Death Note: the continuous challenge di Ef and Lil (/viewuser.php?uid=134554)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Per tutte le volte ***
Capitolo 2: *** Oath - Rinascita ***
Capitolo 3: *** Kage - Potere ***
Capitolo 4: *** Oath - Giorno ordinario ***
Capitolo 1 *** Prologo - Per tutte le volte ***
Kage - cap 1 Per tutte le volte
KAGE
Prologo - Per tutte le volte
18 Aprile 2009
Per tutte le
volte che l’avevano insultata.
Per
tutte le volte che l’avevano emarginata.
Per
tutte le volte che avrebbe preferito essere emarginata, per tutte le
volte che
l’avevano picchiata.
Per tutte le
volte che si era chiusa in casa a piangere.
Per tutte le
volte che aveva dovuto sussurrare le sue parole d’amore
invece di
urlarle come
avrebbe voluto.
Per tutte le
volte che non aveva avuto il coraggio di baciarla o tenerla per mano.
Per tutte le
volte che non aveva potuto più baciarla, né
tenerla per mano, né
vederla
sorridere, perché tutto era finito con quel lenzuolo bianco
steso
sul suo
volto, a nasconderle le sue labbra, i suoi occhi.
Per lei.
Per lei, e
per sé
stessa, ora doveva crederci.
Anche se
sembrava
tanto un gioco, anche se era un
gioco, perché non era possibile uccidere qualcuno
così facilmente,
tentare non costava
nulla, no?
E li
conosceva, i
nomi di quei bastardi, e conosceva anche i volti.
Perché era
lì.
Era lì
mentre la
sottoponevano a quella che chiamavano “cura”, era
lì, e cercava di
liberarsi dalle
braccia forti che la immobilizzavano.
Era lì, e
appena
se ne erano andati aveva chiamato un’ambulanza, veloce,
veloce, prima
che avesse perso
troppo sangue, prima che fosse stato troppo tardi…
Ma era già
troppo
tardi.
Ecco perché
doveva
provarci – non costava niente, in fin dei conti.
Ecco perché
doveva
scrivere quelle parole.
Kage aprì il
quaderno.
Death Note
How to use it
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Capitolo 2 *** Oath - Rinascita ***
OATH
Rinascita
Si
erano fermati, finalmente. Dopo tre ore di viaggio
e litigi, erano arrivati alla fine. La casetta di montagna si
confondeva nel
verde della foresta. La bambina corse dentro, spalancando la porta in
legno di
quercia. Si precipitò al secondo piano, dove stava la sua
camera. Il giallo
pastello dominava nella stanzetta. Giallo il letto, gialle le pareti,
giallo
l’armadio, giallo il soffitto, gialle la sedia e la
scrivania. Il giallo era
il suo colore preferito. Prese la sedia, e la
trascinò di fronte al
balcone, per sedersi mentre osservava i genitori scaricare le borse e
le due
valigie dalla macchina.
Pochi
secondi, qualche passo e forse si sarebbero
salvati. Ma la vita aveva in serbo un altro destino per loro. La
bambina
assistette impotente all’esplosione. Un rumore assordante le
riempì le
orecchie, mentre il vetro della finestra andava in frantumi, ferendole
le mani
e il viso. Un tripudio di fuoco giallo in tutte le sue sfumature
inondò l’area
intorno all’automobile, senza lasciare superstiti.
Una
tragedia senza spiegazione alcuna, dissero
dopo. La macchina era saltata in aria senza nessun motivo.
La
bambina aveva
sempre amato il
giallo. Il giallo era vita. Il
giallo era gioia. Il giallo era energia.
Ma
da allora, la ragazza odiò
quel
giallo di morte.
***
9
Gennaio 2005
L’auto
procedeva veloce, mentre la pioggia batteva
leggera sulla carrozzeria scura.
Le
dita col loro tiepido calore lasciavano tracce
sui freddi vetri bagnati, mentre si spostavano sul finestrino,
disegnando
arabeschi incomprensibili. La ragazza abbassò lo sguardo sul
proprio petto;
dove fino a poco prima c’era stata una cascata di riccioli
rossi, ora non v’era
nulla a coprirle la felpa nera.
