I love you just the way you are. di Human_ (/viewuser.php?uid=93370)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I'd make you coffee on a rainy morning. ***
Capitolo 2: *** Apple pies and tablecloths. ***
Capitolo 3: *** You are colorful. ***
Capitolo 4: *** Sing for me. ***
Capitolo 5: *** You're so beautiful to me. ***
Capitolo 1 *** I'd make you coffee on a rainy morning. ***
Nota
pre-capitolo: Il nome della protagonista va letto
all'inglese,
Daiana.
I'd
make you coffee on a rainy morning.
Diana
aveva spesso quella strana sensazione, come d'essere osservata, ma in
un modo diverso, e si sentiva nuda, dietro quello sguardo che
percepiva solo, e la cosa, stranamente, a lei che si nascondeva nelle
felpe di suo padre respirandone l'odore per nascondersi dagli sguardi
della gente, faceva piacere. Si sentiva quasi lusingata, da quegli
occhi spesso invisibili che la studiavano, occasionalmente, ed uno
strano formicolio la prendeva lo stomaco le mani ed il naso
(formicolava il naso, a Diana) ed in quei momenti lei era felice, e
quindi splendida.
«So
che mi stai guardando» mormorò, portandosi subito
una mano sul
collo nudo avendo sentito il leggero bruciore e sorridendo appena, ma
senza aprire gli occhi.
Una
risata lieve, appena accennata, e due dita che leggere le scostarono
un ciuffo dalla fronte e raggiunsero il collo, accarezzandolo
dolcemente. «Ti amo perché dormi con la bocca
aperta e ogni mattina
ti svegli con il mal di gola».
Mugugnò
qualcosa, lei, e si strinse al corpo di Johnny, contatto di pelle
nuda e calda,
e di anime nude e pure,
ed il braccio di Diana che scivolava lento sul fianco destro di lui
per raggiungere la schiena ed accarezzarla, creandogli brividi che
raggiunsero presto anche lei, portandola ad aprire gli occhi, e nel
verde di quelli grandi di Johnny trovò un prato che
profumava di
qualcosa mai visto – terribile mancanza.
Fecero
incontrare le loro labbra, ed altro non fu che l'ennesima fusione di
due anime non affini ma complementari, e quell'incontro –
senza
fretta – di lingue ancora assonnate fu l'alba dei loro
giorni, che
finalmente iniziavano bene, con loro due nella stessa città,
nella
stessa casa, nello stesso
letto,
e magari il mondo
fuori li avrebbe massacrati, ma loro sapevano d'essere insieme,
sempre, e allora lo disse pure Walt Whitman che il resto del mondo
non contava.
Johnny
si staccò, lentamente, e le portò una mano sulla
guancia ora
accaldata, sorridendole, pieno di qualcosa che sfugge ai
più, e
restò un attimo così, mentre entrambi ascoltavano
il suono della
pioggia che colpiva piano le finestre, quasi a non volerli
disturbare, perché loro due altro non erano che l'ennesima
meraviglia di Londra, ed il cielo lo sapeva.
«Ti
preparo il caffè» le disse, ed un bacio sulla
fronte anticipò il
suo viaggio verso la cucina.
E
Diana sorrise, felice, davvero felice, e un piccolo sole
spuntò su
Londra quando l'odore della bevanda nera invase la casa, anche se non
smise di piovere, perché Joh a lei l'aveva detto quando
ancora tutto
ciò che
avevano era un amore senza particolare contesto: «Ti
farei il caffè in una mattina di pioggia», e
quel profumo di caffè misto a promesse mantenute
entrò nelle narici
di entrambi, cucendo definitivamente la ferita del mondo di cui
parlava Baricco.
Johnny
entrò in camera con le tazze in mano, ed un pacco di
biscotti
incastrato tra il braccio ed il busto, con un sorriso che Diana
sperò
non se ne andasse mai.
«È
finito il succo» disse, dispiaciuto ma senza il minimo di
colpevolezza, perché loro nelle colpe e nel peccato non ci
credevano, avevano fede solo nei fatti, ed il suo dispiacere era per
Diana che si faceva passare il malessere mattutino con l'acidognolo
del succo di frutta.
Lei
gli sorrise e sollevò le spalle, tirandosi su a sedere,
afferrando
la sua tazza bianca colma di caffè nero, senza latte e senza
zucchero, lasciando a Johnny il suo the alla vaniglia, ché
in loro
due le convenzioni non esistevano, e a lui piaceva il dolce e a lei
l'amaro, lui era quello paziente e lei quella dallo scatto facile, e
entrambi s'amavano in pari misura, in una continua gara a chi
venerava più l'altro, e questo era forse lo straordinario.
