NDA: Consiglio di leggere questo capitolo con questa melodia di sottofondo, se
termina prima della fine della lettura fatela ripartire, ve lo consiglio.
Papilio Ulysses
Vox veritatis
(4/5)
Io ed
Edward eravamo diventati amici.
Era
ormai giunto il Natale e parlare con lui era diventato facile, come respirare.
Sentivo
ancora qualche timore nei suoi confronti ma tante volte aveva avuto la possibilità
di farmi del male in luoghi isolati e non lo aveva mai fatto: anzi, quando
sentiva che la situazione poteva essere pericolosa –tipo una strada isolata o
un vicolo buio-, tendeva a diventare iperprotettivo e mi circondava le spalle
con un braccio solo dopo avermi chiesto il permesso, guardandosi ripetutamente
intorno.
Era
la sera della vigilia di Natale, lui era a casa mia e stava giocando a carte
con me, mi faceva compagnia finché mio padre non sarebbe rientrato.
A
scuola nessuno si era accorto della nostra amicizia e la cosa mi allietava, non
mi andava che lo prendessero in giro solo perché era mio amico, ma mio padre si
era accorto del fatto che passassi molto più tempo con Edward e tante volte mi
aveva chiesto se ci fosse qualcosa fra di noi: arrossivo, balbettavo e negavo
con energia.
Edward
mi piaceva ma non poteva esserci niente fra di noi.
Io
ero sporca, lui era perfetto.
E poi
non avrebbe mai potuto funzionare con me che non riuscivo a spogliarmi neanche
davanti ad uno specchio: mi vergognavo troppo del mio corpo maltrattato e se i
lividi e le menomazioni un giorno sarebbero svaniti, io avrei continuato a
vederli, a sentirmi imperfetta.
Dopo
aver giocato a carte, ci sedemmo entrambi sul divano per guardare un DVD
–Edward andava pazzo per i tre film de L’era glaciale- e durante la
visione, mi addormentai poggiata al petto del mio amico, cullata dalle sue risa
melodiose.
«Non
so davvero come ringraziarti» La voce era quella di mio padre e proveniva dalla
cucina, alle spalle del divano su cui ero stesa, nascosta dalla spalliera.
Lasciai
gli occhi chiusi, fingendo di dormire ancora.
«Non
deve ringraziarmi di nulla.» Edward era ancora in casa.
«Non
so davvero cosa avrei fatto se tu non ti saresti occupato di lei, probabilmente
l’avrei mandata da sua madre. Da quando ti conosce sembra aver ripreso un po’
di vitalità anche se non è ritornata quella di un tempo.» Il tono di mio padre
sfiorava la disperazione.
Stavano
parlando di me: mi agitai sul posto, sentendomi improvvisamente in una
posizione scomoda.
«Crede?»
Domandò Edward con incertezza.
«Sì;
prima della tua amicizia, è stata per un paio di mesi come se vivesse perché
costretta a farlo, ora invece mi parla delle sue giornate quasi con un pizzico
di vitalità in più. Anche se poco, ritengo che questo sia già un buon passo per
il miglioramento completo, no?»
Forse,
il mio amico, annuì.
«Tu…
tu non sai cosa possa esserle capitato per trasformarla così?» Charlie era
teso.
«No,
ma ho notato che ha una certa diffidenza verso gli uomini; quando le ho presentato
mia madre, le sue mani erano ferme ed il suo viso era sereno ma quando le è
toccato stringere la mano a mio padre, tremava e balbettava, assumendo
un’espressione terrorizzata.»
Sentii
un nodo in gola: se n’era accorto.
«Non
so cosa possa esserle capitato.» Ripeté Edward, quasi frustrato. «Ma qualsiasi
cosa l’abbia portata a chiudersi in questo modo, voglio aiutarla a risolverlo:
le voglio bene, fin troppo e mi dispiace vederla così.»
Presi
un bel respiro, cercando di mandare giù il nodo incandescente che mi soffocava.
«Sei
davvero un bravo ragazzo.» Commentò mio padre.
Fu in
quell’istante che mi stancai di recitare ed alzandomi lentamente, mi misi
seduta strofinandomi un occhio: il nodo alla gola mi diede una voce spezzata, come
una persona appena sveglia.
«Edward?»
Mugugnai.
Sentii
la sedia strusciare sul linoleum e in un batter di ciglia, mi ritrovai Edward
seduto accanto.
«Buongiorno
Bell’addormentata» Mi sorrise.
Arrossii
e poggiai la testa sulla sua spalla, per bearmi del suo calore e della sua
presenza; mi sentivo protetta.