I
capelli. Erano stati le prime vittime del suo triste furore. Aveva
preso le lunghe forbici da cucina di sua madre e aveva tagliato
malamente la
sua capigliatura cremisi riducendola ad una zazzera crespa. Con quei
morbidi
boccoli, per terra erano caduti tutti i suoi vecchi sogni, e li aveva
calpestati, nel tentativo di rimuovere dalla sua vita la sua infanzia
distrutta.
Tornò
ad osservare il paesaggio che sfuggiva al suo
passaggio. Guardava i luoghi scorrere, e con essi i suoi
pensieri.
Stava
per andarsene. Nello stesso squallidissimo
orfanotrofio dove si trovava già suo cugino. Dicevano fosse
un istituto per
persone speciali, ma aveva capito che si trattava
di pazzi, pazzi che
dovevano essere allontanati dalla comunità. Ma lei non era
matta. Solo, aveva
smesso di parlare, chiusa in un triste mutismo, e aveva aggredito un
altro
bambino.
Nella
stessa stanza, con lei c’era un altro bimbo. Lui si era
ferito
cadendo dalle scale, finendo nella porta finestra. I suoi genitori gli
stavano
vicini, sussurrandogli parole d’incoraggiamento piene
d’amore. Per lei non
c’era nessuno: non suo padre e sua madre, che erano preda del
sonno eterno; non
sua nonna, che stava troppo male anche solo per alzarsi dal letto; non
i suoi
zii, misteriosamente scomparsi; non suo cugino, chiuso in quel buco di
orfanotrofio a marcire da cinque anni ormai;non la sua migliore amica,
che
l’aveva abbandonata. Quando i due adulti si furono
allontanati, la ragazza si
era alzata, e, con le mani che sanguinavano attraverso le fasciature,
aveva
premuto la gola dell’altro. Sapeva di non doverlo fare, era
intelligente,
dopotutto, ma non riusciva a fermarsi. Fu l’infermiera a
strapparla via e
chiuderla in una stanza, da sola, senza nessuno da soffocare, solo lei
e i suoi
fantasmi.
Eppure,
lei non era preoccupata. Non le interessava
più niente. I suoi genitori erano morti, e non era
riuscita ad impedirlo.
Aveva fallito. Aveva solo nove anni, ma la sua vita era finita, la sua
anima
era cenere e il cuore era in pezzi. Lo sentiva in modo chiaro, mentre
la morte
prendeva piano possesso della sua mente.
***
L’auto
si fermò bruscamente. Aprì gli occhi. Senza
accorgersene si era addormentata sul sedile. Si sfregò le
palpebre, e la mano
destra sfiorò i punti sulla guancia. Li avrebbe tolti dopo
tre settimane, ma
non sarebbe mai tornata come prima. Le vennero le lacrime agli occhi.
Era
sempre stata l’orgoglio della madre grazie a quella sua
bellezza ricercata, e
ora non le restava nemmeno quella. Non era brava a scuola, le lezioni
l’annoiavano. Si dilettava con i programmi più
avanzati, senza prestare alcuna
attenzione a quello che gli insegnanti spiegavano. Non le piaceva
frequentare
persone con le quali non fosse strettamente legata; osservava, invece,
i
comportamenti degli altri, indovinandone spesso il carattere e il
passato.
Amava analizzare i dettagli per avere una visione perfetta degli
individui che
la circondavano, prevedendone le mosse e intuendone i pensieri.
Si
ricompose, mettendosi dritta. Guardò fuori dal
finestrino. Sentiva le voci urlanti ed eccitate di tanti bambini, che
giocavano
nel cortile. Un uomo le venne ad aprire la portiera, per farla
scendere, ma lei
non voleva. Non disse niente, però strinse le dita pallide
sul tessuto di pelle
dei sedili, intenzionata a non lasciare la presa. Con uno strattone,
l’uomo la
tirò fuori, e si rimise in macchina, abbandonandola di
fronte al palazzo,
notevolmente più accogliente di quel che aveva immaginato.
Forse non volevano rinchiuderla
in manicomio. Dietro di lei un cancello nero come gli abissi si schiuse
con un
rumore metallico.
Mosse
qualche passo in direzione della porta, ma si
bloccò a pochi centimetri dal citofono. Stava per dire
definitivamente addio
alla sua vita, secondo la sua concezione; come se i suoi genitori non
fossero
morti, e che scappando via da lì potesse riaverli con
sé.
