola goccia di sudore gli colò dalla fronte e scivolò giù lungo il naso.
«Non fare idiozie» sibilò, scandendo bene le parole.
Reammon gli rivolse un beffardo sorriso a trentadue denti. «Scherzi? Sono la cosa più divertente».
E con quelle parole si gettò nel vuoto.

Septimius, mingherlino com'era, non resse al contraccolpo e, ancorato alla spalla di Reammon, venne strattonato giù dal dirupo. In una frazione di secondo si ritrovò a rotolare nel vuoto.
E urlò, urlò fino a che non si svuotò i polmoni, urlò finché non sentì bruciare la gola. Urlò di terrore, con l'aria che gli frustava la faccia e ogni parte del corpo.
Sarebbero morti, tutti e due, per una stupida manciata di polvere di chakra e dello zucchero filato. Non aveva nemmeno scoperto che cosa fosse; peccato, gli sarebbe piaciuto assaggiarlo.
Proprio quando stava facendo quegli assurdi pensieri, una forza molto potente gli strattonò il braccio destro e la sua caduta libera si arrestò.
Septimius sbatté le palpebre un paio di volte, incredulo.
«Per i brufoli di un troll, ma quanto pesi?» si lamentò una voce da qualche parte sopra di lui.
Septimius osservò per un attimo i suoi piedi che penzolavano nel vuoto: sotto di lui, le onde dell'oceano si infrangevano chiassose contro la scogliera. E poi realizzò: stava a penzoloni a chissà quanti metri d'altezza, trattenuto da chissà che cosa che stava quasi per strappargli il braccio. Cacciò un altro urlo isterico e si affrettò ad aggrapparsi meglio alla cosa che lo stava sorreggendo, qualsiasi essa fosse.
Dopo qualche attimo di sconcerto, si rese conto che stava abbracciato stretto alla vita di Boenisolius; ai piedi di quest'ultimo, un paio di corti stivaletti marroni facevano bella mostra di sé, coronati entrambi da due sottili alette che sbatacchiavano allegre.
Evidentemente erano quei buffi marchingegni che permettevano loro di svolazzare a mezz'aria.
Poco più sopra, quel pazzo di Boenisolius sghignazzava come un ossesso. Poi, alzando il pugno al cielo, simile ad un indemoniato, cominciò la sua risalita verso la cima della scogliera, gridando nel contempo: «Verso l'infinito e oltre!»
Solo quando sentì nuovamente sotto i suoi piedi del terreno solido, Septimius si ritenne realmente sano e salvo. Si lasciò cadere a terra e baciò il suolo un paio di volte, manco fosse scampato ad un terribile naufragio.
Nel frattempo, quell'idiota del suo compagno Raloi continuava a sghignazzare. «Facciamolo ancora!» propose, pieno di entusiasmo.
«Tu sei proprio pazzo» commentò invece Septimius, scuotendo il capo allibito. «Stavamo per farci ammazzare!»
«Ma no, tu non dovevi seguirmi» protestò l'altro. «Dovevo buttarmi solo io, così poi tornavo su in volo con il pugno alzato come Superman!» spiegò, mimando nel frattempo i gesti, compreso quello di sollevarsi da terra grazie allo sbattere frenetico delle alette dei suoi calzari.
Septimius non sapeva chi fosse questo Superman, ma pensò che doveva essere un tipo davvero egocentrico per chiamarsi così. Poi, però, qualcosa si ribellò in lui a quegli stupidi pensieri; e realizzò.
«Stavamo per farci ammazzare!» esclamò con veemenza, spalancando gli occhi verso il suo compagno.
Reammon lo ignorò bellamente. «Comunque...» cominciò a dire, come se avessero appena interrotto una banale conversazione sul tempo invece che essersi buttati a capofitto giù da una scogliera. «Ti piacciono le mie scarpe?» domandò, alzando un piede in modo piuttosto pericoloso, visto il suo scarso equilibrio, e cominciando a sventolarlo in direzione di Septimius.
«Stavamo per farci ammazzare!» ripeté questo per la terza volta, sempre con la stessa enfasi.
«Me le hanno regalate i miei vecchi per il compleanno. Vengono dalla Grecia, si chiamano scarpe di Hermes. Sono molto in voga là» spiegò Reammon, senza minimamente ascoltare quello che diceva l'altro.
«Stavamo per farci ammazzare» disse nuovamente Septimius, questa volta in un tono quasi rassegnato.
Proprio in quel momento, la scarpa sinistra di Reammon, che ancora la teneva sollevata per mostrarla meglio al compagno, decise che era il momento di alzarsi in volo e con una brusca impennata si trascinò dietro la gamba di un inerme Reammon. Il ragazzino, colto allo sprovvisto dall'improvviso strattone, si ritrovò appeso per aria a faccia in giù, rotolò all'indietro un paio di volte e poi atterrò faccia a terra sul prato.
«Oh, cielo, ti sei fatto male?» esclamò premuroso Septimius correndo al suo fianco.
Reammon rimase per qualche tempo immobile: l'unico segno di vita era l'alzarsi e abbassarsi ritmico delle spalle.
«Reammon?» sussurrò preoccupato Septimius.
E poi lo vide: stava sghignazzando, quel disgraziato!
Septimius si lasciò sedere a terra, disperato. L'adrenalina che lo aveva stuzzicato fino a quel momento lo abbandonò di colpo e lui si ritrovò stremato come se avesse corso per mille miglia senza fermarsi. Anche Reammon si mise a sedere, ma evidentemente lo aveva colto un attacco di ridarella, perché non aveva smesso un secondo di ghignare come un matto.
Septimius sapeva che sarebbe dovuto sentirsi arrabbiato o al massimo spaventato, invece... gli veniva voglia di ridere.
E rise, rise fino alle lacrime, fino a che non sentì male alla mascella e allo stomaco. Rise insieme a quel pazzo di Reammon perché si erano buttati dalle scogliere con quegli stupidi calzari, rise perché si erano quasi fatti ammazzare e perché lui era un imbranato cronico.
E con quella folle risata, suggellarono la loro amicizia.





E finalmente Septimius e Reammon sono diventati amici! Il tutto è avvenuto in un modo piuttosto rocambolesco, ma devo ammettere che questo episodio che l'ho in testa da un po'... per chiunque l'avesse letto, potrei ricordare che nel capitolo “il covo” de “la sorella perduta”, Edmund, Mairead e Laughlin trovano, tra le altre cianfrusaglie, anche una scatola di scarpe alate! ;-)
Ah, Reammon definisce Hogwarts “la scuola inglese degli sfigati” perché un vero irlandese non va a Hogwarts, ma al Trinity!
Non ho molto da dire su questo capitolo se non... spero che vi siate divertiti nel leggerlo almeno tanto quanto io mi sono divertita nel progettarlo e nello scriverlo.
Vi lascio solo qui un'immagine delle scogliere di Moher, dalle quali si sono buttati i nostri protagonisti!
Alla prossima,
Beatrix

ps. nota tecnica: dalla prossima volta aggiornerò di martedì mattina, perché il lunedì continuo a litigare con la connessione wireless che non funziona, rischiando perennemente di arrivare in ritardo a lezione!


EDIT: continua l'opera di risistemazione dei dialoghi!

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Capitolo 10
*** Gli Extraiures ***


Gli Extraiures

Febbraio 1969, Trinity college

Septimius sfogliò il vocabolario di latino con scocciata insistenza, finché non trovò il termine che stava cercando. Eccolo lì, aveva ragione lui.
«Qui hai sbagliato, Mon» sussurrò rivolto al suo amico, passandogli la pergamena con il compito corretto.
Reammon alzò distrattamente gli occhi dal libro che stava leggendo di nascosto sotto il banco (“Eventi storici rilevanti del periodo celtico preromanico”) e sbirciò con poca convinzione la sua traduzione. «Che ha che non va?» domandò, convinto di averla fatta bene, per una volta. Septimius indicò un punto nel mezzo. «Qui, latus, è il participio passato di fero, non c'entra un tubo con il lato» spiegò, mostrandogli al contempo la pagina del vocabolario.
Reammon storse il naso, ma si affrettò a correggere l'errore prima che il professor Ferrus ritirasse il compito.
Era comodo sedersi vicino a Septimius durante i test: lui sapeva sempre tutto in qualsiasi materia e non esitava a suggerirgli le risposte che Reammon non sapeva. In realtà, stavano seduti vicini non solo durante i compiti in classe, ma praticamente sempre.
Nessuno riusciva a capacitarsi di come quei due riuscissero ad essere amici, e non solo perché all'epoca era impensabile un'amicizia tra due case diverse e rivali come quella dei Nagard e dei Raloi, ma anche perché sembravano avere un carattere completamente diverso. In realtà erano più simili di quando non si potesse pensare: amavano entrambi studiare, anche se Reammon era più che altro fissato con la storia, adoravano scoprire cose nuove e soprattutto tutti e due odiavano la banalità e il conformismo; se per Septimius questo significava uno spasmodico desiderio di eccellere in ogni cosa per distinguersi dalla massa, Reammon semplicemente faceva cose che gli altri giudicavano totalmente assurde solo perché gli piacevano, senza preoccuparsi dei giudizi che ne derivavano.
In sostanza, erano tutti e due fuori dagli schemi.
La loro stessa amicizia era fuori dagli schemi e i compagni avevano cominciato a dare loro dei nomignoli assurdi: Aisteach (che in irlandese significava strambo) era stato affibbiato a Reammon da Augustus MacDivus, il campione di Quidditch dei Raloi, suo acerrimo nemico; altri, perlopiù, lo chiamavano Sanguinitsa, con evidente disprezzo per il suo rapporto con la casa rivale dei Nagard, tradizionalmente più ancorata alle ideologie sul sangue puro.
Per opposizione, i compagni Nagard chiamavano Septimius Inglesofilo, perché vedevano nella sua amicizia con Reammon un'eccessiva apertura mentale che non sarebbe stata appropriata ad un esponente della nobiltà celta.
Di tutto questo, i due diretti interessati se ne fregavano altamente. Si divertivano a stare insieme: che importanza aveva se agli altri la cosa non andava a genio?
Una volta consegnato il compito di latino al professor Ferrus, Septimius e Reammon si affrettarono ad abbandonare l'aula.
«Sai, credo che dovremmo darci un nome» buttò lì Septimius, sistemandosi meglio la borsa sulle spalle, che con tutti i libri e il vocabolario di latino cominciava a dare segno di cedimento.
«Un nome tipo Mon e Sep?» domandò l'altro, con una scrollata di spalle. Septimius scosse la testa.
«No, sai... come il nome di un gruppo».
«Gruppo, ma se siamo solo in due?» rispose Reammon, ridacchiando a quell'assurdità.
Septimius sbuffò esasperato. «Intendevo... ma sì, insomma, hai capito! Oh, Mon!» esclamò quando capì che il suo amico si stava prendendo gioco di lui. Per un attimo nessuno dei due disse una parola, Septimius troppo occupato a fare l'offeso, Reammon a ridere dell'offesa.
Ma quel gioco non durò a lungo.
«Insomma, pensavo qualcosa in latino» continuò Septimius, ancora eccitato all'idea del nome. «Potremmo creare un neologismo, per indicare ciò che siamo».
«Ciò che siamo? Siamo due fuorilegge!» rispose divertito Reammon.
In effetti, erano solo a metà del secondo anno, ma lui era stato in presidenza più spesso di tutti gli altri studenti messi assieme. Una volta lo aveano spedito da Captatio solo perché, per sbaglio, aveva dato fuoco alla serra numero cinque, quella contenente le Piante Incendiarie, il cui pus era altamente infiammabile. Non era colpa sua se era eternamente distratto!
«Fuorilegge, sì!» proruppe invece Septimius, estasiato dall'idea. «Fuori... legge. Extra... legem!» I suoi occhi brillavano per l'entusiasmo. Afferrò la manica della giacca di Reammon e lo costrinse a fermarsi in mezzo al corridoio. «Oppure... ius! Extraiurem!» esclamò eccitato. Reammon, che al brusco strattone dell'amico, aveva fatto cadere in terra il libro che portava sottobraccio, si chinò per raccoglierlo e nel contempo rispose: «Sì, ma siamo in due. Quindi Extraiurems».
Septimius gli scoccò uno sguardo scocciato. «Non funziona così il plurale in latino. Al massimo Extraiures» chiarì in tono saccente. «E poi, fuorilegge non ha il plurale: un fuorilegge, due fuorilegge, non fuorileggi» aggiunse, contando con le dita man mano che spiegava.
Reammon ficcò il volume in borsa, senza accorgersi che in quel modo aveva spiattellato sul fondo la boccetta dell'inchiostro rosso, crepando il vetro. Alla fine della giornata, si sarebbe ritrovato i libri allagati di inchiostro.
«Senti, chi se ne frega delle norme grammaticali. Noi siamo fuorilegge, no? Ce ne infischiamo delle regole!» esclamò alzando il pugno al cielo come un conquistatore che incita i suoi soldati.
Septimius sembrò meditarci su per qualche momento, poi sorrise. «Hai ragione, vada per Extraiures».

Al termine delle lezioni, Septimius aveva deciso di recarsi alla torre di Astronomia per chiedere chiarificazioni sull'ultimo voto che aveva preso, nonostante le lamentele di Reammon.
«Lo sai che la maggior parte degli studenti pagherebbe per una S-?» aveva protestato il suo amico. I voti andavano da ME per mirandum est, S per singularis, P per probatus, M per mediocris, fino a E per egens, anche se alcuni studenti giuravano di avere preso Q, che stava per quadrupes. Septimius non era abituato a prendere meno di S, perfino in una materia che odiava come Astronomia: era questione di principio, doveva eccellere in tutto. Ovviamente la professoressa non accettò di fargli ripetere il compito né di interrogarlo sugli stessi argomenti. Disse semplicemente che non c'era bisogno di preoccuparsi perché c'era ancora tempo prima della fine del trimestre per alzare la media.
Per cui, in realtà, Septimius abbandonò l'aula di Astronomia piuttosto scocciato. A metà rampa della scala a chiocciola si bloccò di colpo, sovrappensiero. Forse avrebbe potuto chiedere all'insegnante di recuperare il voto portandole una ricerca personale sull'argomento.
Mentre faceva questi pensieri, giocherellava con l'anello di famiglia, che gli era stato regalato qualche settimana prima per il suo quattordicesimo compleanno. Lo zio Antilius diceva che era stato forgiato fondendo un chiodo della croce di Cristo, ma Septimius non era del tutto convinto che quella leggenda fosse vera; comunque, era certo che fosse di ferro, ricoperto di una lamina di oro bianco, con lo stemma di famiglia in bella mostra, che serviva per imporre il sigillo nella cera e autenticare le lettere.
In realtà Septimius non sapeva che farsene, tanto più che gli era leggermente largo e gli scivolava spesso via dal dito.
Proprio in quel momento, infatti, deciso a fare dietro front per tornare nell'aula di Astronomia, l'anello gli scivolò via per il brusco movimento. Rimbalzò tintinnando per qualche gradino e poi, improvvisamente, silenzio.
Septimius osservò la scala, stupefatto: del gioiello non c'era più traccia. Eppure era convinto che gli fosse caduto, era rimbalzato su qualche gradino e poi era come scomparso inghiottito dal legno dello scalino. Septimius si avvicinò cauto e notò che un punto sembrava scricchiolare. Si chinò sul gradino sospetto e cominciò ad ispezionarlo: battendo le nocche sul legno, notò che un punto suonava sordo, come se fosse vuoto.
«Forse...» provò a dire, estraendo di tasca la bacchetta. «Evanesco» sussurrò, colpendo l'asse con delicatezza.
Al suo gesto, il legno che ricopriva il gradino sparì, svelando un vano nascosto. Dentro, alla luce della torcia, luccicava qualcosa di metallico. Septimius estrasse il suo anello e una strana chiave, che pareva ricoperta di ottone, ma la cui anima era certamente in ferro, proprio come il gioiello della famiglia Saiminiu. Perché qualcuno avrebbe dovuto creare un vano attraverso cui passassero oggetti in ferro, per nasconderci una chiave se non per...?
Nel momento stesso in cui Septimius estrasse i due oggetti dal buco, l'asse di legno ricomparve perfettamente intatta al suo posto, mentre sulla parete di destra si disegnava una toppa. Un sorriso furbo si disegnò sul volto di Septimius. Infilò la chiave nel buco: ai primi due scatti si delineò la figura di una porta e, con i due successivi, la porta si aprì su una piccola saletta circolare.
Non era particolarmente ampia, ma molto luminosa grazie alla enorme bifora che si apriva sulla destra, che partiva dal pavimento e raggiungeva il soffitto. Sembrava che nessuno mettesse piede da molto tempo in quella stanza segreta: il pavimento era ricoperto da uno strato di polvere e numerose ragnatele facevano capolino agli angoli delle travi di legno del soffitto.
Quel luogo era certo abbandonato da tempo. Un luogo perfetto per nascondere un covo di due fuorilegge...
«Questa devo proprio dirla a Reammon» commentò ad alta voce Septimius, con un sorriso soddisfatto.
Aveva trovato il covo per gli Extraiures.





Eccomi! Lo so, lo so che avevo detto che avrei aggiornato questa mattina, ma ho avuto un contrattempo e non sono riuscita a farlo prima! Comunque, eccovi qui il capitolo sulla nascita degli Extraiures. Reammon propone il nome “extraiurems” con uesta S finale, perché ho pensato al plurale inglese. Ovviamente il covo, al momento in cui lo scopre Septimius è ancora vuoto, ma presto arriveranno i poster alle pareti, le amache davanti alla finestra, le mensole semicircolari con i libri e soprattutto la mappa del Trinity con i passaggi segreti!
In questo capitolo ho anche inserito un personaggio nuovo: Augustus MacDivus, l'antagonista di Reammon. Ovviamente si tratta di un campione di Quidditch, il classico belloccio con l'aria strafottente. Anche il suo nome è tutto un progrmma: Augustus l'ho scelto come richiamo ad Ottaviano Augusto, nel senso etimologico del termine, mentre Mac (=figlio di...) e Divus stanno per una sorta di “figlio divino”. Inizialmente avevo pensato a Sean Troy, il capitano della nazionale di Quidditch irlandse alla Coppa del Mondo (il cognome è originale della Rowling, il nome l'ho scelto io), ma l'ho scartato per 2 motivi: primo, se Troy fosse coetaneo di Reammon, alla Coppa del Mondo avrebbe circa 40 anni e mi sembra un po' vecchiotto per giocare a Quidditch (e poi non sarebbe l'aitante giovanotto che infiamma il cuore di tutte le sue fan!); secondo, se fossero stati rivali a scuola, Reammon non avrebbe MAI permesso alla figlia di appendere il suo poster in camera! ;-)
Comunque, nel prossimo capitolo, comparirà un altro personaggio già noto a chi ha letto gli altri racconti... e sarà moooolto inaspettato!
Grazie di aver letto fin qui e di aver sopportato i miei vaneggiamenti sui campioni di Quiddith! Alla prossima!
Beatrix



EDIT: continua l'opera di risistemazione dei dialoghi!

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Capitolo 11
*** Insegnare le buone maniere ***


Insegnare le buone maniere


Novembre 1970, Trinity college


Reammon se ne stava seduto con le mani tra le cosce e le spalle ricurve, quando vide arrivare un ragazzino dei Raloi con il labbro gonfio e il mento sporco di sangue. Aveva uno sguardo furioso e i pugni serrati. Si sedette al suo fianco senza dire una parola e solo allora Reammon lo guardò di sottecchi: aveva i capelli scuri tagliati a spazzola e degli espressivi occhi azzurri, anche se un po' infossati, delineati da un paio di occhiali rettangolari. Doveva essere del primo anno, o al massimo del secondo.

-Che caspita ti è successo?- si azzardò a chiedere alla fine Reammon. Il ragazzino si voltò verso di lui e lo osservò per un attimo, poi rispose: -Ho fatto a botte con un mio compagno di classe. Ma mi ha provocato lui.-

-Santa Rosmerta, che ti ha detto?- esclamò stupito Reammon. Doveva per forza essere del primo anno, altrimenti non lo avrebbe preso a pugni, ma gli avrebbe lanciato una bella fattura. -È un pallone gonfiato!- protestò il Raloi, pestando i piedi a terra. -Tutto convito di essere superiore agli altri perché è un nobile, con le sue idee sul sangue puro. Stava prendendo in giro Rosy quasi fino a farla piangere, allora gli ho tirato un bel destro.- A quelle parole mimò il gesto con foga, gasato al solo ricordo della scazzottata. -Stupido O'Brian.-

-O'Brian, hai detto?- gli fece eco Reammon, incuriosito dal nome. Il ragazzino storse il naso. -Già, Teudilascius O'Brian. Un pallone gonfiato.-

-Sai, è un mio parente- commentò Reammon, ricordandosi di aver letto quel nome assurdo nell'albero genealogico della famiglia O'Brian: doveva essere il figlio del cugino di sua mamma, se non errava. Il ragazzino si rivolse verso di lui con aria nemmeno troppo sorpresa. -Mi dispiace.- disse in tono piatto.

-Oh, no, fa niente. Praticamente non lo vedo mai.- rispose Reammon, alzando le spalle con disinteresse. Il giovane Raloi si voltò a guardarlo con sufficienza. -No, non hai capito. Mi dispiace che un tale idiota sia tuo parente. Mi sembravi un tipo a posto.-

-Reammon!- esclamò proprio in quel momento una voce esasperata. Il ragazzo interpellato si voltò con un sorrisetto timido, sperando di fare buona impressione, ma a giudicare dallo sguardo esasperato del professor Captatio non era riuscito a rabbonirlo. -Che cosa ci fai di nuovo qui?- gli domandò il preside, scuotendo la testa rassegnato. Reammon assunse un'espressione angelica. -Questa volta non l'ho fatto apposta, signore.-

-Nemmeno le milletrecentoventitré volte precedenti lo avevi fatto apposta!- commentò Captatio alzando le braccia al cielo. Non gli piaceva per niente il compito di punire gli studenti, ma in qualità di preside era obbligato a svolgerlo. I professori, esasperati dagli studenti più indisciplinati, glieli spedivano direttamente in presidenza.