«Joh,
ma te l'ho mai detto che hai degli occhi bellissimi?» gli
chiese,
con le labbra che già sapevano di caffè, e lui
sapeva che se
l'avesse baciata in quell'esatto istante avrebbe anche imparato ad
amare la caffeina più d'ogni altra cosa al mondo, e invece
le
sorrise, portandosi il suo the alla bocca e ne prese un sorso,
permeando la sua lingua di dolcezza, e Diana pensò che non
c'era
cosa più bella al mondo del suo Joh –
suo,
meravigliosa parola
– che beveva the alla vaniglia in una mattina piovosa sotto
al
cielo di Forest Hill.
Johnny
le sorrise, in quel modo che le faceva sempre perdere un battito, che
chissà dove andava, e si portò una mano tra i
riccioli scuri. «È
che ti guardo tanto».
Ooookay,
la spiegazione della raccolta è tutta nell'introduzione,
quindi
direi che è il caso di parlare un po' della prima shot, mh?
L'ho
scritta a scuola durante l'ora di matematica, con la mia compagna di
banco che ogni secondo m'interrompeva chiedendomi “Ma
lì non ci va
il valore assoluto?” o “Aspetta, ma qui
è più o meno radice di
tre?”.
Ha
messo a dura prova il mio karma, ché le volevo rispondere
“MACAZZONESOIOCHIEDIALLAPROF, faccia di merda”, ma
mi son
trattenuta. Come son brava.
Quindi
niente, se vi fa schifo picchiate lei –poverina, neanche
fosse
realmente colpa sua.
Nient'altro
di rilevante da dire, è una cosa molto sdolcinata ed
inutile, però
mi piaceva un sacco l'idea.
C'è
un'altra raccolta, a cui sto lavorando da un po' e che credo di
postare a breve, anche perché ho già due shot e
mezzo pronte, ma
insomma niente, non ve ne parlo, tanto sarà a presto qui su
EFP.
Ora
mi eclisso, in attesa di un po' di pareri, anche di un paio di
pomodori, perché no?, mentre mi dedico ai miei compiti di
matematica. Che giuoia.
Human_ (che
ha un taglio sul labbro che le brucia come il culo d'un
babbuino. –ai babbuini brucia il culo, vero?–).
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Capitolo 2 *** Apple pies and tablecloths. ***
Apple
pies and tablecloths.
«Che
hai combinato lì?».
Il
tono sorpreso di Charles le strappò un sorriso.
Elizabeth
sorrise, voltandosi lentamente verso la porta d'ingresso, come se non
avesse smania di rivederlo, dopo una lunga giornata come quella.
«Ho
comprato un nuovo quadro» rispose, la voce dolce, come sempre
era
stata, capace di restituire a Charles il sorriso anche quando avevano
scoperto d'aver perso tutti i loro soldi in banca – ma
cosa
gliene fregava a Charles, dei soldi, se Elizabeth gli sorrideva
così?
«Beh,
questo lo vedo» borbottò, sfilandosi il cappotto
ed appendendolo
accanto alla porta in legno con il suo cappello nero, il tutto con lo
sguardo fisso sulla moglie che si allontanava dal suo nuovo quadro
impressionista sul muro del corridoio.
Lei
gli si avvicinò lentamente, trascinando i piedi,
osservandolo con i
suoi occhietti chiari e gli angoli della bocca all'insù, e
gli
accarezzò una guancia. «Com'è andata al
lavoro, tesoro?».
Fece
un gesto con la mano, come a scacciare una mosca. Il solito gesto di
sempre, di ogni sera, quando avrebbe tanto voluto dirle Amore,
sono stato fin'ora in ufficio, parliamo di noi, adesso, ché
non ti
vedo da ventiquattro ore e non so se nel frattempo il tuo fiore
preferito è ancora l'orchidea, e invece muoveva
solo un po' la
mano destra, a cacciar via la domanda, prima ancora che arrivasse
alle sue orecchie.
Elizabeth
ridacchiò. Sapeva che non avrebbe risposto, non l'aveva mai
fatto, e
il bacio impetuoso dei primi tempi, che terminava sempre in sudore e
lenzuola, era stato sostituito da quel semplice gesto che profumava
d'abitudine. «Ho preparato una torta di mele, oggi. Ne vuoi
un
po'?».
Charles
annuì e la seguì in salotto, dove il profumo
dolce svegliò le sue
papille gustative. «La tua torta di mele è sempre
la più buona».
«Grazie».