Premette
il dito sul bottone dorato, e la porta si
dischiuse. Di fronte a lei un enorme corridoio deserto, pieno
di porte.
In fondo, un ingresso con la targhetta “Direttore”
impressa sopra le indicava
quale varcare.
Camminò
piano, ancora incerta. Arrivata alla
soglia, prima di bussare si curò di studiare tutti i minimi
dettagli.
Osservando meglio, sulla targhetta era scritto anche, benché
più in piccolo,
“Roger Ruvie”.
Era
una portafinestra, il cui vetro era zigrinato
in verde. Il direttore doveva essere una persona molto amante della
natura,
poco incline ad aver relazioni sociali. Il legno d’ebano
contrastava con la
lastra. Una personalità conflittuale, dunque. Dopo aver
carpito queste
informazioni, entrò.
La
stanza era come aveva immaginato: spaziosa, con
due grandi finestre, che richiamava i toni delle paludi. Nella libreria
di
fianco allo scrittoio v’erano molti libri illustrati sugli
insetti. La ragazza
vi aveva visto giusto.
Alla
scrivania era seduto un uomo sulla sessantina,
dai capelli completamente bianchi, vagamente stempiato e dalle
sopracciglia
imponenti. Aveva un naso piuttosto grosso, su cui poggiavano degli
occhialetti
sottili con le lenti tonde.
La
ragazza rimase ferma sulla soglia, benché quel che
supponeva fosse Roger la invitasse a sedersi.
Solo
dopo svariate insistenze di lui, si avvicinò
alla scrivania e si accomodò sulla sedia.
«“Ophelia”
è il tuo nome, vero? Non voglio sapere
il tuo cognome, non dirmelo, è meglio per
entrambi.» Le chiese Roger abbassando
gli occhi su un plico di fogli riguardanti la ragazza, che si
limitò ad
annuire.
«Qui
hai un cugino, Walter, qui chiamalo Wrong, di
due anni più grande di te. E’ il figlio del
fratello di tua madre, e non vi
vedete da cinque anni. I suoi genitori sono scomparsi in circostanze
misteriose. I tuoi parenti si sono rifiutati di prenderlo in cura a
causa del
pessimo carattere del ragazzo, benché voi due siate sempre
andati d’accordo.
Giusto?» Il direttore dell’orfanotrofio la guardava
al di sopra delle lenti,
quasi sfidandola a dire il contrario.
Ophelia
annuì ancora una volta, osservando le
proprie mani che stringeva a pugno.
«Qui
si dice che non eri brava a scuola. Ma
sappiamo che in realtà tu ti annoiavi. Il programma era
troppo indietro per le
tue capacità. Sei una grande osservatrice,
Ophelia.» La ragazza alzò
improvvisamente il viso, per cercare di capire come facessero a sapere
quelle
cose di lei: non le aveva mai rivelate a nessuno. «Dimmi, che
cosa hai intuito
di me venendo qui?»
«…
I-io» Si bloccò. Non parlava da un mese, e le
sue corde vocali erano come bloccate. La sua voce era metallica,
irriconoscibile, però si sforzò di continuare.
«Credo … che lei non ami le
altre persone. Che non le piaccia quello che fa, ma che lo faccia
comunque solo
perché è suo dovere. Forse una promessa fatta a
qualcuno, o un forte legame,
tanto raro per lei da volerlo custodire gelosamente fino alla fine.
Poi, lei
ama la natura, in particolare gli insetti, come si può
dedurre chiaramente dai
libri illustrati come questi che ha nella libreria e persino sulla
scrivania.»E
indicò un paio di volumi poggiati sullo scrittoio.
Roger
la scrutò ancora per un attimo, accigliato e
vagamente sorpreso, ma poi distese la fronte e parlò
nuovamente. «Mi fa piacere
che i miei sospetti fossero giusti. Ophelia, sei è
ufficialmente ammessa alla
Wammy’s House. Ti presenteremo il tuo insegnante domani. Per
ora puoi andare.
Inizia a conoscere i tuoi compagni.» Ophelia fece per alzarsi.
«Oh,
un’ultima cosa. Non devi mai rivelare il tuo
nome a nessuno. Nessuno, chiaro? Trova un soprannome e usa sempre e
soltanto
quello, dimenticati il resto.»
«Oath.»
Era un vaghissimo sussurro, quello di
Ophelia.
