Raccolta di racconti raffazzonati, ruspanti ed accidentalmente riflessivi

di GenGhis
(/viewuser.php?uid=110867)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Adieu, Aufidersen, Hasta la vista e cose del genere. ***
Capitolo 2: *** Sono...? ***
Capitolo 3: *** Sotto la pioggia... ***
Capitolo 4: *** Cena in famiglia ***
Capitolo 5: *** Love ***
Capitolo 6: *** Il Grande Lago ***
Capitolo 7: *** L'Arrivo degli Uccelli ***
Capitolo 8: *** Cecità ***
Capitolo 9: *** La Genesi ***
Capitolo 10: *** Quasi blu ***
Capitolo 11: *** Due giugno ***



Capitolo 1
*** Adieu, Aufidersen, Hasta la vista e cose del genere. ***


Racconto 1
Aufidersen, Hasta la vista e cose del genere

* * *

 

Sono nato il ventiquattro agosto, alle cinque di pomeriggio, e mi sembrava giusto morire lo stesso giorno, diciannove anni dopo. Avevo quindi programmato data, impegni, metodo, luogo, tempistica. Ero lì, nel bagno della casa di mio padre, in mutande e con un piede sul davanzale della finestra, fissando l’infinito. Non mi rimaneva che farmi fuori.
Potrei dirvi che avevo tantissime ragioni per arrivare dov’ero arrivato. Potrei raccontarvi storie patetiche sul divorzio dei miei genitori, e di come si siano tentati di uccidersi a vicenda col veleno per ratti prima di andare in un consultorio matrimoniale. Potrei parlarvi di Fragola, la mia cagnetta, che è rimasta sotto una montagna di roba quand’è caduta la libreria, e ora c’è una bestiaccia orribile e bavosa a raschiare il vetro quando lo chiudo sul balcone. Potrei spiegarvi quali fossero i miei sentimenti, quando il mio migliore amico mi ha regalato una canna fatta col basilico e rosmarino e sono finito al pronto soccorso perché beh, io al basilico sono allergico.
La verità è che mi sono reso conto che di questa vita non me ne fregava niente quando ho ipotizzato per la prima volta di chiuderla lì, e non ho pensato niente. Penso che fosse una specie di lotta con me stesso, ho programmato tutto aspettando che mi riprendessi, mi infilassi un paio di pantaloni e uscissi dal bagno pieno di gratitudine verso Dio o giù di lì. Invece davvero, non era uno dei miei vaneggiamenti a luci spente, quando immaginavo di buttarmi giù dal quinto piano e la sagoma di scotch bianco attorno ad una macchia di sangue, una giornalista che intervistava i miei genitori in un salotto televisivo e la scritta in grassetto sul quotidiano locale: avrei potuto farlo e nessuno mi avrebbe fermato.
Oramai il mio piede era dentro fino alla caviglia nel vaso dei gerani, li avevo praticamente sradicati tutti. Dalla finestra entravano i guaiti di Botolo, che avevo rinchiuso fuori come sempre, quand’ero solo in casa. Non mi andava di far trovare il mio corpo cosparso di dna di cane.
Addio Botolo, ti auguro di morire in maniera indegna. Addio mamma, papà, parenti vari. Addio vicini di casa con cui non ho mai parlato, amici che ho su facebook ma che non conosco, bidelli che non mi salutano quando entro a scuola. Addio persone che verrete al mio funerale o che sentirete il mio nome in tv, addio prete che seppellirai il mio corpo, addio addetti alle pompe funebri che darete una penna promozionale ai presenti.
Ma poi, a voi che ve ne frega?

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Sono...? ***



Racconto 2
Sono...?

* * *



-Allora posso andare?
Mi pentii subito di averlo detto. Quei bastardi si attaccavano ad ogni minima emozione per psicanalizzarti; bastava che tu avessi fame per essere bulimico, fretta per essere ossessivo - compulsivo. Se eri giù di corda eri uno schifosissimo depresso, se eri troppo allegro allora eri uno schizofrenico e da lì non uscivi più. Ti volevano vuoto.
La donna si sfilò gli occhiali, e mi guardò come se si fosse resa conto solo in quel momento di essere in compagnia. Non era bella, ma dava un’impressione di raffinatezza, di eleganza. Sembrava una di quelle manager frigide e ricche sfondate dei film americani, che usano la stessa faccia sia per darti un aumento di stipendio sia per informarti del tuo licenziamento.
Solo gli americani possono ideare di personaggi così stereotipati, è uno dei motivi del loro successo.
Lei ancora non parlava; io me la presi comoda, senza darlo a vedere per non passare per disinteressato, quindi malato di disturbo narcisistico. Li conoscevo tutti, i disturbi: li snocciolavo come i bambini ripetono le lettere dell’alfabeto, con la differenza che io sarei potuto andare avanti per ore. Recitare un elenco rilassa, peccato che non si possa fare in pubblico.
A volte, sull’autobus, quando mi annoiavo, ripensavo alla mia cartella clinica e ripetevo tutti i farmaci che mi avevano prescritto: amitriptilina, fenelzina, dopamina, noradrenalina, venlafaxina…
Finivano tutti per “ina”. L’unico che faceva eccezione alla regola era il moclobemide. Mi stava simpatico il moclobemide.
Quando ero agli inizi della cura mi ero convinto che fosse un modo per renderli più amabili agli occhi dei pazienti, un po’ come si fa con i medicinali per i bambini. Aspettavo che un giorno di quelli mi dessero un po’ di serotonina alla ciliegia.
Notavo sempre molte analogie fra i bambini e noi. Era un pensiero allo stesso tempo consolante ed avvilente, ma sicuramente significativo.
Ovviamente non dovevo prenderli tutti in una volta. In realtà l’avrei preferito, passare dieci minuti ad imbottirmi di pastiglie e poi poter trascorrere serenamente la mia giornata. Invece te le dovevi portare appresso, e magari nel bel mezzo di una conversazione tra amici cacciare il tuo bell’antidepressivo alla ciliegia e farti dare qualcosa da bere per mandarlo giù.
Era un modo come un altro per farti ricordare di essere malato. Non potevi nemmeno pensarlo che era merito tuo, che il brutto periodo era passato, perché c’era lo scatolo della ranitidina sul comodino, compresse rivestite blu e rosse, da aprire in un bicchiere d’acqua e farci sciogliere la polverina bianca. Non più di tre volte al giorno, prima dei pasti.
Erano almeno cinque mesi che non uscivo con nessuno, per paura di dover mostrare a tutti che ero un pericoloso malato di mente, affetto dal disturbo maniaco – depressivo.
-Ha fatto degli ottimi miglioramenti in questo periodo – disse la donna – da quando è venuto in cura non ci sono stati più casi di autolesionismo e si sta reintegrando con la società, come le avevo consigliato.
Mi ero immaginato una scena in particolare, che arricchivo ogni giorno con nuovi dettagli.
C ’ero io, seduto su uno sgabello di quelli in pelle dei pub, e c’erano altri uomini, amici. Parlavamo e ridevamo, eravamo tutti dolorosamente felici. Alcuni erano ubriachi, io no.
Ad un certo punto iniziava il telegiornale, e tutti ci zittivamo per ascoltarlo. Io mi fingevo interessato, allungavo il collo verso lo schermo e facevo cenno agli altri di stare in silenzio.
Politica, politica, politica estera, cronaca nera, cronaca nera…
Un giovane uomo, affetto dal disturbo maniaco – depressivo, fermo sull’autostrada a causa di un incidente, ha preso una pistola che la polizia ritiene abbia trovato attraverso un ricettatore e, muovendosi fra le macchine, ha ucciso ben 12 persone, oltre ad essersi sparato un colpo alla…”
Commenti. Insulti. Minacce esplicite, gesti volgari. Il servizio cambia, ora si parla del vincitore del festival di Sanremo, a nessuno interessa più.
-Ha imparato a gestire il suo disturbo bipolare – continuò la donna – e quei suoi attacchi compulsivi. Non si è rivelato refrattario ai farmaci, e questo è già un grande traguardo per la sua terapia.La sveglia del mio telefono suona. Sono le otto di sera, a casa starei per cenare. Devo prendere la mia pillola, se non voglio che mi venga una crisi. Tutti si voltano a guardarmi, capiscono subito che è stato il mio telefono a suonare, e si chiedono il perché.
-Le dirò, sono estremamente soddisfatta da com’è andata la sua cura – confessò la donna – alcune volte capita che i pazienti si fermino ad un punto di stallo, senza andare avanti né retrocedere.
"Scusi, posso avere un bicchiere d’acqua?” chiedo al barista. Mi cavo di tasca la mirtazapina, compressa rivestita gialla e viola, da aprire in un bicchiere d’acqua e farci sciogliere la polverina bianca. Non più di due volte al giorno, prima dei pasti.
-Quindi sì, confermo – concluse la donna – può continuare a prendere i suoi farmaci, se vuole, ovviamente diminuendo il dosaggio. Se sente necessario fare qualche seduta, può continuare a venire qui quando vuole, ha il mio numero. Basta prendere un appuntamento.
"Sì, amici! Io, che sono qui seduto con voi, potrei rimanere fermo nel traffico a causa di un incidente, prendere una pistola e ammazzare 12 persone! Potrei anche ucciderne tredici, questa volta, o magari qualcuna in più. Sono pazzo, pazzo furioso come quello del Tg!”
La donna si alza, mi tende una mano.
“Sono pazzo. Sono pazzo. Sono pazzo…”
La faccio attendere un minuto più del dovuto, mi vengono le lacrime agli occhi e non so se sia perché non sono più in cura o perché ora tutti gli amici del bar stanno realizzando ciò che sono davvero. Forse entrambi.
Mi alzo in piedi anch’io, le stringo una mano. Mi piacerebbe andarmene con una battuta ad effetto, ma temo che lei possa psicanalizzarmi anche quella. Rimango serio.
Penso a cosa farò, una volta uscito dallo studio. Mi immagino svuotarmi le tasche in un cestino della spazzatura, buttare anche i medicinali, e il suo raffinato biglietto da visita.
Sono libero, vivo, pazzo. Sono libero. Sono vivo. Sono pazzo.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Sotto la pioggia... ***