-Ma questa volta è stato un incidente davvero!- protestò Reammon. -È che io stavo lanciando l'Incantesimo Rallegrante, non ho visto la professoressa O'Connel che passava proprio in quel momento... l'ho colpita... ok, forse la fattura era un po' troppo forte ma... comunque tra una ristata e l'altra è riuscita a spedirmi da lei.-

Captatio scosse il capo, disperato. Ogni due giorni qualche professore mandava Reammon in presidenza perché era talmente pasticcione che combinava guai anche solo passeggiando per i corridoi. Ma il preside non sapeva mai come punirlo: avrebbe dovuto metterlo in castigo perché era un imbranato cronico?

-E tu, Rafael, cos'hai combinato?- domandò allora Captatio, colto da un'idea improvvisa. Il Raloi assunse un'espressione di sfida. -Ho fatto a botte con O'Brian, signore, ma non me ne pento. Si meritava una punizione, quel pallone gonfiato.- rispose con astio. Captatio gli rivolse un sorriso bonario e gli mise una mano sulla spalla sinistra. -Hai un'importante lezione da imparare, Rafael Majestis: il dialogo è il miglior modo per far valere le proprie ragioni.- gli disse, fissandolo dritto negli occhi. -E sarà il qui presente Reammon ad insegnartelo.-

-Io, signore?- intervenne Reammon, sgranando gli occhi. Un tipetto impertinente come quel Rafael Majestis gli sembrava il peggior compagno per la sua sbadataggine: lo avrebbe mangiato vivo! Il professor Captatio gli rivolse un sorriso smagliante. -Mi sembra un'ottima scuola di vita, per tutti e due.- E con quelle parole li abbandonò al loro destino.

Rafael lanciò qualche occhiata di sufficienza all'altro, convinto che quel tipo strambo del quarto anno non fosse proprio adatto per fargli da tutor. Reammon si limitò ad un mezzo sorriso, leggermente a disagio. -Allora, ehm... Rafael, giusto?-

Il piccoletto annuì con una smorfia. Reammon batté le mani e si alzò con rinnovato entusiasmo dalla sedia su cui aveva aspettato il preside, in attesa della propria punizione. -Bene. So io come possiamo fare a convincerti che i Nagard non sono tutti da prendere a pugni.- esclamò allungando il braccio verso di lui per aiutarlo a mettersi in piedi. Rafael parve davvero dubbioso, ma afferrò la mano dell'altro, per accettare l'aiuto ma anche per stringere un'alleanza. -Ti farò conoscere un mio amico.- cominciò a dire Reammon, incamminandosi con il suo nuovo pupillo verso la biblioteca, dove era certo che avrebbero trovato Septimius. Rafael assunse un'aria perplessa. -Un tuo amico? Nagard?- indagò, certo che non potesse esserci alcun legame tra due ragazzi di case rivali. Reammon annuì soddisfatto. -Sì, Nagard.-

Sebbene l'amicizia tra gli Extraiures durasse ormai da quattro anni, ogni nuovo studente del Trinity non riusciva a capacitarsi di questo legame. Era impensabile che un Nagard e un Raloi fossero amici. Punto e fine della storia. Invece Reammon e Septimius continuavano a stupire tutti, imperterriti nella loro stravagante unione. In fin dei conti, erano due fuorilegge.

Solo allora Rafael realizzò con chi stava parlando: -Ma tu sei Aistreach, il Sanguinista!- esclamò scioccato di aver conosciuto qualcuno di particolarmente famoso all'interno della popolazione scolastica. Reammon storse il naso a quel nomignolo. -Preferirei non essere chiamato così, se non ti dispiace.- sibilò a denti stretti. Rafael si strinse nelle spalle. -MacDivus ti chiama così. Lui è una specie di divinità a scuola, sai? Le mie compagne gli sbavano dietro e visto che è la miglior punta della squadra di Quidditch, tutti i Raloi lo osannano.-

-Lo so, lo so!- lo interruppe Reammon, scocciato da quelle lodi intessute verso il suo eterno rivale. Non riusciva a sopportare quel tizio: se ne andava in giro a pavoneggiarsi per i corridoi, come se quel suo essere bravo a cavallo di una scopa lo autorizzasse a sentirsi superiore a tutti gli altri. E poi Reammon non lo trovava poi così affascinante: tanto per cominciare aveva il collo tozzo e sembrava un toro, più che un ragazzo.

Era ovvio che fosse il suo avversario: stesso anno, stessa casa ma carattere e passioni completamente opposte. Reammon riusciva a capire che, tra i due, quello popolare non poteva che essere MacDivus, visto che i suoi interessi non comprendevano scavare nel fango alla ricerca di preziosi reperti archeologici o passare le serate a leggere enormi volumi sulla storia sottratti alla biblioteca. Solo non riusciva a capacitarsi del perché lui continuasse a prenderlo di mira: insomma, aveva già la popolarità, cosa gli interessava di venire a rompere a lui? Che divertimento ci trovava nel tartassarlo e ridicolizzarlo? Gli altri lo ritenevano già abbastanza strambo senza che ci si mettesse anche lui.

Mentre i due Raloi si dirigevano verso la biblioteca, gli studenti cominciarono a riversarsi nei corridoi, visto che si era appena conclusa l'ultima lezione del pomeriggio. -Lo so quanto vi odiate.- asserì Rafael, con un sorrisetto furbo. -Andiamo, tu non lo vorresti tirare un bel cartone sul grugno di quel tipo?- gli domandò con foga, mimando nel contempo il gesto. Reammon si lasciò cullare dall'idea di prendere a pugni MacDivus per qualche secondo, poi però si riscosse. -Assolutamente no. Non mi abbasso a queste cose, io.- rispose con decisione. E la questione sarebbe anche potuta finire lì.

Senonché, proprio in quel momento, qualcuno urtò la spalla di Reammon. -Ehi, vuoi guardare dove vai?- gli gridò il tizio che aveva spintonato. Quella voce l'avrebbe riconosciuta tra mille: Augustus MacDivus. -Si parla del diavolo...- sibilò tra i denti, con un grugno rivolto al giocatore di Quidditch. Non appena MacDivus lo riconobbe, un sorriso derisorio gli comparve sulle labbra. -Oh, guarda. Chi poteva essere se non Aistreach che va in giro a ciondolare per i corridoi?- ridacchiò divertito. Alcuni studenti si fermarono incuriositi, convinti che si sarebbe svolta una scenetta divertente. -Almeno io ciondolo, non mi pavoneggio come te.- rispose a tono Reammon. -Oooh.- esclamò MacDivus, fingendosi spaventato. -Mi hai ferito.-

Qualcuno cominciò a ridacchiare: era sempre divertente vedere i due Raloi che battibeccavano, anche se solo un paio di volte si era arrivati ad un bel duello tra i due. Tra l'altro, la prima volta erano stati fermati subito dal professor Ferrus, mentre la seconda erano andati avanti per un bel pezzo, finché MacDivus non era finito in infermeria con del tentacoli che gli sbucavano dalla schiena, mentre Boenisolius aveva passato una settimana con delle orribili bolle sulle braccia.

-Guarda, ti sei fatto un nuovo amichetto.- continuò MacDivus, accennando con il capo a Rafael. -Che dirà il tuo fidanzatino Saiminiu?- lo schernì. Tutti i presenti trattennero il fiato; qualcuno si lasciò sfuggire un “ooh” sorpreso. MacDivus non era il primo né l'ultimo a malignare che l'amicizia di Boenisolius e Saiminiu nascondesse qualcosa di più... ma nessuno, ovviamente, aveva il coraggio di dirlo ad alta voce.

Reammon si voltò impercettibilmente verso Rafael: vide i suoi occhi azzurri brillare febbrili, mentre mimava il gesto di un cazzotto, battendo il pugno chiuso contro il palmo della mano sinistra. Poi si girò di nuovo verso MacDivus, con un sorriso perfido. -Oh, non gli dirò mai niente. Come non gli ho detto niente di noi due.- rispose ammiccando verso di lui. Il piccolo pubblico scoppiò a ridere, per quella grande uscita di scena: Boenisolius aveva ritorto contro MacDivus la sua stessa arma con spirito brillante. Reammon rivolse un sorriso di vittoria al suo avversario, poi si voltò mettendo una mano sulle spalle di Rafael e fece per andarsene. -Visto, il dialogo paga sempre.- gli sussurrò con aria complice.

-Ah, sì? E dimmi, lo stai portando nello stesso luogo segreto dove fai le cose segrete con il tuo amichetto Saiminiu?- lo aggredì MacDivus. Quello era un colpo basso: la partita era già conclusa, MacDivus avrebbe dovuto stare alle regole ed accettare la sconfitta. Inoltre, se prima si trattava solo di sciocchi battibecchi, quella era un'accusa molto grave.

Reammon si fermò di botto. Gli occhi di tutti erano puntanti su di lui, il fiato sospeso: avrebbe estratto la bacchetta? Avrebbe affrontato l'avversario in duello?

Augustus MacDivus se ne stava alle sue spalle, ghignando con aria soddisfatta, convinto di averlo steso, questa volta. Rafael sibilava al suo orecchio: -Colpiscilo, colpiscilo...-

E Reammon reagì d'istinto: non estrasse nemmeno la bacchetta; semplicemente si girò e tirò un pugno dritto sul grugno di MacDivus.

La folla esplose in un boato. Rafael esultò con un grido di soddisfazione. MacDivus indietreggiò di un passo, allibito, portandosi una mano al naso che colava sangue.

E Reammon si sentì invaso da una gioia selvaggia.

Ma proprio in quel momento apparve sulla scena un'indiavolata professoressa O'Connel. Si guardò intorno con aria furibonda, infine sbraitò: -Boenisolius! In presidenza!-



Eccoci qui con il nuovo capitolo! Spero che vi sia piaciuto! Credo comunque che sia il caso di fare qualche precisazione...

Ovviamente non c'è niente di nascosto sotto l'amicizia di Reammon e Septimius! Si tratta solo di voci maligne, causate dal fatto che sono due ragazzi sempre insieme, nonostante la differenza di casa, che ogni tanto spariscono nel nulla (perché si ritirano nella stanza segreta dove hanno fondato il loro covo)... insomma, è frutto di malelingue, niente di più!

Allora, vi è piaciuta la comparsa di Rafael Majestatis, futuro sacerdote del Trinity? Be', diciamo che da ragazzino era un tipetto piuttosto impertinente e vedendolo adesso non si potrebbe proprio pensare quale sia il suo destino. Ma mi piaceva introdurlo in questo modo e nei prossimi capitoli dedicherò un po' di spazio alla sua crescita (anche spirituale). Inoltre, per chi si ricordasse la sua prima apparizione ne “La setta degli Eletti” (qui il link del capitolo), potrà capire perché, nel vedere Laughlin e Edmund, il caro padre Rafael esclami proprio “Un Nagard e un Raloi”: i due ragazzi in questione a cui si riferisce sono proprio Septimius e Reammon! ;-)

Il finale di questo capitolo è nato un po' per caso: non sapevo come concludere la parte dedicata all'entrata in scena di Rafael e all'inizio della sua amicizia con gli Extraiures... finché non mi è venuto in mente questo scenario finale. Spero che vi sia piaciuto!

Ah, fate attenzione al personaggio di Teudilascius O'Brian (quello che si scazzotta con Rafael all'inizio), perché nel prossimo racconto comparirà suo figlio... e ne vedrete delle belle! ;-)

Il prossimo capitolo sarà... romantico (più o meno!). Alla prossima!

Beatrix

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Capitolo 12
*** Il patto ***


Il patto


Dicembre 1971, villa Saiminiu


-Il verbo videor ha tre usi: copulativo, personale e impersonale. L'uso copulativo prevede... ma, mi stai ascoltando?- domandò accigliato Septimius. La ragazzina a cui stava dando ripetizioni, alzò gli occhi dal libro di latino e bloccò sospesa a mezz'aria la mano che reggeva la matita. -Si può sapere che stai facendo? Non recupererai mai latino se ti metti a...- cominciò a dire Septimius, strappandole il libro da sotto il naso. Quella cercò di afferrarlo prima che l'altro potesse vedere cosa stesse scarabocchiando sulle pagine, ma non riuscì ad impedire che uno schifato Septimius ammirasse con orrore tutta una serie di modelli e schizzi di abiti da mago che riempivano ogni spazio bianco. -...disegnare vestiti?- domandò scandalizzato Septimius, sfogliando le pagine del manuale di latino. Il suo occhio fu rapito da una figurina che ricorreva spesso: un ragazzo biondo con il codino, al quale la dolce fanciulla aveva fatto indossare tutta una serie di capi, uno per ogni occasione, che avrebbero fatto invidia al più affermato stilista di moda. Sulla pagina della quinta declinazione, il figurino biondo era circondato da una seri di cuoricini in rosso e sotto, scritto con una calligrafia vezzosa, lampeggiava lampante il nome Eoin.

-Questo sarebbe Maleficium?- domandò allibito Septimius. -Non sono affari tuoi.- rispose la ragazzina, strappandogli da sotto il naso il libro di latino. Septimius era scioccato, con la bocca semiaperta come un troll dislessico. -Cioè... tu... passi il tuo tempo libero a disegnare vestiti per Maleficium?- chiese scuotendo il capo, incapace di credere a quella che gli pareva un'occupazione davvero stupida.

-Tu passi il tuo tempo libero a studiare latino!- rispose acidamente la ragazza, riponendo le sue cose in borsa. Septimius incrociò le braccia al petto, accigliato. -Se non ti dispiace, il latino è più utile che disegnare vestiti.- sibilò con astio. -E comunque non abbiamo finito la lezione di oggi.-

-Invece sì. Adesso devo proprio andare.- rispose la ragazza, alzandosi dal tavolo. Septimius aveva come l'impressione che si fosse offesa per la questione dei vestiti per Maleficium: forse non voleva che si sapesse in giro. Lei gli riservò un'occhiata di superiorità, lanciò dietro le spalle i capelli rossicci e si diresse a grandi passi verso la porta. Sull'uscio, per poco non si scontrò contro un ragazzo che aveva un buffo berretto di lana gialla in testa. -Ehi, Sep! Mi ha fatto entrare il tuo elfo Wolly.- esclamò Reammon, sedendosi al posto che la ragazza aveva appena lasciato libero, ma a giudicare dallo sguardo che gli riservò Septimius, non gli sembrava molto in vena di parlare. Ma gli amici servono a questo, no? A tirarti su il morale nei momenti peggiori. -Ehi, Sep, non sono bello e biondo ma non faccio poi così schifo!- ridacchiò, tirandogli un pugno sulla spalla.

-Non mi parlare di biondi.- sibilò invece Septimius, con evidente astio verso quella categoria. -Perché?-

-La O'Enar. A quanto pare le piace Eoin Maleficium.- spiegò l'amico, con una smorfia. Ma la faccia perplessa di Reammon, lo costrinse a continuare: -La ragazza che c'era qui prima, Daire O'Enar. Le piace Maleficium.-

-E tu pensavi che...?- sussurrò Reammon, ma non riuscì a concludere la frase. Septimius si strinse nelle spalle, rendendosi improvvisamente conto di quanto fosse stato idiota da parte sua pensare che Daire fosse interessata a lui. In fin dei conti, però, era stata lei a venirlo a cercare e a chiedergli di darle ripetizioni di latino durante le vacanze di Natale. Invece le piaceva quell'altro, e per di più lui e Maleficium erano anche amici. Bella fregatura. -Insomma, che cos'ha Maleficium più di me?- sbottò Septimius, sbuffando.

Reammon non sapeva dire cosa Maleficium avesse più di Septimius, ma certamente poteva dire cosa non avesse: un'appendice nasale dalle dimensioni disumane, un paio di spessi occhiali dal bordo blu, una smania folle per il latino e un amico non tanto normale, che certo non accresceva la sua popolarità. Erano un paio d'anni che Reammon non vedeva più Maleficium, da quando lui aveva finito il Trinity, ma si ricordava che nell'ultimo periodo aveva cominciato a portare i capelli biondi raccolti in un morbido codino dietro la nuca: forse non era un adone, ma non si poteva negare che avesse un certo fascino, con i suoi occhi azzurri, l'aggraziato nasino a punta e quell'aura di nobiltà che gli aleggiava intorno.

-È per via del biondo, mi sa.- rispose saggiamente Reammon. Septimius si imbronciò ancora di più. Fra meno di un mese avrebbe compiuto diciassette anni; sarebbe diventato maggiorenne ed era giunto il momento di fare un bilancio della sua vita: sebbene non potesse affatto lamentarsi dei suoi risultati scolastici e intellettuali, non poteva dire di essere stato altrettanto fortunato sul fronte amoroso. Praticamente, non aveva mai avuto una ragazza. E l'unica carina che sembrava interessata a lui, in realtà era invaghita del suo amico Maleficium.

Reammon, spiando di sottecchi il broncio di Septimius, capì che era proprio il caso di cambiare argomento. Si levò il berretto dal capo (giallo, con due treccine pendenti ai lati e un orribile pon-pon color senape) ed estrasse di tasca una lettera. -Senti qui che cosa mi ha scritto Rafael.- esclamò con un entusiasmo quasi eccessivo, mettendosi a sedere sulla scrivania dello studio. -Si è fatto regalare un libro di teologia per Natale.-

Quella notizia sconcertante riuscì a strappare Septimius dai suoi cupi pensieri. -Lui? Un libro di teologia?- domandò incredulo. -Già... dice che i suoi genitori sono credenti, di una fede genuina e semplice e lui vuole vederci chiaro in questa storia di Dio. Senti qui che scrive.- rispose Reammon, cercando il punto esatto della lettera. -Questo mondo in cui viviamo, così terribile e così perfetto, l'avrà creato qualcuno o no? Esiste davvero un Dio che ci ama, come dice mia mamma? Mi dà sui nervi non capire le cose.-

-Sai, lo preferivo quando prendeva a pugni tuo cugino.- commentò Septimius, sbirciando la lunga lettera che aveva scritto Rafael. Reammon ridacchiò. -Temo che sia mia la colpa del suo cambiamento. Stai a sentire: devo ringraziarti, perché sei stato il primo a dirmi non di tranquillizzarmi, ma di impiegare la mia esplosiva energia per qualcosa di positivo. Ora voglio impegnarmi a capire il modo e forse un giorno troverò la mia strada.- concluse Reammon, ripiegando con cura la lettera e ficcandosela in tasca. Aveva scoperto da poco come applicare l'utilissimo Incantesimo Estensivo Irriconoscibile alla tasca dei suoi calzoncini irlandesi: questo gli permetteva di ficcarci dentro una quantità incredibile di cose. Certo, poi, per ritrovarle...

Septimius stava rimuginando sui libri di teologia di Rafael, quando vide sua sorella Priscilla che faceva capolino da dietro la porta dello studio. Per un attimo rimase congelato, poi si voltò verso il suo amico e notò con sollievo che era intento a frugare nella sua tasca e non si era accorto di Priscilla. Septimius allora indirizzò dei gesti concitati alla sorella, perché sparisse dalla loro vista, terrorizzato dall'ipotesi che Reammon potesse scoprire il segreto che con tanta fatica era stato custodito dalla sua famiglia per quasi diciassette anni. Priscilla gli rivolse una smorfia ma, invece di obbedire, scrutò con insistenza Reammon. -Vai via.- scandirono le labbra di Septimius, anche se dalla sua bocca non uscì alcun suono. Sua sorella gli rivolse una smorfia e fece per entrare nella stanza. Non che le interessasse qualcosa di quel ragazzetto seduto sulla scrivania, ma trovava particolarmente divertente stuzzicare il suo fratello perfettino. In più, avrebbe disobbedito ai suoi genitori e questo era sempre un punto a favore.

-Mon! Devi andartene!- esclamò allora Septimius, alzandosi dalla sedia con una velocità impressionante. -Ma sono appena arrivato.- protestò il ragazzo, stringendosi nelle spalle. -Lo so, ma tra poco saranno qui i miei.- rispose Septimius, spingendo letteralmente il suo amico verso la porta di servizio. -Oh, fantastico, così li posso salutare.- replicò invece Reammon, con un gran sorriso. Con la coda dell'occhio, Septimius vide che sua sorella era entrata con un sorriso beffardo stampato in faccia nella stessa stanza che i due amici stavano per lasciare. -No!- esclamò di getto. -Verrò io a trovarti, però adesso vai!-

Reammon era abituato alle stranezze del suo inseparabile compagno, quindi non si scandalizzò troppo di essere stato cacciato fuori di casa. -Oh, be'.- fu la sua unica reazione. Stringendosi nelle spalle, si ficcò in testa il suo berretto giallo e si diresse verso il metrombino che lo avrebbe riportato a Wexford.

Ad aspettarlo davanti al metrombino ritrovò la ragazza contro la quale si era quasi schiantato sull'uscio dello studio di Septimius. Indossava un grazioso cappottino di fattura sartoriale e una morbida sciarpa di lana rossa; d'un tratto, con il suo berretto giallo in testa, Reammon si sentì estremamente inadeguato. -Tu sei il Sanguinista, vero?- domandò la ragazzina, con sguardo penetrante. Reammon accennò un mezzo sorriso. Non sapeva perché, ma quella tipa con i suoi abitini curati e i capelli perfetti lo inquietava non poco. -Senti, ho da proporti un patto.-

-Un patto?- le fece eco Reammon, leggermente preoccupato. Lei gli rivolse un sorriso d'intesa. -Sì, un patto. Se tu convinci il tuo amico Saiminiu a farmi conoscere Eoin Maleficium, io ti rimedio un appuntamento con la mia amica Daireen Cumhacht.- gli propose in un tono complice. -Daireen Cumhacht?- ripeté a pappagallo Reammon. Non ci stava facendo una gran figura, ma era sinceramente sconcertato da quella situazione.