Gliene
servì una porzione col sorriso – sorrideva sempre,
Elizabeth –
ed il primo boccone fu una goccia di pioggia in un giorno di
primavera in cui si tenevano la mano a vicenda, perché loro
amavano
la pioggia, entrambi, e correrci sotto, insieme, anche se di fatto
non avrebbero più potuto farlo, solo assaggiando una fetta
di torta,
fu meraviglia.
«Charles?».
«Mh?».
Avrebbe
voluto dirle Dimmi
tutto, Beth.,
ma aveva la bocca piena, ed Elizabeth teneva molto all'educazione,
tanto che ogni volta che lui dimenticava qualche assurda regola del
Bon Ton lei gli lanciava contro la prima cosa che gli capitava tra le
mani, ma con rigida fermezza e precisione, composta come solo
Elizabeth poteva essere.
Caso
volle che l'oggetto più vicino alla moglie quel giorno fosse
un vaso
di porcellana cinese che, oltre a costare un patrimonio, gli avrebbe
fatto parecchio male, perciò Charles si limitò ad
un chiarissimo
Mh?,
con le labbra rigorosamente serrate.
«Cosa
ti spinge, dopo tutti questi anni, a tornare a casa da me?»,
gli
chiese, senza far trasparire alcuna curiosità, le parole
permeate di
tenerezza e amore – amore.
Charles
scaraventò la torta giù per l'esofago.
«Non si può spiegare»
replicò, semplicemente, tono burbero e dolce.
Lei
corrugò la fronte, spazientita. «Perché
non si può, Charles? Ho
quasi ottant'anni e ancora lo devo capire. Tu ne hai ottantadue,
dimostra che essere più grandi serve ad imparare qualcosa in
più».
Appoggiò
il piatto sul tavolo con un sospiro, premurandosi di metterlo lontano
dal bordo, così che non cadesse – chi la sentiva,
poi, Elizabeth?
– ed intrecciò le dita delle mani, sorridendo
appena sotto i baffi
bianchi. «Non si può spiegare il
perché, Beth. È una cosa troppo
grande persino per le parole. Io per esempio potrei dirti che ti amo
perché la mattina ti svegli sempre cinque minuti prima, da
quasi
quarant'anni, solo per prepararmi il the con un po' di limone prima
che io vada al lavoro, ma non sarebbe abbastanza».
Elizabeth
aprì leggermente di più i suoi grandi occhi
nocciola, facendo
vibrare le ciglia candide, ed aprendosi in un sorriso circondato da
piccole rughe. Era bellissima. «Trovo sia più che
sufficiente»
rispose semplicemente, gli si avvicinò, accarezzandogli il
braccio
destro e depositando un bacio sulla sua fronte stempiata, e prese il
piatto, portandolo in cucina.
Sì
sentì poco dopo la sua voce un po' più alta del
solito dall'altra
parte della porta in noce. «La cena è quasi
pronta, apparecchi
tu?».
Charles
rise, alzandosi e dando un'occhiata alla casa che nonostante gli anni
ancora resisteva, e pensò che Joan Crawford forse aveva un
po'
sbagliato, ché l'amore la casa mica te la brucia, al massimo
te la
fonde come si fa col ferro e poi te la rimodella, ma non è
una cosa
brutta. Sorrise e tese il collo verso la cucina «Che tovaglia
devo
mettere?».
Ommiozzeus,
è tipo una vita che non pubblico 'na cippa.
Il
mio profilo EFP ha le ragnatele, ormai.
*passa la famosa balla di fieno*
Niente, non ho tanto da
dire. Qui il “Ti amo perché...”
è un po' fasullo, me ne rendo
conto, però ci son tanti modi per dire le cose, no?
Bòn,
fatemi sapere
qualcosa, mi va bene anche un invito a darmi all'ippica, io nel
frattempo mi eclisso e cercherò di far passare meno tempo
– come
se gliene fregasse qualcosa a qualcuno, tra l'altro.
Ah,
una cosetta: a
giorni pubblicherò la seconda raccolta di cui parlavo nella
prima
shot -sì, quella che doveva essere “a giorni qui
su EFP” e che
invece sta ancora marcendo in 'sto netbook mezzo scassato che prima o
poi mi manderà a farla da Paolo-, questa
volta sul serio. Non
mi faccio più prendere dal “soon” di
Jared Leto, ggggiùro.
Un
abbraccio,
splendori.
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Capitolo 3 *** You are colorful. ***
You
are colorful.
Sara
stava mangiando il suo cornetto seduta sull'altalena mentre il vento
le muoveva i capelli come alla protagonista del film che guardava
sempre la sua mamma – Sara però era più
bella.
Luca
osservò attentamente il suo disegno in un'ultima attenta
analisi,
cercando d'individuare linee troppo storte o cerchi non chiusi, poi,
non trovandone, sorrise soddisfatto, iniziando a camminare sull'erba
umida del cortile dell'asilo.