Racconto 3
Sotto la pioggia...

* * *



-Ma io non ho il permesso di parlare con gli sconosciuti…
-Perché, ti faccio paura?
-Io…
-No, dimmi se ti faccio paura.
-No, non mi fate paura.
-E allora lo vedi che possiamo parlare? E perché mi dai del voi? Il voi si dà ai vecchi, non sono un tuo coetaneo ma nemmeno sono vecchio, dico bene?
-Scusa. Non volevo essere maleducata.
-Povera bambina, immagino che i tuoi genitori ti perseguitino con la storia dell’educazione.
-E’ giusto, mamma dice che le regole servono perché per tutti la permanenza qui sia più piacevole.
-Tua madre è indubbiamente una donna con una vena di saggezza innata ma, concedimelo, dovrebbe andarci più cauta con le sue imposizioni quando si parla con una persona sensibile come lo sei tu… No, non dirmelo: non ci conosciamo ancora e già so come sei fatta, dico bene? Ma io sono un mago, riesco a capire subito come sono fatte dentro le persone.
-Davvero?
-Certo. E so fare anche tante altre magie…
-Me ne potete fare una?... Cioè, me ne puoi fare una?
-Non sai quanto mi piacerebbe, piccolina, ma purtroppo ho lasciato la mia valigetta da mago a casa, assieme alla mia gigantesca scatola di cioccolatini… Ma aspetta, forse un cioccolatino l’ho ancora nella tasca… Eccolo, tieni. Su, non fare la schizzinosa, ti giuro che non l’ho avvelenato.
-Grazie.
-Che bambina a modo che sei. Ma… non ci siamo ancora presentati! Come ti chiami?
-Marylou.
-Marylou, un nome a dir poco squisito, come del resto lo sei tu. Ho fatto anche la rima! Giuro, non era premeditata. Io sono il signor Roosevelt, omonimo del presidente… Non lo conosci? Peccato, era una delle mie migliori battute. Allora, cos’hai deciso? Vuoi vedere questi famosi giochi di magia e rotolarti nei dolciumi o preferisci restare qui? Scegli con calma, non ti farò la minima pressione… Certo, sarebbe un peccato, perché mi faresti tornare a casa da solo e io ho un po’ paura…
-Oh, ma non deve avere paura, signor Roosevelt. Non c’è niente che le possa far del male. Però se è così preoccupato, credo che potrò riaccompagnarla a casa…
-Grazie, Marylou. Non te ne pentirai, te lo prometto. Prego, mettiti pure sottobraccio, casa mia è qui a due passi, ci vuol poco… Ecco, brava, più stretta così c’entriamo tutti e due sotto l’ombrello. Niente male, vero? Nemmeno una goccia di pioggia, ed è un miracolo considerato quanto sta piovendo…
-Signor Roosevelt?
-Sì, dolcezza? Dimmi tutto, sono qui esclusivamente per servirti.
-Torniamo subito, vero?
-Ma certo. Guarda la mia faccia, ti sembra la faccia di un bugiardo? No, dico bene? Giusto il tempo di insegnarti come far sparire qualcosa, poi ci prendiamo una tazza di tè e ti riporto dritta a casa… Non devi avere paura con me, tesoro, ci sono io a proteggerti. Quando tornerai a casa, dì pure alla tua mamma che hai conosciuto un signore un po’ buffo, che ti ha insegnato tante belle cose… dirai così, dico bene? Allora Marylou, cosa dirai…?

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Cena in famiglia ***



Racconto 4
Cena in famiglia

* * *



-Ma’, mi passi il sale?
-E alzati, una buona volta…
-Sono stanco. Oggi mi sono svegliato che mi faceva male il collo.
-E io ho lavato il bagno! Chi si è stancato di più?
-Ma possibile che ogni volta che torno a casa devo sentire voi che litigate? E Dio santo.
-Buona questa carne, mamma.
Angelica riceve il prevedibile calcio negli stinchi senza fiatare, e osserva il fratello mimarle un “ruffiana” dopo averla assalita da sotto il tavolo. Vorrebbe esternare a tutti i commensali il suo risentimento, ma preferisce non aggiungere ulteriore legna al fuoco. Quindi la pedata se la prende e tace, ma ciò non vuol dire che non attuerà un’adeguata vendetta.
-Dopo pranzo mi puoi restituire i cd che ti avevo prestato? Perché li hai ritrovati, vero?
-Ah, giusto! Hai messo in ordine la tua stanza, una buona volta?
Esiste un piacere più primigenio di quello che investì Angelica nel vedere suo fratello, sentendosi braccato come un topolino di campagna circondato da un gruppo ben nutrito di bisce assetate di sangue di roditore, guardarsi attorno sinceramente spaesato?
-No ma’. Ti ho detto che mi sono svegliato che mi…
-Non è possibile! Sarà un mese che ti ostini a vivere in quel caos.
-Simone, tua madre cucina tutti i giorni, anche se non si sente bene. Credi di vivere in un albergo?
-Io? Ma se l’ho messa in ordine l’altro ieri al massimo.
-Davvero? Strano, perché io ricordo che tua sorella ti ha chiesto i cd che ti ha prestato almeno una settimana fa, e tu non riuscivi a trovarli.
 -Sì, okay, okay. La metterò in ordine domani, giuro. Tanto ci sono abituato al fatto che mi trattiate come un bambino, no? Invece Angelica no, lei è così brava…
-Silenzio.
Suo padre allunga il collo verso il televisore, e stringe le palpebre come fa sempre quando vuole mettere meglio a fuoco qualcosa e ha dimenticato gli occhiali nella tasca della giacca. Scorrono le foto di una ragazzina bruna, con occhi piccoli e neri, che sorride imbarazzata in diverse situazioni. Abbracciata ad alcune coetanee, vestita da Biancaneve al centro di una sala coperta da coriandoli, avvolta in una grossa sciarpa e con un minuscolo cagnolino in braccio…
-Niente di nuovo, mi sembra.
-Sta’ zitto. Voglio sentire.
Lo speaker parla con voce piatta, rivolge le solite domande ad un’ipotetica polizia che probabilmente nemmeno lo sta ascoltando, poi torna a descrivere per l’ennesima volta le circostanze dell’assassinio. E’ piuttosto patetico, vederlo utilizzare termini animosi come “delitto efferato” utilizzando sempre lo stesso tono monotono e inespressivo.
-Dio mio, non sopporto più di vedere la sua faccia ovunque! Come se fosse morta solo lei!
-Finché non trovano il corpo… Secondo me questo non lo risolvono, altro che questura di Parma e questura di Salerno. Va dritto dritto fra gli archiviati, sentite che vi dico io.
-…E poi non è che sia un onore, essere famosa per questo motivo.
Simone fa spallucce, e torna ad abbassare lo sguardo sulla sua fettina di vitello. Il resto della tavolata è ancora interessato al servizio, che ora si dilunga sui conflitti interni della famiglia nella foto, stretta attorno ad una torta che recita “Tanti Auguri Carla e Piero”. Il giornalista conclude il suo monologo senza battere ciglio, con qualche parola di solidarietà per gli amici e i familiari.
-Amen. Ci vediamo un dvd?
-Proponi.
-Io sono troppo fiacca per rimanere sveglia. Finisco di caricare la lavastoviglie e vado a dormire.
-Dài, ma’. Puoi sceglierlo tu il film, se rimani a vederlo.
-Anche se la mia scelta fosse “Via col vento”?
-In quel caso vado a dormire. Anzi, in realtà in ogni caso vado a dormire. Sono stanchissima.
Angelica si alza, e mugugnando un “buonanotte” generico entra in camera sua. Si sfila una felpa slabbrata color melanzana, e slaccia i jeans. Come sempre, prima di infilarsi il pigiama e buttarsi sotto le coperte, osserva il suo nuovo corpo. Non le fanno schifo quelle cicatrici sanguinolente che le attraversano l’intero torace, e si allungano fino alle cosce; più che altro la lasciano ingenuamente affascinata. Di sicuro non si abituerà mai a ritrovarle su di sé, quando si scruta nel riflesso dello specchio.
Si infila una camicia da notte pulita, un po’ infantile per la sua età, ma che ha il potere di farla sentire rassicurata. Ovviamente, il suo talento non può nulla o quasi contro la cosa con la quale dovrà dibattersi durante la notte. Fa sempre lo stesso incubo: sogna il suo corpo lasciato a marcire in una palude poco lontano da casa, e un uomo malvagio che la fissa dalla riva. Poi sale sul suo pick-up rosso, in cui tiene una foto scattata il giorno dell’anniversario dei suoi genitori, dove ci sono tutti e quattro attorno alla torta, e va via sgommando.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Love ***


