Le Regole di Lui

di Mitsutsuki
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Lui ***
Capitolo 2: *** Le Regole ***
Capitolo 3: *** Il Pazzo della Sorgente ***
Capitolo 4: *** Un Plastico ***



Capitolo 1
*** Lui ***


Serie: Original
Partecipante a: Original Concorso 11 ~ La Sorgente e... Lui
Capitoli: 4
Contatore: Pages - 6.953 Parole
Note:
- Credo che la parte più divertente di questo racconto sia stata provare le scene per verificare se un’eventuale crisi da iper-ventilazione fosse plausibile o meno e descrivere altre minuzie, come spostarsi con una sedia o girare in tondo per capire dove mettere il Sud.
- Più scrivevo, più mi sono resa conto di quanto le etichette sul “genere” mi vadano strette.
- La descrizione di cosa si vede senza occhiali è ciò che io personalmente vedo con meno otto diottrie (Cap. 2)
Disclaimers: Tutto mio.

Capitolo 1
Lui


Non aveva un nome. Credeva che venir delineato da una parola come un’altra non facesse al caso suo. Preferiva di gran lunga lasciare libero spazio all’immaginazione di chi veniva a sapere della sua esistenza, ubicato là, in una casupola di campagna passata indenne al corso degli anni come materializzatasi magicamente da un’epoca lontana.
Nemmeno la tecnologia faceva per lui: troppe luci, cavi assassini, bollette da pagare e macchine spacciate per oggetti essenziali anche quando incorporavano in sé quanto di più futile ci fosse al mondo.
No, non rimpiangeva l’isolamento forzato da una società che di quella ferraglia aveva fatto il proprio sostentamento.

Quando si riscosse dai suoi pensieri, si schiarì la gola e si sistemò meglio sulla poltrona in vimini, mettendosi in una posizione abbastanza scomoda da evitargli di contare le pecore che saltavano il recintomentre si addormentava.
Inghiottì un bel po’ di saliva, la stessa che probabilmente gli sarebbe colata sul mento di lì a poco.
Maledizione.”
Saettò con lo sguardo alla ragione della sua noia: un moccioso appena diciottenne, legato con le mani dietro la schiena sulla sedia di fronte alla sua. Era incosciente da quasi due ore, con il capo abbandonato davanti al petto, il respiro regolare.
Così, lui che non aveva un nome, si era perso nella contemplazione dei capelli biondastri del ragazzo e aveva cominciato a riempirsi il cervello del più e del meno per ammazzare il tempo.
Non aveva un televisore. L’unica ferraglia che ammetteva di possedere erano un pick-up, un frigorifero ed una caffettiera, che si accendeva e spegneva in completa autonomia.
Meglio di una moglie, la mia Matilde” diceva a se stesso ogni tanto, la mattina, davanti ad una tazza fumante e a del pane secco, ammiccando alla macchinetta come ad un’amante.
Non aveva amici. Né un animale a cui potesse affezionarsi (quelli che aveva dovevano riempirgli lo stomaco, non fargli le feste di ritorno dal lavoro), né era mai stato attratto da una donna dopo i trent’anni. Tutte così scheletriche da far pietà.
Batté gli scarponi sul legno del pavimento, alzandosi in piedi.
Adesso capiva: quel ragazzo aspettava solo di saperlo addormentato per coglierlo sul fatto, rinfacciarglielo con un biglietto strappato dall’agenda e fuggire!
Non gliel’avrebbe data vinta.
Giammai!” Si ripeté, le mani sui fianchi ed un’espressione decisa ad aggrottare le sopracciglia folte.
Diede una rapida occhiata all’orologio a cucù appeso alla parete del salotto. Le quattro del pomeriggio. Matilde gli stava sicuramente preparando del caffè nero, bollente, con una spruzzata di cannella.
Proprio come piaceva a lui.
Dovrei chiederla in sposa, un giorno.