«Ciao
Sara».
Lei
alzò gli occhi e gli sorrise con la bocca chiusa, deglutendo
in
fretta. «Ciao testa di banana!».
Luca
arricciò un po' il naso. Non gli piaceva quando lo
prendevano in
giro per la sua cresta, ma non disse niente: Sara poteva chiamarlo
come voleva, anche perché da quando aveva perso il dentino
davanti
sembrava un po' Spongebob ed era bellissima. Tese il braccio rigido
nella sua direzione, sicuro di sé. «Questo
è per te».
La
bambina s'illuminò, afferrando il foglio con una foga tale
che per
poco non lo strappò. Esaminò il disegno con la
fronte corrugata e,
quando si rivolse al bambino, lo fece con espressione offesa.
«Ma è
bianco!» protestò.
Lui
sorrise soddisfatto: l'aveva notato! «Lo devi colorare
tu» le
spiegò, con tono ovvio.
Sara
non capì: che razza di regalo era, se neanche s'era preso la
briga
di colorarlo? Magari era il giorno del disegno non colorato e lei non
lo sapeva...
Glielo chiese, e lui si mise a ridere. «Ma no! È
una cosa da innamorati!».
Lei
un po' si spazientì. «Non parlarmi come a
un'asina!», lo
rimproverò, facendogli sparire quel ghigno. «E poi
noi non siamo
fidanzati, perché non mi hai fatto la diri-, dirichiu-
dichia-...
non mi hai detto né che mi ami né il
perché in ginocchio!» disse
in fretta. Com'è la parola? Dichiarificazione?
Luca
si colpì la fronte con il palmo della mano destra. Ecco cosa
s'era
dimenticato!
S'inginocchiò
come i principi nei cartoni animati e le prese una mano tra le sue.
«Sara, io ti amo perché colori bene anche se hai
quattro anni. Ora
siamo fidanzati».
Sara
sorrise felice e con un saltello gli baciò una guancia.
«Adesso
devi iniziare a regalarmi le margherite».
È
una vita che questa shot è pronta, ma onestamente non avevo
voglia
di mettermi a sistemare html e roba varia. Sì, lo so, faccio
schifo.
Tra
l'altro, v'ho fatto aspettare una vita per una roba cortissima,
quindi se volete offendermi in aramaico fate pure, però
onestamente
tengo molto a questa storiella, perché -giuro- è
vera. Mia cugina
-che no, non si chiama Sara- me l'ha raccontata qualche settimana fa,
ed ho pensato che dovevo assolutamente scriverla perché,
dai, non è
ttènera? :3
Ah,
ho due cosette da dire:
a)
È una vita che devo comunicarvelo, ma mi dimenticavo. Nel
mio
profilo ho lasciato qualche link (profilo facebook, twitter, il mio
blog e roba varia). Non v'interessa, lo so, ma non si sa mai.
b)
La famosa raccolta che doveva essere su EFP ma non c'è
ancora è
andata a ramengo, perché il mio computer ha pensato bene di
eliminare due terzi dei capitoli già pronti. Anche qui, voi
siete lì
che dite “Che me ne fotte a me?” e io ve lo dico lo
stesso, alla
faccia vostra, tiè.
Okay,
bòn, ho finito.
Fatemi
sapere qualcosa, se vi va, sennò non importa,
però, ecco, se
sprecaste qualche minuto anche per una frasetta breve breve giusto
per farmi sapere se vi garba o no sarei contenta.
Un
abbraccio,
Human_
(che sta per dar
fuoco al suo
adorabile liceo scientifico).
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Capitolo 4 *** Sing for me. ***
Sing
for me.
Dean
chiuse gli occhi per un istante, un solo minuscolo istante che
bastò
a regolarizzare il respiro e far sparire quel leggero tremolio della
sua voce roca, voce che ogni volta faceva vibrare gli occhi di Gin,
che si chiamava come un superalcolico, ed esattamente come un
superalcolico faceva girare la testa a chiunque si soffermasse a
guardarla, con quei capelli biondi e gli occhi color ghiaccio.
«Gin,
non piangere».
Non
piangere Gin, non piangere, non piangere, so che non piangerai ma io
te lo dico lo stesso, perché non intendo “non
piangere adesso”,
non voglio che tu pianga neanche dopo, quando io sarò
già (fin
troppo) lontano e tu sarai da sola nel buio della tua stanza e
sentirai l'odore del sesso di cui l'abbiamo impregnata; lascia che
pianga solo io, nel vagone di questo treno che puzza di sudore e
tabacco.