-Sì, Daireen, hai presente? Quella morettina, con gli occhi scuri. Lei ti trova... carino. Dice che hai il fascino dell'imbranato.- spiegò la ragazza storcendo il naso senza evidentemente condividere il giudizio dell'amica su Reammon. Dal canto suo, Reammon sapeva benissimo chi fosse la Cumhacht: era conosciuta nella popolazione maschile come la ragazza con il davanzale più prosperoso di tutta la scuola; primato non certo invidiabile, ma che aveva contribuito a renderla famosa anche a sua insaputa. -Ma perché ti interessa Maleficium?- indagò con cautela. La ragazza si aggiustò con grazia una ciocca di capelli che le ricadeva davanti agli occhi, poi rispose: -Ho quindici anni: presto o tardi i miei genitori cominceranno a parlare di fidanzamento e io non voglio ritrovarmi a sposare un vecchio bacucco o un brutto ciospo* solo perché è nobile. A me piace Eoin. È così... carino, aggraziato e... anche lui è nobile. Se io comincio a conoscerlo e poi a frequentarlo, magari i miei genitori si accorgeranno che è il miglior partito per me.-

Reammon trovava assolutamente assurde tutte quelle questioni della nobiltà irlandese: tutti lì ad incrociarsi tra di loro per non infettare il sangue celta. Mah... di una cosa era sicuro: se mai lui si fosse sposato, se ne sarebbe altamente infischiato di quelle questioni sul sangue puro.

-E per ottenere un incontro con Maleficium, saresti disposta a scendere a patti con me?- chiese Reammon, fissandola dritta negli occhi. Lei fece un sorrisetto angelico. -Presentarsi a casa di uno sconosciuto per invitarlo a cena non sono cose che una brava signorina dovrebbe fare. Ma se Saiminiu invitasse entrambi a casa sua per un tè...- propose in tono cospiratorio. Poi la sua espressione si fece improvvisamente seria. Si avvicinò di un passo a Reammon e lo guardò dritto in volto. -Senti, riuscirò a ottenere quello che voglio, anche senza il tuo aiuto. Ma se mi aiuti facilitiamo la questione e ci guadagniamo tutti.-

Tranne Sep.” pensò Reammon. Ma, per una volta, decise che era il caso di essere egoisti: santo folletto, avrebbe rimediato un appuntamento con la Cumhacht!

-Va bene.- rispose infine, tendendo la sua mano destra verso di lei. La ragazzina sorrise soddisfatta e gliela strinse, poi fece per andarsene. Prima di buttarsi nel metrombino, si voltò un'ultima volta verso di lui. -È stato un piacere fare affari con te, Boenisolius. Sai, gli O'Enar sono sempre stati legati alla casa dei Raloi, ma io sono finita tra i Nagard. Chissà perché.- e con quelle parole si gettò nel buco gridando la sua destinazione.

Fantastico, ora restava solo da convincere Septimius.


-No.- esclamò Septimius in tono categorico. -Ma dai...- lo supplicò Reammon, usando le sue migliori arti persuasive. -No, assolutamente no e in ogni modo no!- replicò l'amico, incrociando le braccia al petto. -Ma...- provò a dire Reammon, che fu subito interrotto da Septimius. -Ma un corno! Scusa, perché dovrei farlo? Io che cosa ci guadagno?-

-La mia incondizionata stima!- rispose prontamente Reammon, con un sorriso incoraggiante. -Ah, be', con quella ci mangio.- replicò Septimius in tono sarcastico. Reammon allora decise di usare la sua carta vincente: si inginocchiò davanti all'amico e si protese verso di lui come si farebbe con una statua della Madonna. -Avanti, Sep, non fare l'egoista. Con il tuo aiuto puoi concedermi un appuntamento con la ragazza più bella della scuola. E anche se decidi di non aiutarmi, la O'Enar troverà il modo di accalappiarsi Maleficium mentre io resterò a bocca asciutta. Non puoi essere così crudele con me!-

Septimius sbuffò. Il suo amico aveva perfettamente ragione, ma una parte di lui avrebbe voluto ugualmente lanciargli una bella fattura per deturpare quel fastidioso visino angelico. Non aveva mai notato come Reammon fosse decisamente più carino di lui e ora sentiva un spiacevole senso di gelosia nei suoi confronti. Ma, alla fine, era suo amico e non poteva essere così egoista nei suoi confronti. Scosse la testa rassegnato e poi sospirò un: -Va bene.-


Sua madre gli aveva impedito di andare all'appuntamento “vestito da esploratore pazzo” e lo aveva costretto ad indossare un completino elegante e un mantello scuro. Quando suonò alla porta di casa, sentì provenire dall'interno dei passi frettolosi che si avvicinavano e un parlottare veloce tra due persone. Quando si spalancò la porta, Reammon fece un sorriso a trentadue denti e spinse in avanti il mazzo di fiori che aveva nascosto dietro la schiena. Ma la persona apparsa sull'uscio non era Daireen; era un giovanotto con le spalle larghe, il volto incavato, capelli scuri e mossi e un curato pizzetto nero. I suoi occhi blu erano ridotti a due fessure.

-Ehm, tu non sei Daireen.- sussurrò Reammon, con un mezzo sorrisetto. -No.- rispose il tizio, incrociando le braccia al petto. -Non è che devo uscire con te, vero?- scherzò Reammon, nel tentativo di spezzare l'atmosfera ghiacciata che si era creata. -No. Io sono Oengus, il fratello di Daireen.- replicò il ragazzotto. Poi fece un passo verso di lui. Reammon era abbastanza alto per la sua età, ma Oengus lo superava di almeno quindici centimetri. -Ti concedo di uscire con mia sorella, ma giuro che se la fai soffrire io ti ammazzo.-

Era una minaccia che avrebbe avuto il coraggio di portare a termine. Reammon indietreggiò di un passo e alzò le mani in segno di innocenza. -Va bene. Recepito il messaggio.-

-Lo spero bene.- replicò il ragazzotto, facendo un passo indietro. -Oengus, smettila di spaventare i miei pretendenti.- esclamò una voce femminile alle sue spalle. Daireen diede uno spintone al fratello e poi rivolse un sorriso smagliante a Reammon. -Ehm, ciao.- farfugliò il ragazzo, porgendole il mazzo di fiori. Lei lo prese e lo annusò. -Grazie, sono bellissimi.- gli rispose, lanciandogli uno sguardo con il quale pareva volerselo sbranare in un sol boccone. Osservando i suoi occhi neri e intensi che lo squadravano, Reammon ebbe come l'impressione di essere una mosca finita nella tela di un ragno. E Daireen era il ragno.



* “ciospo” non sono sicura che sia una parola italiana... però rendeva bene l'idea! Con essa si definisce un tipo bruttino e rospetto.


Vi avevo promesso che sarebbe stato un capitolo romantico, no? Va be', un po' sui generis ma questa è la cosa più romantica che potessi scrivere, con Reammon come protagonista! Comunque, alcune precisazioni:

  • Daire O'Enar è ovviamente la futura signora Maleficium! Forse non l'avevo detto da nessuna parte, ma ho sempre immaginato che di lavoro disegnasse abiti per una casa di moda, passione che esercitava fin da ragazza (il suo cappottino se l'è disegnato lei!). Il suo matrimonio con Eoin, comunque, non è un matrimonio d'interesse: unitamente al fatto che sono nobili entrambi, loro due si amano davvero, un po' come Lucius e Narcissa.

  • La prima tappa del cambiamento di Rafael (il comprare libri di teologia) mi sarebbe piaciuta inserirla non tramite lettera ma con lui presente, ma per tutta una serie di incompatibilità di date, ho dovuto ambientare la scena fuori dal Trinity, non a scuola come originariamente avevo pensato. Ergo, Rafael non poteva essere presente di persona. Ci sarà comunque nel prossimo capitolo e anche in uno degli ultimi.

  • Né Reammon né Eoin sono dei fighi da paura, ma entrambi hanno il loro fascino: il secondo è un ragazzo a modo, elegante e gentile, il primo (berretto giallo a parte!) è fuori come un balcone ma è tanto tenero e impacciato. Entrambi poi hanno gli occhi chiari (Eoin azzurri e Reammon verdi). Insomma, non sono mica da scartare! Il povero Septimius, invece, è proprio bruttino!

  • I fratelli Cumhacht sono ovviamente loro: la fidanzata gelosa che verrà scaricata da Reammon quando conoscerà Mary e il futuro professore di Trasfigurazione, Oengus Cumhacht! Entrambi sono Nagard, ma Oengus ha finito la scuola da un paio di anni, mentre Daireen ha la stessa età di Daire O'Enar (un anno in meno di Mon e Sep). Spero che vi sia piaciuta la loro entrata in scena.

Mi ero poi dimenticata dei aggiungere l'immagine che avevo preparato per questo capitolo (è per questo motivo che ho dovuto sistemare il tutto e ho aggiornato così tardi!). Qui il link: si tratta del libro di Daire con lo schizzo del vestito per Eoin. Mi sono divertita un sacco a farlo! ps. ovviamente la spiegazione della V declinazione è in inglese!

Grazie di avermi sopportato fin qui. Alla prossima!

Beatrix

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Capitolo 13
*** Gelosia furibonda ***


Gelosia furibonda


Aprile 1973, Trinity College


Reammon si fiondò in biblioteca, trafelato, manco fosse stato inseguito da un drago indemoniato. Controllando che nessuno lo seguisse, si lasciò cadere sulla sedia al fianco di Refael. -Beannaithe Naomh Padraig*! Che ti è successo?- gli domandò, mettendo da parte il libro che stava studiando. Reammon si guardò intorno come se temesse di veder spuntare da un momento all'altro una benshee, poi sussurrò all'orecchio del ragazzino: -Sono scappato da Daireen.-

Rafael scoppiò a ridere tanto sonoramente da suscitare un paio di “sssh” stizziti dai compagni e beccarsi un rimprovero dal bibliotecario. -È diventata estremamente gelosa.- si giustificò Reammon, incrociando le braccia al petto. -Mi pedina e continua a lamentarsi che passo poco tempo con lei, ma non l'ha ancora capito che devo prepararmi per la D.I.M.I.S.S.I.O.?- sibilò sbuffando e strabuzzando gli occhi.

Mancavano ormai pochi mesi all'esame finale e, sebbene Reammon non fosse mai stato particolarmente studioso, in quel periodo si era messo sotto con il ripasso, più che altro costretto da Septimius. -È l'esame da cui dipenderà il voto con cui ti presenterai alla comunità magica. Vuoi prendere una Q?- gli aveva detto un giorno, mettendogli sotto il naso un foglio di pergamena con un dettagliato programma di studio. -Cosa significano PB, PC e PF?- aveva chiesto Reammon, indicando con il dito le sigle disseminate sulla tabella. -PB sta per “pausa bagno”, PC per “pausa cibo” e PF per “pausa fidanzata”.- aveva spiegato Septimius, evidentemente soddisfatto del suo piano. -E PR non l'hai previsto?- aveva domandato sarcastico Reammon. -PR?- gli aveva fatto eco Septimius, senza capire. -Sì, “pausa respiro”!-

Da allora Septimius si era irrimediabilmente offeso e si era rifiutato di aiutarlo ancora con lo studio per l'esame. Reammon se ne era fatto una ragione senza preoccuparsene troppo.

Certo, il fatto che Daireen fosse gelosa fino alla follia non aiutava Reammon a concentrarsi sul ripasso, visto che lei non avrebbe voluto lasciarlo solo neanche dieci minuti. Era convinta che una quantità abnorme di ragazze con gli ormoni impazziti si sarebbe riversata addosso a Reammon, non appena lei gli avesse voltato le spalle. Reammon, dal canto suo, aveva sempre avuto un'alta considerazione di se stesso, ma dubitava fortemente che ci fosse la fila per lui. Siamo oggettivi, non sono poi 'sto gran figone.

Rafael accarezzò pensieroso la copertina del libro che aveva preso in prestito dalla biblioteca (Introduzione alle questioni fondamentali di teologia speculativa) e contemplò per qualche secondo la scritta in lettere dorate del titolo. -Sai, credo che per la tua sanità mentale sia meglio liberarti di Daireen.- propose al suo amico. Reammon sgranò gli occhi come se gli fosse stato proposto un affare all'interno della malavita organizzata. -No, io non voglio liberarmi di lei. Io... le voglio bene.- rispose in un sussurro. Certo, lui voleva bene a Daireen, ma c'era un che di allettante nella proposta di Rafael: ritrovare la sua libertà perduta, non preoccuparsi più di dove metteva piede, delle persone a cui rivolgeva la parola. Insomma, ritornare padrone della propria vita.

-Di chi vuoi sbarazzarti? Spero non di me.- sussurrò allegro Septimius, prendendo posto di fronte a loro. Poggiò sul tavolo una pila di libri che aveva preso dagli scaffali della biblioteca: la sua euforia doveva essere data dall'entusiasmo di leggerli tutti. Era davvero l'unica persona sulla faccia della terra che trovasse meraviglioso passare le sue giornate a studiare tonnellate di inutile materiale scolastico.

-No, di Daireen.- rispose prontamente Rafael. -Sarebbe anche ora!- sbottò Septimius, soddisfatto che l'amico avesse deciso di levarsi quel peso dallo stomaco. Reammon incrociò le braccia al petto. -Io non mi voglio sbarazzare di nessuno, tanto meno della mia ragazza.- rispose accigliato. -Be', forse di suo fratello mi sbarazzerei volentieri.- aggiunse poco dopo, meditando sul modo più doloroso di far sparire Oengus Cumhacht dalla faccia della terra. Era veramente apprensivo e geloso nei confronti della sorella: una volta, addirittura, quando lui e Daireen avevano litigato, gli aveva mandato una lettera minatoria intimandogli di riappacificarsi immediatamente con la sorella se non voleva ritrovarsi rinchiuso in un cappotto di legno a contare i vermi che uscivano dalla sua scatola cranica. Era stato più che esplicito.

-Che ti ha fatto il fratello di Daireen?- domandò curioso Rafael, estraendo dalla borsa un panino alla marmellata di fragole e addentandolo di nascosto con voracità, nonostante l'espresso divieto di consumare cibi o bevande in biblioteca. -È iperprotettivo nei confronti di Daireen.- spiegò Reammon, sentendo la pancia che cominciava a brontolare: doveva essere ora di pranzo, o forse era solo una reazione alla vista del succulento spuntino di Rafael. -Lo sarei anche io per mia sorella.- rivelò poco dopo Septimius. -Sep, tu non hai una sorella.- gli fece notare Reammon, in tono pratico. Septimius fece un sorrisetto a mo' di scusa, come se fosse stato beccato a rubare la marmellata dal panino di Rafael. -Be'... se ne avessi una, farei lo stesso.-

-Credo che dovreste venire a più miti consigli.- sussurrò una voce poco lontana da loro. I tre ragazzi si voltarono in simultanea verso chi aveva parlato: era un ragazzino con la divisa rossa dei Nagard e un volto appuntito. I capelli scuri erano pettinati di lato in modo così perfetto da risultare quasi fastidioso e un paio di leggeri occhiali di corno gli incorniciavano gli occhi verdi. Teudilascius O'Brian, ultimo erede maschio della famiglia.

-Non sono sicuro di volere i tuoi miti consigli, sai?- lo rimbeccò Rafael. Tra i due non correva affatto buon sangue, da quando, al primo anno, avevano fatto a botte (e Rafael aveva avuto decisamente la meglio sul nobile rivale). Teudilascius ignorò il commento malevolo dell'altro e si alzò dal tavolo dove stava studiando per avvicinarsi a loro. -Non è permesso mangiare in biblioteca.- disse, accennando con il capo al panino con la marmellata. Ma tutti sapevano che non era venuto lì per rimproverare la loro scarsa propensione ad attenersi alle regole. Fissò Reammon dritto negli occhi, quegli stessi occhi verdi che aveva anche lui, quasi a simbolo della loro appartenenza alla stessa famiglia. Poi cominciò: -Boenisolius, puoi anche negarlo, ma dentro di te scorre il sangue degli O'Brian quindi quello che dovresti fare è lasciar perdere ragazzine appiccicose dalla dubbia discendenza nobiliare e trovarti una fanciulla di buona famiglia che ti possa sposare. Come ho fatto io.-

Ci furono una manciata di secondi di silenzio. Poi Rafael scoppiò a ridere. -Di', O'Brian, il tuo cervello ha fatto arrocco** con quello di un troll o sei così scemo di tuo?- lo punzecchiò con un sorrisetto divertito. Teudilascius preferì ignorare la provocazione. -Sono serissimo, Boenisolus. Dovresti pensare al tuo futuro.- rincarò la dose. Reammon lanciò uno sguardo perplesso a Septimius, indeciso se ridere in faccia a Teudilascius o compatirlo. Gli occhi si Septimius brillavano di una risata repressa.

Il ragazzino, inconsapevole dell'ilarità che aveva causato, prese posto a fianco di Septimius, proprio di fronte a suo cugino. -Senti, fai come me. Scegli con i tuoi genitori una fanciulla di nobili origini e vedi di organizzare il fidanzamento. Io ho concluso il tutto proprio durante le ultime vacanze di Pasqua, dando una festa per l'impegno preso tra me e la mia futura sposa.-

Reammon scosse la testa: Teudilascius parlava del matrimonio come una sorta di affare commerciale da cui si potessero trarre tutta una serie di benefici. E aveva solo quattordici anni! Reammon non sapeva quando si sarebbe sposato, ma di una cosa era certo: l'avrebbe fatto per amore, non per tutte quelle stupidate sul sangue puro.

-Ehi!- esclamò Septimius d'un tratto, strappandolo dai suoi pensieri. -Io lo so con chi ti sei fidanzato: Aretè MacGaril.-

Teudilascius annuì. -Sì, è la sorella del marito di mia sorella. Un ottimo partito.- spiegò, anche se quegli intricati rami di parentela avevano confuso la mente dei suoi ascoltatori. Solo Septimius sembrava trovarsi a suo agio con quelle questioni di alberi genealogici e famiglie. -È mia cugina dritta!- aggiunse infatti poco dopo, in tono allegro. -Suo padre, Belisar MacGaril***, è mio zio, fratello di mia mamma.-

-Fantastico, allora diventeremo parenti acquisiti.- commentò sarcastico Reammon, cominciando a pensare che forse era meglio mettersi a studiare per gli esami, invece di stare lì a sentire tutte quelle idiozie sui rami di parentela dei nobili. -Ehi, già!- esclamò invece Septimius, battendogli una mano sulla spalla con aria entusiasta. -Aretè è qui al Tinity, vero, al secondo anno?- continuò poi rivolto a Teudilascius, il quale annuì come segno di assenso. -Ehi, potrei presentarvela!- aggiunse Septimius, battendo le mani estasiato. Reammon e Rafael realizzarono che stava parlando con loro due solo dopo una manciata di secondi, visto che entrambi avevano smesso da un pezzo di ascoltare lo sproloquio dei due nobili. E poi insieme esclamarono, uno “Oh, sì!” l'altro “Oh, no!”.

-È carina?- si informò immediatamente Rafael. Septimius fece per rispondere, ma Teudilascius lo prevenne: -Majestatis, è la mia promessa sposa!- La protesta acquietò l'animo di Rafael. -Chiedevo solo.- si lagnò sommessamente. Nel frattempo, Reammon si era preso la testa tra le mani. -Non credo che Daireen apprezzerebbe.- sussurrò in tono languido.


Daireen non apprezzò per niente. In realtà Reammon non vide Aretè nemmeno con il telescopio di Astronomia, ma a Daireen bastò sapere, tramite l'amica della sua amica la quale conosceva un amico di O'Brian, che quell'inutile di Saiminiu aveva proposto al suo adorato Mon di conoscere un'altra ragazza per andare su tutte le furie.

Nessuno seppe mai che cosa aggredì Aretè MacGaril quella sera in corridoio, sta di fatto che la poverina rimase in infermeria per una settimana intera con delle orribili bolle su tutta la faccia, senza nemmeno sapere il perché di quella punizione.

Nessuno seppe mai chi fosse il responsabile, ma Reammon aveva un terribile presentimento. -Daireen, non è che tu c'entri qualcosa con l'aggressione ad Aretè, vero?- le domando un pomeriggio Reammon, mentre stavano in riva al lago a godere di quel poco di sole che era loro concesso dal grigio cielo irlandese. “Ti prego, fa che smentisca il sospetto.” pensò disperato Reammon. Ma Daireen non ebbe nemmeno il buon gusto di fingersi innocente. “È stata davvero lei!” si ritrovò a pensare il ragazzo, fissando l'espressione quasi crudele che Daireen aveva riservato al povero insetto che aveva osato posarsi sulla sua gonna, prima di giustiziarlo.

Reammon si alzò di scatto dall'erba, inorridito. -Senti, Daireen. Così non va. Vedi di darti una calmata e quando sarai più ragionevole, forse potremmo continuare ad uscire insieme.- sentenziò con un tono deciso che usava di rado ma era iscritto nel suo stesso patrimonio genetico. Daireen si sentì come mancare l'aria quando lo vide voltarle le spalle per andarsene. -Reammon!- gli gridò dietro, allungando una mano verso di lui. Non poteva andare via, lasciarla, abbandonarla! Lei aveva bisogno di lui, era il suo amore, suo e di nessun'altra!

E Daireen una calmata se la diede. Almeno per un po'.



*Esclamazione irlandese tipica di Rafael, significa “benedetto San Patrizio”. Si pronuncia, più o meno bannahe nuu Poudrag.

**L'arrocco è una mossa degli scacchi, che consiste nel muovere il re di due caselle a destra o a sinistra in direzione di una delle due torri e successivamente muovere la torre (verso la quale il re si è mosso) nella casella accanto a quella occupata dal re. Quindi, dove prima ci stava il re, ora si trova la torre: è una sorta di scambio.

***Belisar MacGaril è già comparso, insieme al figlio Giustinianus, nominati da Septimius e Priscilla nel 3° capitolo del racconto. Aretè è la secondogenita dei MacGaril.


Ecco qui il nuovo capitolo! Lo so che dovrei aggiornare la mattina, ma in questo periodo sono sempre presa con gli esami, quindi sarò un po' meno regolare. Cercherò di mantenere sempre l'aggiornamento il martedì, ma non garantisco nulla. Comunque, siamo quasi alla fine: mancano 5 capitoli più l'epilogo. Quindi, se tutto va bene, verso fine giugno comincerò a pubblicare il quarto racconto della saga, “Il Torneo Trecolonie”. Vi farò sapere la data precisa più avanti.