«Posso
abbracciarti?» Bisbigliò.
Annuii
e portai le mie braccia attorno al suo busto, mentre lui compiva lo stesso
gesto, circondandomi però le spalle.
«Tutto
bene?» Domandò dolce.
Annuii.
«Ho aspettato
che ti svegliassi prima di andar via, volevo farti gli auguri di buona
Vigilia.» Spiegò.
«Vai
già via?»
«Ho
una cena che mi aspetta, ma ci vediamo domani, ok?»
«D’accordo.»
A malincuore, lasciai la presa attorno al suo caldo corpo e lo vidi mettersi in
piedi.
«A
domani.» Mi salutò e prima di andar via, salutò anche mio padre.
Il
mio cuore tremava di paura così come il mio corpo.
Cosa
ci facevo di nuovo lì? Perché indossavo quella minigonna e quella camicia che
avevo gettato nel camino? Perché ero con lui?
«Ti
è piaciuta la cena?» Domandava,
con un tono che a primo impatto mi sembrò gentile ma che con il passare del
tempo avevo capito essere solo un pallido riflesso dell’indifferenza.
«Moltissimo,
ti ringrazio.» La
mia voce era davvero carica di gratitudine.
Poi,
le sue mani si erano posate sul mio viso e la sua bocca aveva sovrapposto la
mia in un gesto affrettato, violento.
Non
me ne intendevo di baci, ma sapevo che la sua lingua che toccava così
prepotentemente la mia non mi piaceva.
«Vieni
con me.»
Aveva detto poi e mi aveva negato il suo sguardo.
«Dove
mi porti?»
«Voglio
mostrarti una cosa.» Mi
sarei dovuta preoccupare di più del suo ghigno, della lontananza che stavamo
creando fra la zona turistica, affollata ed il parco buio ed abbandonato.
Il
mio polso veniva stretto dolorosamente dalla sua mano.
Improvvisamente,
la scena ebbe uno sbalzo temporale e sentii di nuovo i vestiti che vengono
lacerati, il rumore delle foglie sotto i nostri pesi, le mie suppliche
singhiozzate; il rumore sordo e doloroso degli schiaffi sulle cosce ed il
dolore di mani irruente, violente su un corpo delicato.
Svegliarmi
sudata ed in lacrime, in piena crisi di panico non mi capitava da mesi e mi
alzai di scatto dal cuscino per sbottonare la maglia del pigiama ed avere così
il collo scoperto.
Il
mio corpo era scosso dai singhiozzi ed il pensiero di quell’avvenimento mi
tormentava, impedendomi di calmarmi; ricordavo tutto con troppa dovizia, troppa
precisione: le foglie che mi graffiavano la schiena ed il dolore lacerante in
zone intime del mio corpo.
Mentre
piangevo, mentre sentivo le mie urla rimbalzare contro le pareti del mio
cervello, l’immagine di Edward apparve davanti ai miei occhi appannati dalle
lacrime.
Mi
alzai con gambe tremanti, sentivo l’eco della debolezza che mi aveva colto in
quel momento, la mia incapacità nel ribellarmi, le lacrime calde che mi
sfioravano le guance sia allora sia mentre prendevo il cellulare e componevo un
numero di telefono.
Lo
portai all’orecchio, tirando su col naso e nello stesso istante ricordai il
freddo che aveva accarezzato il mio corpo quando tutto era finito, quando mi
ero ritrovata a guardare nuda e sotto shock un cielo stellato che non avevo mai
visto: le stelle mie piacevano e mi sarebbe piaciuto morire sotto di esse
mentre il vento gelido raffreddava il mio corpo e soffiava sulle mie ferite
sanguinanti.
«Bella?»
Una voce assonnata mi colse alla sprovvista dall’altra parte del telefono.
«Edward…»
Singhiozzai allo stremo.
«Bella?!
Bella che succede? Che hai?» Il suo tono era agitato.
«Edward…
aiutami, ti prego… ho bisogno di te…» Mormorai mentre tremavo e le lacrime
bagnavano il pugno stretto sulla gamba.
«Arrivo
subito, aspettami.» La telefonata si interruppe ed io mi piegai su me stessa,
abbracciandomi il busto e facendo toccare la fronte con le ginocchia, cercando
di trattenere l’urlo che voleva uscire.
Guardavo
il nulla mentre aspettavo l’arrivo di Edward: il mio cervello era andato in
stand-by e non riuscivo a pensare a nulla; di solito, dopo il pianto, il mio
cervello sembrava anestetizzarsi.
