Papilio Ulysses

di eclinu
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** (1/5) ***
Capitolo 2: *** (2/5) ***
Capitolo 3: *** (3/5) ***
Capitolo 4: *** (4/5) ***
Capitolo 5: *** (5/5) ***



Capitolo 1
*** (1/5) ***


Disclaimer: I personaggi presenti in questa fan fic non sono miei ma sono presi in prestito dalla Twilight Saga scritta da Stephenie Meyer

Personaggi: Edward Cullen, Bella Swan.

Genere: Generale, Introspettivo, Triste.

Note: AU, OOC.

Rating: giallo –per l’utilizzo di termini talvolta forti o volgari e l’argomento trattato.

NDA: So che sto scrivendo un’altra ff e che dovrei dedicarmi a quella, ma questa è saltata fuori all’improvviso e non ho potuto dire di no, perché l’idea iniziale mi è sembrata buona.

Il titolo è il nome di una razza di farfalle che a me piacciono molto e cioè queste qui; è composta da solo cinque capitoli. Capirete poi leggendo perché ho lasciato il titolo in latino.

Non ho mai scritto qualcosa che potesse risultare “introspettivo”, ci ho provato con questa storia ma credo di non esserci riuscita comunque XD

Spero che la storia sia di vostro gradimento e inizio col ringraziare chi leggerà, chi commenterà, chi inserirà la storia fra le preferite/ricordate/seguite.

Sara.

 

 

Papilio Ulysses

Timor -oris

(1/5)

 

La campanella suonò ed io sbuffai prendendo i libri dal banco a cui ero seduta, non avevo nessun compagno accanto a me; da due mesi a quella parte tutti mi evitavano.

Perché?

Beh, perché ero cambiata.

C’è stato un tempo in cui top aderenti, minigonne, pantaloncini e pon-pon facevano di me una delle ragazze più popolari della scuola; tutti abbiamo momenti di gloria nella vita ma la gloria non è sempre eterna ed i mille colori che ci accompagnano diventano improvvisamente solo due: il bianco ed il nero.

Avevo delle amiche un tempo, che credevo fossero vere ed invece in quel momento non sapevo neanche cosa fosse una vera amica.

A trasformarmi da Papilio Ulysses a semplice bruco era stato proprio quello che consideravo un amico vero.

Ero una delle cheerleader della scuola, ora ero solamente una semplice e comune sfigata.

I top aderenti si erano trasformati in camicie larghe che nascondevano le curve, i pantaloncini e le minigonne erano diventati larghi pantaloni da tuta e le scarpe sempre eleganti erano diventate di gomma e comuni.

Mi piaceva considerarmi un Papilio Ulysses, o come veniva più comunemente chiamata quel tipo di farfalla “la farfalla blu della montagna” oppure ancora “Farfalla di Ulisse” perché aveva un corpo piccolo e delle ali grandi e blu –il mio colore preferito-, proprio come immaginavo me e poi aveva il nome di Ulisse, uno dei miei personaggi preferiti della mitologia.

Infilai i libri di spagnolo nell’armadietto e presi quelli di latino.

Rabbrividii, ma non perché non mi piacesse la materia, l’unico motivo di disagio stava nel fatto che quello era l’unico corso in cui avevo un compagno di banco, maschio per di più.

Si chiamava Edward Cullen; la maggior parte delle ragazze si dichiaravano innamorate di lui, un tempo lo ero stata anche io –oca come tutte le altre- ma ora temevo quel ragazzo, lo temevo come tutti gli altri ragazzi della scuola, della città, del mondo.

Le loro mani erano grandi e pesanti e facevano male quando ti colpivano, lo sapevo bene: erano violenti, aggressivi e pensavano solamente ad una cosa quando vedevano una donna, erano privi di sensibilità.

Non ero mai stata androfoba, non avevo mai avuto paura degli uomini, lo ero diventata in seguito a quell’avvenimento.

Scossi il capo cercando di dimenticare.

Sbattei la porta dell’armadietto e quando gli occhi degli altri mi puntarono, filai nell’aula di latino.

Edward Cullen non era ancora arrivato così mi accomodai con animo più sereno, forse non sarebbe venuto: aprii il libro di latino alla pagina di Cicerone ed iniziai a leggere un brano in latino, cercando di tradurre senza l’uso del dizionario; riuscii a tradurre il primo rigo, evidenziando verbi, complementi e proposizioni, aggiungendo note a margine.

Il latino mi piaceva perché mi permetteva di non pensare, mi distraeva dai mille e negativi pensieri che mi perseguitavano; mi concentravo sulle particolarità di un di un certo aggettivo o sostantivo di una certa declinazione e mi perdevo fra le parole dimenticandomi del resto.

La sedia accanto a me si mosse e voltai leggermente la testa verso sinistra tanto quanto bastava da avere una mano grande e pallida nel mio campo visivo.

«Ciao, Bella.» Era l’unico che mi salutava. Era l’unico a cui il mio cambiamento non era importato.

E’ un uomo. Mi dicevo. Mente.

Non gli risposi, continuai a scrivere la nota che avevo iniziato prima che arrivasse.

«Non mi parli neanche oggi?» Domandò, poggiando i libri sul banco.

Mi allontanai un po’ con la sedia, spostandomi a destra.

«Va bene, come vuoi.»

Il professore entrò e la lezione iniziò.

Edward prendeva appunti molto più velocemente di me, a volte mi perdevo mentre scrivevo, dimenticavo ciò che il professore aveva detto ed ero costretta a vedere sul quaderno del mio compagno di banco, cercando di non farmi notare.

Il professore ci diede un brano tratto dall’Eneide da tradurre in classe e da consegnare entro la fine dell’ora.

Erano passati circa dieci minuti da quando avevamo iniziato a tradurre ed io avevo tradotto solamente tre righe: guardai il quaderno di Edward ed invidiai la velocità con cui aveva già tradotto perfettamente sette righe senza aprire il dizionario.

Era sempre stato un secchione, io lo ero diventata da poco. Secchiona ed asociale.

Quando iniziò a far dondolare la penna fra due dita, sbattei le palpebre e mi accorsi di essermi incantata: si era bloccato all’ottavo rigo.

Tenevo una mano poggiata sulla copertina del mio dizionario e guardavo il mio foglio ancora vuoto.

«Bella, non ho portato il dizionario, posso utilizzare il tuo?» Accompagnò la domanda spostando la mano destra sul mio dizionario, finendo così sulla mia.

Sobbalzai quando sentii il calore sul dorso della mia mano e le immagini di due mesi prima mi si pararono davanti agli occhi come un film horror che ero costretta a vedere: era iniziato tutto con una calda mano sulla mia e poi quelle stesse mani calde erano finite sul mio corpo, contro la mia volontà.