Grazie a tutti, alla prossima,

Beatrix

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Capitolo 14
*** Per sempre ***


Nota importante: per chi non avesse letto gli altri racconti del ciclo del Trinity, consiglio vivamente la lettura di questo breve riassunto per capire meglio il prossimo capitolo (non particolarmente ricco di pathos ma abbastanza necessario).
“Priscilla, nei suoi primi anni a Hogwarts, diventa amica di Mary Weasley, una ragazzina solare della sua età, ma crescendo, tra le due nascono contrasti insuperabili: Mary diventa una bella ragazza, una campionessa di Quidditch, osannata dalla sua squadra, e questo la rende un po' piena di sé. Priscilla, al contrario, resta l'amica storpia, ogni anno sempre più incupita dalla difficile situazione che vive a casa. Si allontano sempre di più, finché non cominciano ad odiarsi. Priscilla allora si avvicina al gruppo di Serpeverde composto da Malfoy, sorelle Black & co. Tra le tante angherie verso i nati babbani compiute dalla banda, Reg Weasley, fratellino di Mary, resta vittima di un incidente. L'incantesimo che lo manda contro il Platano Picchiatore (e che indirettamente lo uccide) è lanciato proprio da Priscilla. La ragazza, spaventata, scappa al Trinity da suo fratello, dove sarà poi scoperta da Reammon e successivamente raggiunta da Mary. Septimius scopre così che la sorella è un'assassina e, dopo mille indecisioni, acconsente di andare tutti dal preside. Priscilla accoglie la decisione del fratello come un tradimento e si scaglia contro Reammon, che nel frattempo ha preso le difese di Mary. Tra i due vi è un feroce duello, finché... ”




Per sempre

Maggio 1973, Trinity college

Fu uno scoppio, poi fumo.
Poi più nulla.
Septimius si gettò a terra, in preda al panico. Nel punto esatto in cui fino ad un secondo prima si trovava sua sorella Priscilla, non c'era altro che terreno bruciato. Alle sue spalle, Reammon aveva ancora la bacchetta sollevata.
«L'hai uccisa» sussurrò Septimius, con gli occhi fissi a terra.
Reammon abbassò lentamente la bacchetta e indietreggiò di un passo. «No» fu l'unica cosa che riuscì a dire. Era tutto cominciato quando era apparsa quell'inquietante ragazza storpia, Priscilla, che si era spacciata per la sorella del suo amico Sep. Era tutto così assurdo! Perché mai Septimius avrebbe dovuto tenergli nascosto il fatto di avere una gemella per tutti quegli anni? E perché lei indossava la divisa scolastica di Hogwarts?
Ma la situazione era peggiorata quando si era unita al terzetto un'altra ragazza, con dei lunghi capelli rossi, che accusava Priscilla di aver ucciso suo fratello. Sembrava di essere finiti dentro un incubo. Era stato lui a mettere subito le cose in chiaro: l'idea più logica era andare tutti dal professor Captatio. La situazione era parecchio complicata, ma il preside aveva la magica capacità di trovare sempre una soluzione ai problemi.
Ma poi tutto era precipitato in modo così drastico, in una frazione di secondo. Priscilla sembrava indemoniata, come un animale ferito: urlava che suo fratello l'aveva tradita, che non ci sarebbe andata ad Azkaban.
Reammon non sapeva perché, ma aveva istintivamente alzato la bacchetta per difendere la ragazza dai capelli rossi. Non riusciva a capire che cosa ci fosse di vero in quella storia, ma c'era qualcosa di dolorosamente reale: lo strazio nei suoi occhi nocciola.
Inoltre Priscilla aveva ammesso di aver ucciso un ragazzino, anche se spergiurava che si era trattato di un incidente.
Reammon non aveva mai duellato con nessuno prima, ad esclusione di quando si lanciava qualche stupido incantesimo con Augustus MacDivus. Quella volta, invece, era stato diverso: Priscilla non si risparmiava i colpi, mirava alla sua vita e usava maledizioni che Reammon nemmeno si immaginava. E poi era successo.
Reammon aveva lanciato un incantesimo che aveva colpito Priscilla in pieno petto, c'era stato uno scoppio, del fumo e poi della ragazza non era restato null'altro che della cenere in terra. Eppure Reammon aveva usato solo uno schiantesimo, non poteva aver provocato tutto quel caos né aver... ucciso qualcuno.
E se invece, nella foga del duello, avesse involontariamente lanciato un incantesimo più forte? Senza rendersene conto?
Ma no, era impossibile. Lui nemmeno conosceva degli incantesimi in grado di uccidere. Solo il pensiero lo fece rabbrividire. Non avrebbe mai potuto immaginare di stroncare la vita ad una persona, essere la causa di quel corpo morto stramazzato a terra, di aver tolto per sempre la scintilla di vita da quegli occhi.
«Hai ucciso mia sorella» disse ancora Septimius, raccogliendo nel pugno una manciata di terra bruciata.
Reammon scosse la testa. «No, io no» sussurrò con un filo di voce.
«L'hai uccisa!» gli urlò contro Septimius, lanciandogli addosso la terra. «L'HAI UCCISA!»
«No! Non è possibile... io ho lanciato solo uno schiantesimo!» protestò Reammon, cercando di scacciare l'opprimente senso di colpa che gli stava calando sullo stomaco. Non poteva essere vero. Forse Priscilla era riuscita a scappare prima di essere colpita... sì, doveva per forza essere andata così. Reammon non avrebbe potuto passare il resto della sua vita con quel peso sulla coscienza.
C'era solo una persona che avrebbe potuto risolvere quella faccenda: il professor Captatio.
«Sep, è meglio se andiamo dal preside» propose Reammon, in tono ragionevole. Ormai non avevano più nulla da fare lì.
«No!» gridò Septimius, alzandosi dalla posizione rannicchiata e spingendo via Reammon.
Il suo amico era cresciuto in quegli anni, mentre lui era rimasto mingherlino e debole, per cui non riuscì a fare altro che sbilanciarlo un poco, anche se avrebbe voluto farlo cadere a terra.
«Non esiste più nessun Sep, nessun Mon, nessun Extraiures. Con me hai chiuso!» gli urlò contro con foga. Non poteva duellare con lui per vendicare sua sorella, perché qualcosa gli impediva di alzare la bacchetta contro quello che era stato il suo migliore amico, ma non voleva mai più rivederlo. «Per sempre».
Quelle parole furono come un pugno nello stomaco per Reammon. Indietreggiò e la sua memoria lo riportò indietro negli anni.
Aveva appena finito di montare la seconda amaca, davanti alla grossa bifora che illuminava la piccola stanzetta segreta che Septimius aveva scoperto per caso. Il covo.
Si voltò e vide il suo amico che stava appendendo alla parete un poster di un buffo mago con un'imbarazzante gala bianca intorno al collo. «Ehi, Sep, quello chi è?» gli domandò, mentre il mago se ne stava tutto impettito nella sua cornice.
«Questo è Bernardus De Gui, il maggiore oratore di tutti i tempi!» annunciò Septimius con entusiasmo. Poi si voltò verso Reammon con un sorriso timido. «Ehi, Mon... noi saremo amici per sempre, vero?» gli chiese.
Reammon riconobbe una sfumatura di panico nella voce. «Certo!» esclamò allora con convinzione. «Facciamo un voto infrangibile».
Septimius parve decisamente più rincuorato e si concesse un sorriso divertito. «Non sono in grado di fare quella magia. È troppo avanzata» spiegò all'amico.
Ma Reammon non si diede per vinto. «Allora facciamolo alla Babbana! Un patto di sangue» esclamò entusiasta.
A Septimius non piaceva affatto quell'idea di mettersi a fare cose da Babbani, tanto più se prevedevano strani rituali con il sangue, e certo non si tranquillizzò quando vide il suo amico estrarre dalla tasca il coltellino a serramanico che si portava sempre dietro nelle sue spedizioni archeologiche.
Reammon premette leggermente la lama sul palmo destro, finché il taglio non divenne rosso e minuscole goccioline di sangue gli imperlarono la pelle. Poi passo il coltellino al suo amico con fare incoraggiante.
Septimius lo osservò perplesso per qualche secondo, poi copiò lo strano rituale.
Quando anche Septimius riuscì a tagliarsi il palmo, Reammon gli afferrò la mano e gliela strinse.
«Patto di sangue. Saremo amici per sempre» disse in tono solenne.
«Per sempre» gli fece eco Septmius.


Erano stati dal professor Captatio. Era arrivato anche Albus Silente, il preside di Hogwarts. Avevano discusso di quello che era successo, tutti gli adulti lì a dare giudizi, per ore.
Reammon, quell'idiota, per tutto il tempo, aveva tenuta stretta tra le sue la mano di Mary Weasley, per rincuorarla.
Septimius si ricordava di Mary Weasley, la vecchia amica di Priscilla: l'aveva sempre odiata. Per i primi tempi, specialmente durante quell'anno in cui Priscilla era andata a Hogwarts mentre lui era restato a villa Saiminiu, era follemente geloso di lei: gli sembrava che con lei sua sorella fosse più felice di quanto non fosse mai stata a casa insieme a lui e per questo la odiava. Poi, quando Mary e Priscilla avevano litigato, l'aveva odiata comunque perché riteneva che fosse colpa della ragazzina rossa se ora la sua gemella non aveva più amici a scuola. Lei e il suo stupido Quidditch, tutto il tempo a pavoneggiarsi con la scopa in mano, mentre sua sorella Priscilla restava sempre più sola.
E, in un certo senso, riteneva che fosse sempre colpa di Mary se Priscilla aveva cominciato a frequentare quelle brutte amicizie che l'avevano spinta alla ribellione contro la famiglia. Priscilla aveva ammesso di aver ucciso il fratellino di Mary, ma sicuramente si era trattato di un incidente e Septimius era sempre più convinto che fossero stati gli altri, quel Mulciber o la Black, a spingere sua sorella verso quel gesto atroce. Lei era sempre stata una bambina dolce e gentile, non avrebbe mai potuto commettere un omicidio.
Lei che ora non c'era più.
Captatio e Silente erano convinti che si fosse smaterializzata prima di venir colpita dallo schiantesimo di Reammon, ma loro due non capivano. Non capivano che Priscilla non sarebbe mai fuggita da lui, suo fratello, non sarebbe scappata lasciandolo lì da solo. Non era il tipo di persona che fugge davanti alle difficoltà. Non sarebbe mai fuggita via da lui.
No, Reammon l'aveva uccisa, Septimius ne era convinto.
Reammon, il suo migliore amico.
L'aveva tradito, così, per difendere una ragazza che nemmeno conosceva, che aveva visto per la prima volta quella sera. Aveva puntato la bacchetta contro sua sorella, non l'aveva abbassata quando lui glielo aveva ordinato, aveva duellato con lei. Fino ad ucciderla. La loro amicizia era finita. Per sempre.
Finita la discussione su quello che era successo, il preside Captiatio aveva ordinato loro di tornare immediatamente ai propri dormitori, mentre il professor Silente spariva avvolto dalle fiamme del camino, portandosi dietro la Weasley.
Ma Septimius era troppo arrabbiato per andarsene a letto, troppo turbato per fingere che non fosse accaduto nulla. C'era ancora un posto dove voleva recarsi.
Un posto da distruggere.
«Evanesco» sussurrò, colpendo con la bacchetta un gradino della scala a chiocciola che conduceva alla torre di Astronomia. L'asse di legno scomparve, rivelando una vecchia chiave di ottone e ferro. Septimius la utilizzò per aprire la porta della stanza segreta e si ritrovò nel covo. Rimase immobile per qualche secondo ad osservare quel nascondiglio in cui lui e Reammon si erano rifugiati così tante volte in quegli ultimi anni. Le due amache, i poster alle pareti, i libri dappertutto. E quella foto, loro due sorridenti abbracciati l'uno all'altro, che era stata fissata con una puntina allo scaffale di legno.
E la sua furia esplose.
Strappò i poster, distrusse la scritta Extraiures fatta con rametti di quercia appesi alla parete, buttò a terra i pezzi della scacchiera, stracciò le pagine dei libri che si trovavano sugli scaffali, lanciò alcuni incantesimi contro le scarpe di Hermes di Reammon, che erano state conservate nel covo come monumento della loro amicizia. Ogni cosa che gli capitava sotto mano, finiva nella sua furia distruttiva. Voleva fare a pezzi quel luogo, memoria di un'amicizia durata così a lungo, ma ormai finita per sempre.
Per ultima cosa, afferrò con foga la fotografia di lui e Reammon: le due figurine sorridevano beate, inconsapevoli dell'inferno che era scoppiato intorno a loro. Senza nemmeno rendersene conto, Septimius si accasciò a terra e due grosse lacrime gli appannarono la vista.
Odiava Reammon per quello che gli aveva fatto, lo odiava per averlo tradito a quel modo. La loro amicizia sarebbe dovuta durare per sempre! Si sarebbero dovuti incontrare di nuovo, da vecchi, con i capelli grigi e le rughe intorno agli occhi, per sedersi a fare una partita a scacchi e ricordare le glorie passate, quando loro erano i padroni della scuola... insieme avevano scoperto tutti i passaggi segreti, i suoi trucchi. Loro due, insieme, e nessun altro.
I due fuorilegge, i due Extraiures.
Ma ora nulla di tutto ciò aveva più senso. Septimius si asciugò con rabbia le lacrime con il dorso della mano e poi evocò una fiamma dalla punta della bacchetta. Cominciò a bruciare il lato della fotografia dove si trovava Reammon, dapprima lentamente, poi con più foga. La figurina di Reammon cercò di scappare, ma le fiamme l'avevano ghermita e la foto si accartocciò su se stessa, portandosi via il ricordo di quella vita passata.
Schiacciato contro la cornice e con la divisa rossa annerita dal fumo, il suo io più giovane di qualche anno, osservava con aria inorridita il punto dove fino a poco prima si trovava il suo amico Reammon.
Septimius si osservò per qualche secondo, poi buttò la foto alle sue spalle.
Era finita.
Per sempre.





Perdono, perdono! Lo so che sono in ritardissimo con l'aggiornamento, ma ho mille cose da fare in questo periodo (soprattutto studiare per i prossimi esami...!). Spero che il capitolo vi sia piaciuto: racconta la fine dell'amicizia tra Septimius e Reammon. Niente di allegro, ma sapevo che questo momento prima o poi sarebbe arrivato... mi riscatterò nel prossimo capitolo, promesso! Questa, intanto, è una vecchia immagine del covo, dopo la distruzione operata da Septimius.
Grazie a tutti della pazienza. Il prossimo capitolo, se riesco, lo pubblico martedì... ma non garantisco nulla!
Alla prossima, Beatrix


EDIT: continua l'opera di risistemazione dei dialoghi!

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Capitolo 15
*** Caccia al tesoro_parte prima ***


