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Lista capitoli: Capitolo 1: *** Just a moment for you and me (Albus/Narcissa) *** Capitolo 2: *** Biscuits (Ginny/Victoire) *** Capitolo 3: *** Crush (Neville/Dolores) *** Capitolo 4: *** I can't be her (Walburga/Hermione) ***
Capitolo 1 *** Just a moment for you and me (Albus/Narcissa) ***
Entro
in quella stanza illuminata dalla luce del sole primaverile. Migliaia di
oggetti, alcuni di forma estremamente bizzarra, producono ticchettii
fastidiosi, che stonano col rumore ciclico dei miei tacchi sul pavimento in
pietra. Col passare dei secondi, mi avvicino alla scrivania di mogano, sulla
quale l’uomo, che mi ha invitato lì, sta chinato, concentrato su di una serie
di scartoffie. Lo osservo per una manciata di minuti riempire alcuni fogli con
una calligrafia minuta ed ordinata. Completa una riga, tranquillo come al
solito, e poi alza lo sguardo verso di me. Gli occhiali a mezza luna scivolano
sul naso adunco e storto, più di quanto non l’abbiano già fatto, e l’azzurro
chiaro delle sue iridi mi fa perdere un battito.
Cerco
di mantenere un’espressione dai muscoli distesi e rilassati, un’espressione che
non lasci trasparire le assurde ed immonde emozioni che sto provando, ma so già
che le mie gote tradiscono ogni mio tentativo. Lui mi sorride infatti ed è
assurdo che io possa esserne, anche nella maniera più remota, felice.
Mi
stufo presto di attendere una sua parola e dunque prendo io l’iniziativa.
“Perché
mi ha mandato quel gufo?”.
Non
cambia espressione, nonostante il mio tono duro e distaccato. Il suo sorriso
diventa più dolce, nascosto dalla barba candida, che una sua mano sta
accarezzando, ma non abbastanza da sfuggire al mio occhio.
Si
alza in piedi. A passo lento, disegna il virtuale perimetro della sua scrivania
e si avvicina.
“Lo sa
bene, Narcissa”.
Il
significato di quella frase non mi sconvolge. Anzi, il tono tranquillo che ha
adottato mi rassicura.
Siamo
ormai vicini e non smettiamo di fissarci, io con fare quasi morboso, lui pacato
ed impenetrabile.
Allunga
una mano verso il mio viso. Mi accarezza una guancia ed io chiudo gli occhi,
lasciandomi andare ad un brivido. Mi appoggio alla scrivania, mentre lui si
avvicina di più. Le sue dita affusolate, seppur grinzose a causa della
veneranda età, si spostano e sfiorano i miei capelli raccolti in una crocchia
con un bastoncino di legno, sfilando poi quest’ultimo e lasciandoli ricadere
sulle mie spalle. Alzo le palpebre, lasciando che le mie iridi sondino i
lineamenti dell’uomo che ho di fronte.
Sposta
il suo sguardo sul mio collo e torna a sfiorarmi le gote, per poi scendere ed
infine passare alle spalle. Si sofferma sui bottoni del mio tailleur. Il suo
tocco abbandona le mie spalle e prende a slacciare il primo bottone… il
secondo…e poi il terzo… fin quando non sfila via la mia giacca, che rovina a
terra. Mi accarezza l’intero busto, coperto da una camicetta bianca, tutta
pizzi, che lascia intravedere la biancheria nera.
Inclino
leggermente la testa indietro, colta da un fremito, poi le mie mani tremanti gli
tolgono goffamente il mantello, mentre lui libera anche i bottoni della camicia
dalle proprie asole.
Inizia
a baciarmi l’incavo del collo, mentre le mie braccia si cingono attorno alle
sue spalle, e mi perdo nel piacere più assoluto.
Tiro
su la zip della gonna e torno ad indossare le mie scarpe. Non posso credere che
sia accaduto di nuovo. Non posso credere che ci siamo di nuovo lasciati andare.