Le mie stesse urla, le mie stesse suppliche singhiozzate mentre i miei vestiti mi venivano strappati da dosso, risuonavano nelle mie orecchie: non ero più in classe, ero in quel buio, isolato e sporco parco, dove nessuno riusciva a sentirmi.

Quella mano che mi aveva violata non era di Edward, era di un altro ragazzo ma facente parte dello stesso sesso.

Mi allontanai di scatto, mettendomi in piedi e facendo cadere lo sgabello su cui ero seduta: i ragazzi in classe, compreso il professore si voltarono per guardarmi.

Non guardatemi. Non guardatemi. Non guardatemi.

Le lacrime scesero e scappai fuori dalla classe, lasciando i libri ed il dizionario sul banco.

Mentre correvo nel corridoio sentivo il professore chiamarmi e quando mi voltai per capire se mi stesse inseguendo vidi Edward accanto a lui: aveva un’espressione dispiaciuta dipinta sul viso.

Quello che provavo nel guardare il suo volto non era senso di colpa ma paura.

L’unica parola latina che riuscivo a pensare non aiutava a calmarmi, perché il sostantivo che stavo declinando era timor, timoris.  

 

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Capitolo 2
*** (2/5) ***


Papilio Ulysses

Gratiarum actio

(2/5)

 

Ero seduta sul divano di casa e guardavo un DVD, tenendo le gambe incrociate sul cuscino su cui sedevo.

Mio padre mi aveva vista tornare senza zaino, senza giacca e a piedi, bagnata fradicia a causa della perenne pioggia di Forks.

Non mi aveva chiesto nulla del perché fossi tornata prima della fine delle lezioni, come non mi aveva chiesto del perché fossi cambiata improvvisamente in due mesi.

Con lui parlavo di tutto, almeno fino a due mesi prima, prima di avere quell’ “incidente” –come lo chiamavo io.

Mio padre è il capo della polizia di Forks, dirgli tutto ciò che mi era accaduto poteva anche aiutarmi, poteva catturare quel figlio di puttana.

Ma non ce la facevo.

Mi vergognavo troppo.

Credeva che il mio era solo un momento di passaggio, che avrei ricominciato a portare i capelli sciolti, abiti più carini; credeva fosse una crisi adolescenziale di cui non capiva nulla.

Non ero cresciuta con lui: a quindici anni, mia madre mi aveva spedita qui dopo essersi risposata.

«Bella, vorresti mangiare qualcosa?» Chiese Charlie, spuntando dalla cucina.

Lo guardai e scossi il capo. «Oggi non vai al lavoro?» Domandai.

Con lui riuscivo a parlare perché era mio padre, anche se era un uomo; non avevamo mai avuto tanta confidenza da carezze e bacini, per questo accanto a lui sapevo di non essere in pericolo: non mi avrebbe toccata se non avessi voluto.

«No, mi sono preso un giorno di riposo.»

Annuii e tornai a guardare la tv.

Starnutii: avevo preso freddo a correre sotto la pioggia di novembre; potevo almeno prendere le chiavi del mio pickup e tornare con quello.

 

Mi accorsi di essermi addormentata solo quando sentii mio padre aprire la porta dell’ingresso.

Mi strofinai un occhio e guardai la tv: il DVD era arrivato ai titoli di coda, il lettore DVD segnava le quattro del pomeriggio.

Messami seduta, guardai alle mie spalle, ma la porta mi impediva di vedere chi fosse, sentivo solo Charlie ringraziare.

Fece capolino dopo un po’ e disse «Bella, c’è un tuo amico, ti ha riportato i libri e lo zaino.» Sorrise e lasciò entrare l’ospite: aveva la testa china e bastò notare quel colore di capelli per mandarmi nel panico.

I suoi occhi verdi mi videro e mi agitai sui cuscini; mi sorrise gentilmente e si avvicinò piano, fermandosi a un braccio di distanza dallo schienale del divano.

«Ciao Bella, ti ho riportato le tue cose ed il pickup.» Mi mostrò le chiavi. «Scusa se ho visto nel tuo armadietto, ma sapevo che lasciavi le chiavi lì e così…» Lasciò la frase in sospeso.

Lo guardavo senza dir nulla, speravo solo che non mi toccasse ancora.

Osservò per un po’ i libri che aveva sotto braccio e me li porse tenendo le braccia tese.

Le mani mi tremavano, non riuscivo ad alzare le braccia; sentivo che stavo per mettermi a piangere perché sapevo che non dovevo avercela con Edward, sapevo che non dovevo avercela con tutto il genere maschile ma non riuscivo più a fidarmi di nessuno.

La mia mente pensava solamente al pericolo quando vedevo quelle mani così maschili, avevo le cosce che ancora mi dolevano a seguito della presa fin troppo ferrea di dita dure, pesanti e violente; alcuni lividi ed escoriazioni erano cicatrizzati, altri non erano ancora svaniti dai fianchi e sul torace.

Edward poggiò i libri su di un tavolino lì accanto, poggiò il mio zaino a terra e mise le chiavi del pickup su di un libro; infilò le mani in tasca e si guardò in torno, mio padre era tornato in cucina, lasciandoci soli.

«Mi dispiace.» Bisbigliò. «Mi dispiace, per oggi.» Ripeté, «Non so cosa ti ho fatto precisamente, ma ho capito che è stata colpa mia e ti chiedo scusa.»

Non dissi nulla.

«Ci vediamo lunedì.» Mi diede le spalle ma poi si voltò ancora, «Ah, il professor Hubert ci ha assegnato un compito: consiste nel tradurre tre pagine dell’Eneide, trovare tutto quel che c’è da trovare –preposizioni, particolarità, verbi deponenti e semideponenti, figure retoriche eccetera-, analizzare tutto e dopo aver tradotto creare un discorso che spieghi l’idea che voleva dare l’autore, aggiungendo anche osservazioni personali.»

Annuii.

«E… il tutto dev’essere fatto in coppia.»

M’irrigidii.

«Ho scelto di fare coppia con te, se vuoi cambiare, puoi chiedere al professore Hubert.»

Probabilmente era stato costretto a fare coppia con me, perché nessun altro in classe mi ha scelta.

«Posso…»  Bisbigliai e lui si voltò interamente nella mia direzione. Arrossii, perché avevo parlato senza pensarci.

Mi feci forza e continuai ciò che avevo iniziato, «Posso farlo anche da sola.» Abbassai gli occhi verso i miei pugni chiusi e cercai di buttare giù il nodo che avevo in gola, senza riuscirci.

«Non credo, per quanto la tua intelligenza sia incredibile, è un lavoro complicato da consegnare entro mercoledì. Permettimi di aiutarti, per favore. Puoi venire a casa mia domattina, ti va? Saremo soli, non ci disturberà nessuno.»