Caccia al tesoro
Parte prima


Giugno 1976, fattoria Weasley

Reammon era piuttosto agitato, quel pomeriggio, quando si ritrovò a dover bussare alla porta della fattoria Weasley. Aveva controllato almeno cento volte che fosse tutto a posto e si era anche fatto aiutare da Arthur, ma, vista la sua proverbiale pessima memoria, era certo di essersi dimenticato qualcosa di fondamentale. Si mise una mano in tasca per appurare che la piccola scatolina di velluto fosse al suo posto. Aveva persino liberato la sua tasca magicamente allargata da quasi tre anni di cianfrusiaglie varie raccolte in giro, pur di riuscire a ritrovare quello che stava cercando al primo colpo. Prese un profondo respiro, poi bussò alla porta.
Venne ad aprirgli la signora Weasley. «Reammon, caro, entra pure» lo salutò con dolcezza, facendosi da parte e indicandogli il salotto.
Reammon si pulì velocemente gli scarponi ed entrò nel piccolo soggiorno della casa.
Il signor Weasley era seduto sulla sua solita poltrona a leggere la Gazzetta del Profeta.
Reammon spiò la prima pagina, in cui si parlava di nuove sparizioni e omicidi commessi dai seguaci di Voldemort.
«Buongiorno, Reammon» si limitò a dire il signor Weasley, con un cenno del capo. Non che Leopold Weasley non approvasse la scelta di sua figlia riguardo al fidanzato, ma negli ultimi anni era diventato parecchio freddo di fronte a qualsiasi rapporto umano. Prima della morte del figlio dodicenne, era sempre stato una persona allegra e solare, ma poi aveva come perso ogni voglia di vivere. La moglie Grymill aveva reagito meglio al lutto, ma lui non era mai stato così forte come lei. Non avrebbe mai potuto immaginare che una simile disgrazia si abbattesse sulla sua famiglia e quindi non aveva saputo contrastare il senso di vuoto che gli cresceva ogni giorno di più nel cuore. Per questo non riusciva a incoraggiare la figlia maggiore come avrebbe dovuto: in fondo, Reammon era un bravo ragazzo.
Grymill Weasley, invece, aveva avuto la forza per superare il lutto: ora la felicità di sua figlia Mary era il suo unico motivo di vita. Per quello, era da tempo che voleva fare un discorsetto al fidanzato.
«Ti posso parlare, Reammon?» gli chiese, con gentilezza, indicandogli la cucina.
Reammon annuì e si lasciò condurre fuori dal salotto.
«È per via di Mary...» cominciò a dire la signora Weasley, sedendosi al tavolo.
Reammon non la imitò, perché era troppo agitato quel giorno per stare seduto fermo. «È successo qualcosa?» domandò, preoccupato.
«No, no, tranquillo» lo rassicurò la signora Weasley. «Volevo solo ringraziarti, perché vedo che la mia bambina sta cominciando a ritrovare la serenità, proprio grazie a te».
Reammon, fece un mezzo sorriso. Non sapeva bene se quella frase pretendesse una risposta, così prese a fissare il pollo mezzo spennato che pendeva dal soffitto, sopra il lavandino.
«Reammon» lo richiamò la signora Weasley, con serietà. «Sai cosa sta succedendo qui... la guerra, le sparizioni, gli omicidi».
«Sì...» provò a dire Reammon, senza sapere dove volesse andare a parare quel discorso.
La signora Weasley lo fissò dritto negli occhi, con gravità. «Portala via, Reammon. Portala via da tutto questo» lo supplicò, con intensità. Reammon aprì la bocca per dire qualcosa, ma non gli uscì nemmeno un suono.
«Tu sei la sua ancora di salvezza» gli rivelò la signora Weasley.
«Mon!» esclamò proprio in quel momento Mary, appena comparsa sull'uscio. «Mi sembrava di aver sentito la tua voce!» disse la ragazza, gettandogli le braccia al collo.
Reammon la strinse a sé, accarezzandole dolcemente i capelli. «Ho una sorpresa da farti vedere, se vuoi venire con me» le sussurrò all'orecchio. Mary gli rivolse un sorriso luminoso, mentre i suoi occhi venivano attraversati da una luce di furbizia. «Dove vuoi».
Reammon la condusse fuori dalla fattoria, verso l'orto amorevolmente curato dal signor Weasley. Da quando gli era morto il figlio, sembrava che il signor Weasley fosse più interessato a far crescere ortaggi che a intessere relazioni con altri esseri umani.
Ma Reammon non aveva intenzione di toccare nulla del prezioso orto, se non un secchio di legno dall'aria piuttosto malridotta. Lo prese in mano e lo tese verso Mary, perché anche lei lo afferrasse.
«Che cosa...?» provò a chiedere la ragazza, mentre Reammon controllava l'orologio che portava al polso.
«Fra poco» le rispose con un sorriso ambiguo.
I due giovani si fissarono per una manciata di secondi, poi sentirono un familiare strappo all'altezza dell'ombelico e la Passaporta li trasportò lontano.
Gli uggiosi prati inglesi furono sostituiti da dolci colline che ospitavano lunghi filari di viti, intervallati da gruppi di ulivi che, con le loro foglie affusolate, coloravano d'argento i profili del paesaggio. Il sole era caldo e morbido, un venticello tiepido soffiava da est. «Dove siamo?» sussurrò Mary, osservando l'orizzonte lontano.
Reammon le rivolse un sorriso luminoso. «In Toscana».
Dopodiché le indicò il profilo di un paese poco lontano, piccolo, ma decisamente grazioso nel suo aspetto medievale. «Vedi quelle torri? Quello è San Gimignano» le spiegò con aria compiaciuta.
Il volto di Mary si illuminò. «Qui è dove hai fatto quello scavo archeologico, l'anno scorso!» disse, ma guardandosi intorno non vide nessuna chiesetta con impalcature sospette che potesse fungere da campo di studio per archeologi pazzi.
«Ray! Vecchio briccone!» esclamò proprio in quel momento una voce roca alle loro spalle.
Mary si voltò: di fronte a loro stava un uomo non tanto alto, piuttosto corpulento, con un paio di grossi baffoni castani e uno strano monocolo a tre lenti sovrapposte adagiato sull'occhio sinistro, che apriva le braccia verso di loro come se volesse stritolarli entrambi.
«Lorenzo!» rispose entusiasta Reammon, abbracciando l'uomo con calore.
«E questa deve essere la tua dolce Mary» si fece avanti l'uomo, con un buffo accento italiano, allungando una manona sporca di fango verso di lei. Solo qualche anno fa, Mary avrebbe storto il naso con aria schizzinosa, ma ultimamente aveva ricominciato a pensare alla Weasley: un po' di fango non fa certo male.
«Venite, vi stavo aspettando» esclamò l'uomo di nome Lorenzo dopo averle stretto calorosamente la mano.
Mary si domandò perché quell'uomo li stesse aspettando in mezzo alla campagna e dove volesse condurli, ma ogni sua domanda fu bloccata sul nascere da ciò che apparve quando Lorenzo toccò con la punta della sua bacchetta un nodo sul tronco di un ulivo lì vicino. Mary non aveva mai visto un capo archeologico, ma non aveva mai immaginato che potesse essere come quello.
«Ecco qui, il campo di scavo di San Jacopo!» esclamò Lorenzo, allargando le braccia come un presentatore.
Una grossa impalcatura in legno, che formava una specie di tettoia sul sagrato e sul fianco di una graziosa pieve medievale, serviva a riparare dagli agenti atmosferici i numerosi livelli di scavo realizzati, alcuni profondi poche dita, altri più simili a voragini. Una decina di archeologi erano intenti in vari lavori, chi annotava su una pergamena il ritrovamento di un frammento di ceramica, chi scattava accurate fotografie dei reperti, chi scavava con una paletta delle dimensioni di un cucchiaio da minestra quella che pareva essere una fossa funeraria.
Alcuni archeologi alzarono gli occhi su di loro e salutarono Reammon con cenni e battute, ma Mary non riuscì a capirli perché parlavano in italiano (anche se ebbe il sospetto che un paio di loro lo insultarono scherzosamente, visto che provocarono risatine e facce divertite).
Lorenzo si voltò verso Reammon e gli strizzò l'occhio (il sinistro, quello coperto dallo strano aggeggio a tre lenti).
«Noi non gli si dà retta, si sa che so' dei bischeri!» lo rassicurò, ma Mary non riuscì a capire che cosa fossero gli altri archeologi, visto che non conosceva il significato di quella parola italiana.
«Mia cara» riprese poi Lorenzo, rivolto a lei. «Attenta a dove metti i piedi: il tutto è un po' pericolante».
E con quelle parole le indicò un'asse di legno che pendeva sopra una buca in modo alquanto precario.
«E, se ti è possibile, non starnutire: Massimo ha fatto un pasticcio con gli incantesimi Repelli-Babbano, perciò, anche se tutti gli altri rumori non si sentono fuori di qui, se uno starnutisce, l'eco si sparge su tutte le colline circostanti. L'abbiamo scoperto per caso, quando Grazia si è rivelata allergica alle graminacee di quel cespuglio e i suoi starnuti hanno rimbombato per tutta la valle».
Detto questo si fermò ad osservare un piccone che stava svolgendo il suo lavoro da solo, incantato da qualche archeologo perché fosse autosufficiente. «D'altronde, anche se noi si sta attenti, non possiamo certo levare le protezioni dal sito: non credo che i Babbani approverebbero i nostri metodi» ridacchiò divertito.
Proprio in quel momento, un teschio piuttosto sinistro gli fluttuò davanti al naso, per andare a depositarsi su un tavolino in disparte insieme al resto dello scheletro, dove un pennellino cominciò placidamente a spennellarlo per rimuovere i residui di terra.
Mentre snocciolava quella serie di aneddoti, Lorenzo si era introdotto nell'area di scavo e si stava dirigendo verso la porta della chiesetta, seguito da Mary e Reammon.
Attraversando una passerella dall'aria piuttosto precaria, Mary vide un giovanotto che stava delicatamente rimuovendo una serie di mattoncini rossi da una fossa, quando un pus verdastro lo colpì in piena faccia. Alcuni suo colleghi scoppiarono a ridere, mentre una ragazza accorreva al suo fianco per soccorrerlo.
Lorenzo, nel vedere la scena, scosse la testa. «Quello è Josip, un brillante archeologo polacco. Peccato che sia un citrullo e abbia sempre la testa fra le nuvole tanto che spesso si dimentica che le tombe degli abati hanno tutta una serie di meccanismi di difesa contro i profanatori, da magie avanzate a semplici pus di Bubotubero, estremamente irritante» spiegò, mentre li conduceva fino all'entrata della chiesetta.
L'interno era un'unica navata, debolmente illuminata da piccole finestre in altro. Il soffitto era decorato da travi di legno, ma Mary non ebbe tempo di perdersi via ad ammirarlo, perché fu costretta a fare attenzione a dove metteva i piedi, visto che il pavimento era disseminato di scavi. «Guarda» sussurrò ammirato Reammon, accucciandosi a terra. «Questa è la fondazione della chiesa paleocristiana e questo il suo pavimento in cocciopesto. Guarda qui la perfezione di queste buche di palo e i residui di magia che i maghi del passato hanno lasciato nel tracciarli. Questi non sono fatti a mano» illustrò Reammon, indicando via via ciò che stava spiegando.
In realtà Mary non capiva nemmeno una parola del discorso, ma era intenerita dalla passione che ci metteva Mon nel suo lavoro.
«Ma allora Ray, non vuoi più fare il gioco?» domandò Lorenzo, richiamando la loro attenzione.
Reammon si affrettò ad alzarsi da terra e, insieme a Mary, raggiunse il suo amico.
«Che gioco dovremmo fare?» domandò Mary in tono sospetto.
Lorenzo allora scoprì con un gesto teatrale un tavolo su cui era adagiato un telo. Sul piano, facevano bella mostra di sé una serie di reperti archeologici. «Le regole sono queste: tu metti in ordine cronologico i seguenti reperti e io ti do il prossimo indizio. Hai quindici minuti» spiegò Lorenzo a Mary, indicandole il tavolo.
«Il prossimo indizio per cosa?» chiese la ragazza, mentre percepiva Reammon alle sue spalle che ridacchiava.
«Per la tua caccia al tesoro» le rispose Lorenzo, strizzandole l'occhio.
«E se sbaglio?»
«Be', l'indizio te lo do lo stesso. Mica noi si vuole rovinare tutto subito, no?»
Mary scosse la testa, sicura che tutta quella messa in scena fosse opera di Reammon, ma poi decise di stare al gioco e si concentrò sugli oggetti: c'era una moneta, un pezzo di coccio, quella che poteva essere una punta di freccia, una fibbia di cintura e una crocetta in lamina d'oro. La ragazza alzò gli occhi sui due archeologi, ma entrambi la stavano osservando in attesa della sua prossima mossa.
Mary allora cercò di concentrarsi: Reammon diceva sempre che la ceramica era un fossile guida, ma lei non sapeva riconoscerla, quindi decise di partire dalla moneta. Su uno dei due lati era rappresentato il profilo di un mago con il naso piuttosto pronunciato e una corona di alloro in testa: per quel poco che ne sapeva, le ricordava molto un romano, quindi decise che quello sarebbe stato il primo reperto. La crocetta d'oro le pareva abbastanza elaborata, quindi doveva essere tarda: ultimo posto. Gli altri tre oggetti non aveva la più pallida idea di dove cacciarli, quindi li dispose a caso tra la moneta e la croce. «Ecco fatto!» annunciò soddisfatta.
Lorenzo e Reammon si scambiarono uno sguardo.
«Non ne hai indovinato neanche uno, mi sa» commentò l'italiano, con un sorriso bonario sul volto. Poi si avvicinò al tavolo e regolò il monocolo a tre lenti che portava sull'occhio, in modo da poter osservare meglio anche dettagli microscopici: il risultato fu che l'occhio sinistro venne ingrandito a dismisura dietro le lenti, provocando un effetto piuttosto comico.
Lorenzo allora cominciò a spiegarle i vari oggetti, partendo dalla punta di freccia. «Questo l'era il primo, una punta in selce dell'era preistorica. Seconda andava la moneta con raffigurato Tiberius Flavius, un mago che all'inizio del II secolo dopo Cristo era talmente ricco che si mise a battere moneta propria da far circolare tra i maghi. Poi il frammento di ceramica sigillata chiara, fossile guida fondamentale per l'età tardoantica. Quarta la crocetta longobarda in lamina d'oro e infine la fibbia di cintura di età medievale».
«Oh» fu l'unico commento che riuscì a fare Mary. L'archeologia non era proprio il suo campo.
«Ma non ti preoccupare: ti do lo stesso l'indizio!» ridacchiò divertito Lorenzo, aggiustandosi nuovamente il monocolo cosicché il suo occhio sinistro tornò ad una dimensione normale. Dopodiché, mise in mano a Mary il frammento di ceramica africana. «Questo puoi tenerlo, ne abbiamo un sacco».
Mary prese a rigirarsi il pezzo di coccio tra le mani, mentre Lorenzo controllava l'ora dalla cipolla che aveva nel taschino. «È meglio se...» cominciò a dire rivolto a Reammon.
Il ragazzo annuì e si avvicinò a Mary, per toccare anche lui il frammento di ceramica.
Lei lo guardò con aria interrogativa, ma fu costretta a voltarsi verso Lorenzo quando questo esclamò: «Mi ha fatto piacere vedervi! Alla prossima!» E poi la Passaporta li trasportò lontano.





Eccomi qui! Ho aggiornato di martedì, visto che brava... ehm, sì, lo so che ho saltato un martedì, ma presto finirò gli esami e allora aggiornerò più alla svelta, promesso!
Questo capitolo l'ho progettato secoli fa, ma l'abbondanza di particolari archeologici è frutto della deformazione professionale (sto preparando l'esame di archeologia medievale) e spero che non sia risultata noiosa. Sono stata costretta a suddividere il capitolo in due, tanto mi è venuta lunga questa parte. Comunque, questa è un'immagine presa da internet di un campo di scavo, così vedete com'è (anche io ne ho visitato uno simile qualche mese fa!). Quanto a Lorenzo, (qui un suo disegno che ho confezionato appositamente per il capitolo) lui è toscano e come tale ho cercato di dargli una caratterizzazione anche linguistica (che, ovviamente, se pensate che i dialoghi sarebbero in inglese, si concretizza in un forte accento italiano e in qualche parola nella propria lingua, come bischero). Inoltre lui chiama Reammon “Ray” perché il nome irlandese del protagonista si pronuncia Raimon.
Grazie mille della vostra pazienza! Alla prossima,
Beatrix


EDIT: continua l'opera di risistemazione dei dialoghi!

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Capitolo 16
*** Caccia al tesoro_parte seconda ***


Caccia al tesoro
Parte seconda


Giugno 1976, New York

La prima cosa che stordì Mary fu il caos: ancora prima che aprisse gli occhi per scoprire dove Reammon l'avesse portata, una serie di rumori indistinti, il vociare delle persone, urli e schiamazzi la aggredirono come se si fosse materializzata nel bel mezzo di una sagra paesana. E poi aprì gli occhi e si ritrovò circondata da immensi grattacieli che sembravano farsi beffe della sua piccolezza.
«Benvenuta a New York!» esclamò entusiasta Reammon.
Mary scoppiò a ridere: ma che diavolo gli era saltato in mente? Scuotendo la testa rassegnata, si mise in tasca il frammento i coccio, primo ricordo di quella assurda caccia al tesoro.
Proprio mentre ammirava la caotica vita della metropoli Babbana, un ragazzo afroamericano si avvicinò a loro con un gran sorriso. Indossava una canottiera bianca aderente che metteva in risalto i muscoli e un paio di pantaloni piuttosto larghi, che un tempo dovevano essere appartenuti ad una tuta da ginnastica. A coronare il tutto, in testa aveva un berretto grigio, che aveva tanto l'aria di essere di lana, nonostante fosse estate. «Rayray!» esclamò il ragazzotto allungando la mano verso Reammon per farsi dare il cinque.
«Chris, come butta?» gli chiese il giovane irlandese, ricambiando il gesto.
Mary lo guardò straniata. Come butta?
Da quando Reammon utilizzava lo slang americano?
Eppure i due ragazzi sembravano particolarmente affiatati.
«Ehi, Mary, ti ricordi di Chris? L'ho conosciuto quell'estate in cui il professor Codail mi aveva mandato a quel campo scuola di archeologia in Marocco» spiegò Reammon, con un sorriso entusiasta.
Mary annuì circospetta: sì, Reammon le aveva parlato di lui ma certo non si aspettava che quel tipo fosse un archeologo. Se Lorenzo coincideva appieno con l'immagine che Mary si era sempre fatta di un archeologo, Chris non c'entrava nemmeno per le scarpe rotte (e, in effetti, le sue scarpe, un vecchio modello da tennis, erano davvero rotte).
«In realtà, Rayray, ho mollato con l'archeologia. Adesso ho un chiosco e vendo ciambelle: è incredibile la quantità di schifezza che i maghi americani ingurgitano ogni giorno» spiegò Chris, mettendo un braccio intorno alle spalle dell'amico, come se dovesse rivelargli un importante segreto.
«Comunque, venite, venite» aggiunse poco dopo, conducendoli verso un vicoletto cieco alle spalle di un grattacielo enorme.
Chris estrasse la bacchetta magica dalle tasche dei pantaloni e toccò mollemente il terzo cassonetto di destra, che era incredibilmente immacolato e lindo rispetto agli altri. A quel gesto, nel muro davanti a loro si aprì un varco sufficientemente largo da far passare tre persone a braccetto, che dava su un'affollata stradina che pareva rimasta identica a un vialetto di tardo Ottocento.
«Questi sono i Five Wizs, dov'è nata l'America!» esclamò soddisfatto Chris.
Passeggiando per i Five Wizs (cinque strade con altrettanti accessi dalla metropoli Babbana, che convergevano i un'unica grande piazza), si riusciva a cogliere l'anima dell'America magica, che rimaneva ancorata alle sue tradizioni, con maghi che giravano in tuba e cappotti ottocenteschi, ma allo stesso tempo puntava alla modernità, personalizzata in giovanotti come Chris che assorbivano le mode più in voga in quegli anni*. Ma l'America non rinunciava mai al suo tocco eccentrico: Mary era certa che il tizio che le era passato davanti stava portando al guinzaglio un autentico troll.
Arrivati in piazza, Chris si avvicinò ad un gruppo di ragazzi più o meno abbigliati come lui, che si stavano dando da fare intorno ad una radio piuttosto vecchiotta.
«Allora, baby, lascia che ti spieghi le regole» le disse Chris con un sorriso divertito.
Mary non era certa di voler sapere che cosa prevedesse quella tappa a New York: sicuramente, una volta a casa, ne avrebbe dette dietro a Reammon un bel po'.
«I miei amici fanno partire la radio, tu balli con me e se te la cavi bene, io ti do il prossimo indizio».
«Ballare con chi?» gli fece eco Mary, terrorizzata dalla prospettiva. Non fece a tempo a lanciare un'occhiata fulminante a Reammon che i ragazzi erano riusciti a far partire la radio e Chris l'aveva trascinata sul marciapiede.
Mary non sapeva ballare: riusciva giusto a dondolarsi e ciondolare un po', e inoltre era terribilmente imbarazzata da quella situazione. Al contrario, Chris si muoveva fluido e sciolto, con passi e movenze che Mary non aveva mai visto. Alla fine, si ritrovò a fare il palo mentre Chris le ballava intorno; a coronare il tutto Reammon che sghignazzava poco lontano.
«Vieni tu a ballare, se sei capace!» protestò Mary, battendo i piedi a terra.
Fu allora che, forse per pietà, forse per toglierla dall'imbarazzo, anche altri si unirono alle danze, compreso alcune ragazze. In realtà, nel vedere le movenze sinuose e aggraziate delle giovani americane, Mary si sentì mortificata, ma dopo un po' riuscì a sciogliersi e ad azzardare qualche passo con Chris.
Alla fine, perfino Reammon si mise a ballare e Mary fu costretta ad ammettere che era decisamente più bravo di lei.
«Ehi, baby, sei proprio scarsa!» le rivelò alla fine Chris, ridendo di gusto. «Guarda il tuo uomo come si muove bene!» continuò, indicandole Reammon, che a quelle parole fece un paio di azzardati passi di danza tanto per fare il ganzo.
«Comunque, non voglio fare il guastafeste, quindi eccoti il tuo indizio» le disse, togliendosi dal collo una catena d'oro e mettendogliela tra le mani.
Mary capì subito che doveva trattarsi di un'altra Passaporta, tanto più quando Reammon si avvicinò con un sorrisetto davvero irritante per posarci sopra un dito.
«Ehi, bello, voglio essere invitato, poi!» gridò loro dietro Chris, proprio mentre la Passaporta li trascinava lontano.
Quando Mary riaprì gli occhi, non capiva perché non ci vedesse nulla. Poi si abituò alla penombra e realizzò di trovarsi in un bosco in cui i rami degli alberi erano talmente intricati e fitti da non permettere ai raggi del sole di filtrare fino a terra.
«Siamo nella Foresta Nera» le sussurrò all'orecchio Reammon, come se temesse di disturbare gli spiriti del bosco parlando più forte.
Mary osservò rapita il tortuoso gioco di rami sopra la sua testa, quando una voce ruvida la costrinse ad abbassare nuovamente lo sguardo. Un signore tarchiato, con un paio di enormi baffoni biondi e le guance rosse come peperoni, li stava allegramente salutando.
«Gustav!» esclamò Reammon, stringendogli calorosamente la mano.
«Buonciorno, miei cari» rispose l'uomo, con un durissimo accento tedesco.
«Lasciami indovinare, l'hai conosciuto in uno dei tuoi scavi» sospirò Mary. «Sì!» esclamò entusiasta Reammon. «Ti ricordi quel lavoro alla necropoli di Pathoger?»
Gustav allungò la sua mano grassoccia verso Mary che gliela strinse.
«Reammon mi ha detto che sei appassionata del ciogo del Quidditch. Allora questo ti piacerà» le disse, strizzandole l'occhio. Dopodiché si avvicinò ad un albero e lo sfiorò con la bacchetta.
Improvvisamente apparve una Pluffa dalle dimensioni enormi, che prese a parlare attraverso una delle cuciture. «Das Lusungswort?» chiese in tono neutro.
Mary immaginò che si trattasse della parola d'ordine.
«Junge Sperling» rispose Gustav con sicurezza.
«Zapete, un amico di un mio amico conosce il custode del campo e siamo riusciti ad organizzare questa cosuccia» spiegò l'uomo, proprio mentre il tronco si apriva magicamente davanti ai loro occhi, lasciando intravedere una costruzione immensa che si celava oltre l'apertura.
Mary capì immediatamente di cosa si trattava: lo stadio di Quidditch di Gunther der Gewalttätige, il più grande e famoso d'Europa. Era il Tempio del Quidditch: il sogno di ogni giocatore europeo era quello di volare a cavallo di una scopa nel Gunther, lanciare Pluffe dentro quegli anelli meravigliosi, sentire il vento che scompiglia i capelli, le urla della folla che ti assordano...
«Mon...!» fu l'unica cosa che riuscì a sospirare Mary, ammirando estasiata lo stadio.
Da quando aveva finito Hogwarts, aveva smesso di giocare a Quidditch, mettendo da parte il suo sogno di diventare campionessa per cominciare a lavorare in un piccolo ufficio che si occupava di mandare pacchi all'estero. Niente di impegnativo o particolarmente gratificante, ma almeno aveva cominciato a mettere da parte un po' di galeoni. Tuttavia, una passione come quella che provava per il Quidditch, non poteva essere cancellata in pochi anni. Se realmente Reammon era riuscito ad organizzarle un'occasione per volare al Gunther... santo cielo, Mary non riusciva a crederci! «Prego» esclamò Gustav, accennando alla porta d'ingresso dello stadio.
Mary trattenne il respiro e fece il suo ingresso al Gunther, come una star che sale per la prima volta sul palco di un grande concerto. Lo stadio era immenso proprio come Mary se l'era sempre immaginato, con i sei anelli luccicanti e l'erba perfettamente tagliata. E là, al centro, ad altezza giusta per essere cavalcata, vibrava una scopa dell'ultimissimo modello, la Nimbus 1001, uscito proprio quell'anno.
Mary si voltò prima verso Reammon, poi verso Gustav, ed entrambi la incitarono a salire a cavallo della scopa.
Fu come un sogno poter volare con un manico di scopa utilizzato dai più grandi campioni del mondo nello stadio considerato il Tempio del Quidditch. L'ebrezza di raggiungere la velocità limite, di alzarsi in picchiata, di sterzare all'ultimo minuto davanti agli ostacoli fecero sentire Mary nuovamente viva e libera. Dopo una lunga serie di acrobazie in volo, si decise a planare di nuovo verso terra, dove la stavano attendendo Reammon e Gustav.
Quest'ultimo aveva in mano una Pluffa nuova fiammante. «Kueste le regole: tu prendi Pluffa e fai centro e io ti do il prossimo indizio» le disse lanciandole la palla di cuoio.
Mary la afferrò al volo ma rimase perplessa: era convinta che quello fosse il premio della caccia al tesoro, non una delle sue tappe.
«Tutto qui? Un centro e basta?» domandò allora, facendosi rigirare la Pluffa tra le mani.
«Un centro e basta» asserì Gustav, annuendo.
Mary capì immediatamente perché dovesse realizzare un centro e basta: non appena si alzò in volo, la Pluffa le scivolò via dalle mani come se fosse fatta di sapone. Lei si tuffò subito a riprenderla, ma questa le schizzò nuovamente via. La palla doveva essere stata stregata. Prima di lanciarsi nuovamente a recuperarla, Mary schioccò un'occhiataccia a Reammon, che rispose con il suo sorriso più innocente.
Dopo una serie di difficoltosi tentativi, Mary riuscì ad agguantare la palla e tenendola stretta a sé si diresse verso il palo centrale; ovviamente, avendo entrambe le mani occupate a frenare l'entusiasmo della Pluffa, fu costretta a manovrare la scopa solo con le gambe e questo le impedì di sfruttarne il massimo potenziale. Come si era aspettata, la palla non ne voleva sapere di centrare l'anello ma, per fortuna, non essendoci il portiere a difesa dei pali, Mary poté quasi entrare con la scopa nel cerchio. Non appena la Pluffa truffaldina attraversò l'anello, il tabellone dorato al centro dello stadio si illuminò e segnò dieci punti per l'immaginaria squadra di Mary.
La ragazza fece un giro dell'arena esultando per il punto e incitando un pubblico inesistente. Dopodiché ridiscese a terra, dove la stavano aspettando Gustav e Reammon, entrambi con un ghigno divertito stampato in faccia.
Gustav appellò la Pluffa e con un tocco di bacchetta eliminò il malocchio. Poi la lanciò a Mary, dicendole: «Kuesto è il prossimo indizio».
Mary osservò la palla con gli occhi sgranati: doveva trattarsi della nuova Passaporta, ma ciò che l'aveva colpita di più era il fatto che quella Pluffa nuova di zecca, con la G simbolo dello stadio in rilievo tra le cuciture, poi sarebbe rimasta sua per sempre.
Proprio in quel momento un sorridente Reammon si avvicinò a lei e mise la sua mano sulla palla.
Gustav guardò l'orologio d'oro che portava al polso. «È ora. Buon viaccio».
E la Passaporta li trasportò via dallo stadio.
La prima cosa che Mary sentì fu un forte vento che li investiva in pieno, poi il rumore del mare, lontano e possente, che si infrangeva contro le rocce. Quando aprì lentamente gli occhi, realizzò di essere su una scogliera a strapiombo sull'oceano. A giudicare dal cielo grigio e plumbeo, dovevano essere in Irlanda.
«Queste sono le scogliere di Moher» spiegò Reammon, in un tono insolitamente dolce.
Mary si guardò attorno, aspettandosi l'arrivo di qualche altro strampalato amico di Reammon, ma questa volta non venne nessuno.
Reammon le tolse dolcemente la Pluffa dalle mani e se la mise in tasca (quella magicamente allargata dall'Incantesimo Estensivo Irriconoscibile). Dopodiché le prese le mani tra le sue e la guardò dritta negli occhi con intensità. «Mary, ci è voluta tanta strada per arrivare fin qui» cominciò a dire, anche se aveva la gola completamente secca. «E non intendo per via della caccia al tesoro... sai quanto ci abbiamo messo e quante cose sono accadute. Io non so cosa sia successo la prima volta che ti ho incontrato, ma è successo, è scattato qualcosa. E io credo proprio di essermi innamorato di te».
Con quelle parole si inginocchiò davanti a lei e mise una mano in tasca per estrarre una scatolina di velluto rosso. Ma proprio in quel momento una folata di vento più forte delle altre li investì in pieno e la scatola scivolò via dalle mani sudaticce per l'ansia di Reammon e cadde giù dal precipizio.
«Benedetto San Patrizio!» esclamò Reammon contrariato, sporgendosi dalla scogliera per vedere la preziosa scatolina che veniva risucchiata verso le rocce sottostanti. Il ragazzo allora estrasse la bacchetta di tasca (dopo alcuni nervosi secondi di frenetica ricerca) e gridò: «Accio scatola!» Forse a causa dell'agitazione, forse per una sfortunata coincidenza, l'incantesimo funzionò solo in parte e il costoso contenitore, invece di atterrare docilmente tra le sue mani, colpì Reammon in piena fronte.
«Oh cielo, ti sei fatto male?» domandò premurosa Mary, anche se aveva trattenuto a stento una risata nel vedere la scena.
«Tutto a posto» rispose Reammon, massaggiandosi il punto che era stato colpito. Gli sarebbe spuntato fuori un bel bernoccolo.
Dopo quel momento di agitazione, Reammon tornò serio. «Mary Weasley» sentenziò con voce sicura.
Nel mentre fece scattare la serratura della scatola e un anellino d'argento con un piccolo diamante fece capolino adagiato sul velluto.
«Vuoi sposarmi?»
Mary si specchiò per un attimo negli occhi verdi e luminosi di Reammon.
Solo una parola.
«Sì».