Racconto 5
Love


* * *


Il martedì è sempre un giorno orribile.
Inizia sempre con un sorriso, perché sono sette giorni esatti che fantastico sul nostro incontro; sono così tremendamente felice che il mio viso rimane immobile così, con le guance puntellate sugli zigomi aguzzi, e quando noto che per strada mi fissano straniti, so per certo che la colpa è di quell’espressione stolida e un po’ inquietante. E allora studio il mio riflesso nelle vetrine nei negozi, o negli specchietti retrovisori delle automobili, perché voglio capire se c’è un reale motivo per rimanere turbati. Ma vedi, il problema è che mi basta vedere un accenno delle mie labbra arricciate, o lo scintillio degli incisivi impudicamente scoperti, per ricordarmi che se sono raggiante è tutto merito tuo, e questo mi induce a scoppiare in una risata ancor più oscena.
I miei martedì sono ripetitivi: questo perché mi convinco ingenuamente che, se la mia preparazione sarà magistrale, se non fallirò in nessuno dei punti che mi sono prefissata, allora passeremo assieme una splendida giornata, e questo mi sarà sufficiente per sopportare un’altra settimana vedendo il tuo volto pietrificato solo nelle numerose espressioni estatiche nelle quali ho intrappolato i tuoi sorrisi, e che ora fanno bella mostra di sé sul pianoforte. Accendo quindi l’autoradio facendo sempre lo stesso gesto, ovverosia muovendo appena il polso, e attendo pazientemente che il segnale si ristabilisca da solo. Parcheggio sempre davanti la cioccolateria, e occupo sempre lo stesso posto -quella zona è praticamente desolata alle nove di mattina- ; mentre entro, do un’occhiata generale a tutti i dolci esposti, e mi obbligo a protendere la mia scelta verso qualcosa che ancora non hai provato, ma che ciò nonostante potrebbe accordarsi con i tuoi gusti elitari.
So che il tuo cioccolatino preferito è quello cosparso esteriormente di granella di cocco, e con un morbido cuore di cioccolato alle nocciole, e perciò a discapito dei miei propositi finisco sempre per uscire con due acquisti: qualcosa di nuovo e qualcosa di vecchio, che ti dia quindi una solida sicurezza sulla quale contare mentre assaggi titubante le strane leccornie che sono solita prediligere nelle mie incursioni zuccherose.
Prima di rivolgere uno sguardo ansioso alla bustina dorata, preoccupata al pensiero che si possano sciogliere durante il tragitto in macchina, mi domando sempre se lei sappia o meno delle tue preferenze in fatto di dolciumi. A questo non so rispondermi, e se da un lato mi tranquillizzo assicurandomi che certamente non ha idea di come tu la possa pensare su un’infinità di argomenti, sudo freddo al solo pensiero che possa essersi addentrata così a fondo della tua mente da aver carpito ciò nonostante le tue opinioni, e averle utilizzate per tirarti dalla sua parte. La possibilità che sia stato tu a confidarle il tuo amore per tutto ciò che contiene, anche in minima parte, scaglie di cocco, non la prendo nemmeno in considerazione: sarebbe abbastanza per gettarmi in uno stato di totale apatia.
Sappiamo entrambi che lei non mi piace, e che io non piaccio a lei. E’ convinta che i nostri incontri siano mirati ad allontanarti da lei, e io sono più che sicura che lei impieghi tutto il tempo in cui sono assente -da quando ti do un bacio e mi dileguo oltre la porta d’ingresso a quando pigio il bottone del citofono alle nove e mezza in punto- per riempirti la testa di panzane sul mio conto. Di certo ti punzecchia dove sei più sensibile, la mia ineluttabile lontananza, e la motiva con frottole ingegnose, tese appunto a farti più insicuro e diffidente nei miei confronti. Non ho idea di cose si sia inventata, quale orribile e fantasiosa storia si sia presa la briga di stendere, ma che mi remi manifestamente contro è palese: basi pensare al modo in cui sono contrassegnati in nero tutti i martedì del mese, sul calendario scarabocchiato che ha appeso in cucina.
Ci lima sempre il tempo che in teoria dovremmo destinare al recupero dei giorni perduti, e quando facciamo un gioco arriva sempre prepotentemente a metterci i bastoni fra le ruote, o a ricordarti un astruso motivo per cui quel passatempo non è indicato oppure, più frequentemente, svilendomi osservando con una certa civetteria come “non gli piace affatto quel noioso quiz a premi, accetta di giocarci solo per non dare un dispiacere a te”. E’ bravissima a piantare il germe del dubbio nella mia mente, e quando ti dico che se non ti va possiamo provare con qualcos’altro, lei, dall’alto della sua sedia color senape, annuisce vistosamente.
Se propongo di uscire dal suo squallido appartamento sub-urbano, trova sempre motivo di litigare, e di far sentire l’importanza della sua posizione di “madre”. Quando lasciò cadere i due cioccolatini nel tuo piccolo palmo teso, tira rumorosamente su col naso, e fa schioccare la lingua contro gli incisivi, decisa a manifestare il suo disaccordo. Al momento di lasciarci, mentre io ancora sono elettrizzata per il bacio scivoloso e soffice che mi hai schioccato sulla guancia, si appoggia quasi stancamente al battiscopa e, ricordandomi la durata del nostro accordo, dice:
-Ancora sei settimane – prima di chiudermi la porta in faccia.
Eppure, oggi è successo qualcosa di bello. Questa volta ha deciso di impedirti una volta per tutte di mettere sotto i denti “quella robaccia calorica” che io ti avevo portato, avvolta nel solito sacchetto perlescente. Mentre eri distratto, mi ha strattonata per un braccio e mi ha intimato di smetterla di cercare di comprare il tuo affetto con quei penosi mezzucci, e io , poiché non ho voluto spiegarle quanto la sua accusa fosse infondata, dato il fatto che se avessi avuto il solo presentimento di trovarmi in una situazione tale da dover addirittura procurarmi il tuo amore elargendoti cioccolata non avrei probabilmente più avuto interesse nel rimanere in vita da molto tempo addietro, ho assentito e sono venuta a sedermi sul divano, al tuo fianco.
Guardavi fisso lo schermo del televisore, e il tuo sguardo dardeggiava indeciso da un personaggio all’altro del cartone che stavi seguendo. Io osservavo la tua espressione pensierosa, e mi chiedevo se fossero vere tutte quelle storie di cui mi riempivano la testa, come “di mamma ce n’è una sola”, “la mamma è sempre la mamma”, “il legame del sangue” eccetera. E cercavo di vedere nei tuoi occhi puntati sul plasma traccia di nostalgia per l’anno che avevamo passato insieme mentre lei si disintossicava, e io non ero ancora la stronza invadente che oggi riceve in casa ogni martedì. Quando io ero l’angelo dell’affidamento al quale ti eri aggrappato per non cadere nel baratro degli orfanatrofi e degli istituti minorili.
Me l’hai detto con indifferenza, ed è stata proprio questa noncuranza che mi ha fatto saltare a piè pari un paio di battiti, che mi ha restituito il motivo che la riassegnazione alla tua madre biologica aveva fatto scivolare lontano.
-Mamma, ma quand’è che torno a casa?
Love.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Il Grande Lago ***



Racconto 7
Il Grande Lago

* * *


 