Scossi il capo terrorizzata all’idea di restare in casa da sola con lui.

«Posso venire qui domattina?»

Di mattina mio padre era in casa, quindi non poteva esserci nessun pericolo.

Annuii.

Sorrise raggiante. «Ci vediamo domatti-»

«Grazie.» Mormorai senza alzare lo sguardo dalle mie mani. Volevo anche spiegargli perché di quel gratiarum actio ma il nodo in gola non mi permetteva di più.

«Prego, anche se non ho fatto nulla.» Si diresse all’uscita e mi salutò. «A domattina. E grazie, finalmente ho risentito la tua voce.» Sorrise e chiuse la porta.

Quando la porta fu chiusa sorrisi e me ne sorpresi: stavo sorridendo dopo due mesi.

E stavo sorridendo grazie ad un ragazzo.

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Capitolo 3
*** (3/5) ***


Papilio Ulysses

Amicus -i

(3/5)

 

Mi svegliai quando sentii bussare alla porta della mia camera, avevo il sonno leggero.

Mio padre fece capolino e mi sorrise, «Buongiorno.»

«Buongiorno.» Sbadigliai e mi strofinai un occhio col dorso delle dita.

«C’è il tuo amico, quello che è passato ieri, dovete studiare?» M’informò.

«E’ già qui?» Guardai la sveglia: le lancette segnavano le nove del mattino; era sabato, non avevamo scuola, non gli piaceva stare a letto?

«Sì, sono già qui.» La sua voce allegra mi fece arrossire e sobbalzai dalla sorpresa: credevo aspettasse al piano inferiore.

Afferrai i bordi della coperta e me la portai sopra la testa; non doveva vedermi in pigiama, non volevo che le maniche si alzassero per sbaglio e notasse i graffi ed i lividi sulle braccia.

Mio padre entrò in camera e scostò di poco le coperte dalla mia testa «Bells, che hai?»

«Sono in pigiama, non voglio che mi veda.» Stavo tremando.

Sbatté le palpebre «D’accordo, lo faccio aspettare giù?»

Annuii e mi coprii di nuovo col piumone.

Sentii la porta chiudersi e dei passi che scendevano le scale.

Prima di uscire dalle coperte presi tre respiri profondi: poggiai i piedi sul linoleum e poi iniziai a vestirmi, indossando una camicia di flanella a quadri rossi che mi copriva anche le mani ed un paio di pantaloni da tuta neri.

Andai al bagno, lavai i denti, legai i capelli e poi andai al piano di sotto.

Edward era seduto alla tavola, al lato opposto a mio padre ed aveva una tazza di caffè fumante di fronte; stava parlando con Charlie: «Quindi sei il figlio del dottor Cullen?» Chiese mio padre.

«Non proprio.» Rispose Edward.

«In che senso?»

«Io sono stato adottato, Carlisle è mio zio in realtà. Zio materno per la precisione; è il fratello di mia madre. Il mio nome intero è Edward Anthony Masen Cullen.» Spiegò.

«Ah, ed i tuoi genitori sono…» Charlie lasciò la frase in sospeso.

Edward scosse il capo «No, sono vivi, non so dove sono ma so che sono vivi. Per la famiglia di Carlisle, però, è come se fossero morti: vede, mia madre era la pecora nera della famiglia, rimase incinta di me a soli quindici anni e dopo avermi dato alla luce mi ha lasciato alle cure di suo fratello; finché, però, mio padre non ha voluto riavermi a casa. Sono stato con loro fino all’età di quattro anni e di quel periodo riesco a ricordare solo le percosse.» Prese un sorso di caffè. Sembrava così tranquillo nel raccontare quella storia, come se non fosse la sua. «Mio padre mi causò un trauma cranico e fu a quel punto che gli assistenti sociali, avvertiti dall’ospedale, tolsero il mio affidamento ai miei genitori: sono stato per qualche mese in un collegio ma poi Carlisle firmò le pratiche di adozione e dopo aver ottenuto la mia custodia, insieme a sua moglie Esme, decisero che il trasferimento era la soluzione migliore per non farmi accadere più nulla e per tenermi lontano dai miei genitori naturali. Carlisle professava da qualche mese come chirurgo, chiese il trasferimento in un qualsiasi altro ospedale e capitammo qui.» Mentre parlava, la sua espressione restò serena e gentile.

Non sapevo nulla di quella storia, a scuola nessuno l’aveva mai sentita: ricordo che c’erano voci su una sua possibile adozione perché non somigliava a nessuno dei suoi genitori, ma erano solo voci.

«C’è stato un periodo in cui se facevo la pipì a letto tremavo e piangevo dalla paura, perché a casa era d’abitudine che venissi picchiato per questo; invece, Esme mi accarezzava, mi cambiava il pigiama e le lenzuola e mi portava a dormire nel suo lettone.» Sorrise. «Carlisle dice che soffrivo anche di autolesionismo: mi graffiavo le guance, il collo, fino a sanguinare; questo accadeva quando avevo sei anni. Forse lo facevo per attirare l’attenzione, forse per punirmi, ma ricordo che quando succedeva, Carlisle mi medicava e poi mi rassicurava dicendomi che c’erano lui ed Esme con me, che non dovevo più subire maltrattamenti e percosse e che farmi del male ne faceva anche a loro.

Ero un bimbo buono e la mamma ed il papà mi volevano bene. Fu allora che capii di avere altri due genitori; una mamma ed un papà che usavano le mani solo per accarezzarmi.»

«Mi dispiace ragazzo.» Mormorò mio padre, scioccato quanto me.

«Non deve dispiacerle, ora sto bene.» Rispose Edward.

Avevo le lacrime agli occhi, non pensavo avesse dovuto subire quell’inferno che era solo un bambino.

Lui riusciva a parlare apertamente dei suoi traumi, io non ce la facevo. Lui era riuscito a superarli, io mi chiudevo in un guscio e li tenevo conservati.

Mi appoggiai alla parete e chiusi gli occhi, prendendo fiato silenziosamente.

Non appena le lacrime svanirono e il respiro si rilassò, mi presentai in cucina con i libri sotto braccio, che poggiai sul tavolo.

Mossi la bocca per salutarlo ma non ne uscì fuori nulla.

«Ciao.» Disse lui sorridendomi, i suoi occhi verdi erano luminosi, belli, gentili, sereni.

Come faceva ad essere così forte?

Insegna anche a me ad esserlo.

«Ciao…» Bisbigliai sotto il mio respiro, non credevo mi avesse sentito «Ciao.» Ripetei a voce più alta.

«Vuoi fare prima colazione?» Chiese.