«Dean,
non te ne andare» sussurrò, la voce flebile e le
mani intrecciate
appena sotto il petto, guardandolo negli occhi color cioccolata.
«Dimmi che che non mi lasci».
Dimmi
che non sono sola, Dean, dimmi che non te ne andrai per sempre anche
tu, come tutti gli altri, come chiunque, dimmi che non è
vero quel
che penso, dimmi che non sono io a non andare bene, dimmi che su quel
treno non ci sali più, dimmi che ad Amburgo ci andrai solo
quando
potrò venirci anch'io.
Chiudere
gli occhi non bastò, questa volta, ed in effetti non
bastò mai più,
per il resto della loro vita, perché entrambi sapevano
– sapere,
questo è terribile, se sai non hai scampo, non
c'è santo che tenga,
non puoi neanche sperare il contrario, perché tu sai,
e allora non c'è immaginazione, non c'è
ottimismo, non c'è
religione, non c'è speranza – che Dean e Gin, da
quel momento,
sarebbero solo stati due nomi in rima e non più due amanti,
di
quelli che tu ti fermi a guardarli ipnotizzato, e tutto quello che
pensi è “Quanto cazzo sono
belli?”.
«Amburgo
non è poi così lontana»
tentò Dean, incerto – si può dire con
convinzione qualcosa di cui non si è, di fatto, convinti?
–
stringendo forte i fianchi morbidi di Gin, su cui sarebbero a breve
nati i segni delle sue dita – fisico corrispondente di segni
invisibili che invece non se ne sarebbero andati mai.
Sospirò,
Gin. «Sono milleduecentosettantaquattro chilometri, ne
abbiamo già
parlato. Neanche posso permettermi il treno, e poi...».
Discorso
che non finì mai, il suo, neanche nella sua mente,
perché proprio
non voleva pensarci, mentre Dean ci pensò fin troppo, tutto
in
quell'esatto momento in cui la voce della ragazza – sua
ancora per
qualche labile secondo – tremò appena.
È
la stanchezza, Dean, non sono triste, davvero, non guardarmi
così,
non angosciarti per me, non tentare di captare ogni mio segnale di
debolezza, pensa a baciarmi un'ultima volta, e fa che duri il tempo
necessario perché tu perda il treno e decida di non
aspettare
l'altro.
«Senti,
so che a te i discorsi troppo dolci fanno venire l'orticaria, ma io
probabilmente prenderò il tifo su questo treno, devo sapere
che tu
sarai qui a grattarti le braccia per par condicio, quindi ascoltami,
okay?» chiese, fissandola serio.
Lei
mosse appena la testa, su e giù, e sollevò
l'angolo destro della
bocca, appena, con gli occhi lucidi e la mente annebbiata.
«Credo di
poter fare uno sforzo, per questa volta».
«Per
me sei dappertutto, Gin, e sei l'unica al mondo capace di farmi
sentire che non sono solo, e so che partendo adesso sarò
solo per
sempre, anche con centinaia di gente intorno, anche se un giorno
dovessi tornare qui a Liverpool dalla mia famiglia, perché
non
sarebbe più la stessa cosa, e come già ti ho
detto non posso
esserti fedele per sempre...» si fermò, il tempo
di una risata
isterica ed appena udibile, il tempo di avvicinarsi di più
ai suoi
occhi, facendo sfiorare i loro nasi, incollando i loro corpi dal
ventre in giù, accarezzando delicatamente il suo corpo fino
ad
arrivare ad intrecciare le dita a quelle di Gin. «Ma te lo
giuro,
amore, te lo giuro, non accarezzerò nessuna come ho
accarezzato te,
a questo farò attenzione, davvero, e a nessuna
scriverò poesie
sulla pelle, te lo prometto. Sarai per me infinita ed onnipresente,
anche con questi fottuti milleduecento chilometri tra i coglioni,
anche se non ti vedrò ma-».
«Zitto!»
lo interruppe, posandogli i polpastrelli sulle labbra carnose.
«Non
lo dire, non lo dire mai, mai in mia presenza, non lo dire, non ti
azzardare, non ci voglio pensare. Per me tu domattina sarai qui, e se
non ci sarai penserò di star sognando, e che prima o poi mi
sveglierò. Vivrò nell'incubo andando avanti,
sposandomi magari,
avrò figli che puzzeranno di vomito e mi
preoccuperò di lavare, ma
con la convinzione che prima o poi mi sveglierò con te
accanto».
Dean
chiuse gli occhi, frustrato. «Così non va,
così proprio non va.
Non aspettarmi, non tornerò. Non tornerò,
maledizione, mettitelo in
testa».