Zachary tornò a riprendere lentamente contatto con la realtà solo dopo le cinque.
Sbatté le palpebre parecchie volte, prima di rendersi conto che il colore scuro che gli si presentava davanti non era altro se non la tintura dei propri pantaloni.
Alzare la testa fu un’operazione anche più difficile. Ogni centimetro del suo collo sembrò voler gridare la propria frustrazione e i muscoli tirarono a tal punto che temette si sarebbero rotti. Di conseguenza, per quanto gli fu possibile, cercò di guardarsi attorno muovendo solo gli occhi, dietro le lenti squadrate degli occhiali.
Si trovava in una stanza fatta interamente di legno scuro; davanti a lui c’erano una poltrona in vimini e, dietro questa, una cassapanca a fianco di quella che intuì essere la via d’accesso ad un corridoio.
Sondando le pareti notò un paio di cornici attorno a dei fogli bianchi ed infine, abbassando lo sguardo, dedusse che ci fosse una porta - o una finestra - dietro di lui, da cui filtrava la luce calda del tramonto.
Ma fu solo quando dovette aggiustarsi gli occhiali sul naso, e non poté farlo, che si rese conto della sua situazione di sequestrato.
In un attimo sentì il sangue defluire ai piedi. Annaspò con una bocca ormai completamente secca e incapace di emettere suono, mentre tentava di liberare i polsi dalla corda che li legava.
Al rumore della sedia che graffiava le assi del pavimento si sovrappose l’incedere di scarponi da pesca, congelando Zachary e i suoi infruttuosi tentativi di fuga in un muto terrore bianco.
Quando trovò il coraggio di muovere gli occhi verso il corridoio, notò un uomo sulla cinquantina, con una tazza in mano, i capelli brizzolati e la barba sfatta.
Non gli ci volle molto per classificarlo come il colpevole del proprio sequestro.
Zachary trattenne il respiro, mentre lo osservava prendere posto sulla poltrona in vimini di fronte a lui e chinarsi in avanti, così da piantargli i suoi occhi azzurri addosso. Uno gli sembrò più chiaro dell’altro.
— Era ora che ti svegliassi. — A discapito della stazza da atleta pensionato, aveva un tono molto leggero, nulla di roco o gutturale — Dovresti dormire di più la notte e meno il giorno. Saresti meno pallido. —
Prima di rispondere di essere pallido per tutt’altri motivi (e che godeva di un regolare dormi-veglia), Zachary prese dei profondi respiri.
Non doveva lasciarsi prendere dal panico o i suoi polmoni avrebbero dato forfait, gettandolo boccheggiante al suolo... e poi lungo disteso in una cassa di legno sotto terra.
Scosse il capo e scacciò i pensieri nefasti sostituendoli con l’immagine del dottor Ward che gli ripeteva: “Domina la paura.”
Inspirò un’ultima volta, prima di scandire lentamente — Chi sei? —
Non poté aggiungere altro perché gli bastò vedere l’espressione contrariata dell’uomo per pentirsi di quelle sole due parole.
— Mi dai del “tu”? Non siamo amici, io e te. —
— Scusi, io... lei non mi ha detto... —
— Ragazzo, non sono una donna. — Tagliò corto l’uomo, perentorio, assottigliando lo sguardo.
Zachary si sentì morire sulla sedia, mentre i polsi cominciavano a pulsare e i polmoni rifiutavano l’ossigeno.
Deglutì e respirò a fondo. L’aroma del caffè gli pizzicò il naso.
— Come volete. — Mormorò con la voce strozzata del topo che supplica il gatto di non mangiarlo.
L’uomo corrugò la fronte. Bevve dalla tazza, ma non gli staccò gli occhi di dosso.
— Nessuno mi dà del “voi”: non sono né un re né un vecchio, ragazzo. — Fece una pausa, come prendendo tempo per scrutare al meglio il caffè rimasto — Dammi del lui. —
— Del... lui? —
— Esatto. Come il “lei”, ma al maschile. —
Zachary tacque e rimase a contemplare l’uomo allungare un piede sotto un tavolino lì vicino. Lo trascinò a sé e vi poggiò sopra la tazza. Quindi estrasse dalla tasca della camicia - tanto unta da poter essere fritta - una gomma da masticare. Se la mise in bocca. Masticò qualche istante, prima di tornare alla posizione di partenza: braccia sulle ginocchia, busto in avanti, gli occhi che sembravano voler prendere il posto di quelli del giovane.
— Tornando a noi... — Esordì, ma venne interrotto da Zachary, che aveva già fatto scorta di ossigeno per domandare tutto d’un fiato: “Perché mi ha sequestrato?
L’uomo abbandonò per un istante la gomma sulla lingua, sinceramente sorpreso.
— Sequestro? Chi ti ha sequestrato? —
— Lei... cioè, lui!
La poltrona di “lui” scricchiolò, quando questi si voltò in cerca del fantomatico sequestratore. Sondata l’intera stanza, si rese conto che non vi erano altri al di fuori di loro e tornò a fissare Zachary, che, a forza di respiri profondi, stava andando in iper-ventilazione.
— Io non ti ho sequestrato. — Sentenziò l’uomo — Questo è un colloquio di lavoro. —
Zachary sbatté le palpebre sorpreso. Schiuse le labbra, ma non proseguì nell’atto di replicare. Rimase così, con un’espressione poco intelligente stampata in faccia, ad ascoltare quello che gli veniva detto.
— Voglio che impari tre regole fondamentali. Quando l’avrai fatto, c’è una faccenda da sbrigare che ti aspetta. — Detto questo lui si alzò in piedi, congiunse le mani dietro la schiena e fece di tutto per darsi le arie da insegnante vissuto.
— Primo: non contraddire chi è più grande di te. — L’occhio che a Zachary era sembrato più chiaro fulminò il timido accenno di protesta da parte del giovane, che preferì allora mordersi un labbro.
— Secondo: se non te lo ricordi, scrivilo. —
Divincolandosi sulla sedia, il ragazzo fece chiaramente intendere di essere impossibilitato a farlo. Ma lui sembrò averlo già previsto perché la terza ed ultima regola recitava: “Esci da qualunque situazione, sempre e comunque.
Cadde il silenzio.
Una mosca fece il suo ingresso dalla finestra aperta. Ronzò qualche istante e si adagiò sul muro, mimetizzandosi tra le macchie di umido del legno.
Che catapecchia.