Scossi il capo e mi accomodai accanto a lui, alla sua destra, come a scuola: mio padre si alzò ed andò in salotto: «Vi lascio studiare.»

«Grazie.» Rispose Edward. «Allora? Da cosa iniziamo? Facciamo prima un ripasso di Virgilio e l’Eneide in generale o vuoi prima tradurre?» Domandò aprendo i suoi libri.

«Come preferisci.» Il mio tono di voce non riusciva ad aumentare di un’ottava.

«Io comincerei col ripasso, sono poche pagine e sono cose che già sappiamo. Non credi?»

Annuii.

«Allora inizia tu a parlarmi della vita di Virgilio.» Piegò teneramente la testa verso sinistra e mi sorrise.

Il mio cuore prese a palpitare senza una ragione ben precisa, ma mi piacque.

 

Edward dovette interrompermi varie volte per chiedermi di aumentare la voce e quando io terminai con la vita dell’autore, lui attaccò con la spiegazione dell’Eneide: era molto più veloce di me, il suo discorso era liscio e la cadenza era decisa; non balbettava, non incespicava, non aveva vuoti di memoria ed il suo tono era abbastanza alto da permettermi di ascoltarlo senza dover sforzare l’udito.

Mentre stavamo traducendo sbuffò ed io lo guardai: ricambiò lo sguardo ed unì le sopracciglia in un’espressione che mi sembrava dispiaciuta.

«Bella,» sussurrò avvicinandosi un po’ per farsi ascoltare, «Non è che potremmo andare da qualche altra parte? Non riesco a concentrarmi con la tv nelle orecchie.» Chiese dispiaciuto.

In effetti, la tv che urlava dal salotto era fastidiosa e pensai che la mia camera era l’unico luogo dove potevamo stare in pace, ma era anche l’ultimo luogo dove avrei voluto portarlo; però, mio padre era in casa, se fosse accaduto qualcosa mi avrebbe sentita urlare.

Annuii e prendemmo i libri accompagnandolo verso camera mia; era ordinata, il letto era sistemato e gli abiti stirati erano piegati sulla sedia a dondolo.

Presi la sedia della scrivania e gliela porsi, mentre io andai ad accomodarmi sul materasso; Edward poggiò il suo dizionario sulla scrivania e alzò gli occhi verso la bacheca a cui avevo appeso delle immagini delle Farfalle di Ulisse.

«Le Papilio Ulysses.» Mormorò. «Sono le tue preferite?» Chiese, continuando ad osservare le foto.

«Sì…»

«Sono anche le mie preferite. Il blu è il colore che preferisco e poi sono bellissime vederle volare.»

Annuii ma lui non mi vide.

«Sai perché si chiamano “Farfalle di Ulisse”?» Mi guardò.

Feci di no con la testa.

«Si dice che quando Ulisse tornò ad Itaca, nella sua villa, le crisalidi si ruppero e nacquero queste splendide farfalle dalle ali blu per dargli il bentornato. Non so se sia vera, a me l’hanno raccontata ma su internet non ho trovato nessun riscontro, infatti si pensa che probabilmente il nome è associato all’Ulisse dell’Odissea ma non è detto che sia vero.»

«Ah… non lo sapevo…»

«Su, ricominciamo!» Si sedette e ricominciò a tradurre.

 

Passarono le ore, si sentiva solo il rumore delle penne che graffiavano la carta e le lancette della sveglia.

Io ero in ansia, lui sembrava essere a suo agio ma quando il mio stomaco brontolò e lui scoppiò a ridere l’ansia si trasformò in imbarazzo.

Decidemmo di fare una pausa e quando scesi le scale, restai di sasso: mio padre non c’era.

Aveva lasciato un biglietto dove mi diceva che c’era stata un’emergenza in centrale e che doveva correre.

Lo appallottolai e lo strinsi fino a sbiancarmi le nocche delle  mani.

Guardai Edward ed arretrai finché non fui bloccata dal lavabo della cucina; lui si stava accomodando al tavolo e si passò le mani sul viso, in un gesto di stanchezza.

Mi voltai di scatto: non dovevo far notare la mia ansia, non dovevo dimostrare di aver paura di lui.

Non dovevo avere paura di lui. O Sì?

Presi il pane per fare dei toast, dell’insalata e del formaggio e poggiai tutto sul davanzale; presi un coltello e mi accorsi che le mani mi tremavano: le ignorai ed iniziai a tagliare via la crosta dal formaggio e fu proprio in quell’istante che il tremito aumentò, il coltello perse la presa sulla crosta, il formaggio mi cadde e la lama si conficcò nel palmo della mano.

Urlai dal dolore e tolsi i denti della lama dalla carne.

La stanza iniziò a girare e prima che chiudessi gli occhi per il sopraggiungere dello svenimento, vidi una figura avvicinarsi e prendermi al volo.

 

La mano mi bruciava ma la sentivo calda e qualcosa mi sfiorava la fronte: era delicato e soffice, sembrava una piuma.

Aprii piano gli occhi e quando misi a fuoco urlai dallo spavento, arretrando sul divano e rimpicciolendomi contro lo schienale, iniziando a tremare.

Avevo visto una mano scostarmi i capelli dal viso, degli occhi azzurri ed i capelli biondi che popolavano i miei incubi: ma poi la figura cambiò e gli occhi azzurri diventarono verde smeraldo, i capelli assunsero un colore tendente al rame e l’incubo svanì.

«Sta calma, sono io…» Sussurrò Edward, inginocchiandosi accanto a me.

Allungò una mano nella mia direzione: gli occhi mi si appannarono a causa delle lacrime, il corpo tremava e chiusi gli occhi spaventata di rivivere le stesse sensazioni di impotenza e dolore di due mesi prima.

Ma la mano calda si appoggiò sulla mia guancia, asciugando le lacrime; sfiorò la fronte, portando via i capelli che cadevano sul viso.

E non faceva male.

Schiusi gli occhi ed arrischiai un’occhiata traballante poiché ancora tremavo.

«Tranquilla, non ti faccio del male.» Sussurrò ancora con voce rassicurante. «Respira insieme a me.» Disse e gli ubbidii: iniziai a respirare al suo stesso ritmo ed i contorni sbiaditi ripresero il loro posto.

«Posso vedere la tua mano?» Mi mostrò il palmo della sua ed io, lentamente, gli diedi la mia, poggiandola sulla sua: la ferita sanguinava ancora un po’ ma non era profonda. «Fra poco sarà cicatrizzata. Vuoi andare in ospedale?» Mentre mi poneva la domanda, poggiò l’altra mano sulla mia, chiudendola fra le sue: il suo calore non era spaventoso, ma rassicurante.

Mi piaceva. Allora le loro mani non facevano solo del male?

Scossi il capo.