«Prego?»
Roger la guardò incuriosito.
«Oath.»
La ragazza parlò convinta. « Oath come
blasfemia. Ma Oath anche come giuramento, quello per cui
troverò le cause della
morte dei miei genitori. Io sono Oath.»
Si
sollevò, diretta verso la porta. La sua vita da
Ophelia era finita. Ma in quel momento nasceva Oath.
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Capitolo 3 *** Kage - Potere ***
KAGE
Potere
18
Aprile 2009
Quella
mattina fu il sole a
svegliarla.
Quel
fastidiosissimo sole che si
insinuava violento tra le sue palpebre interrompendo il suo riposo.
Biascicando
parole senza senso,
si alzò e controllò il display
dell’orologio luminoso.
Le
10.33 del 18 aprile 2010,
domenica.
Si prospetta una triste giornata,
pensò vestendosi.
Quel
giorno, esattamente quel
giorno un anno prima, era morta davanti ai suoi occhi Aiko. Le sembrava
ancora
di vederla: sangue,
lividi e capelli
biondi. E una sirena in lontananza, quella dell’ambulanza
arrivata troppo
tardi.
Si
riscosse dai suoi pensieri,
decisa a continuare senza pensare a lei.
Come se fosse facile.
No,
non era facile, ma ci
doveva provare.
Si
può dire che ci riuscì, per
l’intera giornata.
Fino a che
…
-
81 yen, grazie. -
La
voce della commessa la fece quasi sobbalzare. Era una
signora abbastanza anziana, che la fissava in attesa di qualcos
… ah, si, I
suoi 81 yen. Non che quel quaderno li valesse tutti, ad essere onesti,
o almeno
così pensò in quel momento Nadeshiko. Aveva
appena acquistato un quaderno, un normalissimo quaderno dalla foderina
nera, che
aveva anche tutta l’aria di essere lì a prender
polvere da molto tempo. Un
quaderno triste e sfatto – come lei. Ed ecco che i pensieri
tornavano ad
affollarle la mente, ed erano solo le cinque del pomeriggio. Stupendo. Pagò la donna e
tornò a casa
sui suoi piedi striscianti.
Poche
ore prima la signora Kokawa aveva aperto
la sua
cartoleria. La prima cosa che aveva notato era quel quaderno, scialbo,
sciupato, chissà come intrufolatosi tra le copertine lucide
di quaderni Oxford
e Anne Geddes. Non ne ricordava l’esistenza, anzi,
decisamente non c’era fino a
un’ora prima. Il
contrasto con le
copertine patinate era netto, ma la donna aveva una certa
età, e l’estetica
aveva smesso di importarle da tempo. Si limitò a constatare
che il prezzo del
nuovo quaderno non poteva essere
pari
a quello degli altri, e ad abbassarlo di pochi yen. Non che si
aspettasse che
lo comprasse nessuno … e fu quindi anche maggiore la
sorpresa vedendo quella
ragazzina scegliere, tra i colori e le faccine che riempivano gli
scaffali, proprio
quella copertina polverosa. Era
la sua
prima cliente, quel pomeriggio, forse quel quaderno era lì
proprio per lei.
In realtà, Nadeshiko non sapeva
perché avesse acquistato quel quaderno. Non sapeva
perché fosse uscita di casa,
né perché era andata proprio in quel piccolo
negozietto. Semplicemente, non
aveva voglia di fare nulla. Era uscita di casa e aveva seguito i suoi
piedi.
Strana la vita, vero? Ora che era
tornata a casa, aprì il quaderno, e da quello cadde un
foglio. Già inizia a perdere pezzi?
…
O no.
Il foglio era scritto in una grafia
veramente minuscola, che stentò a decifrare. Sembravano le
istruzioni per
qualcosa.
La persona il cui nome
sarà scritto su questo quaderno morirà.
Una maledizione, un anatema? Una di
quelle cose a cui aveva smesso di credere a sei anni? Forse. Beh, in
fin dei
conti, era solo un gioco, perché non provare … ?
E in quel momento fu come se la diga
che fino ad allora aveva bloccato i suoi sentimenti si rompesse, come
se
fossero diventati forti, forti, forti, e come un fiume in piena
avessero
abbattuto tutte le barriere.