Era ormai molto tempo che il Grande Lago non parlava più. Se ne stava lì, immobile, a rosolarsi sotto il sole cocente, sonnecchiando come un grosso gatto domestico, con la superficie bluastra appena increspata dal passaggio delle giovani tinche e dei corpulenti barbi d’acqua dolce. Se si aveva un po’ di fortuna, poteva capitare di avvistarli mentre venivano a galla giusto per una manciata di secondi, e ammirare la luce del mezzogiorno peruviano rispecchiarsi nelle loro squame bagnate, per poi scomparire di nuovo nei bui fondali del Titicaca. A volte capitava che le loro incaute sbirciatine venissero apostrofate dai secchi rimbrotti degli svassi, sonnacchiosi eppure costantemente vigili, che scuotevano pieni di disprezzo le loro austere corone brune, richiamando prontamente all’ordine coloro che, in qualunque posto meno quello, sarebbero dovuti esserne le prede favorite.
Eppure il Grande Lago non parlava più, e quello era un dato di fatto. Non appena notava leggeri flutti raggrinzirsi sotto i suoi occhi e venire poi trasportati dal vento verso la costa Est, Pilar sentiva il cuore battere tanto impetuosamente da farle dolere lo sterno, e attendeva fiduciosa che le giungesse il familiare mormorio, salvo poi rimanere inevitabilmente delusa. E allora si accomodava nel punto della riva occidentale preferito, e si sfilava i sandali districandosi fra gli incroci delle fettucce scure; immergeva quindi le gambe nell’acqua paludosa e torbida del litorale, percependo alghe e altre piante di quel genere lambirle appena le piante dei piedi.
Era in grado di rimanere ore ed ore in quella stessa posizione, solo oscillando di tanto in tanto i polpacci congestionati dal freddo, e scrutando poi ammirata le deformità di questi ultimi che il Grande Lago modellava sotto sua richiesta, per farla divertire. Si facevano così compagnia a vicenda finchè la superficie acquitrinosa dove Pilar teneva a mollo i piedi diventava una pozza buia e opaca, e allora le sembrava di non avere più voglia di giocare assieme a lui. Tornava alla bicicletta -una Route 66 verniciata di giallo limone- di corsa, e pedalava via tornando a fissarlo almeno altre cinque o sei volte, prima che di dileguarsi silenziosamente nel buio.
Nessuno le chiedeva mai niente del Grande Lago. Probabilmente a nessuno importava molto del veleggiare sonnacchioso degli aironi cenerini, subito dopo la siesta, e di come il loro corpi sembrassero migliaia di frecce scagliate da altrettante balestre, quando spiccavano il volo in un chiassoso frullio di piume bianche e nere. Se mai qualcuno gliel’avesse chiesto, Pilar avrebbe raccontato questa e tante altre storie, e avrebbe continuato a descrivere l’affettuoso ribollire dalla schiuma, che salutava lei e la sua Route 66 quando si apprestavano a scendere a valle.
Immaginava che, dopo qualche tempo, le sarebbero venute meno le parole, e che anche il brillare delle cataratte degli occhi spinosi sarebbe parsa una storia già sentita. E allora il Grande Lago sarebbe tornato a parlarle, e a dare voce ai pensieri di ogni singolo granello di sabbia del fondale. Per la maggior parte del tempo riflettevano sui ventri smerigliati dei pesci che volavano sopra le loro teste, ma a volte si chiedevano se esistesse qualcosa di diverso da quella sostanza verdognola e schiumosa in cui pigramente navigavano. E alcuni di loro, i più anziani, avevano un’intera vita da rievocare, e per primi avevano visto il Grande Lago nascere, e il suo ampio grembo riempirsi di figli deformi.
Ma nessuno le chiese mai né questa, né altre storie. Con il passare del tempo, sembrò quasi che il Grande Lago avesse preso ad accartocciarsi su se stesso, che si stesse raggrinzendo come un frutto essiccato. Prima era un lago, poi una palude, una pozzanghera piena di fanghiglia collosa e senza memoria. Infine una goccia, così piccola che Pilar, seppur cercandola fra le zolle molli d’humus, non la trovò più.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** L'Arrivo degli Uccelli ***



Racconto 8
L'arrivo degli uccelli

* * *

 

Prima che Odette arrivasse a Mont Couplet, Julian era un uccello in gabbia. Di tanto in tanto abbandonava il nido perché Ulysse, suo padre, aveva il vizio di tracannare ogni notte del liquore forte nelle osterie e rincasare confuso ed annebbiato, scudisciando la cinta come fosse la lingua d’una frusta e chiamando a gran voce il nome di Julian. “Julian, Julian, stupido ciccione”, sciamava mentre s’arrampicava sui gradini dell’ingresso: e Julian, ancora in un pigiama troppo piccolo per il suo ventre gonfio, scivolava via dalla porta di servizio come un roditore bizzoso, correndo lungo il viale finchè non sentiva le urla confondersi coi sussurri della notte.  
Seppure sapesse di non poter correre per sempre, a lui bastava di poter sbattere le ali e fingere di essere un gabbiano: sognava di sorvolare le interminabili distese campestri di Mont Couplet, e il fiume tumultuoso, e le casupole dei braccianti oltre il confine e i recinti delle vacche e degli agnelli; sognava di volare fin sopra le Senna, sui tetti a piegoline dei bateau, e di non tornare mai.
Odette arrivò a Mont Couplet una mattina di fine agosto: Julian, spaventato come al solito dalle minacce del padre, aveva dormito fuori casa. Un fringuello gli becchettò amichevolmente un dito ed egli, levati gli occhi oltre la tenera penombra della veglia, la vide. Era circondata da uccelli, e tirava un carretto su cui si leggeva la scritta:
 
Odette et ses oiseaux
Volatili d’ogni forma e dimensione
 
Come ogni cosa bella non fu che per un istante. Ma Julian capì che non avrebbe mai dimenticato quel viso.
Il negozio d’uccelli d’Odette si stabilì in paese in capo ad un paio giorni: l’estate finì che per gli abitanti di Mont Couplet v’era nulla di strano nel trovare un allocco appollaiato sulla cassetta delle lettere, o un paio di colombe bianche che, amorose, tubassero accomodate nell’incavo d’una grondaia. I suoni di Mont Couplet erano lo schioccare del becco di un barbagianni contro la ruota di una bicicletta, il fruscio delle anitre che filavano lungo il cielo novembrino, il pigolio di un cardellino appena nato in un paio di scarpe dimenticate sul pianerottolo.
  Odette non usciva dal negozio che di rado, eppure i pensieri di Julian erano come un branco di storni impazziti che, testardi, sorvolassero il tetto della sua mente volgendosi sempre a lei, quasi fosse l’agognato Oriente, quasi che in lei baluginasse l’irresistibile ardore dell’est. La campagna, il languore del tramonto, leggere un libro, la dolcezza del cioccolato, il fuggevole bacio fra un archetto e le corde tese di un violino, una notte senza stelle: nulla di ciò che aveva amato aveva lo stesso sapore, e la sua anima sbatteva, disperata, contro le pareti del proprio corpo come supplicando di poter uscire. Alle volte immaginava di essere un ragazzo diverso, bello come Alphonse, soave come Ignace, atletico come Gatien, bravo a raccontare le storie come Théo quando redigeva i compiti di francese: invece Julian non aveva null’altro da offrirle che il suo incondizionato amore giovanile, per quanto misero fosse.
Giunse l’inverno anche a Mont Couplet e Julian, mentre mandava a memoria storie di lotte e di battaglie, s’incantava ad osservare la cuspide dorata sul tetto del negozio, reggendosi il volto paffuto in una mano, ed era straordinario vedere spatole ed aironi avvitarsi attorno pinnacolo candido di neve. Pregava affinché qualcosa, nella mente di Odette, le dicesse che Julian non faceva altro che pensare a lei, da modo che non piangesse mai, credendosi poco amata. Sperava sorridesse sempre, quando dava i semi ai pettirossi infreddoliti, quando carezzava il dorso fragile di un fringuello, quando ballava.
Un giorno, mentre guardava fuori dalla finestra, Julian vide passare Odette. I suoi capelli erano intrecciati in fili argento, e un’appariscente abito di velluto rosso le inseguiva le caviglie nude: correva trascinandosi dietro un nugolo d’uccelli diversi, e nei loro cinguettii si poteva sentire il suono argentino delle risa. Lei si fermò, vedendolo affacciato al davanzale, in attesa.
-Ciao – disse. Julian fece appena in tempo a vedere le sue labbra incurvarsi in un accenno di sorriso, prima che gli uccelli la travolgessero in un caotico frullio di piume, e lei svanisse in mezzo a loro. Il suo cuore non aveva mai battuto così forte.
 Quella fu l’ultima volta che Julian vide Odette. Oramai l’inverno era inoltrato, ed ella migrò assieme ai suoi uccelli verso posti lontani, magari al di là della Senna e dei confini della Francia. Ovunque fosse andata, comunque, si sentì la sua mancanza: Julian sentì la sua mancanza. Dopo qualche tempo il negozio di Odette venne affittato da un conciatore di pelli, e a ricordare ai cittadini di Mont Couplet ciò che era stato non rimase che il segno dei becchi sul legno degli steccati, e i ricordi di chi era solito rigirare le propria memoria come i grani di un rosario.
Per i vecchi di Mont Couplet, Odette divenne la "rondinella", forse accennando alla sua repentina fuga invernale. Julian, sentendoli parlare, osservava il pinnacolo d'oro fuori dalla finestra, e attendeva speranzoso il suo ritorno. 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Cecità ***