«Dove hai le medicazioni? Ti metto una benda.»

«In bagno, nel mobile accanto allo specchio.»

Si mise in piedi.

«Edward?»

Mi guardò e sorrise mostrando i denti: era la prima volta che pronunciavo il suo nome. «Sì?»

«Perché… perché ti preoccupi per me?» La mia voce era spezzata.

«Beh, non voglio che tu muoia dissanguata.»

«No, mi riferivo in generale non… non alla mano…»

«Perché voglio esserti amico e gli amici si prendono cura a vicenda, ma visto che io non ne ho bisogno, avrò tutte le attenzioni per te senza che tu mi ricambi di nulla, mi basterà solo presentarti agli altri come mia amica.»

«A nessuno interessa essermi amica, perché dovrebbe interessare a te?»

«Perché mi piaci, sei interessante e voglio conoscerti meglio.» Disse con calma.

Arrossii. Nessuno mi aveva mai definita interessante, neanche prima di…

S’inginocchiò di nuovo. «Perciò, possiamo essere amici?»

Edward mi dava sicurezza, mi faceva stare bene con piccoli gesti anche se avevo ancora qualche timore a restare sola con lui.

Annuii. Avevo un amico.

Ma si sarebbe rivelato come tutti gli altri?

«Allora siamo amici.» Mi porse il mignolo.

Voleva che lo stringessi col mio.

Guardai a lungo quel dito con terrore: volevo stringerlo col mio per sigillare il patto di amicizia.

La mia mano destra tremava, ma quando lui chiuse il mignolo intorno al mio, il tremito smise di esistere e mi sentii rilassata, tanto da sciogliere anche le spalle perennemente tese ed espirai, come se avessi tolto un peso.

«Amici.» Disse sorridendomi.

«Amici…» Bisbigliai.

 

Entrambi, prendemmo una A++ per il lavoro da svolgere in coppia.

 

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Capitolo 4
*** (4/5) ***


NDA: Consiglio di leggere questo capitolo con questa melodia di sottofondo, se termina prima della fine della lettura fatela ripartire, ve lo consiglio.

 

Papilio Ulysses

Vox veritatis

(4/5)

 

Io ed Edward eravamo diventati amici.

Era ormai giunto il Natale e parlare con lui era diventato facile, come respirare.

Sentivo ancora qualche timore nei suoi confronti ma tante volte aveva avuto la possibilità di farmi del male in luoghi isolati e non lo aveva mai fatto: anzi, quando sentiva che la situazione poteva essere pericolosa –tipo una strada isolata o un vicolo buio-, tendeva a diventare iperprotettivo e mi circondava le spalle con un braccio solo dopo avermi chiesto il permesso, guardandosi ripetutamente intorno.

Era la sera della vigilia di Natale, lui era a casa mia e stava giocando a carte con me, mi faceva compagnia finché mio padre non sarebbe rientrato.

A scuola nessuno si era accorto della nostra amicizia e la cosa mi allietava, non mi andava che lo prendessero in giro solo perché era mio amico, ma mio padre si era accorto del fatto che passassi molto più tempo con Edward e tante volte mi aveva chiesto se ci fosse qualcosa fra di noi: arrossivo, balbettavo e negavo con energia.

Edward mi piaceva ma non poteva esserci niente fra di noi.

Io ero sporca, lui era perfetto.

E poi non avrebbe mai potuto funzionare con me che non riuscivo a spogliarmi neanche davanti ad uno specchio: mi vergognavo troppo del mio corpo maltrattato e se i lividi e le menomazioni un giorno sarebbero svaniti, io avrei continuato a vederli, a sentirmi imperfetta.

Dopo aver giocato a carte, ci sedemmo entrambi sul divano per guardare un DVD –Edward andava pazzo per i tre film de L’era glaciale- e durante la visione, mi addormentai poggiata al petto del mio amico, cullata dalle sue risa melodiose.

 

«Non so davvero come ringraziarti» La voce era quella di mio padre e proveniva dalla cucina, alle spalle del divano su cui ero stesa, nascosta dalla spalliera.

Lasciai gli occhi chiusi, fingendo di dormire ancora.

«Non deve ringraziarmi di nulla.» Edward era ancora in casa.

«Non so davvero cosa avrei fatto se tu non ti saresti occupato di lei, probabilmente l’avrei mandata da sua madre. Da quando ti conosce sembra aver ripreso un po’ di vitalità anche se non è ritornata quella di un tempo.» Il tono di mio padre sfiorava la disperazione.

Stavano parlando di me: mi agitai sul posto, sentendomi improvvisamente in una posizione scomoda.

«Crede?» Domandò Edward con incertezza.

«Sì; prima della tua amicizia, è stata per un paio di mesi come se vivesse perché costretta a farlo, ora invece mi parla delle sue giornate quasi con un pizzico di vitalità in più. Anche se poco, ritengo che questo sia già un buon passo per il miglioramento completo, no?»

Forse, il mio amico, annuì.

«Tu… tu non sai cosa possa esserle capitato per trasformarla così?» Charlie era teso.

«No, ma ho notato che ha una certa diffidenza verso gli uomini; quando le ho presentato mia madre, le sue mani erano ferme ed il suo viso era sereno ma quando le è toccato stringere la mano a mio padre, tremava e balbettava, assumendo un’espressione terrorizzata.»

Sentii un nodo in gola: se n’era accorto.

«Non so cosa possa esserle capitato.» Ripeté Edward, quasi frustrato. «Ma qualsiasi cosa l’abbia portata a chiudersi in questo modo, voglio aiutarla a risolverlo: le voglio bene, fin troppo e mi dispiace vederla così.»

Presi un bel respiro, cercando di mandare giù il nodo incandescente che mi soffocava.

«Sei davvero un bravo ragazzo.» Commentò mio padre.

Fu in quell’istante che mi stancai di recitare ed alzandomi lentamente, mi misi seduta strofinandomi un occhio: il nodo alla gola mi diede una voce spezzata, come una persona appena sveglia.

«Edward?» Mugugnai.

Sentii la sedia strusciare sul linoleum e in un batter di ciglia, mi ritrovai Edward seduto accanto.

«Buongiorno Bell’addormentata» Mi sorrise.

Arrossii e poggiai la testa sulla sua spalla, per bearmi del suo calore e della sua presenza; mi sentivo protetta.

«Posso abbracciarti?» Bisbigliò.

Annuii e portai le mie braccia attorno al suo busto, mentre lui compiva lo stesso gesto, circondandomi però le spalle.

«Tutto bene?» Domandò dolce.

Annuii.

«Ho aspettato che ti svegliassi prima di andar via, volevo farti gli auguri di buona Vigilia.» Spiegò.

«Vai già via?»