Sospiro, mentre mi volto a guardarlo, mostrando per la prima volta la mia
preoccupazione con sincerità.
Anche
lui stavolta cerca di rassicurarmi. Glielo leggo negli occhi.
Si
sistema uno strambo cappello sulla testa, per poi tornare ad accomodarsi sulla
sua poltrona.
“E’
assolutamente sbagliato. Lo so, Narcissa”, mi dice
ostentando un’espressione serissima. Quest’ultima dura poco, poiché mi rivolge
subito un sorriso. “Ma se lo vuoi tu, ed anche io, allora non vedo ostacoli”.
Sorrido,
malgrado nella mia mente appaiano gli ostacoli ben nitidi. Mio marito, mio
figlio, il Signore Oscuro ed i suoi Mangiamorte. Gli
ostacoli ci sono eccome.
“Stai
tranquilla”.
Non
distolgo lo sguardo. I miei occhi sono lucidi. Non ho voglia di lasciare quella
stanza, ma devo farlo.
“Arrivederci,
Albus”, sussurro, voltandomi e fuggendo via, onde
evitare ripensamenti.
“A
presto, Narcissa”, lo sento dire, con la voce
ovattata dal suono della porta che si chiude con un rumore sordo.
Mi
smaterializzo ed, una volta a casa, mi accascio sul letto. Le mani mi coprono
gli occhi, bagnati di lacrime calde, mentre penso al destino, che aveva deciso,
nella maniera più sadica, di giocare con i miei sentimenti.
L’uso
prolungato di questo prodotto può causare effetti collaterali, leggere
attentamente il foglio illustrativo, non somministrare al di sotto dei dodici
anni.
La qui
presente scrittrice non si assume nessuna responsabilità sull’effetto che
potrebbe causare la lettura di questa cosa.
Per qualsiasi reclamo rivolgersi a Roxanne Potter, che
mi ha assegnato tale pairing.
Ringrazio
sentitamente tutti. :D
Biscuits
La
Tana. Il profumo di biscotti. Le prime luci del mattino.
Scendere
in cucina, constatando solo in quel momento l’ora precoce, in cui ti sei
alzata.
Spalancare
le palpebre nel notare la chioma color fuoco della donna, che ha profumato di
cioccolato al latte l’intera stanza, e perdere completamente la voglia di
dormire.
Accomodarsi
a tavola, senza riuscire a distogliere lo sguardo dai suoi occhi nocciola,
interessati improvvisamente a te.
Sorride,
con un cipiglio colpevole.
“Scusami,
Vic. Ti ho svegliata?”.
Pronuncia
quelle parole con una dolcezza, che ti scioglie.
Sporgi
in avanti il labbro inferiore, tentando di disegnarti un broncio sul viso,
mentre le tue guance non riescono a resistere un minuto di più e arrossiscono.
Non
trovi parole sensate ed abbastanza acide da dirle, dunque mantieni
quell’espressione assurda, che ora la sta facendo ridere.
Sobbalzi
allo squittio che emette la rossa e diventi ancor più paonazza, notando che
tenta in tutti i modi di contenersi, portando una mano davanti alle labbra.
Una
volta calmata, torna a sorriderti dolcemente.
“Vorresti
assaggiare i biscotti che ho preparato?”.
Continui
a non proferire parola, ti limiti ad annuire rigidamente.
Lei
afferra il vassoio fumante, poggiato sul vano cucina, e si avvicina a te, poi
appoggia con delicatezza l’oggetto sul tavolo, prendendo posto anche lei.
“Buon
appetito”, ti dice, mentre tu osservi affascinata le svariate forme di quelle
delizie.
Sei
indecisa e lei se ne accorge.
Allunga
una mano e prende un biscotto a forma di cuore.
Lo
divide a metà e te ne porge un pezzo.
Tu
finalmente le sorridi ed accetti il piccolo dono.
“Grazie,
zia Ginny”, sussurri, addentandolo, forse con troppa foga.
