Breaking the World

di My Pride
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** [ Atto I › St. Charles, Settembre 2002 ] Il preludio della fine ***
Capitolo 2: *** [ Atto II › Luogo sconosciuto, anno e mese ignoti ] Sbalzi imprevisti dal presente al passato ***
Capitolo 3: *** [ Atto III › Ipotetica Londra, anno e mese ignoti ] Ombre di mistero ***
Capitolo 4: *** [ Atto IV › Londra, anno approsimativo 1985 ] La fine del sogno ***
Capitolo 5: *** [ Atto V › St. Charles, Agosto 2001 ] Epilogo o prologo? ***



Capitolo 1
*** [ Atto I › St. Charles, Settembre 2002 ] Il preludio della fine ***


Breaking_1
[ Prima classificata al contest «Scacco matto!» indetto da Fe85 ]
Prima classificata allo «Slash e Femslash contest!» indetto da MistyEye ]
[ Prima classificata al contest «Romance in pain» indetto da LoveSomebody ]
[
Terza classificata al «Reverse contest» indetto da hiromi_chan ]

Titolo:
Breaking the World
Autore: My Pride
Fandom: Originali › Sovrannaturale
Pezzo Scelto: Torre
- Parola: Malinconia
- Canzone: Le persone inutili
- Fenomeno atmosferico: Neve
Tipologia: Racconto breve suddiviso in cinque capitoli
Genere: Drammatico, Sentimentale, A tratti vagamente introspettivo, Malinconico, Vagamente - o forse anche troppo - nonsense
Avvertimenti: Vagamente Slash
Rating: Giallo / Arancione
Beta Reader: No
Introduzione: Non si è mai certi di ciò che la vita ti riserva finché non ti accadono le cose più impensabili. Il mondo è come un antro oscuro che nasconde nel suo ventre l’orribile verità dell’essere.
«Si volti lentamente e tenga le mani ben in vista», mi intimò una voce familiare, e nonostante lo scombussolamento non ci misi molto ad associare il tono ad un volto: quella era senza alcun dubbio la voce di Stephen.


DISCLAIMER:
All rights reserved © I personaggi presenti in questa storia sono tutti maggiorenni e mi appartengono, dal primo all'ultimo. Sono comunque frutto di pura immaginazione. Ogni riferimento a cose e persone realmente esistite e/o esistenti è puramente casuale.
This work is licensed under a Creative Commons Attribution-Noncommercial-No Derivative Works 3.0 License.


BREAKING THE WORLD [1]
 
I understand that there’s probably a link between our worlds.
Even if it may be twisted in ways that are cruel at times and kind at others.
The world is inside of you.
 
    Avete mai sentito parlare di esperienze pre-morte? Io ero stato uno di quelli che non aveva mai creduto a cose del genere, o almeno fino a quando non era capitato proprio a me.
   
È alquanto bizzarra la velocità con cui sembrano cambiare i punti di vista, certe volte. E altrettanto strambo è il modo in cui eventi di questo tipo, per quanto rari, ti precipitino addosso, lasciandoti letteralmente senza fiato. Non si è mai certi di ciò che la vita ti riserva finché non ti accadono le cose più impensabili. Il mondo è come un antro oscuro che nasconde nel suo ventre l’orribile verità dell’essere.


ATTO I: ST. CHARLES › SETTEMBRE 2002
IL PRELUDIO DELLA FINE
 
    Una delle poche cose che mi mancavano della stagione estiva era il canto delle cicale. Ero stato un giocatore di baseball professionista per quattro anni, e adesso io, Jonathan Wilson, volevo soltanto godermi la pensione anticipata come si conveniva ad un uomo che aveva lavorato duramente per raggiungere il proprio obiettivo. L’estate, però, mi ricordava anche il sogno che ero stato costretto ad abbandonare così prematuramente.
    Era a ciò che pensavo mentre, sorseggiando un caffè freddatosi ormai da svariati minuti, me ne stavo seduto su una sdraio malmessa che tenevo in giardino. Con lo sguardo puntato verso il cielo ancora azzurro e la mente persa nei ricordi, osservavo le foglie rosse e gialle che si staccavano dai rami degli alberi, mulinando docilmente nel lieve venticello autunnale prima di cadere a colorare il cortile.
    Mi scostai qualche ciuffo di capelli che mi era ricaduto a nascondermi gli occhi, massaggiandomi il braccio sinistro in un gesto così naturale che ormai sembravo non farci più nemmeno caso quando lo compivo. Da quando era accaduto quel brutto incidente era passato più di un anno, e da quel momento non avevo più avuto il coraggio di prendere in mano una palla. La cosa peggiore era che il baseball mi mancava. Il mio miglior amico, Stephen O’Neal, mi ripeteva di continuo di non pensarci, poiché così non facevo altro che farmi più male di quanto avessi bisogno. E Stephen sapeva il fatto suo. Lo conoscevo da quando era un tappo di sughero di soli sette anni, e già allora sembrava avere un’aria da uomo vissuto difficile da trovare sul viso di un bambino così piccolo. Sua madre era morta quando lui aveva solo sei anni, e suo padre, un ubriacone violento che aveva sempre sperperato i loro fondi in whisky scadente, aveva fatto la sola cosa buona in tutta la sua vita affidandolo a sua sorella. Stephen aveva così vissuto con sua zia fino ai diciott’anni, ma non aveva mai rimpianto il suo passato. Come venticinquenne, adesso, era fiero della sua vita: una bella casa, una buona educazione, una zia che l’aveva cresciuto come un figlio e l’impiego che aveva sempre sognato. Quanto a me, invece, in confronto a lui mi sentivo un emerito fallito nonostante tutto.
    Scossi la testa, alzandomi una volta per tutte; ripensare a Stephen mi aveva fatto ricordare che per quella sera ci erano tutti organizzati per vedere la partita a casa sua, nessun amico escluso. Avevo dunque poche ore per prepararmi e partire alla volta di Sun Valley Lake, distante un’ora e mezza  circa da Charwood Street, ovvero dove abitavo io.
Avrei anche dovuto preparare una piccola valigia, giacché Stephen mi aveva invitato a restare a dormire come quando eravamo dei ragazzini. La cosa mi faceva sorridere e mi imbarazzava al tempo stesso, forse perché da un po’ di tempo a quella parte avevo cominciato a vedere in Steve qualcosa di più di un semplice amico.
    Scacciai anche quei pensieri ed aprii la porta a vetri per entrare, passando accanto al telefono riposto sul piccolo tavolinetto in legno di noce che avevo avuto in regalo da uno dei miei amici lo scorso compleanno. Matthew, l’artefice di quel piccolo scherzo, se così lo si voleva chiamare, aveva commentato con un divertito «Tra tutte queste cianfrusaglie, manca qualcosa che può servirti davvero» e aveva così deciso di regalarmi quel tavolino intagliato. Regalo eccentrico, proprio come chi l’aveva comprato. Mi fermai davanti all’apparecchio, squadrandolo con attenzione mentre mi domandavo se non fosse il caso di disdire l’appuntamento con il quartetto novantanove [2]. Quello strambo nome era nato così, una sera di quasi tre anni addietro: un po’ troppo ubriachi avevamo stupidamente sommato le nostre età ed era nato quell’assurdo gioco di numeri.
    Scossi ancora una volta la testa, che frattanto aveva cominciato a dolermi come ormai capitava da quando avevo avuto quell’incidente, allungando una mano per prendere la cornetta e comporre il numero di Stephen, ma proprio in quello stesso momento il telefono squillò, facendomi trasalire. Nervoso, io? Alzai titubante il ricevitore, accostandolo all’orecchio. «Pronto?» pigolai, con il tono basso di un bambino che chiede al padre di controllare se ci sono mostri nell’armadio.

    La voce squillante di Stephen fu come un trapano elettrico contro le pareti del mio cervello. «Ehi, tutto okay? Hai una voce...» di sottofondo si udivano altre voci maschili, schiamazzi, risate e quello che sembrava essere un film di guerra di serie B.
    Mi portai una mano alla fronte e scossi la testa, rendendomi conto solo in un secondo momento che Stephen non poteva vedermi. Così aggiunsi: «Ero fuori, avrò preso freddo», mezza bugia, ma cosa importava? Se avessi detto la verità ne avrei ricavato solo una ramanzina in stile paterno.
    Un piccolo sbuffo si insinuò nel crepitio della cornetta. «Vedi di non ammalarti. Tu sei l’anima della festa, Juggernaut [3]».
    A quel dire sospirai. «Lo sai che i giorni in cui venivo chiamato così sono finiti, Steve», ribattei, picchiettando distratto sul legno del ripiano. «Piuttosto, come mai hai telefonato?»
    «Io e i ragazzi ci chiedevamo che fine avessi fatto».
    Sollevai un sopracciglio. «E perché mai?»
    «Come sarebbe a dire perché?» mi domandò, e dal suo tono fui quasi certo che, se avessi potuto guardarlo in viso, in quel momento, l’avrei visto con gli occhi sgranati. «Ti aspettavamo un’ora fa!»
    Stava forse scherzando? A quel mio muto quesito, mi ritrovai a gettare una rapida occhiata all’orologio appeso al muro, esattamente accanto alla libreria ormai stracolma di libri e tante di quelle cianfrusaglie da risultare inguardabile. Le lancette segnavano orribilmente le sei e mezzo del pomeriggio. Possibile che fossero passate le cinque e io non me ne fossi minimamente accorto? Mi ritrovai a sospirare ancora. «Scusa, Steve», mormorai poi. «Là fuori avrò perso il conto dei minuti che passavano».
    Si susseguirono poi attimi di silenzio, come se dall’altro capo del telefono Stephen stesse pensando intensamente a qualcosa. Io trattenni stupidamente il fiato mentre attendevo una sua qualsiasi parola, sentendolo infine imprecare a denti stretti con il suo forte accento canadese, che veniva fuori solo quando stava perdendo la pazienza. «
È successo di nuovo, vero?»
    Ci misi un po’ a capire che cosa intendesse, forse ancora convinto che avesse capito che avevo ricominciato a pensare al baseball. Sarei persino scoppiato in una risata isterica se non mi fossi trovato al telefono proprio con lui. «Nay, Steve, non è successo», attesi una qualsiasi replica, ma, non giungendo, dissi: «Parola di boy scout. Sai bene che te lo direi».
    Steve borbottò fra sé e sé qualcosa che non riuscii a capire, però subito dopo domandò: «Nessuna attività paranormale, quindi?»
    «Nessuna attività paranormale», confermai, facendogli il verso e rassicurandolo al tempo stesso, dato il sospiro di sollievo che si lasciò sfuggire. «Né brevi visioni sul futuro né tanto meno qualche strambo viaggio nel tempo».
    In realtà non predicevo il futuro, anzi, tutt’altro; ciò che io ero in grado di fare era captare ogni singola percezione o molecola nell’aria e trasformarla poi, attraverso ad un processo molto simile a quello che operava sulle particelle subatomiche, in una sorta di visione che mi permetteva di conoscere anticipatamente gli eventi prima che essi si manifestassero. Forse era per quel motivo che la capacità di vedere quel filo conduttore veniva spesso scambiata per chiaroveggenza dalle poche persone che ne erano a conoscenza. Ciò che davvero mi spaventava - e che avevo confidato soltanto a Steve - erano i flashback sul passato che avevo. Ero capace di rivivere interi attimi senza che nella realtà fosse passato un solo secondo, a meno che non mi capitasse all’improvviso. A quel punto potevano scorrere ore quanto qualche minuto, ed erano quelli i momenti che mi terrorizzavano di più. Mi si aprivano dinanzi agli occhi piccole finestrelle su epoche antiche, o momenti nell’età moderna che non ero stato però io a vivere. L’ultima volta che era accaduto mi ero ritrovato sulla East Coast, davanti alla porta di una certa Tiffany.
    Fortunatamente erano passati due mesi da quelle mie ultime visioni. Tutto ciò era cominciato il giorno dell’incidente: mi trovavo in auto, quel tardo pomeriggio di un anno addietro, e stavo percorrendo la statale che portava a St. Louis per l’ultima partita di campionato. Ricordavo ancora che stavo ascoltando una canzone di Ben E. King prima che quel camion sbucasse letteralmente dal nulla e mi venisse addosso, travolgendo la mia vecchia mustang. Era stato soltanto per miracolo che non ero morto sul colpo, secondo i medici, ma da quel momento il mio cervello aveva cominciato a funzionare nel modo sbagliato. All’inizio avevo pensato che si trattassero di semplici visioni provocate dallo stato confusionale in cui mi ero ritrovato; poi avevano cominciato a farsi sempre più frequenti ed ossessive, e, parlandone, Steve mi aveva consigliato di andare da un bravo psichiatra per affrontare il trauma. Non era però servito a niente e quelle visioni erano continuate, e ad esse si erano aggiunti quegli strani viaggi tra epoche passate e presenti che avevano fatto sì che iniziassi a preoccuparmi davvero della mia salute mentale, specialmente dopo essermi ritrovato nella Francia rinascimentale. Ci avevo passato solo poche ore lì, certo, ma erano state le più lunghe di tutta la mia vita.
    Sebbene avessi tentato in tutti i modi di disfarmi di quel potere che mai avevo voluto ottenere, mano a mano che tali fenomeni si presentavano avevo però imparato a controllarli in minima parte; ormai era da molto che convivevo con quel peso sulle spalle, e avevo capito che potevo soltanto accettarlo. Spesso e volentieri avevo pensato di sfruttare quel dono per tornare indietro e poter giocare nuovamente a baseball, ma non sarebbe cambiato assolutamente niente: il braccio che avevo sempre utilizzato per lanciare le mie palle ad effetto era ormai andato, e ripiombare in quei tempi non avrebbe fatto altro che farmi vivere un’utopia. I giorni del baseball erano finiti, dovevo mettermelo bene in testa.
    «Johnny?» La voce di Stephen mi giunse lontana e ovattata, e mi ritrovai a sbattere le palpebre come se mi fossi appena destato da un lungo sonno. Ero decisamente fuori fase, quel giorno.
    «Ci sono, Steve, ci sono».
    «In teoria, forse», ironizzò. «Ti avevo chiesto se sei ancora dei nostri o se preferivi restare a casa, a titolo informativo. Lo capirei, se così fosse».
    Dalla sua voce traspariva premura, e sorrisi proprio perché non poteva vedermi. «Fate finta che sia già lì, ragazzi», scherzai anch’io, strappandogli uno sbuffo divertito.
    Dopo vari convenevoli ed ultimi saluti riagganciammo, e io mi diressi in camera per recuperare la prima valigia che riuscii a trovare. Misi al suo interno il cambio per un paio di giorni, arraffando poi anche una giacca a vento prima di imboccare il corridoio che dava sull’ingresso.
Dovetti scostare dal mobile parecchie riviste sportive per riuscire a trovare le chiavi sepolte sotto di esse, ma una volta afferrate uscii di casa e bloccai la serratura, avanzando verso la mia auto. Giacché la mia Mustang del ’73 - una bella bambina rosso fiammante di 5800 cc di cilindrata alla quale parecchie persone avevano messo gli occhi addosso, facendo sì che mi guadagnassi le loro antipatie - era stata ridotta ad un catorcio, ero stato costretto a sostituirla con una Cadillac Eldorado usata di un bel nero brillante. Non era come la mia piccolina, certo, ma ci avrei ben presto fatto l’abitudine.
    Non appena sfiorai la maniglia lucente della portiera, però, fui colto da un orribile presentimento e allontanai la mano di scatto, quasi mi fossi appena ustionato. Avevo il respiro velocizzato e persino gli occhi spalancati. Cosa poteva mai significare quella sensazione? Da cosa stava cercando di mettermi in guardia? La paura ritornò ad insinuarsi prepotentemente nel mio animo, e mi ritrovai a stringermi le braccia al petto in un gesto di protezione, avvertendo brividi di freddo corrermi lungo la spina dorsale.
    Riuscii ad entrare in macchina solo quando mi calmai. Era stato piuttosto difficile, in verità, ma farmi fermare da una delle mie sensazioni era da escludere. Forse il fatto che si fossero ripresentate dopo due mesi avrebbe dovuto farmi pensare, ma purtroppo non fu così; misi in moto e partii alla volta di Sun Valley Lake, guidando ininterrottamente per quarantacinque minuti mentre il sole cominciava a calare all’orizzonte. Fu proprio nel prendere la svolta a destra che accadde l’irreparabile: non vidi in tempo l’auto che sfrecciava verso di me, ma tentai di ruotare il volante e sterzare per evitare che mi finisse addosso. Prima che andassi a sbattere contro l’albero che mi si parò dinanzi, ebbi appena il tempo di proteggermi il viso con le braccia, vedendo il mondo intorno a me divenire nero come la pece. Il presentimento che avevo avuto si era concretizzato.