«Ho una cena che mi aspetta, ma ci vediamo domani, ok?»

«D’accordo.» A malincuore, lasciai la presa attorno al suo caldo corpo e lo vidi mettersi in piedi.

«A domani.» Mi salutò e prima di andar via, salutò anche mio padre.

 

Il mio cuore tremava di paura così come il mio corpo.

Cosa ci facevo di nuovo lì? Perché indossavo quella minigonna e quella camicia che avevo gettato nel camino? Perché ero con lui?

«Ti è piaciuta la cena?» Domandava, con un tono che a primo impatto mi sembrò gentile ma che con il passare del tempo avevo capito essere solo un pallido riflesso dell’indifferenza.

«Moltissimo, ti ringrazio.» La mia voce era davvero carica di gratitudine.

Poi, le sue mani si erano posate sul mio viso e la sua bocca aveva sovrapposto la mia in un gesto affrettato, violento.

Non me ne intendevo di baci, ma sapevo che la sua lingua che toccava così prepotentemente la mia non mi piaceva.

«Vieni con me.» Aveva detto poi e mi aveva negato il suo sguardo.

«Dove mi porti?»

«Voglio mostrarti una cosa.» Mi sarei dovuta preoccupare di più del suo ghigno, della lontananza che stavamo creando fra la zona turistica, affollata ed il parco buio ed abbandonato.

Il mio polso veniva stretto dolorosamente dalla sua mano.

Improvvisamente, la scena ebbe uno sbalzo temporale e sentii di nuovo i vestiti che vengono lacerati, il rumore delle foglie sotto i nostri pesi, le mie suppliche singhiozzate; il rumore sordo e doloroso degli schiaffi sulle cosce ed il dolore di mani irruente, violente su un corpo delicato.

Svegliarmi sudata ed in lacrime, in piena crisi di panico non mi capitava da mesi e mi alzai di scatto dal cuscino per sbottonare la maglia del pigiama ed avere così il collo scoperto.

Il mio corpo era scosso dai singhiozzi ed il pensiero di quell’avvenimento mi tormentava, impedendomi di calmarmi; ricordavo tutto con troppa dovizia, troppa precisione: le foglie che mi graffiavano la schiena ed il dolore lacerante in zone intime del mio corpo.

Mentre piangevo, mentre sentivo le mie urla rimbalzare contro le pareti del mio cervello, l’immagine di Edward apparve davanti ai miei occhi appannati dalle lacrime.

Mi alzai con gambe tremanti, sentivo l’eco della debolezza che mi aveva colto in quel momento, la mia incapacità nel ribellarmi, le lacrime calde che mi sfioravano le guance sia allora sia mentre prendevo il cellulare e componevo un numero di telefono.

Lo portai all’orecchio, tirando su col naso e nello stesso istante ricordai il freddo che aveva accarezzato il mio corpo quando tutto era finito, quando mi ero ritrovata a guardare nuda e sotto shock un cielo stellato che non avevo mai visto: le stelle mie piacevano e mi sarebbe piaciuto morire sotto di esse mentre il vento gelido raffreddava il mio corpo e soffiava sulle mie ferite sanguinanti.

«Bella?» Una voce assonnata mi colse alla sprovvista dall’altra parte del telefono.

«Edward…» Singhiozzai allo stremo.

«Bella?! Bella che succede? Che hai?» Il suo tono era agitato.

«Edward… aiutami, ti prego… ho bisogno di te…» Mormorai mentre tremavo e le lacrime bagnavano il pugno stretto sulla gamba.

«Arrivo subito, aspettami.» La telefonata si interruppe ed io mi piegai su me stessa, abbracciandomi il busto e facendo toccare la fronte con le ginocchia, cercando di trattenere l’urlo che voleva uscire.

 

Guardavo il nulla mentre aspettavo l’arrivo di Edward: il mio cervello era andato in stand-by e non riuscivo a pensare a nulla; di solito, dopo il pianto, il mio cervello sembrava anestetizzarsi.

Un rumore improvviso alla finestra mi fece sobbalzare e quando sollevai l’anta scorrevole, vidi Edward appeso al ramo massiccio dell’albero.

«Spostati, che entro.» sussurrò.

Mi scostai dalla finestra e dopo esser riuscito a poggiare un piede sul davanzale, Edward entrò in camera mia: chiuse la finestra e si voltò nella mia direzione.

Il mio primo istinto fu quello di abbracciarlo e lo ascoltai.

«Bella?» Bisbigliò sorpreso dal gesto, ma non mi toccò.

Gli occhi mi si riempirono di lacrime e lo guardai.

«Cosa c’è? Cos’è successo? Sembravi disperata al telefono.»

Il labbro inferiore prese a tremarmi ed alla fine cedetti: volevo raccontargli tutto quello che mi era accaduto, volevo che almeno lui sapesse, non ne potevo più di tenere quell’incubo solo per me.

«Dimmi cosa ti è successo, Bella. Ti supplico, dimmelo e fatti aiutare.» La sua voce era triste ma allo stesso tempo forte e supplichevole.

Mi allontanai dal suo corpo e con un gesto secco mi calai i pantaloni e mi tolsi la maglia, poggiando un braccio a coprirmi i seni nudi.

«Bella? Ma cos-» L’imbarazzo nella sua voce svanì quando entrai nel cono di luce proiettato dall’esterno, in modo che potesse vedere il mio corpo.

I lividi sulle cosce erano ora di un colore sul giallognolo rispetto al viola vivo di due mesi prima, i graffi erano cicatrizzati e di colore marroncino e si perdevano sotto la stoffa degli slip: lo stesso valeva per il busto –lividi e menomazioni componevano la pelle del mio ventre e sulla gabbia toracica- e le braccia dove si riusciva a notare evidenti segni di mani che erano state troppo strette, lasciando impronte giallognole di dita massicce; con la mano destra coprii il capezzolo destro per mostrare il segno ancora livido di un morso sul seno.

«E’ questo ciò che mi è successo.» Singhiozzai con le lacrime agli occhi. «E’ successo due mesi fa.» Tirai su col naso, «Sono stata violentata e picchiata e… e non riesco a togliere quel cattivo odore dalla mia pelle, quella brutta sensazione di mani pesanti, dolorose, violente… violente, che mi hanno toccata in posti sensibili senza che… che ne dessi il permesso, sento ancora il bruciore invadermi il basso ventre durante la notte e il dolore fitto e lancinante che mi ha preso quando… quando lui… ha… quando lui ha violato il mio corpo con forza e cattiveria. Urlavo ma nessuno mi sentiva, le sue mani mi bloccavano il respiro in gola, stringevano qui» Portai una mano a coppa sulla gola, «mentre lui si divertiva del mio dolore. Sentivo le lacrime scendere e supplicavo che qualcuno… qualcuno mi aiutasse, ma nessuno è venuto a soccorrermi. Nessuno…» Piangevo mentre raccontavo l’avvenimento.