«Io
ti aspetterò, e chi se ne importa se non tornerai. Io ti
aspetterò,
mettitelo in testa».
La
attirò a sé, facendo rabbiosamente combaciare le
loro labbra,
impeto dolce ed iracondo – disperato.
«Non
è poi la fine del mondo» sussurrò sulle
sue labbra, senza
allontanarsi troppo.
Chiamarono
il suo treno e si staccò, controvoglia, afferrando le
valigie con le
braccia coperte dal suo pullover verde.
A
Gin tremarono le ginocchia, e quasi quasi anche i polmoni.
«Non te
ne andare» pregò, voce rotta dalla presenza di
lacrime invisibili
sulle sue guance arrossate dal freddo.
«Chiudi
gli occhi, amore. Non lo guardare il treno, non guardare me che ci
salgo sopra. Cantami una canzone, cantamela, io sono qui e l'ascolto,
tu tieni gli occhi chiusi finché non senti il silenzio.
Canta,
amore. E non lo dire addio, mi raccomando, perché io lo so
ed è
anche per questo che ti amo, ti
amo perché a te gli addii fanno male alla gola.
Tu “addio” non dirmelo, canta».
Prese
un respiro profondo e chiuse gli occhi, concentrandosi sui lineamenti
di Dean che sperava di non dimenticare mai, immaginando le sue
braccia attorno al suo corpo, immaginando le sue labbra nell'incavo
del suo collo, immaginando i suoi capelli in contatto con il suo
volto – sarebbe dovuto essere reale ancora per un po', solo
un po'.
Poi,
semplicemente, cantò, e nel disperato fischio che il treno
emise
qualche istante prima di dilaniarle completamente l'anima
trovò il
perfetto compagno di un duetto che la colse completamente
impreparata, così come entrambi sarebbero stati impreparati
alla
vita nei mesi a seguire, troppo abituati a contare sul suono del
respiro dell'altro per regolarizzare il proprio.
Dean
la osservava muovere le labbra chiare seduto al suo posto, le valigie
sul sedile accanto, e con la tempia sinistra posata al finestrino
strinse le labbra per non piangere, chiedendosi se fosse veramente
giusto andare ad Amburgo, specie senza di lei, e come un mantra
iniziò a ripetersi che sarebbe passata, passa sempre tutto,
sarebbe
passato anche il dolore causato dalla consapevolezza d'aver lasciato
quell'anima su sei milioni a più di mille chilometri di
distanza,
del tutto consapevolmente.
«Non
mi dimenticare» mormorò, pur sapendo che lei mai
l'avrebbe sentito,
nel preciso momento in cui Gin scoppiò a piangere, tremando
sotto il
peso di qualcosa troppo grande, e Dean sorrise appena.
Quanto
sei bella, amore.
Sì,
sono viva.
No,
evidentemente non sono morta.
Sì,
siete autorizzati a picchiarmi e lanciarmi pomodori.
Sono
imperdonabile, lo so, ma io e la scrittura abbiamo un po' litigato.
Ora siamo tornate in buoni rapporti, comunque, quindi spero che il
prossimo ritardo (perché sì, ci sarà
un altro ritardo) sia un po'
meno grave di questo.
Bòn,
che dire? Questa shot è triste, forse fin troppo, ma dopo
tre cose
dolci e carine ci stava.
Detto
ciuò, spero vi piaccia e che abbiate
voglia di farmi sapere
qualcosa.
E
se non avete voglia pace, però insomma.
Un
abbraccio, non sapete quanto mi siete mancate. Mancati. Mancate.
Siete
tutte donnine? D:
Human_ (che pur vivendo a due minuti
dal mare è ancora bianca come una mozzarella).
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Capitolo 5 *** You're so beautiful to me. ***
You
are so beautiful to me.
Percorrevo
con lo sguardo la sua schiena diafana cosparsa di nei, tracciando
linee perfettamente geometriche in quella sua geometrica perfezione,
triangoli, trapezi, rettangoli e spirali e cerchi e armonie, mentre
con la punta delle dita accarezzavo il suo braccio morbido dalla
spalla al polso, soffermandomi nell'incavo del gomito, permettendomi,
di tanto in tanto, di sfiorare anche le dita lunghe e affusolate
delle sue deliziose mani da pianista, intrecciandole per qualche
istante con le mie, e poi via, di nuovo su, verso la spalla che dolce
faceva da ponte tra il braccio e il collo candido, morbido,
profumato, ancora segnato dai miei baci avidi.
Non
riuscivo, non potevo dormire,
rischiando così di perdere anche quel lato di lei, lei che,
silenziosa, innocente, inconsapevole, mi era entrata dentro
così
profondamente da sconvolgere totalmente e definitivamente la mia
anima, rendendola inevitabilmente sua.