Per ciò che era successo, e che
ancora ricordava, decise di farlo. Se non avesse avuto effetto, si
sarebbe
sentita stupida, ma non avrebbe avuto il rimpianto di non averci
provato. Se
invece, contro ogni logica, avesse funzionato, se la persona dal nome
scritto
su quel quaderno fosse morta … sarebbe diventata
un’assassina.
Ne valeva la pena?
Sì.
Hachiro Yamashita
Tenendo ferma la mano,
perché non tremasse, tracciò quel primo nome
sulla pagina bianca.
Non
funzionerà, non può funzionare.
Continuò a leggere le
istruzioni. Quaranta secondi. Arresto cardiaco.
E se funzionasse
… come lo saprei?
La morte per arresto
cardiaco di un ragazzo non era notizia abbastanza interessante per un
tg, e
certo lei non avrebbe mai e poi mai frequentato i pericolosi quartieri
dove
viveva lui. Chiuse il quaderno.
Bella
fregatura…
Quella sera andò a
dormire con la disillusa speranza che funzionasse.
"Morto
Kokorò, cantante di fama nazionale.
Hachiro
Yamashita, in arte
Kokorò, si
è spento agli esordi
della sua carriera. A stroncare il giovane secondo la versione
ufficiale un
inaspettato attacco di cuore. Centinaia di fan…"
Non continuò a leggere
l’articolo.
Le bastava.
Hachiro Yamashita. KOKORO’.
Non l’aveva mai
sentito nominare, in effetti, ma era un cantante. Certo non
quell’infame stupratore.
Oh, cazzo. Ho appena
ucciso un innocente.
- Mà, non mi sento
tanto bene. Oggi non vado a scuola. –
Non che sua madre
l’avesse sentita, non che sua madre l’ascoltasse
mai o le facesse caso. Ma
meglio così.
Nel pomeriggio, non
fece che guardare quel quaderno, e leggere le istruzioni, e prendere la
penna
decisa a scrivere altri nomi, per poi posarla subito dopo. Sensi di
colpa,
forse, per quel cantante e per le centinaia di fan.
Passarono ore prima che decidesse di fare
qualcosa. Accese il computer e iniziò a cercare: voleva
scoprire qualcosa di
più su questo rapper.
Dopo le prime pagine,
più recenti, in cui stuoli di bimbominkia non facevano che
piangere l’ “inGiusTizZia
dLla vYtaa!1!” per
la morte del loro
idolo, iniziò a trovare informazioni utili su di lui: foto.
Biografie.
Citazioni…citazioni:
Meglio guardare le
belle ragazze che essere
gay.
Meglio guardare le
belle ragazze che essere
gay.
Meglio
guardare le belle ragazze che essere gay.
Un omofobo, “forse”…
Fanculo, Hachiro,
anche a me piace guardare le belle ragazze. E no, non vivo in un porno.
Era morto … e forse se
lo meritava. Forse? Oh, no, era certo. Se lo
meritava. E se lo
meritava tanta altra gente …
Guardò nuovamente il
quaderno, ma non con quella paura che aveva prima. Lo guardò
con quella che
sembrava gioia. Senso di potere. Le bastava la penna, e li avrebbe
uccisi,
li avrebbe uccisi tutti, uno dopo l’altro.
Poteva farlo. Voleva
farlo. DOVEVA farlo. Per Aiko, per sé stessa, per tutti gli
uomini e le donne
che avevano dovuto subire quelle stesse violenze e che le avrebbero
subite per
tanti altri anni, e che ora lei voleva, doveva vendicare.
Che ora poteva
vendicare.
Si rigirò il quaderno tra le mani
Possibile che il
potere costasse solo 81 yen?
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Capitolo 4 *** Oath - Giorno ordinario ***
OATH
Giorno
ordinario
2
Luglio 2009
Osservava
da un angolo del cortile
ciò che stava accadendo,
e che aveva visto e provato già troppe volte.
Tre
ragazzi idioti, tra cui suo
cugino, si dilettavano a
dare il tormento a un novellino, un ragazzetto dall’ossuto
viso pallido e gli
occhi di un azzurro spento. Guardava
la
scena che si ripeteva sempre uguale: un tipo alto il cui nome non
ricordava mai
teneva fermo il bambino, mentre Wrong si divertiva a umiliarlo
abbassandogli i
pantaloni di fronte a tutti, e il terzo che distruggeva i suoi quaderni
pagina
per pagina.