*ricordo che “quegli anni” sono gli anni Settanta!

Che caro il nostro Reammon! Vi aspettavate che tutta questa messinscena fosse per chiedere a Mary di sposarlo? Andiamo, non è dolcissimo? *-*
Ok, lasciamo perdere le mie smancerie e vediamo di chiarire un paio di punti. I Five Wizs (troncamento di Five Wizards) è ovviamente un elogio ai Five Points, un vecchio quartiere di Manhattan che ora non esiste più, ma che nell'Ottocento era famoso per povertà e malessere e che è stato teatro di numerose guerre tra bande (per chi volesse approfondire, consiglio il meraviglioso film “Gangs of New York). Quanto allo stadio di Gunther der Gewalttätig (ah, la parola d'ordine significa semplicemente passerotto... non ha alcun significato, mi piaceva!) è completamente inventato, ma non nel nome. Il nome significa “Gunther il Gradasso” ed è riferito ad un celebre dipinto dove è rappresentato il gioco tedesco dello Stichstock, una specie di antenato del Quidditch (la Rowling ne parla ne “Il Quidditch attraverso i secoli”). Infine, il modo di parlare di Chris e Gustav (come già quello di Lorenzo) rispecchia il più possibile il loro accento, slang americano per il primo, accento tedesco per il secondo.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto! Il prossimo lo pubblicherò venerdì 08/07, quando sarò finalmente in vacanza e, se tutto va bene, comincerò ad aggiornare 2/3 volte a settimana per gli ultimi 3 capitoli della storia. Inoltre, probabilmente già dalla metà di luglio, darò alle stampe il quarto racconto della saga, “Il torneo Trecolonie”.
A presto!
Beatrix


EDIT: continua l'opera di risistemazione dei dialoghi!

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Capitolo 17
*** Il nuovo professore ***


Il nuovo professore

Maggio 1978, villa Saiminiu

Lo specchio era leggermente opaco e piuttosto sporco, per cui l'immagine che rifletteva era imperfetta. Tanto, non c'era un gran che da ammirare. La sua carnagione era sempre stata piuttosto pallida, ma in quell'ultimo periodo aveva raggiunto la soglia del cadaverico, forse a causa del fatto che non vedeva la luce del sole praticamente da mesi. Non miglioravano la situazione gli occhiali con uno spesso bordo blu e il naso adunco dalle dimensioni enormi. Il tutto era incorniciato da un caschetto lungo fin sotto le orecchie di capelli neri, flosci e depressi almeno quanto il loro padrone.
Come se non bastasse, il ragazzo a cui apparteneva l'immagine riflessa indossava un abito da mago completamente nero. Come nero era ogni altro capo che si trovava nel suo armadio, in realtà.
Proprio in quel momento, qualcuno bussò debolmente alla porta della sua stanza e la testa spelacchiata di un elfo domestico fece capolino sull'uscio. «Signorino, c'è pronta la colazione» sussurrò l'elfo.
Septimius smise di contemplare la sua immagine allo specchio e si trascinò al piano di sotto, in sala da pranzo dove i suoi genitori avevano già preso posto ai due capi del lungo tavolo.
«Septimius caro, hai l'aria di uno che si è appena alzato dal letto» gli disse sua madre, quando lo vide entrare nella stanza.
Septimius si lasciò cadere sulla sedia con uno sbuffo.
Non si era appena alzato dal letto: la sua faccia assonnata era dovuta al fatto che non aveva proprio dormito, perché aveva passato la notte in bianco a tradurre il De artibus magicis di Alpiano, uno dei più difficili autori latini del III secolo d.C.
Non c'era un motivo preciso: semplicemente, concentrare tutta la sua attenzione in titaniche imprese di traduzione era l'unica cosa che riusciva a regalargli un attimo di piacevole oblio, che avrebbe quasi potuto definire “pace”.
L'unico scopo della sua vita, ora come ora, era il latino.
Non aveva rapporti con il resto del mondo (ad esclusione dei suoi genitori, dello zio Antilius e del suo elfo domestico) praticamente da anni. O meglio, dal preciso momento in cui aveva completato il suo ciclo di studi al Trinity, con il voto ME (mirandum est, il più alto che si potesse raggiungere) alla D.I.M.I.S.S.I.O.
Tutti i professori avevano predicato un futuro brillante per quel giovane così talentoso, ma Septimius aveva mollato ogni cosa e si era barricato in casa. Usciva solo per lo stretto necessario e, a volte, nemmeno per quello. Tanto, che cosa avrebbe dovuto fare fuori?
«Onoria cara, passami la teiera» borbottò proprio in quel momento suo padre.
La signora Saiminiu fece levitare la teiera verso il marito con un molle gesto della bacchetta.
Septimius osservò la scena con apatia. Come potevano i suoi genitori ignorare quello che era successo? Come potevano ignorare il fatto che era morta loro una figlia?
E lui, come avrebbe potuto ignorare che era stato il suo migliore amico ad uccidere sua sorella Priscilla?
Quei pochi che conoscevano il segreto della famiglia Saiminiu, sembravano convinti che lei fosse scappata o, peggio, ignoravano completamente l'accaduto, come i suoi genitori. Lui, invece, non riusciva a smettere di pensarci e ciò che lo faceva soffrire maggiormente era il fatto di non poter più contare sull'unica persona che avesse mai considerato suo amico: Reammon.
Se fosse successo qualcosa a sua sorella ma almeno ci fosse stato Reammon al suo fianco... invece era proprio lui il responsabile di tutto. Ora, che senso aveva la sua vita?
«Ah, il professor Ferrus andrà in pensione alla fine di quest'anno» commentò proprio in quel momento Sextans Saiminiu, accennando ad un trafiletto del Corriere del Mago di quella mattina.
La notizia destò immediatamente l'interesse di Septimius, che alzò gli occhi dal piatto e cercò di spiare l'articolo.
«Sarebbe anche ora!» ridacchiò la signora Saiminiu. «Era già vecchio quando insegnava a noi. C'è scritto quanti anni ha?» Sextans scorse velocemente il trafiletto poi sospirò: «Ne compirà ottanta il mese prossimo».
Gli occhi di Septimius si puntarono avidi sulla pagina di giornale, nella speranza di carpire qualche altra informazione, ma suo padre gli facilitò il compito, spiegando quanto aveva letto. «Questa mattina, al Palazzo del Governo, si tiene il concorso per assegnare la cattedra di Latino ed Irlandese al nuovo insegnante».
«A che ora?» si informò Septimius.
Una bizzarra idea gli era balenata in mente... ma forse non era poi così bizzarra. In fondo, il latino era la sua unica ragione di vita, ormai.
«Alle dieci» rispose il signor Saiminiu E proprio in quel momento la pendola del salotto batté dieci colpi.
Per fortuna, Septimius sapeva che il padre aveva la mania di portare aventi tutti gli orologi della casa di cinque minuti.
Septimius si alzò di scatto dal tavolo, senza nemmeno aver toccato la colazione.
«Dove vai?» gli chiese sua madre, con una leggera preoccupazione nella voce.
«In camera» ripose Septimius, in tono sbrigativo.
La signora Saiminiu sgranò gli occhi. «Ma... oggi c'è il matrimonio di Eoin Maleficium. Avevi promesso che saresti venuto» gli disse in tono supplichevole.
Quando Septimius aveva acconsentito a venire, Onoria era rimasta piacevolmente sorpresa, ma aveva davvero sperato che l'occasione del matrimonio potesse trascinare il figlio fuori di casa. Invece, il ragazzo stava di nuovo trovando una scusa per rintanarsi in camera sua.
«Lo so, ma... non posso» rispose Septimius, dirigendosi verso la porta.
Sua madre si alzò da tavola, nel disperato tentativo di fermarlo. «Credevo che Maleficium fosse tuo amico. Lui e la futura moglie non si sono conosciuti grazie a te?» provò a dire.
«Sì, è mio amico. Ma che centra questo adesso?» sbottò Septimius, scuotendo la testa.
Gli dispiaceva mancare al matrimonio di Maleficium, ma gli era venuto in mente qualcos'altro da fare ed era già in ritardo.
«Mi spiace. Devo andare, ora» bofonchiò come ultima cosa per chiudere la conversazione, prima di sparire dalla sala da pranzo. Nel chiudersi la porta alle spalle, sentì che sua madre era scoppiata a piangere. Gli dispiaceva darle quel dolore, ma il suo progetto era improvvisamente cambiato e certo non poteva metterne al corrente i genitori.
Finse di salire le scale per recarsi in camera sua, poi si catapultò fuori di casa e si diresse verso il metrombino proprio dietro la villa. Per fortuna, il sole era coperto dalle nubi e i suoi occhi abituati alla penombra della sua stanza in cui era rinchiuso da mesi non subirono troppi danni. Per una frazione di secondo si bloccò a fissare il metrombino, chiedendosi cosa diavolo gli fosse venuto in mente, ma poi pensò che era tardi per i ripensamenti e si gettò nel varco magico gridando: «Cearnog na Stiuradh!»
Sbucò in Piazza del Controllo, cuore pulsante di Dubh Cliathan, la parte magica di Dublino. Il sole non era altrettanto clemente nella parte orientale dell'isola irlandese e Septimius fu costretto a portarsi il braccio davanti agli occhi per non rimanere accecato dalla luce. «Sant'Iddio, giovanotto, quanto tempo è che non esci di casa?» domandò qualcuno alle sue spalle.
Septimius sbatté le palpebre un paio di volte, ma il sole era talmente luminoso che ancora non gli permetteva di vedere bene chi aveva parlato. In effetti, doveva avere un aspetto a dir poco cadaverico.
«Ho visto Inferi più in forma di te» commentò ancora l'uomo; dopodiché si buttò nel metrombino, lasciando Septimius lì impalato come un idiota.
Nel giro di una frazione di secondi, il ragazzo si riscosse e si precipitò verso il Palazzo del Governo.
«Dove si tiene il concorso per i nuovi insegnanti di Latino e Irlandese?» domandò frettoloso alla annoiata strega allo sportello.
«Terzo piano, ala ovest. Ma cominciano fra un minuto e comunque dubito che accetteranno un vampiro tra i candidati» rispose la signorina, sghignazzando da sola per la propria battuta sui vampiri.
Septimius non le diede nemmeno retta e si lanciò verso le scale per raggiungere l'aula. Arrivò trafelato, con il fiatone e il cuore che batteva a mille.
Proprio oltre l'uscio, si ritrovò di fronte il professor Ferrus in persona.
«Oh, Septimius!» esclamò l'anziano mago, con aria soddisfatta.
«Signore... io... non ho compilato il modulo d'iscrizione» farfugliò il ragazzo, con le parole mozzate dal fiatone.
L'uomo gli diede una calorosa pacca sulle spalle. «Non importa, figliolo. Lo compilerai dopo: non voglio certo impedire al mio migliore alunno di partecipare al concorso!» disse con aria soddisfatta, facendo apparire dal nulla un nuovo banco dove si potesse accomodare Septimius.
Il ragazzo si sedette e prese ad osservare gli altri candidati: c'erano una decina di maghi piuttosto vecchiotti, una strega dall'aria acida e un giovanotto poco più grande di lui. Tutti erano forniti di vocabolari megalitici, fogli di brutta, calamai e penne.
Improvvisamente Septimius realizzò che lui non aveva nemmeno una matita per scrivere.
Nel frattempo, il professor Ferrus stregò i compiti affinché volassero ognuno sul tavolo di un candidato. «Vi ricordo che è vietato l'uso di penne autocorreggenti e di tutte quelle diavolerie inutili, perché me ne accorgerò se copierete. Qui conta solo lo studio, la conoscenza e il cervello. Avete un'ora di tempo. Buon lavoro» sentenziò il professore, toccando con la bacchetta una grossa clessidra che stava sulla cattedra.
La mano di Septimius scattò in alto proprio mentre tutti giravano il foglio e cominciavano a lavorare.
«Sì, figliolo?» domandò il professore con gentilezza.
«Ehm, avrei bisogno di una penna con calamaio, signore» rispose titubante Septimius.
Alcuni maghi si voltarono a guardarlo e ridacchiarono.
La strega acida gli rivolse una smorfia e borbottò: «Questo nemmeno penna e vocabolario si è preso dietro».
Il professor Ferrus però non cessò di dimostrarsi affabile con il suo pupillo. Evocò quanto gli serviva per scrivere e glielo depositò sul banco con un sorriso di incoraggiamento.
Finalmente Septimius girò il suo foglio di pergamena e lesse l'autore da cui era stato tratto il brano. Alpiano, De artibus magicis.
Ah, però... cattivello il professor Ferrus. pensò Septimius con un ghigno.
L'autore più difficile della latinità, ma per lui sarebbe stato come bere un bicchier d'acqua.

«La cerimonia è stata molto bella. Semplice ed essenziale ma significava; e la sposa era un gioiellino. L'abito se l'era disegnato lei, sai?» stava raccontando la signora Saiminiu al figlio.
Septimius, tuttavia, non le dava molta retta perché sapeva che diceva quelle cose solo per farlo sentire in colpa di non essere andato al matrimonio. Un po' gli dispiaceva di aver disdetto all'ultimo, tanto più perché Eoin Maleficium era un suo amico, ma la possibilità di partecipare al concorso per la cattedra di Latino e Irlandese era essenziale per il suo progetto.
Ora doveva solo aspettare i risultati.
Esattamente due giorni dopo aver sostenuto l'esame, all'ora di colazione, arrivò a villa Saiminiu una lettera con il timbro del Dipartimento dell'Istruzione Magica e quello del Trinity college.
«E questa?» domandò il signor Saiminiu, prendendo la busta dalla zampa del gufo.
«Roba mia» esclamò prontamente Septimius, strappandogli la lettera dalle mani e ritirandosi in camera sua a leggerla.

La S.V. è pregata di recarsi al Trinity college il giorno 27 maggio alle ore 11 a.m. per sostenere il colloquio preliminare con il professor L. Ferrus, il professor C. I. E. Captatio e l'Onorevole Saurus Gelitus, capo del Dipartimento dell'Istruzione Magica, per l'assegnazione della cattedra di Latino e Irlandese. Distinti saluti

E seguivano le firme dei tre esaminatori. Septimius si lasciò sfuggire un sorriso di vittoria: se aveva ricevuto l'invito per il colloquio, significava che aveva superato l'esame scritto del concorso. Lanciò un'occhiata distratta all'orologio d'oro appeso alla parete della sua stanza, che fungeva anche da calendario e segnava le fasi lunari: esattamente fra due giorni avrebbe sostenuto il colloquio.

Tornare al Trinity causò in Septimius un vortice di emozioni tanto diverse e confuse, che si tramutarono presto in una tempesta. C'era nostalgia, tanta nostalgia, ma anche un po' di paura per ciò che lo attendeva, rabbia per ciò che vi era accaduto e un accenno di sorriso sulle labbra per la marea di ricordi che lo assaliva.
Era stato il burbero custode Armandus a venire ad aprirgli il cancello d'ingresso e ad accompagnarlo attraverso il parco, lungo il ponte che collegava l'isola alla terraferma e fino al portone di ingresso. «Sono in presidenza, i colloqui» bofonchiò con aria scortese, indicandogli vagamente la sinistra.
Septimius lo ringraziò con un cenno del capo, poi prese un profondo respiro e attraversò l'uscio.
Erano passati esattamente cinque anni da quando aveva messo piede per l'ultima volta sul pavimento rossiccio di terracotta del Trinity College. Eppure, Septimius si sentì come se non fosse passato neanche un giorno.
Alla sua destra, stava l'immenso portone che conduceva alla Sala Mor: Septimius decise che poteva cogliere l'occasione per dare una sbirciatina. Era esattamente come se la ricordava, immensa, con il suo soffitto a cassettoni le grandi bifore che facevano entrare fiotti di luce, i tre tavoli delle rispettive case e quello degli insegnanti sul fondo.
Proprio sopra il portone d'ingresso, stava il quadro che segnava i punti delle case: un aquila, un unicorno e un drago (rispettivamente simboli dei Raloi, Llapac e Nagard) difendevano con sollecitudine ognuno il proprio tabellone che riportava i punti delle casa.
Septimius constatò con orgoglio che i Nagard erano in testa e si ricordò improvvisamente di quella volta in cui Reammon aveva cercato di corrompere l'aquila a ridargli i cinquanta punti che la professoressa O'Connel gli aveva tolto per aver accidentalmente allagato i bagni dell'infermeria.
Quel pensiero gli strappò un sorriso involontario.
Proprio in quel momento, finì la penultima ora della mattinata e una valanga di studenti si riversò nei corridoi. Septimius, che si trovava ancora sull'uscio della Sala Mor, sentiva i passi e il vociferare dei ragazzi che provenivano dai piani più alti del corpo centrale del castello. Controllando il suo orologio, vide che erano già le undici, quindi si diresse verso la portineria, dove si trovava la scaletta a chiocciola che portava alla presidenza.
Dopo un paio di minuti di attesa, vide scendere dall'ufficio del preside la donna acida, che gli rivolse una smorfia seccata. Spero davvero che non scelgano quella lì. pensò Septimius. Altrimenti, poveri studenti!
«Saiminiu Septimius» chiamò la voce di un uomo, dal piano di sopra.
Il ragazzo si affrettò a salire le scale a chiocciola e a raggiungere i tre esaminatori. Non appena entrò in presidenza, il suo sguardo fu subito rapito dal professor Captatio, che indossava un improbabile completo da mago color verde acido, con tanto di cappello a punta correlato. Forse per l'abbigliamento eccentrico di Captatio, forse per la sua faccia anonima, ma Septimius non degnò nemmeno di uno sguardo l'Onorevole Gelitus. Il professor Ferrus, invece, continuava a rivolgergli sorrisi incoraggianti.
«Buongiorno, Septimius» lo salutò gentilmente il preside, stringendogli la mano.
Non appena il ragazzo si fu seduto, il professor Ferrus passò a Captatio lo scritto del candidato: non vi era nemmeno un segno fatto con l'inchiostro rosso.
«Sarai contento di sapere che sei stato l'unico a consegnare una prova praticamente perfetta» commentò il preside, mostrandogli la pergamena. «Ma su questo non avevamo dubbi, vero Lucretio?»
Il professor Ferrus annuì con aria soddisfatta. «Nessun dubbio» precisò.
Septimius si torse le mani in grembo: aveva come l'impressione che presto sarebbe arrivato un “ma”.
Il professor Captatio si soffermò pensieroso ad osservare la sua bacchetta, come se stesse meditando su una questione filosofica irrisolta. «Tuttavia, vedi, Septimius...» cominciò a dire, tornando finalmente a guardarlo negli occhi. «Il mestiere dell'insegnante è molto complicato. Non si tratta solo di conoscere bene la materia, ma bisogna anche sapersi rapportare con i ragazzi, capire le loro esigenze, andare loro incontro, sapere quando vanno sgridati e quando vanno lodati. E soprattutto, devi riuscire nel compito più difficile di tutti: appassionarli alle cose che stai loro insegnando, motivarli, far loro capire che studiare è l'unica cosa che li renderà liberi. Ti assicuro che insegnare è il lavoro più difficile e insieme più affascinante che si possa scegliere. Sei certo di potercela fare?»
A quel discorso, Septimius distolse i suoi occhi da quelli azzurri e penetranti di Captatio.
No, non era affatto certo di potercela fare. Lui non era mai stato capace di rapportarsi con gli altri, ad esclusione di Reammon e di sua sorella, a causa della sua introversione cronica. Sicuramente, mettersi a dialogare con esuberanti adolescenti in preda ad una tempesta di ormoni, non era un mestiere adatto a lui.
Ma lui aveva bisogno di quel posto!
Voleva tornare al Trinity, l'unico luogo dove conservava tanti ricordi felice, anche se questa volta si sarebbe trovato dalla parte opposta della cattedra. Era il solo modo per sfuggire al tunnel di oscurità dentro cui era piombato ormai da anni. Forse, una volta tornato tra le rassicuranti mura megalitiche del castello, avrebbe finalmente ricominciato a vivere.
«Signore, io...» tentò a dire, con un tono di voce titubante. «Ci posso provare».
«Provare non basta. Non c'è in gioco solo il tuo futuro, Septimius, ma anche quello dei tuoi alunni» gli rispose Captatio con serietà.
Il ragazzo lo fissò dritto negli occhi. Avrebbe voluto gridare che ce l'avrebbe fatta, che non poteva assicurare un successo immediato, ma comunque ci avrebbe investito ogni sua energia... invece non disse nulla. Non disse nulla perché temeva di poter fallire. Aveva paura.
In fondo, il tunnel di oscurità non era poi così male, a pensarci. Almeno lì sapeva cosa aspettarsi.
«Mi dispiace, Septimius» mormorò in fine il professor Captatio.
Septimius strinse le mani ai tre esaminatori, osservò lo sguardo avvilito del professor Ferrus e quello dolente di Captatio, poi, dopo un breve inchino, lasciò la presidenza.
Non provava nessuna emozione, non si sentiva né deluso né dispiaciuto: semplicemente, aveva la testa vuota come una Pluffa.
In ingresso incontrò un gruppo di ragazzotti che stavano schiamazzando come dei disperati. Uno di loro, un Raloi piuttosto massiccio, aveva in mano un'inconfondibile Caccabomba e stava per tirarla addosso ai suoi compagni.
Septimius agì d'impulso. Si avvicinò al giovanotto e gli agguantò il braccio prima che lui scagliasse il disgustoso proiettile.
«Ma che cos...?» esclamò questo, stupefatto, ma si bloccò subito quando vide chi lo aveva fermato: un ragazzo pallido, con l'aria smunta e sciupata, un paio di spessi occhiali e un naso spropositato.
Il Raloi gli rivolse un'occhiata perplessa, ma l'altro non lasciò la presa sul suo braccio. Dietro le lenti dei suoi occhiali blu, aveva uno sguardo grave e penetrante, che incuteva rispetto e insieme terrore.
«Tu sai dove ti trovi?» gli chiese, con una voce roca e profonda che stonava con la sua figurina smilza.
Il ragazzo deglutì. «A scuola?» si azzardò a rispondere.
«A scuola?» gli fece eco l'altro.
E poi Septimius gli riversò addosso tutto l'amore che provava per quel posto. «Tu non sei a scuola. Tu sei al Trinity college, l'unico luogo dove potrai imparare ad aprire la mente a infinite prospettive, se solo deciderai di impegnarti e studiare a fondo. Se ora tiri quella Caccabomba, butti via con essa la tua intelligenza. E tu non vuoi restare stupido come un troll, giusto?»
«No, signore» borbottò mogio il Raloi, abbassando il braccio a terra. «Ma lei chi è?»
«Il nuovo professore di Latino e Irlandese» rispose la voce limpida di Captatio alle loro spalle. Evidentemente, aveva assistito a tutta la scena. Septimius si voltò verso il preside con un sorriso di gratitudine.
L'uomo aveva uno sguardo luminoso e bonario.
«Il posto è tuo, Septimius».