Fidarmi degli altri, scherzare con loro, prendere una cotta per qualcuno, innamorarmi platonicamente di qualcun altro ed essere ricambiata, laurearmi, sposarmi, avere dei bambini ed un lavoro soddisfacente: non chiedevo molto dalla vita, volevo essere normale, ma la normalità era svanita dalle mie giornate.

Nessuno mi avrebbe sposata, mio padre non mi avrebbe mai portata sottobraccio all’altare, non avrei mai sentito il corpicino di un bambino, del mio bambino contro il mio.

Desideravo morire sotto quel manto stellato; desideravo morire e non sentir più nulla. Desideravo morire ed annullare così la mia esistenza ormai segnata.

Con forza mi ero alzata ed ero tornata a casa a piedi, stringendomi nel cappotto nero ed ignorando il bruciore che mi faceva gemere di dolore ad ogni passo.

Avevo lavato il sangue che impregnava le mie cosce, arrivando fino alle caviglie, avevo pulito la mia schiena dalla terra e dalle foglie e avevo deciso di chiudere tutto e tutti fuori dal mio mondo.

Nessuno avrebbe potuto aiutarmi, nessuno avrebbe punito il mio violentatore; io ero stata violata e nessuno poteva restituirmi la mia spensieratezza, una denuncia non mi avrebbe restituito la vivacità che si era cristallizzata in quel parco.

Nessuno poteva comprendere i miei sentimenti.

Isabella Swan era morta in quel parco e nessuno l’avrebbe riportata in vita.

Dalla morte non si torna.

«Mi faccio schifo, Edward. Il mio corpo è sporco, io sono sporca, io… io…» Scoppiai a piangere più ardentemente. «Volevo essere una Papilio Ulysses ma ora non posso più esserlo perché io sono morta quella sera, Edward!»

Le sue braccia mi circondarono le spalle dopo essersi avvicinato con lunghe falcate; mi abbracciavano e mi infondevano calore, protezione, affetto.

Ricambiai l’abbraccio e mi strinsi a lui con tutte le forze, piangendo sulla sua maglietta, bagnandola con le mie lacrime.

«Mentre lui toccava il paradiso… io… io assaggiavo l’inferno.» Dissi e la voce uscì soffocata a causa del suo petto. «Sono ancora indolenzita e la notte faccio sempre lo stesso incubo, sogno le sue mani ed il suo corpo che premeva prepotentemente il mio, facendomi graffiare la schiena dalla ghiaia e dalle foglie.» Tossii disperata. «”Ti vergognerai così tanto da non riuscire più a guardarti neanche allo specchio” Aveva detto ed è stato davvero così.» Le mie parole risultavano quasi incomprensibili anche a me stessa.

Mi aggrappai alla sua t-shirt bianca con entrambe le mani e lo guardai negli occhi. «Aiutami, ti supplico. Dammi la stessa forza con cui tu hai superato i tuoi traumi, infondimi il tuo stesso coraggio perché io non riesco più ad andare avanti. Volevo morire, lo capisci? Voglio morire tutt’ora per ciò che mi è successo e se non ho provato ancora a togliermi la vita è solo perché non voglio dare un dispiacere a mio padre. L’unica cosa che desidero è mettere fine a tutto ciò perché la mia non è vita, è un doloroso andare avanti.»

La sua mano sfiorò la mia guancia e mi guardò con occhi tristi; mi trascinò verso il letto e ci fece accomodare entrambi, per poi mettermi le coperte addosso e coprirmi dal freddo.

«Non dire queste cose. Non devi dirle. Ci sono io con te e tu non sei morta, sei qui, fra le mie braccia ed io ti voglio bene.» Mi accarezzava una guancia con la mano destra mentre mi guardava con sguardo forte ma allo stesso tempo affranto. «Ci sono io con te.» Ripeté, «Non ti lascerò mai andare e ti aiuterò, farò di tutto ma smettila di dire che vuoi morire perché anch’io non saprei come andare avanti senza te»

Guardarlo era diventato impossibile a causa delle lacrime.

«Perché non lo hai detto a tuo padre ed esporto denuncia?» Mi domandò con voce preoccupata.

«Non ne ho il coraggio.» Presi un bel respiro, cercando di regolarizzare il tremito che mi scuoteva.

Avevo una mano poggiata sul materasso e lui la coprì con la sua, «Bella, dobbiamo denunciarlo, hai ancora prove evidenti dell’accaduto, devi solo sforzarti di esporre denuncia.»

Scossi il capo in segno di diniego.

«Bella, devi farlo se vuoi liberarti da un peso anche se piccolo.»

«No…» Mormorai.

«Chi è stato?» Mi domandò serio.

Lo guardai negli occhi e tirai su col naso. «Denunciarlo non servirà a nulla.»

«Ma potrebbe evitare che qualche altra ragazza possa essere trattata allo stesso modo, vuoi che altre ragazze siano trattate così?»

Inorridii al pensiero e scossi il capo: nessuno meritava di essere trattato così, neanche l’essere umano più subdolo di questo pianeta.

«Chi è stato?» Ripeté.

Mossi le dita sotto la sua mano, in modo da intrecciarle con le sue.

Trassi forza dal suo calore, dalla sua dolcezza.

«Non temere, la denuncia rappresenterà il primo passo verso la guarigione.» Mormorò dolce e ricambiando la stretta delle mie dita. «Ti prometto che guarirai ed io ti starò sempre accanto durante il cammino, Bella, sarai di nuovo una Papilio Ulysses, ma devi dirmi il nome.»

Abbassai gli occhi verso le nostre dita intrecciate e le sue parole mi riscaldarono il cuore congelatosi quella notte sotto le stelle.

«E’ stato…» Deglutii, pensare a quel nome mi faceva rabbrividire di paura, in quei mesi lo avevo evitato di proposito. «E’ stato Mike Newton.»

 

 

 

 

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Capitolo 5
*** (5/5) ***


Papilio Ulysses

Regressus -us

(5/5)

 

Scendere le scale del palazzo con un sorriso sul volto è ormai diventato facile.

Esco in strada e ricambio i saluti che mi vengono rivolti mentre mi avvio verso il punto di incontro.

Aspetto sotto il grosso orologio della piazza, sedendomi sul bordo della fontana, sotto l’ombra di un grande albero di nocciole.

La giornata è magnifica, il mese di aprile mi piace: sbocciano i fiori, l’aria si riempie di polline e le farfalle iniziano a volare da una corolla all’altra, confondendosi fra i mille colori; il sole è alto ma non bollente e la brezza leggera che mi accarezza le braccia scoperte mi solletica la pelle.