Aveva
preso il mio cuore e l'aveva sradicato, strappandomelo dal petto, ma
mite, con dolcezza, senza forza; era stato un dolore dolce,
accompagnato dal piacevole, gradito, amato
torpore dei sensi che solo l'amore concede. Mi aveva svuotato
così,
provandomi di ogni egoismo, ma senza tuttavia lasciarmi
effettivamente vuoto. Ero pieno di lei, così come lei era
piena di
me.
Mi
venne da ridere, al pensiero che a ragionare così ero io,
proprio io
che sempre avevo manifestato il mio scetticismo nei confronti di
quello stupido –
come probabilmente io ero all'epoca – amore che tutti
proclamavano,
snobbando grandi autori, definendo addirittura stolti Giulietta e
Romeo che per amore avevano rinunciato alla loro vita, in un
atteggiamento tipico di chi ancora non è altro che un acerbo
frutto
dell'albero della vita che ancora ha da maturare, da capire, da
sapere, da scoprire, da sperimentare, da imparare, da provare.
Sorrisi,
quasi con pietà, biasimando l'infantile ignoranza di chi non
è
bambino perché pura innocente creatura capace di vedere
tutto, di
vedere oltre, di amare senza confini, ma perché ancora ha da
crescere, ecco, crescere, ma crescere dentro, non fuori, ché
fuori
si cresce tutti, ma dentro è un'arte di pochi, quella di
maturare ed
amare come bambini, ma bambini davvero.
Mormorò
qualcosa d'incomprensibile, voltandosi leggermente nella mia
direzione, lasciandomi vedere il suo volto disteso e rilassato,
tipico di quando, bambina imprigionata nel suo meraviglioso corpo di
donna, si lasciava andare al sonno che tentatore la chiamava,
invitandola e trattenendola nel suo fantastico mondo fatto di sogni e
meraviglie e fantasia. Osservai incantato la sua bocca leggermente
dischiusa, con il labbro inferiore un po' più pieno del
superiore,
gli occhi chiusi, il petto che, coperto dalle lenzuola azzurre, si
alzava ed abbassava dolcemente, a intervalli regolari, donando anche
a me un vago senso di pace, i capelli neri ad incorniciare
quell'imperfetta perfezione di pelle candida, tinta di rosa sulle
gote che, quando sveglia e colta dall'imbarazzo, s'imporporavano d'un
dolce rossore che se possibile la rendeva ancor più bella ai
miei
occhi.
Avvicinai
lentamente il mio viso al suo zigomo, mentre ancora tracciavo il
profilo del suo arto con delicatezza, ed accarezzandola ancora con le
dita percorsi con le mie labbra la sua mandibola dalla linea dolce,
raggiungendo l'angolo della bocca dove indugiai per qualche istante.
Ero
tentato di baciarla, così, mentre ancora dormiva e in questo
modo
svegliarla, e finalmente essere in pace, con l'anima, col corpo, e
non solo coi sensi, ma resistetti. Non la baciai. Continuai
semplicemente a sfiorarla delicatamente, quasi cullandola con le mie
carezze e speravo amore, amore mio, fai bei
sogni, te ne
prego, fai bei sogni, sogna, e sii felice, lì, e magari
sognami,
eh?, e amami anche in sogno, come fai da sveglia, e nel sogno stai
tranquilla, che dalla realtà ti proteggo io, te lo giuro, te
lo
prometto, ti proteggo io.
Le
mie dita, lievi, si spostarono e sfiorarono il suo fianco, il suo
fianco di donna, diafano come tutto di lei, e giù, fino
all'inizio
delle gambe, e di nuovo su, alla spalla, e poi il collo, e la
mandibola, e le guance, e giù, di nuovo, il braccio, il
polso, le
dita, il palmo, la spalla, il fianco, la schiena, l'incavo del collo,
in una danza infinita e dolce e piacevole che accompagnava l'alba,
cullava lei e il sole che spuntava, che insolente quasi quanto le mie
mani fameliche s'infilava a forza tra le persiane, rischiarando la
stanza, avvolgendo le nostre figure, illuminandola, ma non
illuminando me che, per brillare, ma brillare davvero, avevo bisogno
dei suoi occhi.
Sorrise
nel sonno, o forse finalmente sveglia, ed io sorrisi di rimando,
continuando a sfiorarla, a toccarla, ad accarezzarla, a farla mia in
quell'intimo innocente gesto.
Si
avvicinò a me, cercando rifugio nelle mie braccia che la
strinsero
dolcemente, ma smaniose, con sicurezza, proteggendola.