[1] Titolo di una doujinshi del circolo Rock’n’dolles rilasciata nel dicembre del 2006, e fa parte per l’appunto della “Breaking the World series” composta da tre volumi. Anche le frasi in corsivo sotto al titolo sono tratte da quella stessa doujinshi.

[2] È un richiamo a Final Fantasy X che non ho resistito ad inserire, ed indica un cocktail che può venir creato grazie al Turbo di uno dei personaggi del gioco, ovvero Rikku. Il nome è nato davvero perché sommando le età dei protagonisti della storia il totale dava novantanove.

[3] Termine inglese usato per indicare una forza inarrestabile, reale o metaforica. Deriva dal Sanscrito Jagannātha, ovvero “Signore dell’Universo”, ed è uno dei molti nomi della divinità Krishna, dalle antiche scritture Veda indiane.


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Capitolo 2
*** [ Atto II › Luogo sconosciuto, anno e mese ignoti ] Sbalzi imprevisti dal presente al passato ***


Breaking_2

ATTO II: LUOGO SCONOSCIUTO › ANNO E MESE IGNOTI
SBALZI IMPREVISTI DAL PRESENTE AL PASSATO
 
    N
ell’avvertire il gelo che mi aveva avvolto, in un primo momento pensai di essere morto davvero. Era così che doveva sentirsi chi era da poco passato a miglior vita, probabilmente: investito da un freddo pungente per il resto dell’eternità.
    Mi abbandonai in quel falso calore che aveva cominciato ad arrossarmi la pelle del dorso di una mano, ma fu proprio nel costatare ciò che capii di essere ancora vivo. Come poteva essere possibile che il mio corpo provasse ancora qualcosa, se ero morto? Mi costrinsi ad alzare maggiormente gli occhi, riuscendo a vedere appena lo scorcio di una villetta a due piani con uno di essi, poiché l’altro era praticamente sommerso insieme a metà viso nella neve. Un momento... neve?
    Mi drizzai a sedere di scatto, sentendo tutti i muscoli indolenziti dolere da impazzire e le ossa scricchiolare sinistramente prima di provare a riscaldarmi come potevo e mettere a fuoco il luogo in cui mi ero ritrovato. Era senza alcun dubbio un giardino - e si vedeva anche che era ben tenuto, nonostante lo strato di neve ivi presente -, uno dei più grandi che avessi mai visto in vita mia: i cespugli di rose, ormai secchi per il freddo, erano sistemati ai lati di una pergola ricoperta da un sottile strato di brina e un fitto reticolato di rampicanti, sui quali facevano bella mostra di sé bozzoli di un qualche tipo d'insetto; accanto ad un alto muro ricoperto di muschio marroncino, inoltre, pareva esserci quello che aveva tutta l'aria di essere un ruscelletto congelato, e non potei evitarmi di sollevare un sopracciglio prima di concentrarmi sulla villetta. Era di un bianco immacolato come la neve circostante, con le imposte delle finestre di un azzurro freddo come il cielo d’autunno e il tetto spiovente sul quale si intravedevano foglie secche, palle da basket e un pezzo di grondaia. Sembrava quasi in stile britannico, ma cosa ci faceva una villa del genere a St. Charles?
    La consapevolezza di ciò che era accaduto mi colpì come uno schiaffo: l’incidente aveva automaticamente innescato uno di quei miei strambi viaggi nel tempo, e forse non avrei nemmeno dovuto meravigliarmi. Viaggiavo fra quegl’universi paralleli come se prendessi un aereo, volando da un capo all’altro del mondo senza una meta precisa. Secondo il mio analista, dal quale avevo smesso di andare da ben cinque mesi, quelle esperienze erano tutte causate puramente dallo shock: avevo rischiato di morire, dunque adesso la mia mente tentava di convincermi che tali visioni fossero realtà anziché semplice immaginazione. Però io sapevo che non era affatto così. Sapevo ciò che avevo visto e provato sulla mia pelle, ed una fantasia non sarebbe mai stata in grado di provocare sensazioni e paure simili, di farmi assaporare la fragranza dell’uva appena trasformata in vino o l’acre odore della cenere nel vento. E anche il freddo provocato dalla neve e dalla bassa temperatura era reale, in quel momento.

    Poggiai le mani in quel soffice manto bianco per darmi una spinta e rimettermi in piedi sulle gambe malferme, muovendo incerto qualche passo per vedere se riuscivano a reggermi. Non dovevo essere rimasto svenuto là fuori da molto, giacché avevo ancora abbastanza sensibilità nella maggior parte del mio corpo. La neve che si era insinuata nella mia giacca a vento aveva già cominciato a sciogliersi a contatto con il calore della mia pelle, e fu con una certa difficoltà che percorsi il perimetro del giardino alla ricerca di una via d’uscita. Altrove, magari, avrei potuto concentrarmi abbastanza per riuscire a tornare a casa prima ancora di capire dove fossi capitato e in che periodo, anche se non sempre mi riusciva. E pure tentare di chiamare Steve era da escludere: ero ben conscio del fatto che non avrebbe preso campo, anche se infilai comunque la mano nella tasca dei pantaloni per afferrare il cellulare e sperare in un miracolo. Il no signal lampeggiante, però, mi fece sospirare pesantemente.
    Continuai a camminare mentre mi passavo le mani sulle braccia, volgendo lo sguardo nei dintorni. C’erano cespugli innevati ovunque, e se non fossi stato ancora sconvolto per quel nuovo incidente avrei persino perso tempo a rimirare la bellezza di quel giardino. Quando sentii lo scatto d’un’arma da fuoco, però, mi immobilizzai all’istante e alzai le mani sopra la testa, esattamente come avevo visto fare in uno di quei film polizieschi che spesso e volentieri ci propinava Dean, il più giovane del quartetto.
    «Si volti lentamente e tenga le mani ben in vista», mi intimò una voce familiare, e nonostante lo scombussolamento non ci misi molto ad associare il tono ad un volto: quella era senza alcun dubbio la voce di Stephen. Così mi voltai di scatto, ritrovandomi faccia a faccia con il mio miglior amico e un fucile a canne mozze a separarci nel mezzo.
    «Steve, sono io, Johnny», dissi immediatamente, troppo confuso e infreddolito per formulare qualche altro pensiero coerente.
    La bocca del fucile, però, non si mosse di un millimetro. «Non conosco nessun Johnny», replicò Steve, con una voce pacata e glaciale che non gli avevo mai sentito tirar fuori. «Lei è nella mia proprietà, signore, e le consiglio di andarsene prima che le pianti una pallottola in corpo».
    «
È uno scherzo, Steve?»
    «Sulla difesa dei miei beni non scherzo mai, signore», sibilò lui, assottigliando lo sguardo. «Non so chi le abbia detto il mio nome, ma se è stata mia cognata a farlo e a mandarla qui, può anche dire a quella puttana succhiasangue che da me non avrà un soldo».
    Feci per aprir nuovamente bocca e replicare, ma mi zittii ancor prima di farlo. Come avevo fatto a non rendermene conto immediatamente? Eppure la soluzione era sempre stata così semplice! Quello che avevo dinanzi non era Steve, ma probabilmente un suo qualche lontano bisnonno. Ricordavo che c’erano stati ben tre Stephen, nella famiglia O’Neal, ma non avrei mai pensato che prima o poi il mio subconscio mi avrebbe portato proprio da uno di essi. Più guardavo quel volto, però, più non potevo fare a meno di credere che quello fosse proprio il mio miglior amico: era identico a lui in tutto e per tutto, dal taglio corto e ordinato dei capelli castani agli occhi quasi a mandorla d’un verde intenso; persino il fisico asciutto era il suo. Che fossi finito in un qualche universo parallelo, anziché nel passato? Avevo bisogno di saperlo.
    Abbassai le braccia lungo i fianchi molto lentamente, vedendo Stephen - o almeno quello che supponevo fosse Stephen - seguire con lo sguardo ogni mio minimo movimento mentre mi teneva ancora sotto tiro. Cercai di assumere l’aria più innocua che possedevo, il che non era per nulla facile visto il mio metro e ottanta scarso. «Non mi manda nessuno. Sono qui solo per caso, lo giuro».
    «Och, e sentiamo, allora, anche scavalcare il muro e il filo spinato è stato un caso?»
    Boccheggiai come un pesce fuor d’acqua. Dannazione! Avrei dovuto pensare anche a quel piccolissimo particolare prima di aprir bocca. Mi presi tutto il tempo di cui potevo usufruire - dunque appena qualche secondo, giacché vedevo quello Stephen cominciare a perdere la pazienza - scendendo a patti con me stesso e optando per una mezza verità. «So che potrà sembrarle assurdo, signor O’Neal, ma io sono una sorta di chiaroveggente», cambiai approccio, e mi parve persino piuttosto strano dare del lei a Steve. «Ho avuto una visione su di lei e...»
    Non ebbi il tempo di continuare, poiché vidi lo scetticismo sul viso di Steve tramutarsi nell’ombra del sospetto. Si avvicinò rapidamente lasciando profondi solchi nella neve, piantandomi la canna del fucile fra le costole e strappandomi un lamento. «Lo ripeterò ancora una volta», sibilò. «Chi ti manda e perché?»