Guardo le nuvole bianche e sorrido loro.

Gli ultimi mesi sono stati davvero movimentati ed una giornata tranquilla come questa serve solo a rilassarmi ulteriormente.

Tante cose sono avvenute in quattro mesi e non riesco a rimpiangerne neanche una, perché tutto sta prendendo il giusto posto grazie a quegli avvenimenti.

Sto tornando a vivere, ad esempio.

Quattro mesi prima, la mattina di Natale, mio padre trovò me ed Edward addormentati sul mio letto: io accucciata contro il suo petto, avvolta tra le coperte e lui in pigiama che stringeva il mio corpo contro il suo anche durante il sonno; quando ci svegliammo, scendemmo in cucina ed ascoltai Edward parlare con mio padre di ciò che mi era successo.

Avevo tenuto lo sguardo basso per tutto il tempo e scoppiai a piangere solo quando mio padre mi venne in contro, mi abbracciò stretta al suo corpo e mi chiese scusa fra le lacrime: mi chiese scusa di non aver capito, mi chiese scusa di essere stato così poco attento, mi chiese scusa di non essere stato un buon padre.

La denuncia per stupro venne raccolta da Mark, il sottoposto di mio padre e dopo un mese di indagini si venne a sapere che non ero stata l’unica vittima del mio carnefice –pensare al suo nome mi procurava ancora turbamenti-, che vi erano anche altre denunce a Port Angeles e Seattle.

Il carnefice fu accusato e condannato a castrazione chimica per diversi casi commessi e alla reclusione di qualche mese.

Sono in cura da uno psicologo: all’inizio ero contraria ma poi, dopo qualche seduta, mi sono resa conto che non c’è nulla di male nell’andare da un professionista; lo psicologo è qualcuno che ti aiuta, che ti ascolta e che ti consiglia. E’ l’angelo custode del cervello di soggetti particolarmente sensibili.

Il dottor Collins mi sta aiutando a superare i miei traumi e mi sta aiutando a tornare alla ribalta, più forte di prima ma non mi sta aiutando a tornare in vita.

Avevo detto che dalla morte non si torna: mi sbagliavo.

Sto tornando in vita e tutto grazie ad una persona: non a mio padre, non a Mark, non al dottor Collins.

«Bella»

Abbasso delicatamente gli occhi che tenevo ancora sulle nuvole e li porto su quel verde prato che mi fa battere il cuore.

Mi chiama sempre prima di avvicinarsi, non mi prende mai di sorpresa, sa che potrei spaventarmene; è così premuroso.

Sorrido mostrando i denti e sentendomi completa quando si avvicina e mi stringe fra le sue braccia: il suo profumo è celestiale ed il suo calore è confortevole.

Poggio la testa sul suo petto, l’orecchio sul suo cuore e mi perdo nell’ascoltarlo.

Così vivo, così forte, così grande.

Edward è stato decisivo lungo il mio cammino, senza il suo sostegno non sarei riuscita a fare nulla, sarei ancora chiusa nella mia stanza, rannicchiata sul mio letto a piangermi addosso, senza avere la voglia o la forza di agire.

«Com’è andata dal dottor Collins?» Chiede, accarezzandomi i capelli alla nuca dolcemente, quasi temesse di rompermi.

«Bene. Sai cosa? Mi ha parlato di sua moglie, mi ha detto che anche lei come me… è stata violentata e mi ha detto che ora non vede l’ora che cali la sera.» Ridiamo entrambi. «Il dottor Collins ha tre figli, lo sai?»

Annuisce e mi bacia i capelli.

Mi allontano dal suo petto e mi alzo sulle punte per poggiare le mie labbra sulle sue chiudendo gli occhi: le sue labbra sono morbide, calde, dolci e delicate, mi piacciono. I suoi baci mi piacciono.

Mi scosta dal suo corpo e mi guarda negli occhi come aveva fatto la prima volta che mi aveva baciato, proprio sotto quel nocciolo, seduti proprio sul bordo di quella fontana: era emozionato, felice e innamorato; proprio come lo ero io.

Como lo sono ancora e –il suo sguardo me lo conferma- come lo è ancora lui.

«Anche noi un giorno avremo dei bambini, vero?» Domando. So che è troppo presto parlare di bambini e matrimonio ma l’idea di avere un piccolo Edward fra le braccia mi alletta, mi mette allegria.

Non voglio pensare che un giorno potrebbe lasciarmi, mi piace pensare che il nostro amore durerà in eterno ed una parte di me sa che quella è l’assoluta verità.

Edward non mi lascerà mai, io non lo lascerò mai; il sentimento che ci lega è qualcosa di molto più profondo e forte dell’amore, qualcosa che non ha nome o consistenza ma che, entrambi, sappiamo esiste.

Non è il dolore passato che ci unisce ma è la volontà di andare avanti insieme, di affrontare ogni giorno con il sorriso sulle labbra.

«Quando sarai pronta, avremo tutti i bambini che vuoi, te lo prometto» Bisbiglia, prima di prendere il mio viso fra le mani e baciarmi dolcemente.

«Sei bellissima» Mi sussurra accarezzandomi gli zigomi pudicamente arrossati, «Sei la Papilio Ulysses più bella che abbia mai visto.» Dice guardandomi negli occhi.

«Allora non sono un granché, dato che non ne hai mai vista una» Scherzo.

«Non è vero, ce n’è una proprio lì» Mi voltò verso il cespuglio di fiori che sta guardando e la vedo: una Farfalla di Ulisse poggiata su di un fiore.

«Qui è impossibile vederle volare, questo non è il loro habitat, com’è possibile che si trovi qui?» Chiedo emozionata.

«Ti sta dando il bentornato proprio come lo diede ad Ulisse tanti anni fa, è felice del tuo ritorno» Sussurra al mio orecchio.

Mi appoggio ad Edward e guardo la farfalla prendere il volo: svolazza un po’ davanti ai nostri nasi e poi prende la direzione del cielo, mimetizzandosi grazie alle sue grandi ali blu.

 

___

Grazie, grazie infinite per il supporto che mi avete donato.

All’inizio ero timorosa di pubblicare questa ff, perché l’argomento non è facile ed io non mi ritenevo –e tutt’ora ritengo di non essere stata in grado- di raccontare un avvenimento così catastrofico per una ragazza.

Spero che il finale sia stato di vostro gradimento e vi ringrazio di cuore per chi ha commentato, chi ha letto solamente ed anche chi se n’è fregato, perché no? XD

Chiedo scusa se non ho risposto a tutti i commenti ma sono stata impegnata.

Bene, con questo chiudo.

Alla prossima mini-ff :D

Sara.

 

 

 

 

 

 

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