Un
rumore improvviso alla finestra mi fece sobbalzare e quando sollevai l’anta
scorrevole, vidi Edward appeso al ramo massiccio dell’albero.
«Spostati,
che entro.» sussurrò.
Mi
scostai dalla finestra e dopo esser riuscito a poggiare un piede sul davanzale,
Edward entrò in camera mia: chiuse la finestra e si voltò nella mia direzione.
Il
mio primo istinto fu quello di abbracciarlo e lo ascoltai.
«Bella?»
Bisbigliò sorpreso dal gesto, ma non mi toccò.
Gli
occhi mi si riempirono di lacrime e lo guardai.
«Cosa
c’è? Cos’è successo? Sembravi disperata al telefono.»
Il
labbro inferiore prese a tremarmi ed alla fine cedetti: volevo raccontargli
tutto quello che mi era accaduto, volevo che almeno lui sapesse, non ne potevo
più di tenere quell’incubo solo per me.
«Dimmi
cosa ti è successo, Bella. Ti supplico, dimmelo e fatti aiutare.» La sua voce
era triste ma allo stesso tempo forte e supplichevole.
Mi
allontanai dal suo corpo e con un gesto secco mi calai i pantaloni e mi tolsi
la maglia, poggiando un braccio a coprirmi i seni nudi.
«Bella?
Ma cos-» L’imbarazzo nella sua voce svanì quando entrai nel cono di luce
proiettato dall’esterno, in modo che potesse vedere il mio corpo.
I
lividi sulle cosce erano ora di un colore sul giallognolo rispetto al viola
vivo di due mesi prima, i graffi erano cicatrizzati e di colore marroncino e si
perdevano sotto la stoffa degli slip: lo stesso valeva per il busto –lividi e
menomazioni componevano la pelle del mio ventre e sulla gabbia toracica- e le
braccia dove si riusciva a notare evidenti segni di mani che erano state troppo
strette, lasciando impronte giallognole di dita massicce; con la mano destra
coprii il capezzolo destro per mostrare il segno ancora livido di un morso sul
seno.
«E’
questo ciò che mi è successo.» Singhiozzai con le lacrime agli occhi. «E’
successo due mesi fa.» Tirai su col naso, «Sono stata violentata e picchiata e…
e non riesco a togliere quel cattivo odore dalla mia pelle, quella brutta
sensazione di mani pesanti, dolorose, violente… violente, che mi hanno toccata
in posti sensibili senza che… che ne dessi il permesso, sento ancora il
bruciore invadermi il basso ventre durante la notte e il dolore fitto e
lancinante che mi ha preso quando… quando lui… ha… quando lui ha violato il mio
corpo con forza e cattiveria. Urlavo ma nessuno mi sentiva, le sue mani mi
bloccavano il respiro in gola, stringevano qui» Portai una mano a coppa sulla
gola, «mentre lui si divertiva del mio dolore. Sentivo le lacrime scendere e
supplicavo che qualcuno… qualcuno mi aiutasse, ma nessuno è venuto a
soccorrermi. Nessuno…» Piangevo mentre raccontavo l’avvenimento.
Fidarmi
degli altri, scherzare con loro, prendere una cotta per qualcuno, innamorarmi
platonicamente di qualcun altro ed essere ricambiata, laurearmi, sposarmi,
avere dei bambini ed un lavoro soddisfacente: non chiedevo molto dalla vita,
volevo essere normale, ma la normalità era svanita dalle mie giornate.
Nessuno
mi avrebbe sposata, mio padre non mi avrebbe mai portata sottobraccio all’altare,
non avrei mai sentito il corpicino di un bambino, del mio bambino contro
il mio.
Desideravo
morire sotto quel manto stellato; desideravo morire e non sentir più nulla.
Desideravo morire ed annullare così la mia esistenza ormai segnata.
Con
forza mi ero alzata ed ero tornata a casa a piedi, stringendomi nel cappotto
nero ed ignorando il bruciore che mi faceva gemere di dolore ad ogni passo.
Avevo
lavato il sangue che impregnava le mie cosce, arrivando fino alle caviglie,
avevo pulito la mia schiena dalla terra e dalle foglie e avevo deciso di
chiudere tutto e tutti fuori dal mio mondo.
Nessuno
avrebbe potuto aiutarmi, nessuno avrebbe punito il mio violentatore; io
ero stata violata e nessuno poteva restituirmi la mia spensieratezza, una
denuncia non mi avrebbe restituito la vivacità che si era cristallizzata in
quel parco.
Nessuno
poteva comprendere i miei sentimenti.