    Le formalità erano scomparse, e a quanto pareva non mi aveva creduto. Ma chi avrebbe potuto dargli torto? Non sapevo come cavarmela, adesso, e quel tipo sembrava sempre più intenzionato a spappolarmi il cervello e a togliermi di mezzo. Cosa c’era sotto? E, per l’amor del cielo, in che razza di guaio mi ero cacciato? A salvarmi fu il suono del campanello dall’altro lato della casa, ma l’occhiata che Steve mi lanciò mi raggelò ancor più della neve che mi arrivava alle caviglie. «Vieni dentro con me senza fare scherzi, ciarlatano», mi intimò. «Con te non ho ancora finito».
    Avrei voluto dirgli che non ero affatto una minaccia, ma sapevo che non mi avrebbe creduto; mi limitai dunque a star zitto e, prima di entrare in casa, quello che avevo ormai cominciato a considerare il gemello cattivo di Steve mi perquisì. E dovetti purtroppo ammettere a me stesso che mi imbarazzai ad ogni suo tocco o palpata che fece per controllare che non avessi armi nascoste. Perché, tra tutte le persone che avrei potuto incontrare in quella maledettissima epoca, mi era capitato proprio un parente di Steve con la sua stessa faccia? C'era qualcuno, lassù, che doveva avere un perverso senso del divertimento. Entrammo infine in casa, e il calore all’interno fu talmente piacevole che sospirai involontariamente di sollievo mentre mi toglievo la giacca a vento ormai fradicia.
    «Non metterti comodo», mi apostrofò sprezzante. «Appena mi sarò occupato di quegli scocciatori, dovrai chiarirmi un paio di cosette».
    Annuii automaticamente, non avendo ancora il coraggio di aprir bocca. Seguii con gli occhi la figura di Stephen mentre spariva oltre la soglia, e me ne restai immobile a torcermi le mani. Perché mai quell’incidente aveva fatto in modo che capitassi lì e sembrava non essermi ancora dato tornare indietro? Doveva per forza esserci un motivo, ne ero sicuro. O forse volevo convincermi che fosse così. Approfittai di quei minuti in cui fui lasciato solo per guardarmi intorno, forse stupendomi persino un po’ per il gusto di quello Stephen, bisnonno o meno che fosse. Mi trovavo in un salotto ampio e confortevole, dove facevano bella mostra di sé una poltrona e due divani beige dai cuscini variopinti; tra di essi si trovava un tavolo di legno finemente intarsiato, e le uniche cose che lo ingombravano  erano solo la statua di un drago di piombo e un vaso di fiori; sul muro di destra, esattamente accanto a una libreria colma di libri, era stato costruito un caminetto di mattoni in cui il fuoco che riscaldava l’ambiente scoppiettava allegro e caldo, e al di sopra di esso era stato appeso un quadro piuttosto grande
che rappresentava un paesaggio notturno con strane forme a spirale in cielo [1]. Non essendo mai stato molto interessato all’arte, non avevo la minima idea di cosa fosse o chi l’avesse dipinto, però dovevo ammettere che era abbastanza bello e catturava l'attenzione. Il resto del salotto era arredato con piccoli lumi e diverse statue, nonché piante sempre verdi che abbellivano l’ambiente.
    Era così diverso dal caos che regnava quasi sempre nella piccola casetta di Steve, quello. Quasi mi mancavano le lattine di birra e coca-cola all’angolo del televisore di 32'' poste a formare una piramide che si ingrandiva sempre di più, la miriade di riviste di Play-Boy accatastate sotto la finestra della sua stanza per sorreggere il davanzale ormai quasi a pezzi che non aveva intenzione di far aggiustare, e la grande videoteca dove custodiva gelosamente la saga di Star Wars insieme ai restanti film che amava.
    Scossi immediatamente il capo. Non era il caso di pensare a cose ridicole come quelle, in quel momento. Seguii
di soppiatto quello Steve per dare un’occhiata e vedere che fine avesse fatto, inoltrandomi nel disimpegno; mi ritrovai ben presto in un vasto ingresso corredato con altre piante e fiori di ogni genere, e Stephen era fermo sulla soglia della porta d’entrata, quasi volesse bloccarla per non far entrare quei nuovi arrivati.
    «Mi sembrava di avervi già detto che non mi interessa», stava dicendo a braccia conserte. Aveva abbandonato il fucile con il quale mi aveva minacciato accanto ad un mobiletto poco distante, abbastanza nascosto perché non si vedesse, ma fin troppo vicino in caso di necessità. Quella era forse gente pericolosa? Oppure era semplicemente un pazzo che avrebbe potuto alzare un'arma da fuoco e puntarla contro chiunque?
    «Verrebbe gestito tutto con la massima cura, signor O’Neal», ribatté una voce femminile, fredda e autoritaria. Avrei scommesso che fosse una segretaria, e il mio non era stato un commento dalle mire sessiste, giuro. «Lei stesso ha detto di non avere il tempo materiale per occuparsene come si dovrebbe».
    «Quella miniera appartiene alla mia famiglia da generazioni, e legalmente il contratto porta il mio nome», replicò Steve in tono schietto. «Il fatto che Sean sia morto non autorizza Margaret a costringermi a venderla a lei. Tornatevene a casa e dite a quella stronza che avrà quella miniera solo dopo aver strappato il contratto dalle mie fredde dita», ciò detto sbatté senza tanti convenevoli la porta in faccia a quei due nuovi venuti, mettendo il catenaccio e dando quattro mandate alla serratura. Quando si accorse che lo fissavo da poco distante, fece scroccare le nocche di entrambe le mani. «Adesso direi che tocca a lei, signore», soggiunse con falsa formalità.
    Indietreggiai rapidamente, alzando le mani in segno di resa. «Non ci sarà bisogno di ricorrere alla violenza, signor O’Neal», tentai di convincerlo, giacché non sembrava intenzionato ad ascoltarmi. Chiunque fossero quelle persone che aveva appena cacciato, avevano solo fatto in modo che si infuriasse ancora di più.
    «Hai predetto anche questo o l’hai solo supposto?» mi sbeffeggiò, mettendo praticamente per iscritto che non aveva mai creduto alle mie parole. E fino ad un anno addietro non gli avrei assolutamente dato torto.
    Giacché le formalità non erano tornate, pensai che stessi per ritrovarmi seriamente nei guai. E non avevo bisogno del mio particolare dono per rendermene conto. Era fin troppo palese, anche senza guardare in viso il buon vecchio Stephen. «So bene che lei è una brava persona che non farebbe mai del male a qualcuno, signor O’Neal, e non ho bisogno di nessun potere paranormale per esserne a conoscenza».
    Lui si accigliò un po’, e forse fu per quel motivo che il suo volto sembrò quasi addolcirsi. «E dopo questo complimento», mimò le virgolette con due dita per enfatizzare la parola, «dovrei per caso crederti?»

    In quello era uguale allo Steve originale: cocciuto e testardo fino all’ultimo. «Senti», cominciai, lasciando a mia volta da parte ogni tipo di formalità, «so per certo che se fossi stato sicuro delle mie cattive intenzioni mi avresti sparato all’istante, invece siamo ancora qui tutti e due a chiacchierare», soggiunsi. «Sarò lieto di raccontarti tutto, se me ne darai la possibilità».
    Stephen sembrò valutare quella proposta, sollevando di poco il sopracciglio come se farlo potesse aiutarlo a pensar meglio mentre mi sondava da capo a piedi con lo sguardo. Non fu per niente piacevole, dovetti ammetterlo: sembrava un serpente che aveva appena messo i suoi occhi vitrei su un topolino spaventato. E anche se non ero piccolo quanto il topo, mi sentivo altrettanto insignificante sotto lo sguardo di quelle iridi verdi. «Ti do dieci minuti», asserì infine, e quasi mi lasciai sfuggire un sospiro per lo scampato pericolo. «Ti converrà essere convincente nel raccontare la tua storia».
    Convincente... bella roba. Fino a otto mesi prima mi sarei preso per pazzo anch’io! E scambiare se stessi per dei folli visionari non era una così gran cosa, sul serio. Cercai comunque di raccontare a Stephen la nuda e cruda verità, sentendomi quasi in dovere di farlo poiché il volto che stavo osservando era pur sempre quello del mio miglior amico. Accennai all’incidente, al mio ritrovarmi nel suo giardino per puro caso, dissi persino qualcosa di vago sui miei viaggi nel tempo , concentrandomi per la maggior parte su quel mio essere in grado di captare i segnali del mondo circostante. Più parlavo, però, più sembrava che Stephen diventasse sempre più sospettoso, come se si stesse chiedendo da quale manicomio ero scappato. Ma di certo non potevo biasimarlo: mi sarei rinchiuso in una casa per matti anch’io. Mentre continuavo a raccontare, arricchendo pian piano tutto con gran dovizia di particolari, vedevo Stephen fissarmi a braccia conserte, lasciando che la curiosità prendesse il sopravvento di quell’aria guardinga che aveva acquisito al principio. Fu quasi doloroso constatare quanto quella nuova espressione fosse simile a quella che avevo visto sul volto del mio amico Steve quando gli avevo raccontato per la prima volta di cosa fossi capace dopo l’incidente.
    Quando finalmente terminai, quel tipo mi fece cenno di seguirlo ancora una volta, guidandomi lungo il disimpegno per svoltare poi a sinistra. Ci ritrovammo in quella che sembrava essere una stanza dal soffitto a volta, corredata con tanto di piccole finestre ad arco che di giorno avrebbero di sicuro avuto un aspetto meno tetro di quello, specialmente con il sole che le illuminava piacevolmente. Non potei non lasciarmi sfuggire un piccolo fischio nel vedere com’era stata arredata: sulla sinistra, esattamente accanto ad un vecchio scrittoio colmo di pergamene che sembrava in legno di noce, c’era una teca su un piedistallo che sorreggeva quella che, diamine, sembrava avere tutta l’aria di essere una copia della punta della lancia di Longinus
[2]; facendo più attenzione, si poteva benissimo notare che quella teca non era sola, anzi. Sette teche contenenti altrettanti manufatti - cinque dei quali non avevo mai visto - erano disposte sul lato destro della stanza, divise da lunghi arazzi dai colori cupi. Come nel soggiorno e nell’ingresso erano presenti piante e fiori, che riuscivano almeno a dare un tocco più morbido e meno spartano all’arredamento.
    «Cavolo, questa stanza sembra uscita direttamente da quelle di Lara Croft
[3]», mi ritrovai a dire fra me e me, non riuscendo a nascondere lo stupore. Al che Stephen mi guardò, sollevando un sopracciglio.
    «Da cosa?» domandò, e avrei dovuto aspettarmelo. Se ero tornato indietro nel tempo come credevo, Tomb Raider non poteva di certo essere uno dei film o dei videogiochi preferiti di quel sosia.
    «Niente, pensavo solo fra me e me», liquidai la questione, giacché non era importante ai fini di quella nostra conversazione, se così potevamo chiamarla. Avevo intenzione di sfiorare tutto ciò che potevo e sperare che avessi una delle mie visioni, cercando così di capire il motivo per cui d’un tratto ero stato spedito fin lì. Che c’entrasse forse quella miniera a cui aveva accennato quello Stephen? L’unico modo per saperlo era per l’appunto sperare che il mio potere non mi deludesse. Cominciai a vagare per quella stanza sotto gli occhi attenti di Stephen, che sembrava controllarmi come per timore che potessi rubare qualcosa e scappare. Toccai di tutto, dalle semplici cataste di fogli bianchi ai libri stipati sui piccoli ripiani, sfiorando ogni cosa con la punta dei polpastrelli. Niente mi dava però la sensazione che dovesse accadere qualcosa, ma ero certo che ciò che cercavo, sebbene non sapessi ancora cosa, si trovava senza alcun dubbio in quella stanza.
    Avanzai cauto, quasi fossi cieco, aggrappandomi a tutto ciò che mi capitava a tiro senza più badare a Stephen, poiché fissarmi sulla sua presenza avrebbe soltanto infranto la mia già scarsa concentrazione. Fu quando giunsi accanto alla scrivania che sentii come una scossa elettrica corrermi lungo la schiena, e volsi lo sguardo in direzione di Steve per osservarlo in viso. «Hai qualcosa di importante, nei cassetti dello scrittorio?»
    Lui sollevò un po’ un sopracciglio e sembrò rifletterci, dando vita ad una di quelle scrollate di spalle che potevano significare tutto o niente. «Tagliacarte, fogli, qualche documento... cose pressappoco inutili». La sua voce aveva assunto un tono svogliato, quasi si fosse stancato di fare il cattivo ragazzo. D’altronde l’ora era quel che era, da quanto potevo constatare guardando il quadrante del pendolo. «Il contratto non è lì, se è ciò che mi stai chiedendo».
    Annuii fra me e me prima di riprendere quel mio giro di ronda, avvicinandomi ad una delle teche per sfiorarne appena la superficie. Mi soffermai ad osservare ciò che vi era conservato all’interno, percorrendo con lo sguardo ogni particolare di quello splendore: era il più bel diamante su cui fossi mai riuscito a mettere gli occhi, e mi ricordava tanto quello del vecchio film “La pantera rosa
[4]” a causa del colore che lo caratterizzava e dell’incisione al suo interno. Ma fu proprio nel continuare a fissare quella pietra che cominciai ad avvertire quella familiare sensazione di formicolio alla testa, come se mille insetti mi stessero strisciando lungo il corpo e sottopelle. C’era decisamente qualcosa che non quadrava, in quella storia. «Credo che dovrà spiegarmi per filo e per segno quella faccenda della miniera, signor O’Neal».






[1] Il quadro al quale si fa riferimento è la “Notte stellata” di Van Gogh, realizzata nel 1889 su una tela di 78 x 92 e conservata a New York. Su tale dipinto viene rappresentata per l’appunto una notte stellata sulla città di Saint Rémy, in Francia. La tela nella storia, essendo più grande rispetto all’originale, è ovviamente solo una riproduzione.

[2] Detta anche Lancia del Destino, è la lancia con cui sembrerebbe sia stato trafitto Gesù dopo la crocifissione.
Il manufatto in questione è solo una riproduzione, naturalmente, ed è stato preso in considerazione a causa di una frase che il protagonista principale della storia pronuncerà in seguito. Essa viene anche citata in film come Constantine, Hellboy, Il Conquistatore di Shambala e in videogiochi come Tomb Raider e Final Fantasy X.

[3] Eroina del videogioco Tomb Raider, uscito per la prima volta nel 1996, sviluppato da Core Design  rilasciato dalla Eidos Interactive. È stato tratto anche un film uscito nel 2001 - di cui è stato fatto anche un seguito nel 2003 -, in cui Lara è interpretata da Angelina Jolie. La frase a cui si accennava precedentemente era questa.
 