Racconto 9
Cecità

* * *



Pare che nel mantenere un segreto convivano sempre due impulsi discordanti: da un lato, la paura di svelarlo; dall’altro, l’ignaro desiderio di condividerlo. Non tutti i segreti riguardano la coscienza; per alcuni confidare un segreto non ha alcun effetto benefico, ma il solo scopo di attestare che una certa cosa è accaduta davvero, perché se non c’è nessuno a testimoniare, è come se non fosse successo niente - ed ecco che celare un segreto e confessarlo hanno la stessa radice, agire sulla realtà, prima deformandola e poi serbandola dall’oblio. Per quel che mi riguarda, non ci sono fatti da dimostrare né ci saranno mai amnesie a cui sottrarsi, ma tenterò di sintetizzare così il mio: io non riesco a cogliere la bellezza dei muscoli in movimento, né lo splendore di un amore giovanile, né la tristezza nella morte.
Scoprii la mia natura tempo fa, ma in franchezza sento di averlo sempre saputo. Da quel bacio greve nel sottoscala, dalle sue labbra socchiuse che schiudevano le mie, sono passati otto anni, e anche allora, stringendo il suo corpo vibrante contro il mio, inerte, mentre sentivo il sapore agro della sua saliva e i tremiti del suo petto, mi sembrava di tenere fra le mani un pesce vivo, viscido, che scivolava via dalla mia presa anodina e si dibatteva sul mio volto inespressivo. Percepivo l’eccitazione di lei, ma di quel contatto umido ed estenuante, consumato nel crepuscolo di una lampadina nuda sopra le nostre teste intrecciate, ricordo solo il battito lento, abulico del mio cuore indolente, e l’assoluto senso di desolazione delle mie dita flosce attorno alle sue, calde e piene di passione.
Mi staccai da lei, e mi passai il dorso della mano sulla bocca. Non volevo respingerla, ero avvinto dal suo spirito intemperante e dal suo aspetto sottile, ma quello che ai suoi occhi era stato un bacio ardente e salace, ai miei un’aderenza di labbra su labbra, uno scambio di respiri e un masticare l’uno la lingua dell’altro, avviluppati nell’abbraccio ardimentoso in cui mi aveva accolto. La sensazione di essere immobile come una statua di sale mentre lei bruciava del desiderio di toccarmi ancora mi travolse, ed ero indifferente, anche se afflitto dalla mia apatia, quando ci provò. Le sue dita mi sfiorarono i sensi, vigili, messi a nudo sulla mia cute innervata, e anche se indotto a nuove sensazioni dal suo tocco, non riuscivo a scorgere alcuna armonia nel nostro contatto: ero diventato cieco - o forse lo ero sempre stato - e una visione di noi due, annerita come una fotografia bruciata, mi riempì gli occhi.
Quello scatto di noi, due corpi avvinghiati sotto un cono verticale di luce gialla, continuo a portarlo con me, sebbene detesti ricordare: scruto quel volto bronzeo ed imberbe, il naso volitivo in parte nascosto dai capelli di lei, sciolti su di me, e nei miei occhi scuri, torvi, che fissano qualcosa oltre l’occhio del faro in cui siamo imprigionati, leggo il senso di vacuità che provai quel giorno, e che da allora mi perseguita. Voglio custodirci così, un attimo prima che lei sollevi il suo sguardo fermo su di me e mi dica, risoluta: “Ti amo, tesoro mio, ti amo e ti amerò per sempre”.
Qualcosa s’incrinò in me; una molla scattò e riportò il buio dove fino ad un attimo prima aveva danzato la luce, un silenzio asettico dove aveva infuriato il caos. Da allora, io so di essere un guscio vuoto, un grembo sterile e inaridito. A volte sento come se il mio corpo fosse pieno d’acqua: percepisco sotto la pelle la presenza di un abisso plumbeo ed insondabile, dove ogni eco si dilata e galleggia in superficie. Ogni suono immergendosi si disperde, e niente arriva del mondo esterno nella cavità, immersa nel silenzio fluttuante ed ovattato nella profondità del mio petto, dove regna il vuoto che ho al posto del cuore.
“Ti amo, tesoro mio, ti amo e ti amerò per sempre”: sono passati otto anni, e ancora queste parole universali non hanno smesso di attrarmi, di esercitare su di me un fascino sfrenato ed implacabile. Io so di essere un uomo incompleto: parlare d’amore, per me, è come leggere una poesia astrusa e violenta, e rimanerne annientato; è come un formicolio tormentoso a qualcosa che dovrebbe esserci, e invece non c’è; è l’orrenda sensazione di mancanza, quando brucio di desiderio e vorrei poter avere una donna, ma so già che non potrei darle ciò che cerca. Fantastico di riuscire ad averne una, sirenica e flessuosa, la cui pelle profumi di mandorle come immagino sappia il corpo nudo di una di loro, e quando l’immagine diventa talmente concreta da indurmi al parossismo del piacere, le parole ti amo, così reali per chiunque, così ermetiche per me, riappaiono a infrangere l’idillio.
Non ne ho mai parlato con nessuno, né mai lo farò. In questo mondo non esiste pietà per chi è come me, perché nessuno può davvero comprendere il mio tormento - come io non posso comprendere molti aspetti della vita ordinaria, che mi sono sempre stati negati. Il mio cuore, immobile, pulsa per inerzia, e ogni mia emozione è cerebrale, arida e fredda come una formula matematica; pertanto non conosco la paura, anche se già so che vivrò in isolamento, né il dolore, sebbene non ci sia modo per sfuggire a quello che sarà il mio futuro. L’arte, talvolta, riesce a penetrare nel mio animo e allora, quasi in un raro momento di lucidità, mi sembra finalmente di provare dispiacere per il mio destino, e sono lampi elettrici in una notte densa e impenetrabile, e sono colpi feroci che mi strappano al mio torpore.
È solo una dolce illusione, e in sincerità non credo che le parole di altri uomini possano avere questo effetto miracoloso su di me. Ho riflettuto a lungo, e credo che la mia mente, nel disperato tentativo di salvarmi dalla mia ragione insonne, si sforzi di imitare gli effetti di ciò che trovo scritto sui libri: la mia sofferenza non è che un clone, il mio pianto duplicato e poi sdoppiato in centinaia di lacrime incolori, e questa stessa confessione, senza significato per me, è solo una cosa finta, copiata, che non ha altro scopo se non quello di vivere, almeno nella simulazione, nell’arte, nella poesia. 


Questa storia partecipa al contest Insegreto di Shizue Asahi, ed è ispirata del seguente segreto ##30549 “I miei parenti insistono affinché io faccia nuove conoscenze, soprattutto nuove ragazze perché non sono mai stato con nessuna. Sono vergine e mi sento etero (i video porno gay su internet mi fanno schifo) quindi non sono omosessuale. Il punto è che non sento il bisogno di stare con qualcuna. Mi masturbo molto e questo mi basta per essere soddisfatto sessualmente...”