Lei si
alza di nuovo in piedi, si avvicina un po’ a te, si china, poi sfiora la tua
fronte, semicoperta da qualche ciocca bionda, con le sue labbra.
“Prego,
piccola”.
“Victoire!!”.
“Ecco, respira!!”.
“Meno male”.
“Grazie a Godric!”.
Apri gli occhi. Probabilmente hai il colorito di un
cencio, visto che poco più di un quarto d’ora fa ti si era bloccato un biscotto
in gola.
“Papà…”, sussurri.
“Sì, tesoro?”, risponde Bill, ora sollevato.
Esiti per un secondo.
“Voglio andare a casa”, dici, giurando che non avresti
passato mai più le vacanze estive in quel posto, o almeno finché tua zia non sarebbe
invecchiata di brutto.
Perché sempre a me? Insomma, stavo parlando con Ron, proprio due minuti fa. Era qui! Com’è possibile che
sia sparito davanti ai miei occhi?
E’ questo che penso mentre mi guardo intorno. La Sala
Comune è deserta. E ciò è strano, visto che poco fa brulicava di studenti, intenti
a far baccano.
Mi rispondo con un’unica – forse non molto sensata, ma
pur sempre unica possibile –
deduzione: i gemelli Weasley ed i loro scherzetti.
Sicuramente avevano comprato da Zonko qualche strambo
gas fumogeno, in grado di procurare strane illusioni ottiche, quali farmi
sentire un emerito idiota a parlare col
nulla.
Decido di uscire dalla Sala Comune. Non è molto
costruttivo rimanere lì se non vedo nessuno.
Fisso l’orologio, mentre oltrepasso il ritratto, e mi
stupisco nel notare che sono le otto e mezza.
Le otto e mezza? Ma se ho appena pranzato? Questo non è
normale!
Esamino il corridoio. C’è qualche studente qua e là, ma
tutti vanno di fretta, come se stessero per perdersi una lezione importante. Un
Grifondoro ritardatario mi supera, dandomi una
spallata. Si volta e si scusa, non smettendo di correre. Lo perdo di vista.
Ma chi era? Non l’avevo mai visto.
Inizio a camminare, ma non so dove andare. Ho come un
vuoto di memoria e non riesco a riconoscere un solo studente del posto. Eppure
pensavo di aver imparato la maggior parte delle loro facce.
Svolto un angolo e qualcuno mi viene a sbattere contro. A
giudicare dall’impatto stava correndo. Poggio d’istinto le mie mani sulle
spalle un po’ robuste della persona ragazzina, che mi è piombata
addosso.
E’
bassina. Deve alzare lo sguardo per fissarmi e, quando lo fa, noto che ha un
cipiglio nervoso sul viso.
“Sta’
un po’ più atten…”.
Si
blocca. Sembra che le sue gote stiano per andare in fiamme.
Annullo
immediatamente il contatto col suo corpo e noto che tutto sommato è carina,
anche se strana. Ha i capelli castani, corti fino alle spalle, ricci, con un
nastro rosa a farle da fascia, un
viso tondo ed una bocca grande. Porta poi delle calze rosa, sotto la gonna nera, ed una camicetta altrettanto rosa, sotto al pullover grigio. I miei
occhi si posano sulla cravatta. Verde argento. Peccato.
“Chi
sei?”, mi domanda, portando febbrilmente i suoi occhi su e giù per la mia
persona. “Non ti ho mai visto”, dice poi, curiosa.
“Mi
chiamo Neville, Neville Longbottom”.
Sembra felice
di sapere il mio nome. Strano che una Serpeverde si
lasci incantare da un Grif…
Aggrotto le sopracciglia.
Giusto, ho una T-shirt addosso. Non può immaginare che io
sia un Grifondoro. E poi non ci siamo mai incontrati.
Decido di darle corda, tanto per fare conversazione.
“E tu come ti chiami?”.
Lei arrossisce di più. Sembra che non sia capace di fare
altro.