[4] Diretto da Blake Edwards, “La pantera rosa” è un film del 1963 dove vengono raccontate le vicende dell’ispettore Clouseau all’inseguimento del ladro gentiluomo Charles Lytton e di suo nipote George, che ambiscono ad impossessarsi del grande diamante denominato pantera rosa poiché al suo interno sembra esserci incisa una pantera. Il film ha avuto anche un remake uscito nel 2006, del quale è stato fatto un seguito nel 2009.


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Capitolo 3
*** [ Atto III › Ipotetica Londra, anno e mese ignoti ] Ombre di mistero ***


Breaking_3
ATTO III: IPOTETICA LONDRA › ANNO E MESE IGNOTI
OMBRE DI MISTERO
 
    La placida atmosfera che regnava nel salotto e il buon odore del the caldo - il più buon Jackson Earl Grey
[1] che avessi mai bevuto - mi donavano un senso di quiete così profondo che quasi me ne meravigliavo, dato il mio ritrovarmi in un luogo e in un tempo sconosciuti.
    Avevo rimandato quel mio cercare di darmi almeno un punto di riferimento o una data, ascoltando invece la storia che aveva da raccontarmi Stephen su quella miniera di cui aveva parlato. Suo padre, un ricco mercante inglese che aveva fatto fortuna in poco tempo grazie alle sue particolari doti linguistiche, da giovane era riuscito ad impossessarsi di una miniera con i soldi ricavati dalla vendita delle sue merci. L’aveva fatto più per un capriccio che per vera utilità, aveva detto, ma le cose si erano ben presto svolte in suo favore: nei meandri della miniera aveva trovato più del semplice carbone - il diamante che avevo visto nello studio di Steve ne era la prova inconfutabile - e i suoi averi erano aumentati a dismisura, permettendogli di vivere nel lusso sia prima che dopo il matrimonio. Aveva in seguito lasciato la proprietà al figlio più giovane, Stephen, incaricando il maggiore di occuparsi dei restanti beni. La cosa che Steve non era riuscito a capire era stata l’inspiegabile morte di suo fratello, Sean, e anche il referto medico non aveva riscontrato niente. Stephen sospettava difatti che a toglierlo di mezzo fosse stata sua moglie Margaret, ma non aveva prove per incastrarla.
    «Dunque adesso questa Margaret vorrebbe mettere le mani anche sulla miniera», commentai fra me e me, soffiando sulla tazza di the prima di sorseggiarne un po’. «E poi dicono che le donne non sono avare», soggiunsi sarcastico, sebbene ci fosse ben poco da scherzare. Se era stata realmente lei ad uccidere il marito e a farla franca, c’era davvero da aver paura nel ritrovarsela sulla propria strada. E quel tipo identico a Stephen sembrava pensarla esattamente allo stesso modo, anche se quelle costatazioni le avevo tenute per me senza pronunciarle ad alta voce.
    «Margaret ha sempre voluto più di quanto non avesse già», disse, guardando distrattamente il drago sul tavolino anziché me, come se quel pezzo di bronzo significasse per lui più di quanto credessi. «
È nata in una ricca famiglia che non le ha fatto mai mancare niente fin da quando era bambina, almeno finché la sua casata non è caduta in rovina. Per lei è stata una manna dal cielo conoscere e sposare Sean». Parlare del fratello sembrò portare la malinconia sul suo volto, ma cercò di scacciarla con un sentimento che per lui parve ancor più forte: l’odio. «Gli ha tolto pian piano tutto, persino la ragione e la vita. Sono più che certo che sia stata lei, ma la mia sola parola non basta ad accusarla, senza contare poi lo stuolo di avvocati che paga profumatamente per difenderla. Quelli che ho cacciato prima erano Paul, uno dei migliori che può permettersi, e Samantha, la sua fidata segretaria. Cercano ancora di convincermi a cederle la miniera, ripetendomi che se lo facessi mi pagherebbero una cifra esorbitante».
    Ascoltai attento, certo, ma quando Stephen smise di parlare aggrottai le sopracciglia. «Non credi che eviteresti eventuali guai, se lo facessi per davvero?» buttai lì, venendo fulminato all’istante dai suoi profondi occhi verdi.
    «Non le darò più niente di ciò che appartiene alla mia famiglia».
    «Ti interessa più quella stupida miniera e quei diamanti che le conseguenze?»
    Qualcosa nelle mie parole irritò quello Stephen, che si alzò in piedi così di scatto che le cosce sbatterono contro il tavolino, ribaltandolo. Il drago restò pressoché illeso, ma la tazza e la teiera si ridussero in mille pezzi, impregnando di the la costosa tappezzeria. Un vero peccato. «Pensi davvero che mi stiano a cuore quelle pietre, ciarlatano?» rimbeccò, con gli occhi ardenti di sacro furore. «Quella dannata miniera è l’unica cosa che mi è rimasta di mio padre, e non mi importa se per te è così difficile da capire».
    La furia con cui pronunciò quelle parole fu violenta come uno schiaffo in pieno viso. Sembrava che il simbolo rappresentato da quella miniera - ovvero l’ultimo legame con suo padre - per lui contasse mille volte più di tutti i diamanti presenti nelle profondità di essa. E la cosa mi fece sorridere. Dentro di lui, nei recessi del suo cuore, albergava davvero qualcosa di Steve. «Come posso aiutarti?» gli domandai dunque, ritrovandomi a chinarmi io stesso per rimettere il tavolino in piedi e poggiare la mia tazza su di esso. Mentre ero intento a raccogliere anche i cocci, sentii quegli occhi verdi puntati su di me, poi un lungo sospiro che suonò afflitto.
    «Non puoi», mormorò sottovoce Stephen, chinandosi a sua volta per aiutarmi. «Semplicemente, non puoi».
    Avrei voluto ribattere dicendo qualcosa, ma lasciai perdere non appena vidi l’espressione mesta che era apparsa sul suo viso, quasi le avesse provate tutte e si fosse ormai arreso. Io, però, mi rifiutavo di credere che fosse così. Se ero capitato lì un motivo doveva esserci, dunque avrei trovato un modo per aiutare Stephen. O almeno lo speravo.
    Nel radunare gli ultimi pezzi, non mi resi conto che avevo cominciato ad osservare ogni minimo movimento di quel sosia, come se ogni suo gesto andasse ben oltre alla semplicità che dimostrava di possedere. Potei persino affermare di esserne rimasto quasi rapito, e la cosa riuscì a spaventarmi più di tutta quell’assurda situazione. Era da troppo tempo che avevo cominciato a guardare Steve con quegl’occhi, e non mi sembrava per niente giusto. Quando quello Stephen ricambiò il mio sguardo mi affrettai a distoglierlo, concentrandomi solo nel recuperare qualche ultimo coccio prima di alzarmi in piedi. Mi sentivo accaldato, quasi fossi arrossito, ma non era possibile, no? Forse avevo semplicemente preso freddo, essendo rimasto disteso sulla neve, e i sintomi si stavano manifestando proprio in quel momento. Già, non c’era altra spiegazione.
    «Al tappeto ci penserò domani», mi riscosse la voce di Stephen. «Per il momento ci conviene riposarci in vista della giornata che ci aspetta».
    Alzai immediatamente lo sguardo su di lui, forse un po’ stupito. «Mi permetti di restare?» gli chiesi, sentendo il sorriso fiorire pian piano sulle mie labbra. In fin dei conti non era un cattivo ragazzo.
    Stephen fece appena un rapido cenno con il capo a mo’ di affermazione, sebbene non ne sembrasse particolarmente contento. «Pur non credendo alla tua storiella, mi hai raccontato particolari su di me che solo Sean, pace all’anima sua, conosceva», disse, e nei suoi occhi scorsi un luccichio che, per un lungo momento, lo fece apparire un bambino. «E poi ha cominciato a nevicare, per quanto vorrei liberarmi di te non posso spedirti là fuori a quest’ora tarda», soggiunse sarcastico, «per di più con quei vestiti leggeri».
    Mi venne naturale fargli un mezzo inchino. «Sono onorato di questa tua offerta, in fondo per te sono un perfetto sconosciuto», ribattei. «Vorrei poter fare qualcosa per sdebitarmi e aiutarti con...»
    «Aye, aye, tutto quello che vuoi», tagliò corto senza lasciarmi continuare, poggiando i cocci sul tavolino. «Se avrai voglia di chiacchierare, lo faremo domattina a colazione; adesso lascia sul tavolo quel che resta del mio servizio da the e seguimi, ti mostro la stanza degli ospiti».
    Senza replicare feci quanto mi era stato detto, seguendolo per l’ennesima volta in quella serata. Ci inoltrammo nello stesso corridoio che avevamo già percorso due o tre volte, andando poi verso le scale che portavano al piano di sopra. Al muro potei vedere appese un paio di fotografie che ritraevano probabilmente la sua famiglia, ma non ce n’era nemmeno una in cui compariva la figura di sua madre. Ce n’era una che raffigurava lui e quello che supposi suo fratello da bambini, in piedi accanto al tronco di quella che sembrava una grande quercia secolare; c’era poi una foto di un uomo dalla folta e curata barba, forse suo padre, seduto dietro ad una scrivania con un’espressione austera dipinta in volto; l’ultima li ritraeva tutti e tre insieme in uno spazio chiuso, probabilmente un ufficio, tutti e tre sorridenti e con i segni del tempo ben visibili sui lineamenti dei loro visi. Ma in nessuna compariva la grazia di una figura femminile.
    «Mia madre è morta mettendomi al mondo, e mio padre non ha voluto lasciare per casa foto che gliela ricordassero». La voce pacata e bassa di Stephen, così vicina al mio orecchio, mi fece trasalire. Volsi lo sguardo verso di lui, umettandomi le labbra e provando a chiedergli come avesse fatto ad intuire cosa stavo per domandargli, ma lui mi precedette. «Ho pensato che ti stessi chiedendo perché non ci fosse nessuna fotografia di lei, data l’attenzione con cui fissavi quelle cornici».
    Mi sentii arrossire ancora una volta. Portandomi una mano dietro alla testa, mi grattai appena il collo. «Scusa, non volevo impicciarmi», farfugliai a disagio.
    Stephen mi superò, afferrando il corrimano e adocchiando a sua volta le foto, tornando poi a guardare dinanzi a sé come se volesse lasciarsi alle spalle quei momenti passati. «
È storia vecchia, continua a salire».
    Sospirai, ma obbedii, continuando però a guardarmi intorno come se volessi ricordare ogni singola cosa lì presente. Quella casa, per quanto fosse diversa da quella che ero solito vedere, mi piaceva. Oltre alle svariate cianfrusaglie - bambole di porcellana, cavalli intagliati nel legno e quelle che sembravano piccole statuette da collezione - riposte sugli scaffali o sui ripiani più alti dei mobili, facevano bella mostra di sé gli oggetti più costosi e disparati che avessi mai visto, dalle semplici lampade d’antiquariato - che mi ricordarono tra l’altro di domandare dove mi trovassi e che anno fosse - a rappresentazioni di mezzi busti dallo stile vagamente romano.
    Fu il picchiettare di nocche contro legno che mi richiamò, e alzando lo sguardo vidi Stephen indicarmi una stanza sulla destra. «Qui è dove dormirai», mi informò. «Più avanti c’è la mia camera. Se mi segui ti do un cambio, così potrai farti anche una doccia e levarti quei vestiti fradici da dosso».
    Quella premura mi fece sorridere, forse perché mi ricordò davvero il mio amico Steve, o forse perché da un tipo come lui - mi aveva puntato contro un fucile solo poche ore prima, perdio! - non me lo sarei mai aspettato. «Grazie ancora, sul serio», mi sentii in dovere di dirgli, vedendolo annuire distratto prima di continuare ad attraversare tranquillo il disimpegno, afferrando ben presto la maniglia della porta di un’altra stanza. La sua, supposi.
    Quando lo vidi sul punto di spalancarla, però, la calma che mi aveva animato fino a quel momento sfumò come se non fosse mai esistita, e un brivido mi corse lungo la schiena, mettendomi subito in agitazione. Ebbi appena il tempo di aprire la bocca per metterlo in guardia, prima che il fragore dello sparo di un’arma di grosso calibro e di una finestra che andava in mille pezzi rompessero il silenzio che regnava in casa, assordandoci entrambi. Stephen si gettò di lato per evitare di essere colpito da un secondo proiettile, accostandosi contro il muro prima di lasciarsi scivolare lungo di esso. Incredulo, raggelato e spaventato, dovetti ricorrere a tutta la mia forza di volontà per convincere le gambe a muoversi anche solo di poco, facendo incerto qualche passo in quella direzione, senza riuscire ad aprir bocca. Gli occhi verdi e dilatati di Stephen si puntarono su di me, ma anche lui restò in silenzio, arrischiandosi a sporgersi un po’ oltre lo stipite della porta per valutare la situazione. Però dall’interno non provenne nessun altro suono, dunque si alzò; mentre lui controllava la camera e cercava di capire il punto esatto da cui avevano sparato, io mi soffermai sui fori di proiettile sul muro, esattamente dove poco prima c’era Stephen. Aveva rischiato maledettamente grosso.
    «Quella stronza è passata alle maniere forti», lo sentii dire dall’interno della stanza, e fu con fare guardingo che entrai a mia volta, quasi mi aspettassi di vedere un sicario sbucare fuori dall’armadio. Però quella spiacevole sensazione che mi aveva colto poco prima era scomparsa, e oltre alla finestra rotta e quelli che sembravano due mattoni non c’era nient’altro.
    Con il cuore che ancora batteva furente nel petto, domandai: «Che vuoi dire?»
    Stephen non rispose subito, ma sventolò un biglietto. «Era legato a quella pietra», mi disse, indicando quella poco distante dalla finestra. «“Questo era solo un avvertimento. La regina nera ha fatto la sua mossa, sta al re bianco giocare, adesso”», si lasciò sfuggire uno sbuffo palesemente disgustato, appallottolando il foglio prima di comprimerlo nel palmo di una mano. «Devo ammettere che mi aspettavo un metodo più elegante da una signora come lei», soggiunse sarcastico, forse per sdrammatizzare.
    Deglutii senza nemmeno rendermene conto. «Sei certo che sia stata lei?» gli chiesi, dandomi dello stupido da solo per quel quesito, e lui difatti si lasciò sfuggire una falsa risata.
    «E chi altri potrebbe mai essere stato? Anche il biglietto parla chiaro».
    Feci qualche altro passo verso di lui, togliendogli quella palla di carta da mano prima di guardarlo in viso con fare deciso. «Allora devi chiamare la polizia».
    «E a cosa servirebbe?» mi domandò in risposta. «Questa non è nemmeno la calligrafia di Margaret, anche se è esattamente ciò che avrebbe scritto lei. La accuserei nuovamente senza prove e la polizia non prenderebbe neanche in considerazione il caso. Ha troppi poliziotti corrotti dalla sua parte, quella puttana».
    Rifiutando di credere che si stesse arrendendo a quel modo, senza nemmeno provare a continuare a combattere, mi infervorai. «Ma non puoi nemmeno aspettare che quella donna faccia qualcosa di peggio, dannazione!» esclamai, lasciandomi sopraffare dalle mie emozioni e dal sentimento che da un po’ di tempo a quella parte avevo cominciato a provare per il mio miglior amico. Nonostante sapessi che quello non era lo Steve che conoscevo, il mio cuore si rifiutava di lasciare che gli eventi si rincorressero.
    Quel mio comportamento, però, fece solo accigliare Stephen. Mi afferrò la mano con cui stringevo il foglietto appallottolato che gli avevo tolto e mi costrinse a guardarlo attentamente in viso, aggrottando le folte sopracciglia scure. «Perché ti interessa così tanto la mia incolumità?» mi domandò, e dal tono che utilizzò apparve piuttosto sospettoso. In altri momenti non gli avrei dato torto - in fin dei conti per lui ero un tipo che non aveva mai visto e che gli era piombato in casa d’improvviso -, ma la mia mente continuava a comparare la sua figura a quella del vero Steve, aggiungendo persino l’avvenimento a cui era scampato solo pochi minuti prima.
    Mi umettai le labbra senza rispondere, quasi stessi cercando inutilmente le parole giuste per farlo. Cosa mai avrei potuto dirgli? Sebbene gli avessi raccontato dei miei viaggi, non avevo affatto accennato che lui fosse identico al mio miglior amico, e mi ero tenuto ben alla larga dal dirgli che provavo più di quel semplice tipo di affetto nei suoi riguardi. Mi avrebbe sbattuto fuori a calci o mi avrebbe sparato sul serio, se lo avessi fatto. Optai dunque per una mezza verità. «Se ti succedesse qualcosa... non potresti più difendere la miniera dalle grinfie di Margaret, giusto?» gliela misi su quel piano, vedendolo accigliarsi. «Concedimi dunque di preoccuparmi per la tua vita».
    Stephen rimase senza parole, ma mi lasciò andare, facendo giusto un passo indietro come se volesse ristabilire le distanze. Sembrava quasi scombussolato e non riuscii a capirne il perché, ma lui non si degnò di darmi nessuna spiegazione. Si diresse solo verso un mobiletto in noce per aprire uno dei cassetti, tirando fuori un pigiama a righe che persino da lontano sembrava pesante, caldo e confortevole. Quando agguantò anche l’intimo, ripose tutto uno sopra l’altro prima di portarmelo e porgermelo senza garbo. «Prendi», bofonchiò, e io allungai una mano senza farmelo ripetere due volte. Non volevo farlo incazzare più di quanto non sembrasse già. «Il bagno è in fondo al corridoio, seconda porta sulla destra. La colazione è alle otto. Alle nove andremo ad incontrare una persona, quindi vedi di farti trovare pronto. Non ammetto ritardi. Oh, un
’ultima cosa». Mi gettò uno sguardo più che eloquente, talmente serio che, ne ero certo, sarebbe stato capace di trapassarmi lanima, se avesse potuto. «Sappi che non ho intenzione di lasciarle fare ciò che vuole né di scappare. Non sono il tipo di persona che fugge dinanzi alle cose». Con quell’ultima nota diplomatica, Stephen indicò che, almeno per lui, quella nostra conversazione si poteva definire chiusa.
    Si prospettava davvero una lunga nottata, sempre se non fossi riuscito a tornare a casa prima dell’alba. E io, purtroppo, avevo cominciato a non esserne più tanto sicuro.