Ecco qui come il caro Septimius ottiene la cattedra di Latino e Irlandese! Nel descrivere queste scene, mi è venuto in mente l'episodio di Voldemort che chiede il posto di insegnante di Difesa contro le Arti Oscure a Silente, ma spero che la situazione vi sia parsa del tutto diversa! XD
Ovviamente c'è l'accenno al matrimonio dei signori Maleficium... poteva mancare? A quest'altezza, Eoin è un giovane giornalista in erba, ma sappiamo tutti che farà una veloce carriera, fino a diventare direttore del
Corriere del Mago.
Prossimo capitolo: martedì 12 luglio (ora che sono in ferie, aggiornerò più spesso!).
Alla prossima!
Beatrix


EDIT: continua l'opera di risistemazione dei dialoghi!

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Capitolo 18
*** Preparativi ***


Preparativi

Giugno 1978, la Tana

Mary osservò la sua figura allo specchio. Erano passati quasi due anni da quando Reammon le aveva fatto la fatidica domanda, ma anche lì, in piedi sulla pedana a provare il suo abito da sposa, ancora non riusciva a crederci.
«Sei incantevole» esclamò Molly, in tono zuccheroso, puntando uno spillo sulla gonna. L'abito che indossava apparteneva alla famiglia Weasley da secoli, ma Mary aveva dovuto farlo sistemare perché lei era mediamente più alta e magra delle altre Weasley che l'avevano indossato. Inoltre, vi aveva fatto delle aggiunte personali, come il fiocco sul retro che sosteneva un lungo strascico o l'eliminazione delle maniche a palloncino che avevano un gusto vagamente retrò.
«La cugina Mary si sposa, la cugina Mary si sposa!» cantilenò il piccolo Charlie, catapultandosi nella stanza dove la ragazza stava provando l'abito.
Molly non fece a tempo a sgridarlo per la sua intromissione, che arrivò Bill, con in braccio il fratellino Percy, di due anni, che scalciava non poco per essere rimesso a terra.
«Mamma!» si lagnò Bill, scaricando il suo fardello tra le braccia di un'arrabbiatissima Molly. «L'ho trovato che strappava le pagine del giornale del signor Boenisolius».
«Io leggeva!» protestò il piccolo Percy, aggrappandosi alle gonne della madre che lo aveva prontamente rimesso a terra.
«E il signor Boenisolius? L'ha sgridato?» si informò la donna, in tono preoccupato.
«No. Se la rideva» rispose Bill, stringendosi nelle spalle e trascinando fuori Charlie per andare a giocare in giardino.
Mary lanciò un'occhiata divertita a Joey, immaginandosi Aaron che rideva del suo giornale fatto a pezzi dal piccolo Percy. Dopodiché tornò a guardare Molly, che stava sgridando il figlioletto per il disastro combinato. C'era qualcosa di assolutamente ammaliante in quella donna paffuta con una zazzera di capelli rossi. Mary l'aveva scelta come sua testimone di nozze non solo perché era la moglie di suo cugino, ma anche perché nutriva una profonda stima nei suoi confronti: era una donna che sapeva il fatto suo, mandava avanti la casa amorevolmente, ma anche con un pizzico di fermezza e, sebbene non fosse nulla più che una casalinga, pareva appagata e realizzata.
«Adesso che ho cacciato via i marmocchi, passiamo a cose più importanti: dobbiamo scegliere la tua acconciatura per le nozze» sentenziò Molly, dopo aver spedito Percy al piano di sotto a fare le scuse ad Aaron. «Potrei chiedere a zia Muriel di prestarti la sua tiara... opera di folletti, sai, è un cimelio di famiglia niente male» cominciò a dire Molly, ma proprio in quel momento un pianto scoppiato al piano di sotto richiamò la sua attenzione: uno dei due gemelli doveva esseri svegliato e reclamava la pappa. Poco dopo, un secondo grido si unì al primo. Molly sbuffò sonoramente, poi si affrettò a raggiungere i due gemelli, che avevano da poco compiuto due mesi.
Quando Mary la vide allontanarsi, pensò che i bambini erano una benedizione, ma lei non avrebbe mai avuto così tanti figli come sua cugina.
«Niente contro 'sta zia Muriel, ma ho io qualcosa per te» decretò Joey, alzandosi dal letto e avvicinandosi a lei. Dopodiché estrasse dalla borsetta un portagioie in legno intagliato. «Ecco, tieni» sussurrò con dolcezza, porgendo la scatola a Mary.
La ragazza la aprì titubante, certa che qualsiasi cosa contenesse, doveva essere di grande valore.
Il tesoro del portagioie era una tiara di magnifica fattura, talmente luminosa e splendente che sembrava emanare luce propria. «È di proprietà degli O'Brian di Mael Duib da secoli: l'hanno indossata tutte le donne della famiglia al loro matrimonio e ora vorrei che passasse a te» spiegò Joey sorridendo.
Mary, che era rimasta incantata dal gioiello, scosse lentamente la testa. «Non posso accettare, davvero».
«Scherzi? L'ho protetta apposta da quell'avvoltoio di mio cugino Childerich O'Brian, che voleva darla a sua figlia Grainne per il matrimonio, solo perché sognavo di regalarla alla futura moglie di mio figlio. Voglio che sia tua e che tu, a tua volta, la consegni alle tue figlie o nuore che siano» sentenziò Joey in un tono che non ammetteva repliche.
Mary tornò ad osservare la tiara. «Io... non so che dire» sussurrò a disagio.
Joey le rivolse un sorriso incoraggiante. «Di' che la indosserai volentieri e che ti piace un sacco! Guarda, questo al centro è uno smeraldo (verde, come verdi sono gli occhi di tutti gli O'Brian), il giro è di diamanti e l'intarsio di oro bianco».
«Grazie» mormorò alla fine Mary, a disagio, pesando che quella tiara valeva probabilmente più di tutta la sua nuova casa. «La mia casa!» esclamò poi, ricordandosi improvvisamente che quel giorno lei e Reammon avevano appuntamento con i maghi che dovevano portare loro i mobili della camera da letto.
«Come, cara?» domandò Joey, che non aveva potuto seguire tutto il suo ragionamento.
«Devo andare!» esclamò Mary, ponendo in mano il portagioie a Joey e gettandosi verso la porta.
Proprio in quel momento, comparve Molly sull'uscio che le sbarrò la strada.
Mary fece per uscire lo stesso, ma Molly e Joey la bloccarono, urlando all'unisono: «L'abito!»
La ragazza notò che indossava ancora il vestito bianco ed esclamò: «L'abito!»
Tutti quei preparativi per il matrimonio la stavano letteralmente facendo impazzire: presto o tardi, sarebbe diventata smemorata almeno quanto Reammon. Si fece aiutare a levare il vestito senza che subisse danni, infilò alla svelta un abitino estivo e corse giù dalle scale per raggiungere il suo promesso sposo.
Lo trovò in cucina, chino su una lunga lettera. In un angolo della stanza, i due gemelli Fred e George gorgogliavano e agitavano le braccia dalle rispettive culle. Seduto al tavolo stava anche Aaron, intento a leggere il giornale, con in braccio il piccolo Percy, a cui indicava le foto curiose e raccontava buffi aneddoti che aveva letto, tanto per farlo divertire un po'. Fuori dalla finestra, si intravedevano Bill e Charlie che stavano giocando a tirarsi una vecchia Pluffa.
«Oh, Mary cara» esclamò Aaron quando la vide entrare in cucina. «È fantastico vedere una casa piena di marmocchi. Non vedo l'ora di avere tanti nipotini!»
«Già» commentò la ragazza con aria un po' perplessa, sedendosi al fianco di Reammon. Lei non era affatto dell'idea di avere tanti figli, o almeno, non tanti quanti ne avevano i suoi cugini. «A chi scrivi, amore?» domandò, tanto per distogliere l'argomento dalla questione figli.
Reammon alzò gli occhi dal foglio di pergamena: stranamente, aveva un'espressione affranta, quasi dolente. «A Septimius» rivelò infine, con un sorriso amaro. «Sai, ho sempre pensato che sarebbe stato lui il mio testimone di nozze. Non ho niente contro Arthur, anzi, l'ho scelto volentieri, ma...» la voce gli morì in gola.
Mary non aveva più rivisto il fratello di Priscilla da quella fatidica sera di maggio di tanti anni fa, ma capiva che cosa significasse per Reammon la fine di quell'amicizia. Era stato il suo inseparabile compagno per i sei anni del Trinity e certo non doveva essere facile accettare che tutto si fosse infranto a quel modo.
«Pensavo di mandargli un invito per il matrimonio, ma, in realtà, è solo una scusa per riallacciare i rapporti: dubito che venga alla cerimonia con un bel regalo di nozze come se nulla fosse successo, ma magari questa lettera servirà a smuovere un po' le acque» spiegò Reammon, annuendo dolorosamente.
Mary allora gli diede un veloce bacio sulla guancia. «È un'ottima idea, tesoro» gli rivelò, nel tentativo di incoraggiarlo.
«Quanti inviti vi mancano ancora?» domandò allora Aaron, abbandonando il suo giornale tra le manine di Percy, perché lo distruggesse una seconda volta nel tentativo di fingere di leggerlo.
Reammon controllò la busta che aveva accanto a sé per vedere quali nomi erano stati spuntati. Buona parte degli invitati era rappresentata dalla numerosa famiglia Weasely, che contava più cugini e zii di quanti Reammon pensasse fosse possibile possedere. I parenti di Reammon invece erano molto limitati: oltre ai genitori e al fratello Babbano di Aaron, che non si era mai sposato, Reammon aveva invitato solo sua nonna Alba McTrust, vedova O'Brian. Tanto per importunarli, aveva spedito l'invito anche a sua zia Evangeline con il marito Cassian Deamundi e al suo cugino Meccorin, con la moglie e i sette figli, sebbene fosse certo non solo che non sarebbero venuti, ma anche che la lettera si sarebbe rivelata sgradita. O forse, fu proprio questo il motivo per cui li invitò.
Un altro gruppo di invitati era rappresentato dagli archeologi colleghi di Reammon, tra i quali spiccavano ovviamente Lorenzo, Chris e Gustav, complici e artefici del suo piano per chiedere la mano di Mary.
Ricontrollando la lista, Reammon elencò i nomi che mancavano all'appello: «Be', a Septmius spedisco l'invito via gufo perché dubito che voglia ricevermi; poi ci sarebbe il mio amico Sebastian, ma lui è Babbano e anche se è avvezzo alla magia, sconsiglierei di materializzarci proprio nel suo salotto. Infine ci sarebbe da andare al seminario per consegnare l'invito a Rafael, sperando che riesca ad ottenere il permesso per venire».
«E poi dobbiamo ricordarci di andare dallo zio Bilius, anche se preferirei non invitarlo, visto che al matrimonio di Arthur e Molly si ubriacò di Whisky Incendiario e cominciò a cavarsi mazzi di fiori dal didietro nel mezzo della pista da ballo» commentò preoccupata Mary.
Sia Reammon che Aaron scoppiarono a ridere alla descrizione delle prodezze di zio Bilius. «Lui sì che sa come animare le feste» ridacchiò Aaron, immaginando la scena.
«Comunque sia, ora è meglio se ci muoviamo» sentenziò Mary, per chiudere la questione sui fiori di zio Bilius.
«Perché?» domandò innocentemente Reammon, leccando la busta per chiudere la lettera indirizzata a Septimius.
«Mon, l'appuntamento con i maghi che ci portano i mobili è esattamente fra tre minuti» rispose Mary, ancora troppo ingenua nello sperare che il futuro marito potesse realmente ricordarsi un appuntamento.
Reammon, colto di sorpresa, consegnò la lettera al padre perché la portasse all'ufficio postale e si affrettò a seguire Mary fuori dalla Tana per smaterialzzarsi.
La casetta che avevano acquistato i futuri coniugi Boenisolius si trovava a Boyle, un pittoresco paesino irlandese, poco distante dal Lago Key. Era abitato quasi esclusivamente da Babbani, ma non lontano dal lago si trovava un famoso pub per maghi e quindi il posto era considerato meta turistica. Inoltre, la casa che Mary e Reammon avevano comprato, era stata abitata per tanti anni da un membro di spicco del Parlamento (che, una volta in pensione, si era ritirato in campagna), il quale era riuscito a far aprire un metrombino collegato con il sistema nazionale proprio in un vicoletto dietro la piazza di Boyle. La casa si trovava poco lontana dai ruderi della Boyle Abbey, la principale attrazione turistica del paese. Era un quartiere tranquillo, con una serie di villette a schiera: un posto perfetto per far crescere una nuova famiglia.
I due ragazzi si materializzarono proprio davanti alla porta di casa, dove poco dopo li raggiunse un furgoncino bianco che portava la scritta “Magicamente Trasporti” e poco sotto “Ciò che è venduto, è a casa vostra in un minuto”. Alla guida del camioncino c'era un mago raggrinzito, con un paio di spessi occhiali che gli ingrandivano gli occhi a dismisura; al suo fianco, un giovanotto ipermuscoloso e con la carnagione piuttosto abbronzata.
Il vecchietto scese dal camion e si avvicinò ai due ragazzi. «Buongiorno. Sono Mohamed Aldin» li salutò allegramente, con un leggero accento straniero. «Dove vi portiamo i mobili?» chiese allegro, mentre il suo compagno controllava con aria circospetta che non ci fossero Babbani in giro.
Mary aprì la porta e mostrò l'interno a Mohamed, spiegando dove andavano posizionati i vari mobili. Aveva progettato lei stessa la camera da letto: il mobilio di legno chiaro, le pareti azzurre, il letto al centro sormontato da una zanzariera di tulle e le tendine di pizzo bianche. Il tutto dava l'impressione di entrare in una corolla di un fiore delicato.
Mohamed e il suo giovane compagno aprirono il portellone del furgoncino, rivelando uno spazio immenso che era stato ricavato senza dubbio con la magia. Attraverso semplici incantesimi di levitazione, i due maghi trasportarono i mobili al proprio posto, sotto la attenta direzione di Mary.
Reammon, nel frattempo osservava con interesse una credenza di gusto orientale che si trovava sul retro del furgone. Tirò qualche cassetto del mobile per osservare l'interno, quando la maniglia si staccò e gli rimase in mano. Proprio in quel momento, arrivò il ragazzo più giovane a prendere il divano e Reammon fu costretto a mettersi il pomolo in tasca con aria innocente. «Simpatico il nome della vostra ditta» disse rivolto al giovanotto, tanto per sviare l'attenzione dalla credenza.
L'altro si strinse nelle spalle. «La rima lascia un po' a desiderare, ma Mohamed è convinto di essere un gran poeta» rispose poco dopo, facendo levitare il divano giù dal furgone.
«Achmed!» lo chiamò Mohamed, aggiungendo qualche parola in arabo.
«Arrivo, arrivo» replicò Achmed, con uno sbuffo.
Non appena Reammon fu nuovamente solo, si ficcò la mano in tasca per estrarre il pomolo, ma ovviamente quello era finito chissà dove, sepolto da anni di cianfrusaglie accatastate lì dentro.
«Accio manopola» provò a dire, puntando la bacchetta alla sua tasca. Ma l'incantesimo di appello non era mai stato il suo forte, tanto che il pomolo schizzò fuori e gli si piantò dritto nell'occhio destro.
«Santa Morgana e tutti i cori angelici riuniti!» esclamò Reammon, portandosi la mano all'occhio dolorante che aveva cominciato a lacrimare e pulsare. Dopo una manciata di secondi in cui il dolore era talmente acuto da aver accecato Reammon, il ragazzo riuscì a riaprire l'occhio, ma vedeva ancora tutto sfuocato. Cercò in qualche modo di rinfilare il pomolo al suo posto sulla credenza, poi si affrettò a scendere dal furgone.
«Mon, tesoro, che hai fatto all'occhio? È rosso e gonfio come una Pluffa» esclamò Mary, quando se lo vide comparire in ingresso.
«Niente, niente» rispose sbrigativo Reammon, con un sorriso innocente.
Per fortuna Mary lasciò cadere la cosa perché proprio in quel momento Mohamed la avvisò che avevano finito.
«Grazie mille, signor Aldin» gli disse Mary, stringendo la mano ossuta dell'uomo.
«Vi manderò un gufo con il conto. Potere anche pagarci a cammelli e tappeti volanti, se volete!» esclamò il maghetto, con un sorriso allegro. «Ah-ah! Scherzavo, ovviamente!» ridacchiò poco dopo, strizzando loro l'occhio.
Mary e Reammon si scambiarono uno sguardo perplesso.
«Ovviamente» gli fece eco Reammon.
Quando i due uomini se ne furono andati, Mary condusse il suo futuro sposo a vedere la stanza da letto che aveva progettato. «Guarda, non è meravigliosa?» gli domandò con tenerezza.
Reammon le sorrise, poi si avvicinò al comodino dalla parte dove avrebbe dormito lei.
«Manca solo una cosa» disse, e con un veloce gesto della bacchetta, fece apparire un vaso di fiori con tre camelie bianche, i fiori preferiti di Mary. «Ecco, così è perfetto».
La ragazza osservò la stanza e poi tornò a fissare Reammon: aveva ancora un occhio gonfio e rosso ma il suo sorriso era talmente luminoso che lo faceva apparire più bello che mai.
«Ti amo, Reammon» gli sussurrò con dolcezza.
Lui le venne vicino e la cinse per i fianchi con l'intenzione di baciarla. «Anche io ti amo, Mary. E non vedo l'ora che tu diventi mia moglie». E con quelle parole la baciò.





Questo è un capitolo di passaggio: non avevo voglia di imbarcarmi nella difficile impresa della descrizione del matrimonio, ma volevo comunque dare un assaggio dei preparativi per le nozze. Qui, infatti, un immagine di Mary che prova l'abito, qui, invece, la tiara degli O'Brian.
Quanto alla comparsa di buona parte dei figli Weasley, ho controllato le date: siamo nel 1978, quindi Bill ha 9 anni, Charlie 5, Percy 2 e i gemelli Fred e George due mesi (essendo nati il 1 aprile 1978). I sette figli del conte Deamundi, invece, sono tutti già nati visto che Eibhean, il più giovane, è del 1977. Il cugino che nomina Joey, Childerich O'Brian, è il padre di Teudilascius (e di Grainne, che però non è mai comparsa personalmente). Come cugino diretto di Joey, è un O'Brian a pieno titolo e avrebbe tutto il diritto di far indossare alla figlia la tiara, ma si sa com'è fatta Joey...! ;-)
Invece, lo zio Bilius che nomino è un personaggio della Rowling: è quello che morì dopo aver visto un gramo e le cui prodezze alle feste sono descritte dai gemelli Weasley ne “I Doni della Morte” (capitolo 8, pag 137).
Infine, era previsto in questo capitolo che Reammon combinasse qualche disastro sulla Ford volante di Arthur, ma rileggendo il secondo libro di HP mi sono accorta che, da come la Rowling lo descrive, pare proprio che la macchina sia stata ultimata da Arthur in quel periodo e che non l'abbia mai usata prima (infatti, chiede ai figli come sia andata, prima di sgridarli). Ergo, il tutto diventava incompatibile con le date, visto che qui siamo quasi 15 anni prima dell'episodio narrato dalla Rowling. Quindi, il finale di questo capitolo è stato cambiato un po' all'improvviso e spero comunque che vi sia piaciuto.