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** La Genesi ***


 

Racconto 10
La Genesi

***

 

Scholz scese dalla cunetta a gambe larghe; il retro del suo impermeabile si gonfiava e si svuotata come la vela di una nave, mentre le labbra si arricciavano scoprendo le gengive e le piastrine d’argento del suo apparecchio: era proprio una mattina ventosa e gli alberi, frustati dall’aria gelida e da una seccante pioggerellina sottile, si piegavano in uno scricchiolante inchino al suo passaggio, frettoloso e sollecito giù per il pendio. Oltre alla cerata color giallo limone, stridente con i suoi capelli biondo scuro, indossava una polo a strisce bianche e verdi e un paio di attillati blue-jeans a sigaretta dall’aspetto striminzito, che gli lasciavano scoperte le caviglie, nude sopra le flosce scarpe da tennis, e rendevano la sua figura ancor più oblunga e smilza. Così Francis Scholz, allampanato e sgargiante e con una curiosa espressione indispettita che gli capeggiava in volto, sfilando lungo il sentiero sabbioso che dalla brughiera conduceva al villaggio - le lenti degli occhiali di plastica rossa appannate dall’umidità e dalle goccioline di pioggia - si squadrò il polso, che fuoriusciva dalla manica grondante dell’impermeabile e, sul quadrante del suo orologio di gomma, lesse le cifre 11:43. Si fermò, circospetto, squadrando di fronte e alle sue spalle la strada deserta; si sfilò gli occhiali fissandoli con miopi occhi incavati, poi li lasciò cadere sull’erba umida e cominciò a calpestarli, metodicamente, mentre udiva il crocchiare delle lenti frantumate e delle asticelle spezzate sotto le suole delle sue scarpe.
Raccolse i pezzi fracassati della sua montatura, li infilò nella tasca destra dei jeans e, dopo aver controllato di nuovo l’orario a capo chino - ancora le 11:43 - riprese il suo cammino schioccando le dita, fischiettando il ritornello di un motivetto pubblicitario.
- Se vorrai... potrai... OCB, extra slim! - canticchiò, incerto - Bella vita avrai... OCB, extra slim!
Cercò nelle tasche sul retro dei pantaloni e s’infilò in bocca un rettangolo grigiastro di gomma da masticare; ammutolì, spingendo avanti e indietro la mascella con fare risoluto, mentre un ragazzo basso e tracagnotto, sotto uno straordinario ombrellone a spicchi arcobaleno, gli passava accanto.
- Buongiorno, Scholz. Vedo che stamattina ci siamo svegliati bene - ghignò, colpendolo beffardamente in testa con il manico dell’ombrello: aveva un sorriso minuto e diabolico, e una grossa testa squadrata con i capelli tagliati a spazzola.
- ‘Giorno Colin: sai che stavo proprio per venirti a chiamare? E questo tendone da circo, si può sapere dove l’hai preso? Vuoi una cicca? - aggiunse, mostrando il pacchetto.
- Ma se non mi chiami mai - bofonchiò l’altro e, stesa la gomma sulla lingua rossa come una fragola, cominciò a ruminare; Francis finse di non averlo udito, e concentrandosi sullo stridio delle sue dita che scorrevano sulla plastica madida dell’impermeabile, rimase fermo ad osservare l’ombra sfuocata che aveva davanti. Colin alzò un braccio ed accennò al suo volto.
- E gli occhiali, che fine hanno fatto? Bah - scosse il testone con una smorfia stizzita - Comunque, che volevi da me? Perché stavi andando a chiamarmi?
Scholz alzò le spalle, soprappensiero.
- Sai cosa? Non lo so davvero. Camminavo, tranquillo, pensando ai fatti miei... - schioccò le dita, ma il suono uscì flebile e scivoloso - E ho pensato: chissà se Colin è in casa?
- Invece sono qui - lo interruppe, mentre sul suo viso appariva un’espressione furbesca: aggrottò le sopracciglia ispide e le sue pupille baluginarono, torve - Che strano, perdi gli occhiali è la prima cosa che fai è venire a cercarmi? A cosa devo tanta premura?
- Premura... Come parli bene, tu! - replicò Francis, sardonico, senza che il suo sguardo vitreo, vagando su per i tetti dei palazzi, si soffermasse su di lui - Ad ogni modo, se ci tieni a saperlo, gli occhiali non li ho persi e, anzi, è proprio di questo che volevo parlarti. Conosci Freddie O’Brien?
- Freddie O’Brien? E che c’entra lui, adesso? - la sua bocca si contrasse in una smorfia contrariata mentre, dopo avergli stretto il braccio da sopra l’impermeabile, lo tirava bruscamente sotto l’ombrello - Accidenti, Scholz! Non possiamo stare qui a discutere di O’Brien mentre diluvia! Se mi raffreddo mia madre mi ammazza: non voleva neppure farmi uscire, ma dovevo per forza comprarla.
Infilò una mano nella tasca del suo piumino blu scuro, reggendo con l’altra il manico ricurvo dell’ombrello, e gli mostrò l’angolino di carta argentata di una tavoletta al cioccolato.
- Eppure non sei tanto grasso - sfuggì detto a Francis; l’altro lo fulminò con un’occhiata velenosa.
- Lo so, cretinetti, difatti ho il diabete... Ma certamente tu non saprai neppure che vuol dire - ridacchiò crudelmente, squadrandolo - Sai che a volte sei un vero idiota, Scholz?
Francis sbuffò, senza sentirlo; camminavano l’uno accanto all’altro, attraverso il villaggio desolato, mentre il battere cadenzato della pioggia sopra le loro teste si faceva talmente rumoroso da ingarbugliare i loro discorsi. Si fermarono davanti al portone verde splendente di un palazzo di mattoni scalcagnati, con un temibile battente d’ottone a forma di testa di sfinge che oscillava da un lato e dall’altro, trasportato dalle raffiche di vento gelido; Colin si sfregò le orecchie arrossate dal freddo e suonò il campanello, sotto una targa che recitava “P. J. Simmons A. Stewart”.
- Riguardo a quel Freddie O’Brien - sussurrò, poggiandosi al muro - È stato lui a romperti gli occhiali, Francis?
Scholz annuì, inquieto, mentre la porta si apriva davanti ai loro occhi: una donna minuscola, con una vaporosa capigliatura corvina ed odiosi lineamenti porcini spuntò sul pianerottolo, diritta come una sbarra su un paio di eleganti scarpe scollate di raso azzurro, che le stringevano i piedini piccoli e cicciotti. Il suo petto procace era costretto in una blusa color cipria, nella cui scollatura sprofondavano le grosse biglie pallide di un filo di perle mentre, subito sotto, una gonna scura dalla linea fasciante le lambiva le ginocchia globose e la linea robusta dei polpacci: la madre di Colin li fece passare in salotto, scivolando alle loro spalle con passo aggraziato, camminando in bilico sui tacchi alti.
- Era tanto tempo che non venivi a trovarci, Francis - tubò soavemente, accosciandosi su una poltroncina di velluto con le gambe accavallate - Come stanno i tuoi genitori, caro? Colin mi ha detto che avete passato l’estate in Germania, a casa vostra; dev’essere stato fantastico, no? Dimmi, Francis, la vostra famiglia è originaria di Berlino, o viene dalla provincia?
- In realtà siamo di qui - Francis avvampò - Siamo stati in villeggiatura, quest’estate, in Cornovaglia. Colin dev’essersi sbagliato con qualcun altro.
- Oh, sarò stata certamente io a fare confusione - si affrettò a squittire la signora Simmons, con gli occhi neri che luccicavano - Anche se non credo sia esatto dire che siete di qui, caro: Scholz non è certo un cognome inglese, non ti sembra? Qual è il cognome da nubile di tua madre, Francis?
Scholz si concentrò sul piano di cristallo di un tavolino da tè: la trasparenza del vetro specchiava e replicava i bon-bon, avvolti nelle loro confezioni patinate, intrappolati nella lastra lucida sopra le quattro zampe oblique di legno chiaro. La signora Simmons ne prese uno, con delicatezza raccolto fra le sue manine da roditore come un piccolo rubino sferico, e con un sorriso molle gli disse:
- Gradisci un dolcetto, caro? Sono all’arancia.
- No, grazie. Sono a posto così, signora Simmons.
- Non dire assurdità, Francis; Colin non ne può mangiare, per via del diabete. Su, prendilo: è all’arancia - ripetè, sorridente - E togliti quella cerata, o mi bagnerai la moquette.
- Sì, beh, la toglierà in camera mia - bofonchiò Colin, chiudendosi la porta dello sgabuzzino alle spalle e muovendosi a passi pesanti con i soli calzini ai piedi. Lo afferrò per le spalle e lo sospinse su per le scale; urlò, in direzione del salotto - Anche perché se ne va tra poco! Giusto il tempo di spiegarmi che c’entra Freddie O’Brien con i suoi occhiali!... E tu, che vai dicendo della Cornovaglia? Non m’hai detto tu che avete visto il Duomo, e bevuto birra, e parlavi in tedesco?...
- Che c’entra? Siamo anche andati in Cornovaglia - sibilò Francis - In villeggiatura.
Colin aprì la porta della sua camera con un calcio: si avvicinò alla libreria, meditabondo, e infilò la tavoletta di cioccolato - ancora incartata in un foglio d’alluminio - fra i due grossi tomi polverosi di un’enciclopedia per ragazzi. Dopo averlo sfidato con lo sguardo a commentare, sporgendo in avanti il mento rotondo e ancora imberbe, si gettò sul letto con uno strillo da uccello, fra i cuscini celesti e la federa a quadretti rimboccata attorno al materasso; il suo corpo paffuto veniva sballottato dal rinculo delle molle e Francis rise, in piedi, davanti all’altra sponda del letto.
- Sai che me ne importa della Cornovaglia - esclamò - È di Freddie O’Brien che m’interessa. Allora? Vi siete picchiati? Ti ha suonato come un tamburo, eh, il vecchio Freddie?
- “Vecchio” - fece eco Scholz e, dopo essersi steso accanto a lui, alzò gli occhi sul ruvido soffitto maculato dall’umidità, e sulle impalpabili ragnatele ordite negli spigoli fra i muri - Ha solo qualche anno più di noi, no? Dicono che il signor O’Brien, tanto tempo fa, abbia sparato ad una donna: così, senza un motivo in particolare, solo perché lei era lì e lui aveva un fucile in mano. Secondo te può succedere? Può succedere che un uomo faccia del male ad un altro solamente perché gli va?
Colin alzò gli occhi al cielo; poi si voltò verso di lui, appoggiato su un fianco e con un’espressione derisoria: aveva le mani intrecciate dietro la testa, e batteva i piedi scalzi l’uno contro l’altro.
- Mica è morta, la vecchia - ribatté, e si lasciò sfuggire un sospiro - Beh, quante te ne ha date? Doveva essere di buon umore, oppure nascondi i lividi sotto i vestiti... - infilò le mani tozze sotto la polo a strisce bianche e verdi, e tentò di scoprirgli la pancia; Francis sentì il contatto gelido delle sue dita innervate attorno alla concavità serica dell’ombelico e lo spinse via, inquieto.
- Cosa c’è, ti vergogni delle tue ferite di guerra? - ridacchiò Colin, coricandosi. Si cacciò in bocca un tassello di cioccolata e bofonchiò, mentre questo si squagliava nella sua bocca e diventava una colla molliccia - Perché avete litigato, poi?
- È successo stamattina: io venivo dalla brughiera e lui era già lì, da solo, senza ombrello e con i capelli tutti bagnati. Mi blocca così, per i gomiti e mi dice “dammi l’impermeabile, sporco nazista”. E io gli dico di no, che può anche andarselo a comprare. E lui, lui... Insomma, per farla breve iniziamo a darcele, e lui mi ha rotto gli occhiali, così - fece finta di tenere fra le mani un bastoncino di cristallo, e di spezzarlo in due parti identiche, mentre con la bocca mormorava - Crac.
- Però tu l’impermeabile ce l’hai - mugugnò.
- Poi è arrivato un signore, mi ha visto per terra e lui è scappato di corsa.
- Bene - Colin sorrise in maniera indecifrabile - Quindi hai un testimone.
- No, non so chi fosse quell’uomo: non l’avevo mai visto prima. Forse non era di queste parti.
- Francis...
- Che c’è? - gridò Scholz, e con uno scattò della schiena si mise seduto, poi scivolò giù dal letto, tremante di rabbia - Che c’è, non mi credi? E allora non mi credere, sai che me ne faccio. Tanto io dico solo bugie, no? Non c’è proprio da fidarsi di me, eh già! Basta, che ci rimango a fare qui, con uno che mi dà del bugiardo e sua madre che... - grosse lacrime bianche gli rotolavano dalle guancie, mentre sentenziava, ormai con voce stridula - Tu non sei più mio amico, Colin! Per quanto mi riguarda, puoi fare anche conto che io sia morto! Addio!
Si sbatté la porta alle spalle, e filò giù per la scalinata fingendo di indossare un paio di paraocchi, concentrandosi solo sui movimenti ritmici delle sue gambe che superavano i gradini uno dopo l’altro. Infilò la porta e sbucò in strada: corse via, sollevando schizzi d’acqua scura dalle pozzanghere che incontrava ad ogni passo.
 