[1] Uno dei the più famosi in Inghilterra. Il suo sapore e il suo aroma si distinguono grazie all’aggiunta di un olio estratto dalla scorza di bergamotto. Il nome deriva dai Jacksons di Piccadilly, che ne rivendicarono la paternità.


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Capitolo 4
*** [ Atto IV › Londra, anno approsimativo 1985 ] La fine del sogno ***


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ATTO IV: LONDRA › ANNO APPROSSIMATIVO 1985
LA FINE DEL SOGNO
 
    Erano trascorsi quasi dieci giorni dal mio arrivo in quella città così simile a Londra, e ancora non ero stato in grado di ritornare alla mia epoca in nessun modo.
    Nel tempo passato con quello Stephen, avevo parzialmente imparato a conoscerlo per quello che era e non per quello che credevo che fosse, e, sebbene tra noi ci fossero ancora delle incomprensioni e dei momenti in cui pensava che io straparlassi, sembrava stesse cominciando a rendersi conto che, seppur in un’altra vita, in un altro tempo o in un’altra dimensione, ci conoscevamo più di quanto lui volesse ammettere a se stesso. Era ancora scettico, però, esattamente come la prima mattina in cui ci eravamo ritrovati a fare colazione insieme; eravamo usciti come aveva annunciato lui, poi, incontrandoci con un certo Dawson Morrison, un vecchio avvocato che un tempo aveva lavorato per la famiglia O’Neal. Aveva blaterato per ore ed ore con Stephen senza che io capissi un accidenti di niente.
    Io ero stato costretto a seguirlo solo perché non si fidava a lasciarmi solo in casa - e a ragione, avrei detto -, e di spostare la data per incontrare quel tipo neanche a parlarne. Così ero rimasto seduto su una poltrona ad ascoltarli ciarlare senza potermi però muovere, quasi fossi stato un bambino di tre anni o un detenuto agli arresti domiciliari. Quando tutto era finito, avevo ringraziato l’Onnipotente per l’aver fatto terminare quello strazio, guadagnandoci un’occhiataccia da Stephen prima che mi guidasse al Cafè in cui andava sempre a pranzare. E a distanza di dieci giorni, durante i quali non erano mancate nuove minacce, ci trovavamo ancora una volta lì per far colazione. La bella insegna che recitava Illusions, dreams and farplane
[1] era spenta, ma riusciva comunque ad attirare talmente tanti clienti grazie ai suoi colori sgargianti che quasi me ne meravigliavo.
    Seduti a quello che avevo scoperto essere il solito tavolo di Stephen, scrutavamo entrambi il menù in silenzio, non volendo impelagarci momentaneamente in nessun tipo di discussione. Fuori aveva ricominciato a nevicare, e candidi fiocchi cadevano ad imbiancare le strade e i marciapiedi, cogliendo impreparate le persone che non avevano ancora trovato riparo. In quel Cafè dal gusto un po’ retrò si stava decisamente bene, invece, e l’atmosfera creata dal chiacchiericcio degli altri clienti e il calore che si diffondeva nel locale erano confortanti.
    «Cosa vi porto oggi, Steve?» Janet, la giovane cameriera che lavorava all’Illusion fino alle cinque del pomeriggio, si era accostata al nostro tavolo e sorrideva raggiante, stringendo a sé penna e blocchetto mentre fissava Stephen con occhi sognanti. Avevo capito sin dal primo sguardo che stravedeva per lui, ma il diretto interessato sembrava non averci fatto caso o non curarsene affatto. Con dispiacere della ragazza, c’era da aggiungere.
    Stephen alzò piano gli occhi dal menù e guardò me prima di spostarsi verso di lei, sorridendo appena in risposta per pura e semplice cortesia. «Per me il solito», disse, guardando nuovamente me subito dopo. «Tu cosa prendi?» mi chiese, e mi affrettai ad abbassare ancora una volta gli occhi sul menù per dare una scorsa alle cibarie.
    «Credo che prenderò la specialità della casa», annunciai, al che Janet si abbassò un po’ verso di me, ma solo dopo aver controllato attentamente che il capo non guardasse.
    «Detto fra noi, quella roba fa schifo», bisbigliò, nascondendosi la bocca con una mano per far sì che non la notassero. «Ti consiglio il bacon o le uova strapazzate. Sono decisamente più commestibili».
    Mi accigliai, ma mi sforzai di abbozzare un sorriso. «Vada per le uova, allora», rettificai, e lei si strinse contro i piccoli seni il blocco per gli appunti, accennando con il capo ad un saluto e facendo a Stephen quello che mi sembrò un occhiolino.
    Sebbene una minuscola parte di me si stesse rodendo il fegato di gelosia ingiustificata, mi lasciai sfuggire uno sbuffo ilare. «Tra voi non è successo niente o fai solo finta per non farla finire nei guai?» domandai con il tono più distratto che riuscii a trovare, ma ne uscì solo una pessima imitazione. Sembrava più il rimprovero di una moglie al marito che aveva appena guardato il sedere d’un’altra donna.
    Sollevando un sopracciglio e sistemando come se nulla fosse il colletto del giaccone che indossava - si era rifiutato di toglierlo anche se l’interno del Cafè era piuttosto caldo -, Stephen mi rivolse il primo sorriso malizioso e sarcastico che gli avessi visto da quando avevo messo piede in quell’universo parallelo. «Perché non provi a indovinarlo con i tuoi poteri, ciarlatano?» rimbeccò, tornando a studiarsi tranquillo il menù sebbene non ce ne fosse per niente bisogno. Un modo come un altro per dirmi di tenere la bocca chiusa, supposi. Forse - anzi, sicuramente, mi corressi - quelle mie scenate che puzzavano un po’ di gelosia erano fuori luogo.
    Janet tornò una quindicina di minuti dopo con tutto ciò che avevamo ordinato, compresi due bei caffè amari che offrivano come omaggio ad ogni cliente. Posò dinanzi a noi le rispettive pietanze, salutandoci ammiccante prima di scattare verso due tavoli più in là, dove una coppietta la stava richiamando con una mano. Nuovamente soli, o almeno per così dire, io e Stephen ci concentrammo solo sul nostro cibo, evitando ancora una volta qualsiasi tipo di conversazione.
    Fu una colazione noiosa e silenziosa, quella. Non parlammo nemmeno di come avremmo potuto agire riguardo a Margaret, come se quella, per il momento, dovesse restare una questione arginata. Eppure il tempo passava e noi non facevamo nessun progresso, mentre lei continuava a mandare i suoi messaggi enigmatici e le sue convocazioni per Stephen, alle quali lui non presenziava mai. Io ero ancora dell’idea di raccontare tutto alla polizia, specialmente da quando avevano tentato di sparargli e in seguito di investirlo - era successo quasi sei giorni addietro -, ma quello stupido era convinto che così facendo avremmo solo peggiorato la situazione. Non ero naturalmente d’accordo e cercavo di fargli cambiare idea da ormai dieci giorni, senza però ottenere nessun risultato considerevole. E più aspettavamo, più quelle sensazioni negative che imperversavano nel mio animo continuavano. Davanti ai miei occhi, ormai sempre più spesso, scorrevano frammenti di visioni che mi mostravano solo scene confuse e sfocate, come se si trattasse di una vecchia pellicola che non sarebbe mai più tornata nitida come un tempo. E più quelle visioni si presentavano, più la mia ossessione di porre fine a quella storia aumentava, spingendomi a divenire sempre più pressante nei confronti di Stephen.
    Dopo aver finito di mangiare, sorseggiai il caffè con una certa ansia, facendo saettare gli occhi a destra e a manca con fare guardingo, quasi mi aspettassi di veder piombare in quel Cafè un qualche pericolo per l’incolumità di quello che era ormai diventato il mio protetto. In altri momenti sarebbe stato divertente passare del tempo con Steve - il mio Steve, rettificai -, ma la situazione in cui io e quel sosia ci eravamo ritrovati non era di certo una delle migliori.
    «Se hai finito, possiamo andare», disse Stephen di punto in bianco, controllando il proprio orologio. «Oggi faccio volontariato in ospedale e non posso arrivare in ritardo».
    Ingollai un altro sorso di caffè, sollevando al tempo stesso un sopracciglio per rendere palese il mio scetticismo. «Fai volontariato?» gli domandai, lasciando trasparire dalla mia voce anche un pizzico di ammirazione. «Pensavo che, con tutti i soldi che avessi, te ne stessi tutto il giorno seduto su una poltrona in ufficio a dirigere chissà quale grande azienda».
    Steve sbuffò ilare, alzandosi in piedi mentre afferrava al tempo stesso il portafoglio dalla tasca interna del giaccone. «Diamine, mi sembra di sentir parlare mio padre, pace all’anima sua», constatò sarcastico. «Lavorare in ospedale, anche se occasionalmente, mi fa sentire... bene. In un ufficio appassirei senza aver mai fatto qualcosa per chi ne ha davvero bisogno».
    Per quanto morissi dalla voglia di farlo, lui non mi permise di aprir bocca, quando terminò; lasciò sul tavolo i soldi per pagare il conto, allontanandosi dal tavolino che avevamo occupato fino a quel momento per avviarsi verso l’uscita, senza farmi cenno di seguirlo né tanto meno richiamandomi per impormi di darmi una mossa. Non seppi perché lo fece, ma quello di cui fui certo fu ben altro: l’ospedale, per Stephen, era tutta la sua vita. E lo costatai anche quando ci ritrovammo dinanzi all’edificio stesso - di una maestosità tale da renderlo impressionante, con quel grande giardino e gli alberi sempre verdi innevati -, dove lui sembrò così diverso dallo Stephen che avevo visto fino a quel momento. Assegnato al reparto di pediatria, quando si ritrovava in compagnia dei bambini sembrava diventare una persona completamente diversa: rideva con loro, scherzava, cercava di tener alto il morale giocando o mostrando semplici trucchi di prestigio, incantando loro e anche me. Sally, una bambina sordomuta di quasi otto anni, sembrava essere quella che più si era legata a lui. Stephen aveva imparato il linguaggio dei segni per parlarle e capirla, instaurando con lei un rapporto speciale e profondo che andava avanti da due anni, ormai. La considerava come una sorellina da proteggere, e più lo vedevo muovere le mani e parlare a gesti, in quel momento, più non riuscivo a capacitarmi di quel suo lato che pareva dolce e sensibile. Forse con il mio Steve crederlo sarebbe stato più facile.
    Come gli altri volontari, passai le restanti ore ad occuparmi a mia volta dei bambini, raccontando loro storie fantastiche o grandi classici della letteratura. Mi inoltrai con loro nel tetro castello della Bestia, e seguendo i passi di Belle riuscimmo a spezzare l’incantesimo che gravava sul principe; ci immergemmo negli oceani più profondi, vivendo la tragica storia di una giovane sirenetta innamorata di un umano; cademmo insieme ad Alice nella tana del Bianconiglio, bevendo il the dal Cappellaio Matto e fuggendo dalle guardie di carta della regina di cuori, spaventati dalla consapevolezza che lei volesse tagliarci la testa; solcammo i mari alla ricerca del misterioso tesoro, intonando canzoni piratesche insieme al giovane Jim; volammo oltre i cieli di Londra, librandoci nelle correnti in compagnia di Peter Pan, che ci scortò all’Isola che non c’è dove conoscemmo pirati, indiani e bimbi sperduti
[2] ; e più raccontavo, più le espressioni allegre, stupite, spaventate e divertite dei bambini mi facevano sentire un piacevole calore all’altezza del cuore. Stephen si era persino preso volontariamente l’incarico di farmi da interprete per la piccola Sally, i cui occhi luminosi ed estasiati mentre narravo tramite Steve erano valsi più di mille parole.
    Mi dispiacque quando arrivò il momento di lasciare l’ospedale. Non mi ero più sentito così utile da quando avevo smesso di giocare a baseball, e la cosa mi rendeva felice come non lo ero più stato da tanto. E forse fu proprio quel sorrisetto inebetito che era spuntato sulle mie labbra a richiamare l’attenzione di Stephen, che mi picchiettò distratto una spalla come se volesse riportarmi alla realtà.
    Ci eravamo allontanati dall’ospedale solo di una ventina di metri, e intorno a noi si vedeva il vasto giardino che lo circondava, con i suoi alberi spogli e i cespugli ormai innevati che a primavera sarebbero stati un sicuro spettacolo. «Te la sei cavata bene», mi disse Stephen quando tornai con i piedi per terra. «Ci sapevi davvero fare, con i bambini. Hai moglie e figli, a casa?»
    Avrei risposto alla leggera se il mio cervello non avesse riattivato gli ingranaggi, facendomi capire per bene il senso di quella frase. Mi affrettai dunque ad agitare entrambe le mani in risposta, guardandolo stralunato. «Assolutamente no!» esclamai, nemmeno avesse appena detto un’eresia. E fu vedendo la sua espressione accigliata che cercai di fare pace con la mia boccaccia, provando a riformulare correttamente la risposta. «Nay, non ho famiglia», dissi in tono più calmo. «Però mi sono sempre piaciuti i bambini».
    «Quindi non c’è nessuno che aspetta il tuo ritorno?» mi chiese ancora, e nell’osservare quei suoi occhi verdi - così profondi, scintillanti e immoti - fui quasi tentato di rispondere semplicemente «Ci sei tu». Fortunatamente per me, però, mi trattenni, sebbene la voglia di farlo scorresse come fuoco vivo nelle mie vene.
    «Non è importante», tagliai lì il discorso, affrettando il passo per uscire il prima possibile da quel giardino. Attraversai il cancello senza attendere che Stephen mi seguisse, cosicché fu costretto a correre per raggiungermi, scalpicciando sulla ghiaia del vialetto.