Dopo queste precisazioni al capitolo, alcuni annunci sulle date:
-)venerdì pomeriggio (15/07) dovrei pubblicare l'ultimo capitolo della storia. Seguirà, molto probabilmente martedì pomeriggio (19/07), l'epilogo della storia.
-)Nuntio vobis che da lunedì 18/07 pubblicherò il primo capitolo di “Il torneo Trecolonie”, con aggiornamenti settimanali (se tutto procede per il verso giusto!).

Grazie mille della vostra attenzione! A presto,
Beatrix


EDIT: continua l'opera di risistemazione dei dialoghi!

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Capitolo 19
*** Vecchi ricordi ***


Vecchi ricordi

Settembre 1991, Trinity college

Erano ormai dodici anni che Septimius si sentiva chiamare professor Saiminiu dai giovani apprendisti maghi che erano passati sotto le sue grinfie. Inizialmente aveva tenuto solo la cattedra di Latino e Irlandese, ma alcuni anni dopo aveva convinto il professor Captatio a inserire tra le materie a scelta del terzo anno anche Magicologia Irlandese, insegnamento di cui lui stesso aveva provveduto a stendere il programma.
La lezione più divertente dell'anno era senza dubbio quella con i nuovi studenti: i ragazzini che venivano al Trinity erano sempre facilmente impressionabili e Septimius si divertiva a terrorizzarli almeno un poco.
Quell'anno Septimius non era riuscito ad essere presente allo Smistamento con il cerchio magico, perché aveva avuto delle faccende burocratiche da sbrigare e si era presentato al banchetto solo quando i nuovi studenti erano già seduti ognuno al tavolo della propria casa. In questo modo non aveva potuto sentire i loro nomi né vedere le loro facce, ma si sarebbe rifatto l'indomani mattina, alla loro prima lezione.
Arrivò in aula leggermente in ritardo, quando i ragazzini erano già tutti seduti al loro posto. Riservò loro uno sguardo torvo e crucciato, facendo trasalire un paio di ragazzette dei Llapac in prima fila. Dopodiché si posizionò dietro la cattedra e li squadrò con serietà.
Era arrivata l'ora di fare il suo discorsetto introduttivo.
«Questo non è un corso per fannulloni» decretò con la sua voce roca e profonda, che strideva con la carnagione smunta e la fisionomia longilinea. Gli piaceva parlare con lentezza e scandire bene le parole, come per assicurarsi che tutti potessero seguire il suo discorso.
«Non ci sarà un inutile svolazzare di bacchette durante le mie lezioni. Quello che vi dovrò insegnare va ben oltre ciò che imparerete con gli altri professori. Io vi posso aprire la mente ad infinite prospettive, perché se saprete padroneggiare bene il latino e l'irlandese, le porte del mondo della magia vi saranno aperte dinnanzi e potrete creare nuovi incantesimi, capire il significato e il senso profondo di quelli già esistenti. La PAROLA vi darà il potere di piegare la magia al vostro volere».
Conclusa la sua presentazione ad effetto, Septimius osservò le reazioni degli studenti; lo colpì in particolar modo un ragazzino seduto in prima fila, con la divisa verde dei Raloi: i suoi occhi azzurri e penetranti scintillavano per la brama.
Septimius gli rivolse un sorriso incoraggiante, poi continuò: «Ma per ottenere tutto ciò, avrete davanti anni di impegno e studio intenso. Altrimenti accontentatevi di raggiungere la sufficienza per essere promossi. A voi la scelta».
Dopodiché prese il registro e cominciò a fare l'appello: quando Septimius li chiamava, i ragazzini si alzavano in piedi per presentarsi. «Alabacor Henry» chiamò il professore e un ragazzetto paffutello dei Llapac si alzò maldestramente in piedi.
Septimius continuò l'appello, chiamando due ragazzi dei Nagard.
Ma fu quando il suo occhio si soffermò sul nome successivo che il cuore gli saltò un battito.
Non era possibile... quel cognome! Eppure...
«Boenisolius Mairead» sussurrò titubante.
Una ragazzina con la divisa dei Raloi si alzò da uno dei banchi in fondo all'aula. Sebbene fossero distanti, Septimius riuscì ad intravedere il verde luminoso di quegli occhi che lo fissavano. Non avrebbe mai potuto dimenticare quegli occhi: erano dello stesso taglio e dello stesso brillante colore di quelli di Reammon.
Quella doveva essere sua figlia.
Per di più, seduto al suo fianco, stava un ragazzino biondo con la divisa rossa dei Nagard. Di due case diverse, per di più rivali... era un'amicizia strana la loro.
Case rivali, Inglesofilo e Sanguinista, contro le regole... come gli Extraiures.
La ragazzina si stava rivelando una degna figlia di suo padre.
Erano passati diciotto anni dall'ultima volta che lui e Reammon si erano visti e Septimius era ormai convinto che quella vita appartenesse al suo passato. Invece una marea di ricordi gli invase la mente, momenti che credeva di aver dimenticato, ferite che non erano ancora state sanate.
Quando finì l'ora, Septimius schizzò fuori dall'aula come se avesse paura di restare chiuso lì dentro un secondo di più.
Era confuso, principalmente, ma anche spaventato da quella marea di immagini che ora popolavano la sua mente. Quegli ultimi anni passati al Trinity lo avevano aiutato ad uscire dal tunnel di oscurità in cui era piombato dopo la morte di Priscilla: dedicarsi al latino e ai suoi studenti gli aveva ridato la vita e lentamente aveva imparato a convivere con il suo dolore e a superare la perdita della sorella e del migliore amico.
Ma era convinto che la sua adolescenza fosse ormai qualcosa di lontano, come delle vecchie fotografie rinchiuse in uno scatolone. Non era più entrato nel covo degli Extraiures, convinto com'era che sarebbe stato meglio lasciare nel passato ciò che al passato apparteneva.
Certo, non era improvvisamente diventato un simpatico burlone, visto il suo carattere introverso. Adorava ancora andarsene in giro vestito di nero, con quell'aria un po' decadente e dannata di chi ha in odio tutto il mondo tranne se stesso, e non aveva stretto nessun legame particolare con i colleghi, se non con la professoressa Sidera O'Elan, che insegnava Artimanzia ed era di qualche anno più grande di lui.
Non avrebbe mai immaginato che i ricordi sopiti nella sua memoria potessero ricomparire nuovamente alla sola vista della figlia di Reammon. Forse era stata l'incredibile somiglianza tra i due, gli stessi occhi verdi, lo stesso colore di capelli, perfino le stesse piccole rughe intorno alla bocca quando sorridevano; o forse era stato il fatto che la ragazzina era seduta a fianco di un Nagard, ma quella semplice vista gli aveva sbloccato una valanga di immagini, scene ed emozioni che credeva di aver dimenticato.
Gli venne in mente improvvisamente quella volta in cui si erano buttati giù dalle scogliere con le scarpe di Hermes, suggellando con una folle risata la loro amicizia. Oppure si ricordò di quando Reammon aveva duellato con Augustus MacDivus al quinto anno, facendo ingoiare al suo avversario il manico di scopa su cui si pavoneggiava continuamente e meritandosi una punizione di un mese e cinquanta punti in meno alla sua casa.
E si ricordò anche di quando avevano scoperto il passaggio segreto nell'aula degli scacchi: si erano fermati fino a mezzanotte a giocare, perché Reammon non riusciva ad accettare di venir sconfitto ogni volta. Era successo che Reammon si era intestardito a voler usare la scacchiera nell'angolo, quella con i pezzi che non rispondevano ai comandi dei giocatori e con il re e la regina neri invertiti di posto. Frustrato dalle continue perdite e dai pezzi che si beffavano dei suoi comandi, Reammon aveva cominciato a dare ordini a casaccio, finché non aveva indovinato per caso quello giusto: regina nera in E-7.
Allora, sotto i loro occhi, si era aperta un'arcata nella parete che dava su un lungo e buio corridoio. Un'altra stanza segreta, come quella dove avevano fondato il covo.
Fu da quel momento che avevano deciso di indagare in tutto il castello alla ricerca di altri passaggi segreti; scoprirono alcune stanze nascoste, l'ingresso delle cucine, ma soprattutto il cunicolo che partiva da sotto il ponte che collegava l'isola alla terraferma e portava fuori dal Trinity. Si trattava di una risorsa inestimabile: la possibilità di uscire dal territorio della scuola senza essere visti.
«Septimius!» esclamò qualcuno alle sue spalle, strappandolo dal fiume di vecchi ricordi che lo aveva travolto. Ma anche la voce di quell'uomo pareva appartenere al suo passato. Gli ricordava tantissimo...
«Rafael?» mormorò voltandosi verso chi aveva appena parlato. Erano passati anni, ma quel taglio a spazzola e gli espressivi occhi azzurri un po' infossati, incorniciati dagli occhiali rettangolari, erano inconfondibili.
«Sono padre Rafael, ormai. Concluso il Trinity sono entrato in Seminario e sono stato ordinato sacerdote» rispose Rafael, indicando il colletto bianco e la croce appuntata sulla giacca. Aveva ancora un volto giovanile, che lo faceva apparire più giovane dei suoi trentatré anni. Il suo sorriso era sincero, generoso e a prima vista non c'era più traccia del ragazzino esagitato che faceva a pugni con chiunque. Era cambiato, era cresciuto, ma sembrava sempre lo stesso.
Ma che ci faceva al Trinity?
«Sei tu che hai sostituito Padre Joseph» arguì Septimius, ricordandosi improvvisamente che il precedente cappellano della scuola era andato in pensione proprio l'anno scorso.
Rafael sorrise e accennò un sì con il capo. «Esatto. Ho appena concluso il dottorato in Teologia a Roma e quando mi è stato offerto questo incarico, ho accettato di buon grado. Fa uno strano effetto tornare al Trinity, con tutti i vecchi ricordi che aleggiano qui intorno» disse guardandosi in giro, come se si aspettasse di veder spuntare dai muri i fantasmi della sua adolescenza.
«Già» mormorò Septimius sommessamente.
«Tu che hai fatto in tutti questi anni?» chiese allora Rafael, felice di aver ritrovato il suo amico dopo tutto quel tempo.
«Mah, niente di che... insegno Latino e Irlandese dal lontano 1978» rispose Septimius vago. In realtà non gli andava molto di parlare con Rafael: non che non gli stesse simpatico, ma rappresentava un altro doloroso collegamento con la sua adolescenza al Trinity.
Rafael, però, non parve cogliere i segnali impliciti e anzi rincarò la dose. «Ehi, hai saputo? C'è la figlia di Reammon quest'anno al Trinity. Una Raloi, tutta suo padre» esclamò gioviale. Per lui era impossibile non collegare le due coincidenze, l'incontro con il vecchio amico Septimius e la presenza della figlia di Reammon a scuola.
«Sì, ho saputo» mormorò Septimius, desideroso come non mai di darsela a gambe. Ma prima che il suo cervello potesse impedirglielo, la sua bocca aveva già formulato un'altra domanda: «Vi vedete ancora? Con Reammon, intendo?»
Si pentì subito di quella richiesta, ma ormai era fatta.
Rafael fece un sorrisetto amaro. «Non di recente: l'ultima volta che l'ho incontrato è stato un paio di anni fa. Ma ci teniamo in contatto via gufo» spiegò. «Sai, si è un po' chiuso in se stesso, ultimamente. Temo che non veda più molta gente da quando gli è morta la moglie».
«Mary Weasley è morta?» domandò scioccamente Septimius.
«Da sette anni, ormai. Uccisa dall'EIF» rispose Rafael, chinando il capo.
La notizia colpì improvvisa, lasciando Septimius di stucco. Sotto sotto, l'aveva sempre odiata, per avergli portato via Priscilla e poi per averla tradita e abbandonata, ma non si sarebbe mai sognato di augurarle una cosa del genere. Il suo pensiero corse immediatamente a Reammon: doveva esserne rimasto distrutto. E, forse, così come lui avrebbe affrontato meglio la morte di Priscilla se avesse avuto il suo amico a fianco, allo stesso modo Reammon avrebbe potuto trovare un appoggio in lui... se solo fossero stati ancora amici.
«Senti, Septimius» cominciò a dire Rafael. «Io non so cosa successe tra di voi e, sinceramente, non voglio nemmeno saperlo. Ma, benedetto san Patrizio, eravate come fratelli! Due compagni di avventure! Un legame come quello non si può mai spezzare del tutto. Pensaci».
Seprimius distolse lo sguardo dal suo interlocutore. Credeva di aver superato la cosa, invece era bastato un niente per far riemergere tutti i vecchi ricordi.
Forse Rafael aveva ragione, ma come avrebbe fatto a ricucire un rapporto ormai lacero?
Rafael gli mise una mano sulla spalla e gli rivolse un sorriso incoraggiante. «Se hai bisogno di parlare con un amico, la porta della mia chiesa sarà sempre aperta».
Finalmente Septimius alzò gli occhi sul suo volto.
Rafael aveva un sorriso sereno, ma allo stesso tempo sottilmente scaltro. «Ricordati che non è mai troppo tardi per fare la scelta giusta».





Eccoci qui con l'ultimo capitolo! Abbiamo fatto un bel salto in avanti, questa volta: di ben 13 anni, ovvero nel 1991 quando Mairead & co arrivano al Trinity per il loro primo anno. Questa lezione è la stessa descritta al capitolo 4 de “La lancia di Lugh”; il ragazzino in prima fila con gli occhi azzurri è ovviamente Edmund, quello con la divisa dei Nagard vicino a Mairead è Laughlin! ;-)
Ed è ricomparso anche Rafael, ormai padre Rafael come fa notare anche lui! Giovane prete pieno di entusiasmo, avrà un ruolo importante nella vita di Septimius da questo momento in poi (si veda per esempio, il capitolo 17 de “La setta degli Eletti”), fino a... be', fino a cosa lo saprete nell'epilogo di martedì!
Grazie a tutti, alla prossima!
Beatrix


EDIT: continua l'opera di risistemazione dei dialoghi!

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Capitolo 20
*** Epilogo ***


Epilogo

Giugno 1994, casa Boenisolius, Boyle

«Tim Finnegan lived in Walkin Street, a gentle Irishman mighty odd. He'd a beautiful brogue so rich and sweeeeet....pofferbacco!» esclamò Reammon quando un gufo picchiò il becco contro la finestra della cucina, interrompendo la sua canzone.
Il coniglio in umido che stava cucinando decise proprio in quel momento che era arrivata l'ora di ribellarsi al suo cuoco: il sugo ribollì allegramente, schizzando pomodoro su tutto il piano della cucina.
«Per fortuna avevo il grembiule!» si consolò Reammon, vedendo che era stato colpito dal malefico sugo, ma la camicia scozzese che indossava si era salvata per miracolo. Si affrettò a mettere un coperchio sulla padella ed abbassare un po' il fuoco della stufa, poi andò ad aprire la finestra per permettere al gufo di entrare.
L'animale portava legata alla zampa una lettera con il timbro del Trinity.
Reammon sentì immediatamente puzza di guai. Aprì la busta e sbirciò la firma in fondo al foglio: era del professor Captatio. La puzza di guai divenne decisamente più intensa.
Man mano che i suoi occhi scorrevano le poche righe vergate da Captatio, sorpresa e stupore si mescolavano a rabbia. Per la barba di san Patrizio, Priscilla era ancora viva! Viva!
Captatio glielo aveva sempre detto che lei doveva essere fuggita quella fatidica sera, ma, in cuor suo, Reammon temeva di averla realmente uccisa. Era convinto di averle lanciato contro solo uno schiantesimo, ma forse... nella foga della battaglia...
E poi c'era Septimius, che era assolutamente convinto che Priscilla non sarebbe mai fuggita via da suo fratello di sua spontanea volontà e quindi lui doveva averla uccisa.
Invece era viva!
Era sopravvissuta a quel duello ed era riuscita a fuggire inscenando la sua morte. Questo significava che lui non aveva mai ucciso nessuno. Il pesante senso di colpa che gli aveva schiacciato il cuore in tutti quegli anni si dissolse improvvisamente e Reammon si sentì leggero come una nuvola. Era innocente, non aveva ucciso nessuno!
Dopo quasi venti anni, finalmente ne aveva la certezza: Priscila era sopravvissuta.
E non solo: si era rifatta viva per vendicarsi di lui, convinta che fosse stato lui a metterle contro suo fratello Septimius, a portarglielo via. Per vendicarsi, aveva scelto di sottrargli l'unica persona che dava un senso alla sua vita: sua figlia Mairead.
Una figlia per un fratello, doveva sembrarle uno scambio equo.
Quando finalmente Reammon realizzò quello che era successo nel bosco fuori dal Trinity qualche sera prima, lo stupore lasciò posto alla rabbia. Era furibondo con Priscilla, perché aveva cercato di vendicarsi contro sua figlia, ma era arrabbiato anche con Mairead, che aveva disobbedito alle sue raccomandazioni per intrufolarsi nei passaggi segreti che portavano fuori dalla scuola, andando inconsapevolmente incontro alla sua carnefice.
In quel preciso istante, la pentola con il coniglio emise un fischio acuto e il coperchio schizzò in alto, rimbalzò contro il soffitto e poi colpì in piena testa Reammon. Lui si voltò appena in tempo per venire investito dall'ondata di sugo che veniva schizzata fuori dalla pentola. Questa volta, nemmeno il grembiule lo salvò.
Oh sì, era proprio arrivata l'ora di dare una bella strigliata a Mairead.

Sempre giugno 1994, stazione di Dublino

Septimius non era mai stato così nervoso in vita sua. Non era un tipo emotivo che si agitava facilmente, anzi, ma quella volta era davvero in ansia.
Era sicuro che ci sarebbe riuscito? Lui, un orgoglioso Saiminiu di Mes Gergra, sarebbe davvero riuscito a chiedere scusa?
Era una domanda a cui non sapeva rispondere, ma era certo di aver aspettato abbastanza. Vent'anni, per la precisione. Già da tempo aveva preso in considerazione l'idea di provare a riallacciare i rapporti con il suo vecchio amico, ma era sempre stato troppo codardo per farlo.
Infine, era accaduto: aveva scoperto che Priscilla era ancora viva, che Reammon era realmente innocente... non poteva ignorare i segnali che gli aveva inviato il destino.
Era arrivato il momento di tentare: gli Extraiures sarebbero risorti a nuova gloria, o sarebbero morti definitivamente.
Tentennò per parecchio tempo, finché non vide che Reammon e la figlia si erano allontanati dalla famiglia Maleficium, finalmente lontani da orecchie indiscrete. Si avvicinò cauto attraverso la folla di Babbani che gironzolavano per la stazione in attesa del proprio treno e riuscì perfino a cogliere le parole di Reammon.
«Captatio mi ha mandato una lettera e mi ha raccontato quello che hai combinato. Che hai da dire a tua discolpa?» stava chiedendo in un tono duro che non gli apparteneva.
Vent'anni, eppure avrebbe riconosciuto dovunque quel timbro di voce squillante.
Reammon.
«Professor Saiminiu!» esclamò la figlia, sorpresa.
Reammon la guardò perplesso. «Non è una buona scusa...» cominciò a dire, ma la ragazza lo interruppe, tirandolo per la manica e costringendolo a voltarsi.
Pochi passi e Septimius li aveva ormai raggiunti.
Reammon si irrigidì e aspettò che fosse l'altro a fare la prima mossa.
Septimius si stropicciò le mani, con aria tesa ma non abbassò lo sguardo. Sapeva che sarebbe toccato a lui dire qualcosa: erano le regole del gioco, perché era stato lui a venirlo a cercare. In un certo senso, aveva immaginato quel momento milioni di volte, ma l'agitazione che provava non era neanche lontanamente simile a quella che aveva sempre pensato. C'erano mille parole che avrebbe voluto dire, eppure gliene uscì solo una.
«Reammon, scusami» disse tutto d'un fiato. Quella sola frase gli era costa molto cara: sapeva di essere in torto e per lui era già un grande passo chiedere perdono, ma il suo orgoglio gli impediva di abbassare gli occhi a terra.
Reammon digrignò i denti. «Dopo tutti questi anni è l'unica cosa che sai dire?»
Calò un silenzio teso, mentre i due maghi si scrutarono a fondo. In quell'incrocio di sguardi passarono mille parole, mille ricordi di imprese gloriose, immagini di momenti che sarebbero dovuti accadere e invece non c'erano mai stati.
E poi Reammon disse una sola parola: «Inglesofilo».
Agli occhi di chiunque altro, quello doveva essere un insulto, ma non per Septimius, non per loro. Quella parola significava solo una cosa: che Reammon l'aveva perdonato, che gli Extraiures erano rinati.
Septimius sorrise, il primo vero sorriso da anni. «Sangiunista» gli rispose.
Fu un attimo e poi i due vecchi amici si abbracciarono, come se non fosse mai successo niente tra di loro.
Un legame del genere sarebbe durato per sempre.






Ebbene sì, siamo giunti all'epilogo anche di questa storia. Un po' mi dispiace, perché mi ero affezionata a Reammon e Septimius, ma mi consola il fatto che li ritroveremo all'azione anche nei prossimi racconti del Trinity, anche se non come diretti protagonisti. Tra l'altro, è proprio qui che ci siamo lasciati con il terzo racconto della saga ed è da qui che riprenderà “Il Torneo Trecolonie”... quindi, questo cammino a ritroso ci ha riportati nel presente!
Un grazie particolare a chi ha recensito, seguito o messo tra le preferite questa storia. Spero che leggerla vi abbia regalato qualche emozione.
Un abbraccio a tutti, a presto!
Beatrix B.


EDIT: continua l'opera di risistemazione dei dialoghi!

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