Isabella
Swan era morta in quel parco e nessuno l’avrebbe riportata in vita.
Dalla
morte non si torna.
«Mi
faccio schifo, Edward. Il mio corpo è sporco, io sono sporca, io… io…» Scoppiai
a piangere più ardentemente. «Volevo essere una Papilio Ulysses ma ora
non posso più esserlo perché io sono morta quella sera, Edward!»
Le
sue braccia mi circondarono le spalle dopo essersi avvicinato con lunghe
falcate; mi abbracciavano e mi infondevano calore, protezione, affetto.
Ricambiai
l’abbraccio e mi strinsi a lui con tutte le forze, piangendo sulla sua
maglietta, bagnandola con le mie lacrime.
«Mentre
lui toccava il paradiso… io… io assaggiavo l’inferno.» Dissi e la voce uscì soffocata
a causa del suo petto. «Sono ancora indolenzita e la notte faccio sempre lo
stesso incubo, sogno le sue mani ed il suo corpo che premeva prepotentemente il
mio, facendomi graffiare la schiena dalla ghiaia e dalle foglie.» Tossii
disperata. «”Ti vergognerai così tanto da non riuscire più a guardarti neanche
allo specchio” Aveva detto ed è stato davvero così.» Le mie parole risultavano
quasi incomprensibili anche a me stessa.
Mi
aggrappai alla sua t-shirt bianca con entrambe le mani e lo guardai negli
occhi. «Aiutami, ti supplico. Dammi la stessa forza con cui tu hai superato i
tuoi traumi, infondimi il tuo stesso coraggio perché io non riesco più ad
andare avanti. Volevo morire, lo capisci? Voglio morire tutt’ora per ciò che mi
è successo e se non ho provato ancora a togliermi la vita è solo perché non
voglio dare un dispiacere a mio padre. L’unica cosa che desidero è mettere fine
a tutto ciò perché la mia non è vita, è un doloroso andare avanti.»
La
sua mano sfiorò la mia guancia e mi guardò con occhi tristi; mi trascinò verso
il letto e ci fece accomodare entrambi, per poi mettermi le coperte addosso e
coprirmi dal freddo.
«Non
dire queste cose. Non devi dirle. Ci sono io con te e tu non sei morta,
sei qui, fra le mie braccia ed io ti voglio bene.» Mi accarezzava una guancia
con la mano destra mentre mi guardava con sguardo forte ma allo stesso tempo
affranto. «Ci sono io con te.» Ripeté, «Non ti lascerò mai andare e ti aiuterò,
farò di tutto ma smettila di dire che vuoi morire perché anch’io non saprei
come andare avanti senza te»
Guardarlo
era diventato impossibile a causa delle lacrime.
«Perché
non lo hai detto a tuo padre ed esporto denuncia?» Mi domandò con voce
preoccupata.
«Non
ne ho il coraggio.» Presi un bel respiro, cercando di regolarizzare il tremito
che mi scuoteva.
Avevo
una mano poggiata sul materasso e lui la coprì con la sua, «Bella, dobbiamo
denunciarlo, hai ancora prove evidenti dell’accaduto, devi solo sforzarti di
esporre denuncia.»
Scossi
il capo in segno di diniego.
«Bella,
devi farlo se vuoi liberarti da un peso anche se piccolo.»
«No…»
Mormorai.
«Chi
è stato?» Mi domandò serio.
Lo
guardai negli occhi e tirai su col naso. «Denunciarlo non servirà a nulla.»
«Ma
potrebbe evitare che qualche altra ragazza possa essere trattata allo stesso
modo, vuoi che altre ragazze siano trattate così?»
Inorridii
al pensiero e scossi il capo: nessuno meritava di essere trattato così, neanche
l’essere umano più subdolo di questo pianeta.
«Chi
è stato?» Ripeté.
Mossi
le dita sotto la sua mano, in modo da intrecciarle con le sue.
Trassi
forza dal suo calore, dalla sua dolcezza.
«Non
temere, la denuncia rappresenterà il primo passo verso la guarigione.» Mormorò
dolce e ricambiando la stretta delle mie dita. «Ti prometto che guarirai ed io ti
starò sempre accanto durante il cammino, Bella, sarai di nuovo una Papilio
Ulysses, ma devi dirmi il nome.»
Abbassai
gli occhi verso le nostre dita intrecciate e le sue parole mi riscaldarono il
cuore congelatosi quella notte sotto le stelle.
«E’
stato…» Deglutii, pensare a quel nome mi faceva rabbrividire di paura, in quei
mesi lo avevo evitato di proposito. «E’ stato Mike Newton.»