    Mi si accostò quando ci ritrovammo entrambi fra le strade di quella bizzarra città così simile a Londra. «Perché parli in questo modo?»
    Perché? Semplice: pur preoccupandosi per me, probabilmente Steve non avrebbe provato la stessa ansia che avrei provato io se fosse sparito per giorni interi. Forse era stupido, ma continuavo ad aspettarmi che Steve si comportasse come un amante premuroso anziché come un amico fidato. Dio, mi facevo pietà da solo per quel lato del mio carattere. «Se te lo dicessi, non mi guarderesti più con gli stessi occhi di adesso».
    «Potresti provarci comunque, Juggernaut».
    Gli attimi di silenzio che passarono dal momento in cui lui pronunciò quella semplice frase parvero interminabili. Fermo e spaesato in mezzo al marciapiede, a ridosso di un paio di villette dai giardini coperti da un manto di neve, non ebbi il coraggio di voltarmi verso Stephen per guardarlo negli occhi, ma incredulo gli chiesi: «Come mi hai chiamato?»
    Percepii distintamente la tensione impadronirsi dei muscoli del suo corpo, come se ognuno di essi, tendendosi fino allo spasimo, fosse divenuto teso come una corda di violino e avesse provocato un suono stridulo che mi permise di sentirli. «Jonathan. Come altro avrei dovuto chiamarti?» ribatté, ma il suo tono sembrava incerto, come se nemmeno lui si fosse reso conto delle sue stesse parole. Era mai possibile che in realtà la mia mente avesse fantasticato, e che quel tono fosse dovuto allo stupore del mio quesito? Avevo forse immaginato tutto, dunque? La testa mi doleva ad ogni congettura, e continuare a pensarci non giovava come avevo creduto. Forse la soluzione più semplice era che stavo pian piano impazzendo.
    Abbassai le palpebre e mi portai entrambe le mani al capo per massaggiarmi le tempie con due dita, traendo un lungo sospiro. «Niente, niente. Lascia stare», gli dissi semplicemente, troncando così quella conversazione senza che Stephen replicasse o cercasse di far pressione per costringermi a parlare.
    Arrivammo dinanzi al cancello della sua villetta alle otto passate, con il sole che era ormai tramontato da un bel pezzo. Le uniche luci provenivano dalla lampadina sotto il portico di Stephen e dai lampioni disposti strategicamente su entrambi i marciapiedi che portavano alle case, ma non bastavano ad illuminare perfettamente la zona circostante, rendendola fredda e tetra più di quanto non lo sembrasse già. Era come se ogni ombra, suono o fruscio venisse irrimediabilmente stravolto, facendomi sentire come un bambino che ha paura di vedere se ci sono mostri sotto il letto. Avrei voluto cercare in quello Stephen la rassicurazione che mi occorreva, però sapevo che non avrei potuto farlo proprio perché lui non era il mio Steve. L’aveva ampiamente dimostrato appena poche ore addietro.
    Una volta aperto il cancello, attraversammo il vialetto lasciando profondi solchi nella neve che lo ricopriva come una sottile lastra di ghiaccio, e io ringraziai di aver indossato le scarpe adatte. Le mie solite nike sarebbero servite veramente a poco, lì. Stephen spalancò la porta di casa e premette l’interruttore, ed entrambi venimmo subito investiti dalla morbida e confortante luce arancione dell’ingresso, per quanto ci avesse accecati a causa di tutto quel tempo passato nella semioscurità. Mi liberai del cappotto rabbrividendo, sfregando fra loro le mani mentre con la coda dell’occhio seguivo i movimenti di Stephen, diretto verso il soggiorno come suo solito; affrettai il passo per raggiungerlo, ma lo trovai impalato a pochi metri da una delle poltrone e mi accigliai. Facendo qualche passo avanti, mi apprestai a chiedergli che cosa avesse, ma venni preceduto da una calda voce femminile che esordì con un: «Ce ne hai messo di tempo per tornare a casa, Steve».
    Non compresi subito da dove provenisse quella voce dalla cadenza così sensuale e smielata, vedendo poi una fluente chioma fulva fare capolino dallo schienale della poltrona rivolta verso il caminetto. Il viso che mi ritrovai ad osservare apparteneva alla donna più bella che avessi mai visto: non aveva quella bellezza tipica delle top model o delle ragazze di Play-Boy che ero abituato ad osservare, bensì quella delle donne d’altri tempi giovani e colte, di quelle che per apparire splendide non avevano bisogno di trucchi pesanti, ma solo di un velo di rossetto sulle labbra morbide e piene; i capelli, legati in un’alta crocchia composta, erano di un rosso acceso, simile a quello delle foglie d’autunno o degl’ultimi bagliori d’un sole morente. Ma erano gli occhi ad attirare maggiormente l’attenzione: d’un marrone così scuro d’apparire quasi nero, quegl’occhi nascondevano nei loro recessi un qualcosa d’indefinito e spaventoso, ma al tempo stesso così profondo ed ammaliante da lasciare sconcertati.
    Stephen, che non sembrava esserne rimasto abbagliato quanto me e se ne stava in disparte, serrò le labbra in una linea sottile al dir di quella donna. «Margaret», cominciò pacato, mettendomi così al corrente di chi ella fosse. «Chi ti ha dato il permesso di entrare in casa mia? Ma, soprattutto, come sei entrata e cosa ti ha spinto a presentarti di persona?»
    La risata di quella donna fu come acqua cristallina precipitata a valle dalla più alta sorgente rocciosa, uno scampanellio piacevole e terrificante. «Non credi sia ovvio, mio piccolo Steve?» lo schernì. «Le lancette corrono, tic tac».
    «Esci immediatamente da qui», le ordinò Stephen, e, mentre li ascoltavo, non potevo fare a meno di darmi dello stupido per non aver previsto quell’incursione. I miei pensieri sui sentimenti che provavo per Steve mi avevano offuscato la mente, e non mi avevano permesso di rendermi conto in tempo del pericolo imminente. Ero stato un perfetto idiota.
    Fu proprio in quel mentre che quella donna parve accorgersi anche della mia presenza, perdendo di poco d’occhio Stephen per voltarsi verso di me e sbattere le lunghe e graziose ciglia scure, rivelando la sua palese perplessità. «E tu chi saresti, di grazia?» mi domandò con cortese stupore, sebbene non avesse mancato di far trasparire dalla sua voce una nota educata. Beh, su quel punto era una vera signora.
    La guardai incerto, facendo scorrere lo sguardo dai suoi occhi di pece a quelli verdi di Stephen, quasi stessi chiedendo il suo permesso per risponderle. Quella donna mi trasmetteva una strana sensazione, la stessa che avevo provato nello sfiorare la maniglia della mia macchina. Era come se Margaret fosse avvolta da un’aura oscura che offuscava tutto il resto, facendo sì che mi sentissi inquieto come se avessi a che fare con uno psicopatico pronto ad accoltellarmi. Decisi però di togliermi il dente e risponderle per le rime, ma Stephen alzò un braccio e fece un cenno nella mia direzione, zittendomi. «Non occorre che tu sappia chi è», le sbottò contro, e io stornai bruscamente lo sguardo verso di lui.
    «Non ho bisogno che sia tu a parlare per me, Steve», replicai secco, enfatizzando il suo nome e venendo così fulminato da una sua occhiataccia.
    «Sta’ zitto e vedi di tirarti fuori da questa storia».
    «Ci sono dentro fino al collo, invece».
    «Tu non c’entri niente, adesso fa’ silenzio».
    «Discordia fra le file, Steve?» esordì sarcasticamente Margaret, intromettendosi senza remore nella nostra discussione. «Se tu e il tuo amichetto avete finito di chiacchierare, direi che potremo passare alle cose serie... non credi anche tu?»
    La rapidità con cui Stephen distolse lo sguardo da me per puntarlo verso di lei fu impressionante. Fece poi due passi nella sua direzione, incombendo sulla sua esile figura come un titano. «Io e te non abbiamo nulla di cui parlare, Margaret».
    «Ah, no?» fece lei, portandosi due dita alle labbra per accarezzarsi distratta quello inferiore, il viso rivolto in alto per far sì che i suoi occhi incrociassero quelli del suo interlocutore. Non potevo vederla con precisione, ma mi sembrava che quelle polle scure scintillassero di un qualcosa che sfociava quasi nella follia. «Mi risulta che tu abbia ricevuto la cortese visita dei miei legali, non è così?»
    «Non so di cosa tu stia parlando», ribatté fermamente lui.
    «Certo che lo sai, caro Stephen». Il tono pacato con cui aveva parlato fino a quel momento stava scomparendo pian piano, lasciando spazio ad una cadenza piuttosto irritata. «Ma hai deciso di ignorare deliberatamente la cosa, chiudendoti nella piccola utopia che ti sei creato. Adesso però è tempo di saldare il conto... la partita sta per concludersi».
    Non seppi perché, ma il modo in cui proferì quelle ultime parole fu capace di farmi rabbrividire da capo a piedi più del freddo pungente proveniente da fuori, rizzandomi i peli sulla pelle. Provai quindi a richiamare Stephen per farlo indietreggiare, ma né lui né Margaret sembrarono prestarmi attenzione. Era come se si trovassero entrambi in un mondo costruito appositamente per loro, un mondo fatto di inganni, intrighi e pianificazioni di mosse, quasi stessero entrambi giocando una pericolosa partita a scacchi. Però non mi arresi, avvicinandomi io stesso per strattonare Stephen, incassando le colorite imprecazioni che rivolse al mio indirizzo mentre tenevo lo sguardo fisso su Margaret. «Le converrebbe fare quanto detto poco fa e lasciare questa casa, signorina», cercai di persuaderla, tentando di essere il più cortese possibile e di evitare al tempo stesso di fare in modo che il senso di inquietudine dentro di me scemasse.
    Il sorriso che Margaret mi rivolse, però, fu solo capace di far divampare ancora una volta quella sensazione, come se fosse un fuoco addormentato sotto le ceneri. La vidi scostarsi dal viso qualche ciuffo ribelle di capelli rossi che era sfuggito alla crocchia, sistemandosi la borsetta sottobraccio e lisciandosi il bel vestito nero che indossava. «Dunque è così, caro Stephen?» chiese, scostando lo sguardo verso di lui così lentamente da risultare snervante. «Tu e il tuo amichetto volete che me ne vada a mani vuote, senza nemmeno che mi sia presa una piccola fetta di ciò che mi spetta?»
    Quella sua costatazione strappò a Stephen un’amara risata. «Qui non c’è niente per te, Margaret. Quel pezzo di carta a cui aneli così disperatamente resterà qui. Per quel che mi riguarda, puoi anche andare a fare in culo».
    Nel sentirlo, un mesto sospiro sfuggì dalle labbra di Margaret, e, dopo aver stretto a sé la piccola pouchette e abbassato le palpebre dalle lunghe ciglia, guardò nuovamente Stephen con quei suoi profondi occhi neri. «Sappi che mi ci hai costretta tu», asserì, infilando una mano nella borsetta per tirar fuori una pistola con una destrezza unica, con la stessa abilità con cui un prestigiatore tirava fuori un coniglio dal cilindro. Una calibro 22, una vera arma per signore, apparve quasi per magia nelle mani di Margaret, che divaricò le gambe come se si stesse preparando a far fuoco.
    Io e Stephen indietreggiamo e trattenemmo esclamazioni di stupore e terrore, tenendola d’occhio con una sincronia che quasi mi parve impossibile. «Metta giù la pistola,» la esortai, alzando lentamente le mani per rivolgere i palmi verso di lei, come se volessi spingerla ad abbassare la canna, pericolosamente puntata su di me. «Non è necessario, mi creda».
    «Che intenzioni hai, Margaret?» domandò invece Stephen, con un’ombra di preoccupazione nella voce sommessa. E come dargli torto? Ero terrorizzato anch’io.
    Lei, però, non parve dare ascolto a nessuno dei due, facendo saettare lo sguardo dall’uno all’altro con fare stralunato. «Mi ci hai costretta tu», ripeté, e nonostante la sua espressione la sua voce suonò piatta e incolore. «Sei stato tu a dire che avrei dovuto strappare il contratto dalle tue fredde dita, ed è esattamente ciò che ho intenzione di fare», puntò la pistola contro di lui. «Scacco matto, Stephen. Fine della partita».
    Nel silenzio in cui la casa era immersa, la detonazione risultò assordante. Il susseguirsi degli eventi sembrò quasi come vedere un film a rallentatore: vidi il proiettile sputato fuori dalla canna fumante della pistola; il sorriso sardonico e folle dipinto sulle labbra di Margaret; Stephen che tentava di scartare di lato per evitare il colpo, gettandomi a terra con uno spintone mentre mi urlava qualcosa di disarticolato. Tutto parve finito, ma cantai vittoria troppo presto: un altro sparo risuonò cupo alle nostre orecchie, seguito dalla voce suadente di Margaret.
    Nella momentanea sordità, riuscii a sentirla a malapena, ma non furono le sue parole ad attirare la mia attenzione, bensì il modo in cui Stephen si premeva una mano sul petto, senza fiato. Quella stessa mano se la portò poi dinanzi al viso, osservando il sangue che la macchiava come se non se ne capacitasse. E anch’io mi rifiutai di credere a ciò che stavo osservando con completo orrore, terrorizzato.
    «Steve!» urlai con tutto il fiato che avevo in gola, così tanto da infiammarmi le corde vocali, vedendo gli occhi sbarrati di Stephen fissarmi per un’ultima volta prima che lui cadesse riverso al suolo. Boccheggiante e stravolto dal dolore, ebbi appena il tempo di voltarmi di scatto in direzione di Margaret prima che il mio mondo si riducesse unicamente alla bocca della sua pistola.