“Dolores,
Dolores Umbridge”.
Mi sorride, ma io non ricambio.
Non ricordo di aver mai sentito nominare una studentessa
con questo nome.
La vedo dischiudere le labbra, stupita, mentre fissa
insistentemente un punto imprecisato del mio petto.
“Ma quella è…”.
Mi controllo la maglietta, sperando che non vi sia nessun
disegnino stupido sopra. Fortunatamente no. Ho solo la collana di Hermione appesa al collo e probabilmente è quella che ha
attirato la sua attenzione.
“Una Giratempo!”, conclude lei
affascinata. “Devi seguire molti corsi allora!”.
Torno a guardarla stranito. Non ci ho capito molto.
“Cosa?”.
“Ma sì! Con quella riesci a seguire anche le lezioni che
avvengono contemporaneamente, perché puoi tornare indietro nel tempo, no?”, mi
dice.
A quanto pare, la sa lunga. E poi il nome di quest’affare
è tutto un programma.
Giratempo…
“Hemhem!”.
Il mio sguardo sembra turbato a quella specie di squittio
che ha appena emesso, sicuramente per attirare la mia attenzione poiché non ho
ancora proferito parola. Sembra di nuovo imbarazzata, o forse è una sua tecnica
di corteggiamento. Deglutisco.
Giratempo…
Qualcosa mi dice che non porti nulla di buono, né questa
conversazione, né questa parolina che continua a ronzarmi in testa.
Giratempo…
Un barlume. Un flash. Il ricordo di Hermione,
che dimenticava la sua Giratempo
sul divano della Sala Comune. Me l’ero messa al collo, poi avevo incontrato Ron e nel parlargli… nel parlargli… avevo toccato quel coso.
Vado in panico, sotto gli occhi della ragazzina, che ora
pare annoiata e spazientita.
“Devo andare!”, le urlo e scappo via, senza nemmeno
aspettare che dica qualcosa.
“Ma… Neville, aspetta!”, la sento supplicare, ma ormai è
lontana ed io devo trovare assolutamente Dumbledore.
Ma prima che io possa fare, dire o pensare altro, inciampo e tutto diventa scuro.
Vengo svegliato da un dolore lancinante alla testa. Apro
gli occhi. Sono in infermeria. Contemplo le pareti bianche. Mi sento
frastornato. Non ricordo cosa è successo, poi mi appare l’immagine della
ragazzina davanti agli occhi e tutti i pezzi tornano al loro posto. Spalanco le
palpebre e mi accingo ad abbandonare il morbido materasso, su cui sono disteso.
“Stia tranquillo. Ora è nel suo tempo, signor Longbottom”, dice qualcuno, notando la mia agitazione. “Fortunatamente,
sano e salvo”, aggiunge.
Mi accorgo che il professor Dumbledore
è proprio ai piedi del mio letto.
Sospiro, lasciando che la mia testa ricada sul cuscino.
“Mi ha salvato lei?”, domando.
“E’ esatto. Ma le suggerirei di prendere le dovute
precauzioni prima di viaggiare nel tempo, la prossima volta”.
Mi sta sorridendo.
“Un oggetto che non si conosce è pur sempre qualcosa di
ignoto”.
Una donna tozza, con la faccia larga e vizza, stacca i
suoi occhi grandi, tondi e un po’ sporgenti da alcuni documenti presenti sulla
scrivania del suo ufficio. Se li stropiccia, stanca, e successivamente apre un
cassetto, con uno strattone forse troppo forte, tanto che il suo contenuto
finisce per andare prima indietro e poi di nuovo avanti. Qualcosa luccica al
suo interno. Una delle tante Giratempo del Ministero
è lì, nel suo cassetto.
Sospira. Un sorriso le rallegra improvvisamente il viso.
Capitolo 4 *** I can't be her (Walburga/Hermione) ***
Di nuovo per Roxanne
Potter,
che ormai si diverte a mettermi in
difficoltà.
I can’t be her.