Ricordava
quando era toccato a lei,
essere il bersaglio
degli scherzi di quel trio di mostri. Rammentava bene gli occhi blu di
suo
cugino –i suoi stessi occhi- guardarla, divertito della
vergogna che in quei
momenti l’animava. Eppure non capiva: tempo addietro si
volevano bene, stavano
sempre insieme, quasi come fratelli. Ma ora era tutto diverso, lui la
offendeva
continuamente, e lei non poteva far altro che piangere impotente dalla
rabbia.
Ora,
aveva capito che per evitare di
essere di nuovo
molestata doveva stare lontano e, anche se il suo istinto le diceva di
aiutare
il ragazzino, rimase nel proprio angolo a rimuginare.
Il
grande orologio sul muro della
Wammy’s segnò le cinque di
pomeriggio, ossia la fine della pausa, così che tutti e
ventitre si
allontanarono per andare a lezione col proprio insegnante privato.
Oath
attese un po’ prima di
seguire il gruppo, poi si
raddrizzò e si diresse verso la sala dedicata alle sue
lezioni.
Prima
di varcare la soglia, si tolse
le scarpe: la sua
insegnante le imponeva sempre quell’obbligo, prima di entrare.
Poggiò
i piedi sulla
moquette azzurrina, che le diede il
solito senso di solletico che provava ogni volta, mentre faceva qualche
passo
per poi sedersi a terra, di fronte al tavolino basso al quale sedeva
una donna.
-Bentornata,
Oath. Pronta a
continuare la lezione a
proposito dei naturalisti greci?Ti vorrei spiegare Parmenuide.
– la
professoressa rivolse un occhiolino alla ragazza,
mettendo bene in mostra le sue lunghe ciglia
piene di mascara.
Oath
la guardò,
sospirando: odiava le persone che si
atteggiavano a amiche dei giovani, e
quella che le stava davanti apparteneva a quella categoria.
-Vuoi
un po’ di
tè, cara? Però attenta a non bagnare il
tavolino.- La donna, mentre pronunziava quelle parole,
inorridì al pensiero
della bevanda versata sulla superficie di legno lucidato ad arte e,
alzandosi,
prese una tovaglietta, che spiegò sul tavolo, e vi aggiunse
un sottobicchiere
per scongiurare ulteriormente il rischio. Infine, vi poggiò
una tazza di te,
che risplendeva dalla pulizia.
-Grazie,
signora.-
-Oh,
Oath, sono quattro anni che
stiamo insieme, e ancora
insisti a non chiamarmi Spigot?- Disse la professoressa, ridendo in
modo
controllato.
La
ragazza, ignorando le parole della
donna, avvicinò le
mani alla ciotola per prenderla, quando quella squittì
scandalizzata. –Oath,
hai lavato le mani prima di venire?-
Oath
fece segno di diniego con la
testa e Spigot la guardò
con rimprovero, spalmandole le mani del disinfettante che teneva
costantemente
a portata di mano.
La
ragazzina si avvicinò
per l’ennesima volta alla tazza, ma
la sua insegnante le spinse via la testa con un dito, e
inserì nel tè una
cannuccia. –Per non sporcare troppo la tazza, sai.- aggiunse.
Oath
sospirò di nuovo,
rinunciando a bere il tè, e iniziò ad
ascoltare Spigot che le spiegava la Fenomenologia dello spirito.
-Ad
Elea, il più noto degli eleatici fu Parmenide, 500 a.C. che
sostiene che tutto
ciò che esiste è sempre esistito.
Intendeva dire che niente può essere creato dal niente e, di
conseguenza, che qualsiasi cosa esistente non
può scomparire
nel nulla. Inoltre,la sua idea… - La ragazzina
perse il filo del discorso,
mentre, invece, si abbandonava ai suoi pensieri. Niente può
scomparire nel
nulla? Allora, forse, i suoi genitori potevano essere…
***
Spigot
la fissò di
sfuggita, massaggiandosi il collo e
agitando i suoi capelli biondo sporco perennemente legati in una coda
di
cavallo. Erano state due ore spossanti, però gli occhi
luccicanti di Oath
indicavano che la lezione le era piaciuta.