[1] Anche se il nome sembra del tutto casuale - farplane è ad esempio il modo in cui viene chiamato l’Oltremondo in Final Fantasy X -, sarà possibile capirlo solo dopo aver finito di leggere l’intera storia, o almeno quella è l’intenzione.

[2] Le opere prese in considerazione, in ordine come sono state citate, sono le seguenti: “La Bella e la Bestia” di Jeanne-Marie Leprince (1757) ; “La sirenetta” di Hans Christian Andersen (1836) ; Alice in Wonderland” di Lewis Carrol (1865) ; “L’isola del tesoro” di Robert Louis Stevenson (1883) e “Peter Pan” di James Matthew Barrie (1902).  Ognuna delle storie citate ha la trama originale non riveduta dalla Walt Disney.


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Capitolo 5
*** [ Atto V › St. Charles, Agosto 2001 ] Epilogo o prologo? ***


Breaking_5
ATTO V: ST. CHARLES › AGOSTO 2001
EPILOGO O PROLOGO?
 
    R
icordavo che avevo cominciato a piangere. E non per paura che quella donna mi sparasse, nay, non era stato affatto per quello. Piangevo per Stephen, quello Stephen che aveva lo stesso volto del mio miglior amico. Era morto dinanzi ai miei occhi senza che io potessi far nulla per impedirlo, nemmeno grazie a quel mio dono di poter vedere gli avvenimenti futuri, che non era servito a niente nel momento del bisogno. Stephen adesso non c’era più, e la colpa era mia. Solo mia.
    Ad occhi chiusi, con le lacrime che sgorgavano copiose e mi rigavano le guance, mi accasciai su me stesso e cominciai a dondolarmi avanti e indietro a braccia conserte, sussurrando più e più volte il suo nome come se potesse servire a riportarlo in vita. Troppo immerso nella mia sofferenza, non mi ero nemmeno accorto che i miei mormorii erano cresciuti di intensità e che qualcuno aveva cominciato a scuotermi, quasi volesse cercare di risvegliarmi da un lungo sonno. Se era quella donna, Margaret, a scuotermi, che ragione aveva di farlo? Avrebbe potuto benissimo togliermi di mezzo in quel momento, approfittando del mio attimo di debolezza. Conoscevo troppe cose per essere lasciato in vita, lo sapevo io come lo sapeva anche lei. Quegli scossoni, però, sembrarono continuare, e ad essi si erano aggiunte due o più voci che credevo di conoscere, sebbene provenissero da molto lontano e giungessero alle mie orecchie basse e ovattate.
    Fu con una certa difficoltà che riuscii ad alzare le palpebre, come se avessi tenuto gli occhi chiusi per lungo tempo. La mia visuale si ridusse pian piano da un unico punto bianco ad una distesa candida, intervallata da due sagome scure di cui non riconobbi i lineamenti. Sentii però intorno a me dei mormorii concitati e quelli che parvero sospiri di sollievo, poi dei passi che si allontanavano sempre più prima di sparire del tutto. La sola figura che rimase cominciò a farsi più nitida a poco a poco e, nonostante non riuscissi ancora a figurarmi il volto, fui più che certo che quella che mi aveva appena sfiorato fosse una mano.
    «Jonathan... oddio, Johnny», sussurrò ancora quella voce strozzata, quasi si stesse trattenendo dal piangere. «Grazie al cielo hai aperto gli occhi».
    Mi sentivo la testa pesante e mi sembrava di respirare a fatica; avevo un forte dolore al costato, come se qualcuno mi avesse da poco sferrato un pugno, e anche il braccio sinistro sembrava un ricettacolo di sofferenza. Ci misi una manciata di minuti buoni a capire che quello che mi osservava con tanta apprensione era Steve, e che quello in cui mi trovavo era un letto d’ospedale dalle coltri bianche. Ricordava così maledettamente quel giardino innevato...
    Nel rammentare ciò provai a scattare a sedere, dandomi dell’idiota non appena sentii una fitta lancinante alle costole mentre Steve mi rimetteva giù, inveendomi contro e dandomi del cretino. Beh, non me la sentivo proprio di dargli torto. «Dove... dove sono?» chiesi con un fil di voce, sentendomi la gola secca. Che cosa diavolo era successo? Quel che ricordavo era Margaret che ci attendeva in salotto, il momento in cui lei tirava fuori la pistola, Steve a terra colpito al petto... «Tu», sussurrai nel momento stesso in cui il mio cervello riuscì a mettere insieme quei pensieri, «tu sei appena morto».
    «Che stronzate vai dicendo?» rimbeccò lui con una nota lievemente isterica. «Sei tu che hai rischiato di morire, idiota! Io e i ragazzi ti abbiamo aspettato allo stadio per ore, anche dopo la partita».
    Allo stadio? La partita? Cercai di pensare con più lucidità, ma mi risultava piuttosto difficile, specialmente non riuscendo a capire come fossi finito lì. «Tu sei morto», ripetei insistente, conscio di ciò che avevo visto. A meno che non fossi tornato al mio tempo, quello doveva essere soltanto un sogno. «Stavo... stavo venendo a casa tua quando è successo», bisbigliai lamentoso fra me e me, affondando la testa fra i cuscini. «
È successo di nuovo, io sono sparito e sono stato sbalzato nel giardino dell’altro te stesso, poi tu sei... tu sei morto e...» non riuscii a continuare, sia a causa delle lacrime che minacciavano di farmi morire la voce in gola, sia per la mano di Steve - così calda, viva, rassicurante - che mi carezzava dolcemente i capelli.
    «Va tutto bene, Johnny, va tutto bene», mormorò comprensivo, come una madre che rassicurava il figlio. «Hai subito un grande shock e sei rimasto privo di conoscenza per ore, è normale che tu adesso sia confuso. Vado a prenderti un po’ d’acqua e vedo di chiamare un dottore, okay?» soggiunse poi, scostandomi qualche ciuffo dalla fronte. «Tu, però, cerca di calmarti e di fare un bel respiro. 
È stato soltanto un brutto sogno», mi carezzò ancora una volta la testa come se fossi un bambino, regalandomi un sorriso raggiante prima di dirigersi verso una porta che sulle prime non avevo visto, sparendo oltre la soglia.
    Rimasto solo, cercai di rimettere insieme i pezzi mancanti dei miei pensieri. Ero partito alla volta della casa di Steve e avevo avuto un incidente prima di compiere quel mio viaggio che mi aveva sbalzato fuori dal continuum spazio-temporale, dunque poteva anche essere plausibile che, tornando indietro, mi avessero trovato in auto privo di sensi e avessero pensato che fossi svenuto a causa dello shock; il particolare che non quadrava, però, era ciò che mi aveva detto Steve: come poteva essere possibile che, secondo lui, dovevamo vederci allo stadio? Quello era successo più di un anno addietro, e... frenai di botto il flusso di quei miei pensieri, sgranando di poco gli occhi. Ero tornato a quel momento oppure era stato tutto un sogno? Qual era la verità, perdio? E se davvero era stato tutto un sogno, perché sembrava ancora così nitido e reale? Più ci pensavo, più mi scoppiava la testa.
    Passai il resto del tempo a riflettere su tutto, cercando di capire quante cose avessi già vissuto e visto, forse nel vano tentativo di convincere me stesso che non era stato tutto un sogno: volgendo lo sguardo alla finestra, potevo vedere le stesse tende azzurre con quella macchiolina gialla che si muovevano pigramente al vento; il letto vuoto accanto a me, sfatto e dalle lenzuola bianche, con il cuscino riverso un po
verso il basso; persino i fiori sul comodino li conoscevo, e non avevo bisogno di contare le rose per essere certo che fossero precisamente dodici. Però c’era qualcosa che mancava, e non ci misi molto a capire cosa: non vedevo più quei sottili fili che di tanto in tanto dardeggiavano dinanzi ai miei occhi, dunque qual era la verità? Dirlo sarebbe stato difficile, e ancor più quando rientrò Steve, seguito da Dean. Stan, il più grande del gruppo, reggeva in una mano il filo di quattro palloncini azzurri con decorazioni rosse e gialle, ed anche quella fu un’immagine che ricordai d’aver già visto. All’appello mancava solo Matthew, il fratello di Stan.
    «La prossima volta veniamo a prenderti noi per portarti in campo, Juggernaut», provò a sdrammatizzare Dean mentre Steve posava accanto ai fiori il bicchiere d’acqua che aveva portato. «Non si può però dire che tu non faccia onore al tuo soprannome».
    «Lascialo in pace per cinque minuti, Dean», lo apostrofò Stan. «Si è appena svegliato, non ha bisogno del tuo sarcasmo».
    «Lodati siano gli airbag!» esclamò Dean in risposta, e lo vidi alzare le mani per rivolgere i palmi aperti al soffitto. Mi venne da ridere, ma mi trattenni solo perché quando ci provai sentii nuovamente dolore al costato. Dunque mi limitai a sorridere, ma, prima ancora che riuscissi a dire qualcosa, fui preceduto da Steve, che zittì gli altri due con tono falsamente arrabbiato, come se volesse più spronarli a darmi pace che a richiamarli. Stan e Dean scrollarono appena le spalle e, dopo aver legato i palloncini al letto, Stan mi salutò trascinandosi dietro Dean, che oppose finta resistenza mentre agitava una mano verso di me.
    Quando restammo soli, Stephen volse lo sguardo verso di me, abbozzando un sorrisino. «Matthew è andato a chiamare un medico», mi disse semplicemente. «Intanto ci ho pensato io ad informare Tony dell’accaduto».
    Tony era stato il mio allenatore quando giocavo a baseball, ma mi rifiutavo di credere che fossi tornato indietro o che fosse stato tutto un semplice sogno. «Tony sa già quel che è successo», mi convinsi cocciuto, facendo arcuare a Steve le sopracciglia. «I legamenti del mio braccio sono ormai fuori uso e non potrò più giocare».
    «Cosa stai dicendo, Johnny?» rimbeccò lui, accigliato.
    «Tutto questo è già accaduto», insistetti, cominciando a guardarmi freneticamente intorno mentre cercavo di ricordare cosa fosse successo in quell’esatto momento la prima volta che avevo vissuto quella scena. Quando ci riuscii, aggiunsi, «Tra non molto entrerà il dottore, mi comunicherà che il mio braccio è andato e che non potrò più giocare a baseball», e detto ciò attendemmo in silenzio, come se nessuno dei due volesse rompere quella bizzarra quiete con parole inutili e domande superflue.
    Nulla di ciò che avevo detto, però, accadde, e io ne restai sorpreso. Com’era possibile che mi fossi sbagliato? Il medico era sì venuto, pochi minuti dopo, ma mi aveva solo detto che avrei potuto lasciare l’ospedale il giorno seguente, non avendo subito gravi lesioni a parte qualche graffio al viso e dei lividi su petto e schiena. L’incidente non era stato violento ed avevo perso i sensi solo a causa dello spavento, a suo dire. E non potei fare a meno di pensare che ci fosse qualcosa di sbagliato, in tutto ciò. Ricordavo un incidente mortale, un incidente in cui la mia mustang si era quasi accartocciata e io avevo rischiato di morire poiché il mio cuore aveva smesso di battere per quasi un minuto. Non potevo aver immaginato anche quelle cose.
    «Sentito il gran capo, Juggernaut?» mi richiamò la voce di Steve, e quando mi voltai verso di lui lo vidi sorridere. «Domani potrai tornartene a casa. Per il momento cerca di riposare e di non pensare più a quel brutto sogno. Adesso è tutto finito».
    Adesso è tutto finito. Ripetei più e più volte nella mia mente quelle parole come se cercassi di convincere me stesso che fossero vere, non riuscendo però a capacitarmi di quanto fosse accaduto fino a quel momento. Era stato davvero tutto un sogno? Avevo forse visto il futuro? Se così era stato, non avrei permesso che niente di ciò che avevo veduto si avverasse, né tanto meno che Stephen morisse senza che io potessi far nulla per impedirlo.
    Eravamo padroni del nostro destino e non ci saremmo fatti piegare da esso, affrontandolo invece con spavalderia e coraggio. E se ciò che avevo da poco vissuto era destinato ad accadere realmente, un giorno, avrei fatto in modo che le cose si svolgessero diversamente. Parola di Jonathan Wilson.