Urla
di orrore, vani strimpelli di voce, provenivano dal ritratto di Walburga Black.
Lei, nobile purosangue, non era mai riuscita a sopportare la vista di tali
abomini in casa sua. Non bastava il figlio rinnegato, un lupo mannaro, la prole
della traditrice Andromeda. Bisognava aggiungere lei.
“Sporca
mezzosangue, via da casa mia… via!”.
Solita
solfa, certo, ma quello che Walburga non sapeva, era che anche una ragazzina di
appena quindici anni poteva avere modo di ribattere in maniera adeguata.
“Sa,
lei è davvero sconveniente”, le aveva
detto un giorno, e quegli occhi fiammeggianti di disappunto avevano zittito il
ritratto della donna. Aveva sicuramente continuato per giorni ad urlarle contro
insulti anche peggiori, ma con un’intensità ed una furia man mano più fievoli.
Una
tale ragazzina poteva incuterle timore?
No,
Walburga non aveva paura di nessuno, nemmeno di una sanguesporco
in grado di poter proferire locuzioni ricche di spregio, seppure con una
pacatezza propria di un nobile.
Lei poteva rimanere affascinata dalla
sua sfrontatezza?
Può
darsi, sebbene Walburga ritenesse che fosse indecoroso per una donna di alto
ceto, quale lei era.
“Una
sanguesporco non è degna di rimanere nella mia
dimora”, si arrischiò a dire Walburga il giorno successivo, e la giovane,
voltatasi, non parve turbata dal ribrezzo espostole, o forse ne era ormai
abituata.
Dischiuse
le labbra con una lentezza snervante, pensando a lungo a cosa dire.
“Non
sarebbe ora di smetterla? Le ricordo che lei è soltanto un dipinto, ergo la casa non le appartiene”.
Furono
queste le parole che ebbe in risposta e furono parole che si accinsero a
ferirla.
Ma
Walburga non si lasciava intimidire e, figurarsi, offendere. Lei era superiore.
Lei poteva passare al di sopra di quelle frasi. Non l’avrebbero nemmeno scalfita.
Walburga era forte. Walburga era combattiva. Walburga era…
“Io
non sono Walburga”.
Per
giorni le urla furono di dolore, non più di odio verso i suoi inquilini. Gli
occupanti di quella casa spesso si domandarono il perché, da qualche giorno, ai
piedi della tenda che ricopriva il ritratto, ci fosse sempre una pozza d’acqua,
finché un giorno RonWeasley
non disse la sua.
“Sai,
Hermione, questa stanza sembra il bagno di Mirtilla
Malcontenta ultimamente”.
Il
ragazzo dai capelli rossi scosse la testa e poi se ne andò di sopra, dove
probabilmente sarebbero arrivati meno decibel di quelle urla.
La
ragazza, cui Ron aveva fornito quell’illuminazione,
aggrottò le sopracciglia, si avvicinò alla tenda e la spalancò, senza pensarci
due volte. La donna del dipinto aveva una pila di fazzoletti affianco ed era
impegnata a soffiarsi il naso con uno di essi. Si bloccò, le mani ancora
intente ad armeggiare col pezzo di stoffa bianco e gli occhi ora spalancati,
nel vederla lì.
Hermione sospirò.
“Non
ne faccia una tragedia”, disse quieta. “Dopotutto lei è l’essenza di Walburga Black”.
La
bocca di Walburga si spalancò, mentre la ragazza andava via.
Era
stata consolata… consolata da una sanguesporco.
Ma
Walburga non avrebbe mai e poi mai approvato la pietà del nemico. L’avrebbe
ucciso all’istante, pur di non sentire parole di conforto da un essere tanto
impuro. Walburga avrebbe preferito morire piuttosto di essere la protagonista
di quella scenetta glicemica. Walburga avrebbe chiamato il suo fedele Kreacher pur di non vedere più il viso di quella stupida
nata babbana. Walburga…
Le
sue labbra si contrassero in una smorfia molto simile ad un sorriso.