Dopo
aver fatto esaminare alla
professoressa i propri
appunti, Oath si congedò con la scusa di doversi preparare
per la cena. Si
rinfilò le scarpe, e si unì al resto dei
ragazzini che si dirigevano come lei
verso le proprie camere. La tredicenne dai capelli rossi
salì di corsa per le
scale che conducevano al secondo piano e
infilò la chiave della sua stanza nella serratura. La porta
si aprì, rivelando
una stanza dalle pareti verde pastello e il parquet di legno chiaro.
Posò il
quaderno sulla scrivania, e si stese sul letto, mentre accendeva la
televisione.
Sentì
le solite idiozie di
cronaca rosa del telegiornale
circa vari pettegolezzi sulle star del momento, in attesa delle notizie
serie che la incuriosivano. Voleva
sapere che si diceva a proposito del caso Kira. Era da tanto che quella
storia
andava avanti, e sperava di vederne presto la fine. Confidava molto
nelle
capacità di Near, suo ex compagno della Wammy’s
che aveva deciso di indagare
sul caso, in quanto legittimo successore di L … non come
quello che, l’aveva
capito anche lei, era semplicemente un burattino guidato dai giapponesi
per
evitare il caos nel mondo.
Si
stropicciò gli occhi,
nel tentativo di schiarire la sua
visuale, che ultimamente si offuscava spesso. Sapeva di doverlo dire a
qualcuno, ma era troppo pigra e orgogliosa per farlo: attendeva con
pazienza
che qualcuno se ne accorgesse per conto proprio, piuttosto che doversi
muovere
e abbassarsi a chiedere aiuto a qualcuno. Si girò su se
stessa e affondò il
viso nel cuscino candido e profumato di vaniglia -come tutto il bucato
della
Wammy’s-, e si godette la fantastica sensazione che provava
ogni qualvolta che
lo faceva. Poi si girò, per seguire il resto del
telegiornale.
«Del
caso Kira non si hanno nuove informazioni, le ultime notizie
risalgono allo scorso marzo, in cui, si è detto,
è stata fondata in negli Stati
Uniti una squadra speciale per la cattura del pericoloso criminale. Nel
frattempo, nel mondo i seguaci di quello che è stato
ridefinito “il Dio della
giustizia” continuano ad aumentare, con il benestare di molti
stati.» Mostrando
un grafico rappresentativo, l’annunciatore della televisione
riportava i dati
con un sorriso smagliante sulle labbra, quasi stesse parlando del nuovo
cult
dell’estate.
Oath
voltò lievemente la testa, posando le dita sulla carta da
parati scolorite e graffiate -segni di tutte le volte che la ragazza vi
si era
accanita sopra-, facendole scivolare sul muro con leggerezza, fino a
che le
unghie, sin troppo lunghe, si arrestassero su una piccola fessura fra
una
copertura e l’altra. Con
l’altra mano
tastò tutto il lato del letto alla ricerca del telecomando
per spegnere il
piccolo schermo rumoroso che ora mandava in onda un servizio su paio di
delinquenti
che avevano tentato di rapinare una banca.
Ecco i
prossimi idioti a morire per mano di quel pazzo di Kira. Pensò la
tredicenne.
Una
volta trovato si
apprestò a premere il pulsante rosso, quando
l’improvvisa sospensione della
cronaca la fermò.
«Una
curiosa comunicazione ci è giunta in redazione pochi secondi
fa: la quantità di persone morte per incidenti in casa e per
strada tra la fine
di aprile e oggi è arrivata a quota seicentosessanta, tutte
concentrate per la
maggior parte tra l’Europa e l’America. Nessuna
delle vittime erano sotto
effetti di droghe o alcol al momento della morte, né
soffrivano di particolari
disturbi che avrebbero potuto causare le disgrazie. La causa? Forse la
sicurezza delle nostre città caduta così in basso
ultimamente? Vi terremo
aggiornati nei prossimi giorni! Continuate a seguirci per sapere
altro!»
Oath
sgranò gli occhi di fronte a quella cifra inconcepibile per
degli incidenti accaduti in casa o in strada in soli due mesi. Era
semplicemente assurdo!
La
campana delle otto e mezza segnò l’inizio della
cena, così la
ragazza si alzò, con un forte senso d’inquietudine
addosso, lo stesso che di
solito l’avvertiva di tenere gli occhi ben’aperti,
ma scosse la testa e uscì
dalla stanza.
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