Lasciò
un delicato bacio sul mio petto nudo, e poi su, respirando sul mio
collo per un qualche infinito secondo, prima di posare anche
lì le
sue labbra calde, e mi ritrovai costretto a reprimere un brivido,
seppur con scarsi risultati.
«Buongiorno»
sussurrai.
«Vorrei
poterlo augurare anche a te, ma ho come la sensazione che tu non
abbia neanche preso in considerazione la mia buonanotte, quindi non
ne vedo l'utilità» mormorò, con la voce
ancora impastata dal
sonno, ma già dolce, delicata.
Sorrisi.
«Be', auguramelo lo stesso. Ne farò tesoro, te lo
prometto».
«In
questo caso..».
Fece
leva sul gomito e si sollevò alla mia altezza, sorridendomi
in quel
modo solo suo, sollevando un solo angolo della bocca scoprendo una
parte dei denti bianchi ed arricciando il piccolo naso.
«Buongiorno»
soffiò sulla mia bocca.
La
baciai, un dolce e continuo sfioramento di labbra, almeno
finché non
persi la cognizione del tempo e dello spazio. Mi feci largo nella sua
bocca lentamente, senza fretta, ed intrecciai le nostre lingue che si
riconobbero ed iniziarono a ballare una danza familiare, ma
totalmente nuova.
Le
sue mani vagavano sul mio petto, sulle mie spalle, sul mio collo, e
finirono per intrecciarsi nei miei capelli, stringendoli. Le mie si
fermarono finalmente sulla sua schiena, e lì restarono,
stringendola, come per dirle amore, amore mio, te l'ho detto,
stai
tranquilla, ti tengo io, non ti spezzi, ti tengo io.
«Ho
sognato una cosa bellissima» mormorò appena sulle
mie labbra,
sfiorandole ad ogni lettera, provocando una scarica elettrica che
percorse la spina e dorsale su e giù, andata e ritorno,
esplosione
nucleare e infinito silenzio.
Sorrisi.
«Racconta».
Si
allontanò appena, coprendosi con il lenzuolo fino al collo.
«Eravamo
al mare, sulla spiaggia davanti alla casa dei tuoi genitori, e tu mi
preparavi un panino buonissimo da mangiare sugli scogli, poi
succedeva altro, ma me lo sono dimenticato».
«Si
può fare» risposi, accarezzandole la guancia.
«Cosa c'era nel
panino?».
«Non
ricordo» mugugnò, stiracchiandosi.
Ridacchiai.
«Ti amo perché ricordi i sogni sempre e solo a
metà».
Sbuffò
divertita e portò il suo corpo a combaciare con il mio,
pelle contro
pelle, il suo seno contro il mio petto, risvegliando in me istinti
mai realmente sopiti. La strinsi a me con irruenza, divorando le sue
labbra, fino a portarla sopra di me.
Mi
diede un ultimo bacio, poi si alzò e rise, scappando verso
la porta.
«L'ultimo che arriva in cucina prepara i pancakes».
Che
ci volete fare? Mi piacciono i risvegli.
....
Okay,
credo che un paio di scuse siano d'obbligo. Perdonatemi per il
ritardo, ma, davvero, la costanza non è il mio forte. Io ci
provo ad
aggiornare più spesso, giuro, ma proprio non ce la faccio.
Niente,
non credo ci siano molte spiegazioni da fare – o forse
sì?
È
la prima shot in prima persona della raccolta, e tra l'altro da un
punto di vista maschile che non ho saputo rendere manco per il caz-
ehm, manco per niente, ma tant'è, spero non sia troppo
effeminato, anche se temo di sì.
Per
il resto, fatemi sapere, soprattutto se vi fa schifo e vorreste
prendermi a cocomerate (?) in faccia.
A
presto – seh, non ci credo più neanche io.
Human_ (che
ha una simpatica stalker che si chiama influenza, come al
solito)
PS.
Eh, sì, pure il post scriptum oggi. Niente di che, eh, ma...
non lo
so, quando, ad esempio, mi aggiungete su Facebook, o mi seguite su
Tumblr/Twitter/Formspring/Qualsiasialtracosa, cosa che se non avete
ancora fatto v'invito a fare (i link sono nel mio profilo), sarebbe
molto carino – e non sono sarcastica, sarebbe carinissimo
davvero –
se mi faceste sapere che siete lettrici. Così, giusto se non
avete
di meglio da fare.
Okay,
basta, vi saluto sul serio, e dal momento che non l'avevo ancora
fatto, buon Natale, buon anno, buon San Valentino e già che
ci siamo
pure buona Pasqua. Adieu.
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