Francis Scholz schiude le palpebre. L’immagine di un ragazzo nudo di fronte allo specchio strabuzza gli occhi: ha piumose sopracciglia bianche, la mascella dura e volitiva, un paio di braccia lunghe che lo impacciano, gli pendono lungo i fianchi, molli come due corde inarticolate. Non sa cosa farsene, il ragazzo fuori dallo specchio, ma il ragazzo che lo fissa è disinvolto, conosce ogni segreto, è nudo ma non si vergogna, non si nasconde.
- E tu? - gli chiede - Tu ti vergogni, Francis? Ti vergogni di come sei?
Francis reclina la testa da un lato, lo sguardo imbarazzato puntato verso il basso: le mutande sono attorcigliate attorno alle caviglie, fra i piedi lunghi ed ossuti. Sua madre l’ha visto attraversare il cortile sotto la pioggia, gli ha sfilato l’impermeabile fradicio e gli ha ordinato di salire al piano superiore a spogliarsi. Lui l’ha fatto, muovendosi a scatti come una macchina impazzita: è un bravo bambino.
Il suo corpo è bagnato: la sua pelle scintilla come sotto una colata di cera, nella luce bianca ed insistente della lampadina. Tutto è liquido, ribolle sotto il filo della sua epidermide arrossata, membrana dopo membrana: qualcosa ribolle sotto la pellicola sottile che avvolge il suo corpo.
Il ragazzo dello specchio tira in fuori il mento.
- Allora? - dice - Che c’è, ti vergogni? Cos’hai da vergognarti, Francis? Sono gli altri che devono vergognarsi, sono gli altri che dovrebbero essere come te. La colpa è stata di quello sporco inglese: è lui che se l’è andata a cercare, non l’abbiamo mica chiamato noi.
- Ti ha umiliato davanti a tutta la classe - continua, storcendo la bocca in una smorfia schifata - Ti chiamava “lurido nazista”, Francis, ti mortificava agli occhi dei tuoi compagni perché lui è un insetto, uno scarafaggio inutile, un reietto. Non te lo sei dimenticato, come ci si sente...
Francis abbassa lo sguardo sulle piastrelle, in silenzio, ma il ragazzo nello specchio non ha bisogno di udire le sue parole per conoscere le risposte: sa già che il male che gli ha fatto Freddie gli si è conficcato nel petto come una scheggia, che non si estrae più, che continuerà a bruciare per sempre.
- E gli altri, cos’hanno fatto? Cos’hanno fatto per aiutarti? Hanno cominciato ad imitare quel parassita, ad insultarti, ad evitarti come un lebbroso. E io te l’avevo detto, te l’avevo detto che non avresti risolto niente, facendo la vittima, aspettandoti comprensione. Colin non ti ha creduto, e nessun altro ti crederà, e questo perché ai loro occhi sei solo un lurido nazista: non sei un amico, non sei un compagno, non sei nemmeno una persona.
Pensava che accusandolo di averlo picchiato avrebbero finalmente capito che Freddie O’Brien era un ragazzo cattivo, e che non era lui a meritare il loro appoggio. L’aveva fatto a fin di bene.
- E...? - lo canzona il ragazzo, beffardo.
- Non è servito a nulla. Avevo torto.
- Smettila di vergognarti, Francis. Sono solo lombrichi, esseri inferiori. Guardati: ti vergogni ancora di ciò che sei?
Francis fa scorrere il pollice lungo una levetta, e la macchinetta si accende con un ronzio. Le minuscole lame che innervano le eliche si muovono in tondo, compiendo cerchi implacabili.
- Un taglio - ghigna il ragazzo nello specchio, eccitandosi - Zac! Un taglio e basta! Zac! Zac! Zac!
Impugna il rasoio con la mano destra, e respira a fondo. Ma il cuore gli batte talmente forte che cede, e la schiena gli si piega in due: poggia la testa contro il bordo piatto del lavandino, il dorso inarcato in una curva innaturale, e avvicina la macchinetta alla gola, nuda, sottile, morbida sotto il frullio delle lame.
Piange in silenzio, mentre ciocche di capelli biondo cenere cadono nello scarico. Il rasoio si inclina in avanti e indietro, attraversandogli il cranio, e le dita della mano sinistra si incontrano e si intrecciano col cannello del lavandino. Zac, zac, zac: per un po’ sente solo quello, e il peso dello sguardo del ragazzo nello specchio su di lui.
Si accarezza la testa, liscia sotto il suo palmo, e gli sembra di sentire il cervello pulsare, chiuso nel suo scrigno di ossa.
- Guardami - ordina Francis Scholz al suo doppione.
Alza il braccio destro, quello alza il braccio sinistro; le lacrime che colavano sul petto scivolano via.


Questo racconto ha partecipato al contest di Marge86 "I titoli del Maestro", ed è ispirato al titolo omonimo di una canzone di Guccini, "La Genesi".