 
 
    N
on si è mai certi di ciò che la vita ti riserva finché non ti accadono le cose più impensabili. Il mondo è come un antro oscuro che nasconde nel suo ventre l’orribile verità dell’essere, e, quando alla fine scopri questa verità, concentrarsi sullo scorrere del tempo diventa snervante. Vedi le stagioni che passano, gli anni che corrono via veloci come un treno sulle rotaie, lo sfiorire della giovinezza che pian piano lascia spazio all’età della saggezza. Lo sai, lo percepisci, te ne rendi persino conto, ma quasi ti rifiuti di accettarlo. A me era successo proprio questo.
    Di tanto in tanto faccio persino dei sogni in cui rivivo il mio primo incidente, quello in cui avrei dovuto essermi rotto un braccio. Sono alla guida della mia mustang, la radio trasmette Stand by me di King e accanto a me c’è anche Steve, che la canticchia tranquillamente sottovoce. Ridiamo e scherziamo come due liceali, ma quel momento viene interrotto dalle luci accecanti di un’altra autovettura dinanzi a noi, che ci viene addosso ad una velocità disarmante; Steve ha appena il tempo di urlarmi qualcosa e sterzare lui stesso, poi quello che mi circonda è solo il buio totale. La parte peggiore del sogno è lo scenario di morte e desolazione che mi si presenta davanti subito dopo: fiamme sull
’asfalto, sangue sul cruscotto e sui sedili, qualcuno che grida in modo disarticolato e le sirene delle ambulanze che squarciano il silenzio della notte.
    Quando mi sveglio, ho sempre le lacrime agli occhi e la frase «I won’t be afraid just as long as you stand by me», l’ultima strofa che Steve ha cantato prima che il mondo ci crollasse addosso, mi vortica insistentemente nella testa, peggiorando soltanto la situazione e mostrandomi ancora una volta gli occhi sbarrati e vuoti di Steve. Però la verità è che la parte più profonda di me lo sa fin troppo bene cos’è successo. Il mio miglior amico era morto un paio d’anni prima ed io avevo inconsciamente insabbiato l’accaduto, rifugiandomi in quel mondo fatto di nebbie e di ricordi per non rammentare ciò che avevo veduto e vissuto, mescolando il reale all’immaginario, fondendo la verità alla bugia.
    Ed è portando questi fiori su quella tomba bianca e senza nome che ancora me lo domando: può essere davvero possibile distinguere un sogno dalla realtà? Perché io forse sto ancora sognando, e se così fosse... per favore, non svegliatemi. Lasciatemi continuare a sognare.

 
 
 
BREAKING THE WORLD
FINE








_Note conclusive (E inconcludenti) dell'autrice
Questa storia è stata scritta per il contest “Scacco matto!indetto da Fe85, e si è classificata Prima.
Ammetto che è stata piuttosto travagliata. Nata senza una vera e propria trama di base, capisco poi benissimo che essa possa presentarsi piuttosto strana agli occhi del lettore. Lo era anche per me mentre la stendevo, sul serio. L'unica cosa che c'è da spiegare è la divisione comportata da questi simboli ❦※❧ giacchè la trama risulterebbe ancor più incasinata se non buttassi giù due righe in queste note ora che la storia è conclusa.
Quelle due parti sono unite e rappresentano la chiave centrale di tutto il racconto, in realtà. Diciamo che si possono considerare come il vero e proprio prologo/epilogo sul quale la storia si basa, e che esso metta qualche dubbio in più al lettore: è stato sul serio solo un sogno fatto da Jonathan, quello iniziale, o lui è rimasto così scioccato dall’accaduto che ha immaginato tutto, incluso il suo amico Stephen ancora in vita e tutto ciò che ne concerne? Il suo subconscio, anche tramite i riferimenti che spargeva ovunque - il nome del Cafè, tanto per dirne uno -,
ha forse cercato di fargli capire che qualunque cosa cerchi di fare il suo amico è destinato a morire, o forse anche quella era una prova? Spetta soltanto a chi legge capirlo e deciderlo. Chiusa questa piccola parentesi, vi lascio al commento della giudice e spero vivamente che sia piaciuta e che seguirete anche lo spin off di questa storia su cui sto lavorando.

GIUDIZIO
Grammatica e Sintassi: 9/ 10

Ti ho penalizzato leggermente perché non mi sono imbattuta in errori gravi, bensì di distrazione.
-“Là fuori avrò perso il tempo dei minuti che passavano.”→ “il conto dei minuti”;
-“Sarei persino scoppiato in una risata isterica se non mi fossi trovato a telefono proprio con lui.”→ “al telefono”;
-“quegl’universi”→ trovo che l’apostrofo stoni, usa tranquillamente la forma per esteso;
-“un ricco mercante inglese che aveva fatto fortuna in poco grazie alle sue particolari doti linguistiche”→ “in poco tempo”;
-“Fu il picchiettare di nocche contro legno che mi richiamò”→ “contro il legno”;
-“si lasciò sfuggire uno sbuffò palesemente”→ “uno sbuffo”;
-“ Fu una colazione noioso”→ “noiosa”;
-“specialmente da quando avevano tentato di spararlo”→ “sparargli”;
-“ Come gli altri volontari, decidi di passare le restanti ore ad occuparmi a mia volta dei bambini”→ “decisi”;
-“E anch’io mi rifiuta di credere a ciò che i miei occhi mi stavano mostrando.”→ “rifiutai”;
Per il resto tutto perfetto, comprese la punteggiatura e la sintassi.

Stile e Lessico: 10/10

Attenzione ai gerundi che a volte appesantiscono la struttura della frase come in questi due casi:
-“Mi drizzai a sedere di scatto sentendo tutti i muscoli indolenziti dolere da impazzire e le ossa scricchiolare sinistramente, tentando al tempo stesso di riscaldarmi come potevo e mettere a fuoco il luogo in cui mi ero ritrovato.”;
-“ regalandomi un sorriso raggiante prima di dirigersi verso una porta che sulle prime non avevo visto, sparendo oltre la soglia”.
Stile fluido, scorrevole ma ricercato allo stesso tempo, unito ad un lessico eterogeneo e particolareggiato rappresentano una delle carte vincenti di questa storia. Una menzione speciale alla tua capacità descrittiva per quanto concerne gli ambienti e le sensazioni dei protagonisti, nonché alla cura che hai dimostrato nel destreggiarti tra varie epoche e nazioni: tra le tue righe, infatti, ho ritrovato molti elementi della cultura americana, nonché di quella inglese. Evocativo anche il riferimento al quadro di Van Gogh.

Trama/ Originalità: 20/20

Onestamente, non so da dove cominciare ad elencarti ciò che mi è piaciuto di più di questa storia. Tutto può bastare? Ho amato ogni singola parola, ogni singola frase, introduzione compresa ed è proprio su di essa che si è calamitata la mia attenzione.
Ho deciso di premiarti assegnandoti il massimo punteggio perché hai saputo metterti in gioco, sperimentando qualcosa di innovativo e originale, ed era proprio l’originalità che mi aspettavo emergesse dai vostri racconti.
A mio parere, il punto di forza di questa storia, oltre l’ottima padronanza lessicale, è proprio il velo di mistero che la permea, lasciando libera interpretazione al lettore, che da semplice spettatore si trasforma in un vero e proprio “critico” che avanza le sue ipotesi riguardo l’evolversi della vicenda. Inoltre, non manca quel sottile velo di ironia che vivacizza il tutto, mantenendo vivo l’interesse. In alcuni passaggi, ho avuto quasi l’impressione che i personaggi fossero delle marionette, vittime ignare di un gioco crudele e guidate da una mano invisibile; non so spiegartelo, ma mi sembrano parte di un progetto più grande di loro. Da amante dei dettagli quale sono, mi è piaciuta anche l’impostazione grafica e la tua spiegazione riguardo al simbolo usato che si ricollega alla storia.
Tuttavia, devo farti i complimenti anche per il modo in cui hai trattato la neve, richiamandola spesso nella storia, persino nel “presente”. La malinconia è provata sia da Steve nel momento in cui racconta del fratello deceduto, sia da Johnny quando ripensa alla sua carriera ormai finita. Effettivamente, per la questione dei mondi paralleli ho pensato ad un probabile collegamento con Final Fantasy, ma tu hai saputo rendere tuo questo concetto, personalizzandolo. E’ buffo, inoltre, notare che le parti si siano invertite: nel “presente” è Steve ad essere protettivo nei confronti dell’amico, mentre nel “passato” è esattamente il contrario. Il sosia di Steve (oddio, che casino XD) hai i modi di fare di un orso: è burbero, scostante e, non essendo bravo a parole, preferisce agire coi fatti. Johnny, invece, è inizialmente intimorito da ciò che gli accade intorno, e ne acquista la consapevolezza col progredire della vicenda, così come capisce che i suoi sentimenti nei confronti dell’amico sono mutati. Passiamo brevemente a parlare di Margaret: intrigante la tua scelta di far pronunciare a lei, un personaggio secondario, la frase “Scacco matto!”, anche se in quel frangente è proprio lei ad avere il coltello (o meglio, la pistola) dalla parte del manico. Con pochi ma essenziali passaggi sei riuscita a rappresentarla sapientemente, mostrando la sua sagace crudeltà.

Giudizio Personale: 5/5

Come si evince dalla valutazione, ho amato la tua storia, tanto che non sono riuscita a staccare gli occhi dallo schermo durante la lettura, curiosa di scoprire il modo in cui si dipanasse la trama e la conclusione. Ciò che è successo a Johnny è stato un sogno? E’ la realtà? Chi può dirlo…
La confusione che tanto disorienta il lettore è ciò che ti spinge a proseguire nella lettura e ad affezionarti ai tuoi personaggi, a parteggiare per loro. Nulla è scontato, nulla è banale, questa storia sprizza originalità da tutte le righe.

Punteggio: 44/45




Alla prossima ♥
_My Pride_



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