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Quasi blu ***


Racconto 11
Quasi blu

***


 
Quasi blu, quasi blu quando la notte è una pasta densa in cui affondare lo sguardo: quasi blu quasi come le gocce di pioggia che tremolano sulle balaustre, sospese, gonfie d’acqua. Quasi blu come delle promesse non mantenute, come la solitudine, come un letto sgualcito che esala il dolce profumo di un’assenza: quando anneghi in una tristezza languida, da assaporare piano, come vino in una coppa di cristallo, allora lentamente scivoli, nel blu.
 - Ma che bello questo cappello, non starebbe benissimo con il mio costume?
Quasi blu - non allegro azzurro, non celeste sublime, ma blu - quando malinconicamente una mano sfiora la tua mentre passeggi, quasi blu quando fissi un vecchio cane negli occhi, e lui sposta lo sguardo.
 - Mi fa la faccia grassa, vero? È per questo che mi guardi così?
 - Ti sta benissimo.
Dici, ma in realtà contempli il suo viso esangue incorniciato dalle falde scure del cappello, ed ecco che quella sensazione di mancanza, d’inebriante infelicità, già si ispira nel tuo petto. Bella, la bionda Laura che si rammarica per lo smalto scheggiato, Carlotta, amabilmente gioviale mentre ride senza decenza, e ancora Paola, meravigliosa, la gemma più splendente, la pietra più preziosa.
 - Dici davvero? Credi davvero che mi doni? Sei un tale tesoro!
E poi giù in strada, mentre le gonne si arricciano e frusciano come una risacca, chissà se di blu hanno anche qualcos’altro oltre gli occhi, civettuoli in uno sfarfallio di ciglia curve. Chissà se possono capire il tuo blu, gustarlo insieme.
No, forse non possono: le osservi sfilare ancheggiando, mandarti un ultimo bacio sulla punta delle dita, sparire nella nebbia. Graziose, fugaci come la prima lettura di un messaggio d’amore: ti mancherà la seta della loro pelle, la tenerezza dei loro indumenti profumati, la fragranza dei loro capelli, in cui immergere il viso. Ricordi la loro mano esile che ti accarezzava la testa, ma soprattutto conservi il momento in cui, per la prima volta, le hai guardate ed hai sentito schiudersi il blu, e traboccare nel petto.
 - Ma perché non ti fai più sentire? C’ho pensato tanto, e credo di amarti... Sì, ti amo! Ti amo, e adesso non farmi sentire una stupida per averlo confessato: chiamami.
È tempo di andare.
Un’altra città, un'altra donna, un’altra breve storia d’amore che si consuma negli spicchi d’ombra fra i coni di luce dei lampioni, ma ancora quel senso di indecifrabile malinconia che ovunque ti ritrova. Piccola Marianna, perché piange tanto forte? È così giovane e carina, Roberta: presto sì dimenticherà di te, e ne troverà un altro.
 - C’è un’altra, è così? Ami più lei di me? È per questo che non rispondi alle mie telefonate? Ti ho visto passeggiare mano nella mano con una ragazzina, è perché è più giovane? È per questo?
Quasi blu, quasi blu il tuo cuore vezzeggiato, ma sempre schivo; quasi blu l’incontro occasionale con un viso un tempo conosciuto, che arrossisce e scappa via; quasi blu il suono ozioso del silenzio, il cigolio di suole nuove di zecca per una strada desolata, il baluginare di schegge di vetro, di un calice scagliato per terra.
Mai blu del tutto, forse è questo che ti tormenta: questa tristezza mutila, quest’amarezza che ogni bellezza contiene, quasi blu ammiri la tua vita incerta. E l’amore, chissà com’è: sarà blu anch’esso, o forse di una sfumatura eccezionale, un bocciolo screziato, un pugno di petali rossi?
Una figura, nascosta nel buio: dietro una voluta di fumo vorticoso, lo spigolo di un volto.
Non più blu, mai più blu il corpo di lei. Mai più blu i suoi abbracci pregiati, i suoi baci proibiti. Mai più blu: ricordi il momento in cui, per la prima volta, l’hai guardata ed hai sentito il blu tirarsi indietro. E l’hai inseguita, fino al capo della notte. 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Due giugno ***


Due Giugno



Il due giugno io, i miei genitori e mia sorella Gloria andiamo a casa di amici di famiglia, come facciamo da all’incirca sempre. Ad un certo punto mia madre dice: - Andate a salutare i ragazzi - e indica un gazebo su base esagonale. Vedo un gruppetto di ombre indistinguibili l’una dall’altra, e una voluta di fumo che si arriccia attorno ai tralicci dei rampicanti: che spettacolo depravato, giudico, quante volte l’ho già visto ‘sta scena, dal primo due giugno della mia vita fino ad ora? Sono certo che dieci anni fa erano già tutti lì, ciascuno posteggiato ad uno dei sei angoli, ad aspettarmi succhiando sigarette mentre i grandi cianciavano senza ritegno, e qualche volta esplodevano in una clamorosa risata corale, e noi: com’è possibile che i nostri vecchi si divertano tanto?, e ancora: cosa c’è di sbagliato in questo gazebo? Comunque, allora aveva ancora un senso. Aveva smesso definitivamente di averne quando la nostra amicizia per via delle circostanze era diventata solo nuda compagnia per via delle circostanze. Il mondo del gazebo, ecco, un’oasi dispersa nel tempo e nello spazio, un’isola ignorata dai radar in cui faccende inesistenti pretendono di esistere. Pretesa assurda, secondo me. Ad ogni modo Gloria mi convince a non essere così ostinato, quindi attraversiamo il prato come astronauti che trotterellano sulla crosta lunare. In mano sua un’ipotetica bandierina bianca.
I sei figli degli amici dei miei genitori ci sono tutti, con noi due siamo otto ostaggi dello stato di cose. Alberto fuma, con la testa immersa in un cubo di nebbia. Sua sorella bacia entrambi sulla guancia, sbrigativa: indifferente ai nostri desideri, ci attrae a sé e dispensa baci come timbri e poi ci spinge all’indietro. Eccoci che rimbalziamo da un angolo all’altro dell’esagono, bollati e poi respinti lungo tutta la trafila. Affondiamo in Alberto, e nella sua nube personale, e c’è un attimo di sospensione nell’aria densa. Dopodiché si viene sbalzati come palline di un flipper, le labbra schioccano e il punteggio cresce: del resto gli angoli sono solo sei e noi otto, e poiché solo un idiota lascerebbe la propria postazione chi arriva per ultimo sta al centro. Io e Gloria ci piantiamo dove le assi del pavimenti si incrociano, e quasi stiamo schiena contro schiena. Sono talmente scialbi che mi viene in mente di metterli in ordine di blandizia, ma la classifica è sfuggente, si scambiano continuamente di posto ad ogni momento. Dicono cose tipo commenti sul pranzo, si palpeggiano le pance, cos’era più buono e cosa meno, e pure accanendosi non gli riesce di trovare una risposta: Gloria sorride, invece a me sembra di sedere sul nucleo vivo della terra, circondato da inutili detriti minerali. Dico che voglio altra torta, si sollevano proteste che in realtà sono solo ronzio di sottofondo. Base acustica. Accompagnamento, comunque si voglia dire.
 - Ancora!
Sì, ancora, ancora, ancora. Vorrei imbrattare le loro facce di panna montana, e mi propongo di farlo avviandomi lungo il prato. Poi però scopro il salone vuoto, la lunga tavola con i vassoi dimezzati, l’aria pesante che grava sull’insalata russa spalmata sulle tartine. Molte cose non sono più invitanti, adesso, sono già scattate nello stadio supplementare di avanzi. Mi taglio una fetta di torta e me la mangio, tutto solo: si sente solo la forchetta che sbatte sul piatto, e io che mastico. Dato che la presenza del cibo mi fa sentire osservato prendo e vado a mangiare di fronte alla finestra, mentre tengo d’occhio il gazebo, che da qui sembra un giocattolo per bambini. Non seguo il filo di nessun pensiero in particolare. Sto in mezzo alle cose e mi piace come si sta. Mia sorella entra nel salone chiedendomi che faccio tutto solo, io ribatto che potrei farle la stessa domanda. Non risponde, e si avvicina anche lei alla torta. Impugna il coltello.
 - Perché non portiamo un pezzo di torta anche a loro? - propone - Tanto per fare una cosa carina.
 - Sono pieni, ricordi? Non hanno più fame.
 - Ah, giusto. L’avevo dimenticato. Allora, un bicchiere di spumante? Tanto per, dai.
Io guardo fuori dalla finestra. ‘Sto giugno fa schifo, perché alle cinque di pomeriggio già comincia a scurire.
 - Fa buio. Una mezz’oretta e ce ne andiamo - dico, come se questo chiudesse la questione.
Lei aspetta un momento prima di rispondere, segno che ha capito che intendo, ma preferisce fingere di ignorarlo: - Quindi? - scrollo le spalle. Non rispondo a domande che non significano niente. 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=724484