Quando il cuore di Zachary tornò a battere senza terrorizzata fretta né letale lentezza, assestandosi ad un ritmo di mezzo, il ragazzo buttò fuori un solo “beh?” che bastò a riportare l’insegnante fallito alla spiacevole situazione in cui erano venuti a trovarsi.
— Aspetto che applichi le mie regole, ragazzo. —
— Ho un nome. —
Lui fece un cenno noncurante, agitando la mano a formare degli immaginari mulinelli d’aria. Dal suo punto di vista, un nome non diceva nulla sulla persona in sé, considerato che veniva scelto alla nascita, quando ancora non si era fatto niente che facesse trasparire una qualche indole.
Era per questo che non si presentava in nessuno modo, solo “lui”. Se poi c’era chi lo voleva additare con altri epiteti, libero di farlo. “Lui” rimaneva il suo preferito.
Nel mentre, Zachary aveva cominciato a snocciolare una serie di rimostranze rivolte alla sua persona, accusandolo di sequestro e pazzia.
Tra le altre cose, sembrava tenere in modo particolare al perché avesse scelto lui e non un altro, portando avanti come argomento a suo favore che non era nessuno, “solo uno che fatica a respirare, incapace di fare qualsiasi cosa”.
Lui fece qualche passo lungo le assi scricchiolanti del pavimento. Una famigliola di formiche fuggì dal suo piede come dall’Apocalisse.
— Prima ti darai da fare con le regole, prima sarà tutto finito. — Disse, ignorando deliberatamente le lamentele del ragazzo, che ammutolì.

Zachary aspettò di rimanere solo con una stella morente alle spalle per valutare la situazione. Respirò a fondo, caricando i polmoni di ossigeno, quindi rifletté: era legato ad una sedia al centro di un salotto di una catapecchia di campagna. Gli fu facile dirlo per il forte odore di fieno di cui era impregnata la casa. E poi, pensò, abitazioni del genere in città non avrebbero retto due giorni.
La corda che gli teneva fermi i polsi non doveva essere troppo spessa, se avesse avuto qualcosa di tagliente non avrebbe dovuto trovare grandi difficoltà nel liberarsi.
Si guardò attorno in cerca d’ispirazione. Notò un vaso di fiori nell’angolo più a Sud della stanza, dimora di una pianta morente, all’ombra di una credenza dai vetri decorati. Se avesse rotto una delle ceramiche al suo interno... scosse il capo, scartando immediatamente quell’idea. Primo, perché avrebbe fatto rumore e attirato l’attenzione di lui; secondo, i pomoli erano troppo in alto per qualcuno legato ad una sedia.
Buttò fuori aria e mandò indietro il capo a fissare il grigio sporco del soffitto. Sembrava che l’uomo amasse fare falò in salotto, a giudicare dal nero che ricopriva la superficie attorno al lampadario. Era tondo, con quattro lampadine nascoste in fiori di vetro che circondavano la luce più forte, al centro, al di sopra della quale una catena teneva il tutto ancorato al di sopra di un tavolo in legno. Girò appena il capo per vedere cosa vi potesse essere stato abbandonato: alcune lettere, delle buste aperte, una lattina di birra rovesciata.
Si morse l’interno di una guancia. La latta tagliava. Almeno credeva.
Sollevò le gambe posteriori della sedia, poggiando sui piedi. Respirò a fondo.
Non cadere”, ordinò a se stesso, sperando che questo lo aiutasse. Rivolse lo stesso invito anche ai suoi occhiali, pericolosamente avviati lungo la punta del suo naso. Inspirò ancora, spostandosi a piccoli passi, se così si potevano definire. Lo schienale della sedia sembrava volerlo fare inabissare verso il centro della Terra, mentre le caviglie legate strofinavano dolorosamente contro il legno.
La famigliola di formiche dovette procedere ad un nuovo trasloco, correndo a nascondersi vicino al tavolo. Una di loro tornò a prendersi una minuscola briciola di pane.

Al tavolo, la sedia poté adagiarsi sui quattro sostegni.
Zachary cercò di raddrizzarsi gli occhiali arricciando il naso e storcendo la bocca, ma ogni secondo di più sentiva l’irrefrenabile bisogno di usare le dita. Un po’ come quando si perde una cosa e se ne ha immediatamente bisogno.
Oltre alle lettere, che si rivelarono essere in realtà delle bollette, e le buste che le avevano contenute, il suo sguardo accolse grato la vista di un tagliacarte. Quello, pensò, sarebbe stato certamente più efficiente della latta.
Buttò il mento sul tavolo senza pensarci due volte. Tirando in dietro un foglio, sperò di portare ad una distanza più accessibile l’oggetto dei suoi desideri. Riuscì solo a girarlo. Inspirò a fondo. Poteva farcela.
Con un cuore che pulsava sempre più veloce e un fiato che si gli mozzava in gola, il tagliacarte raggiunse il bordo del tavolo. La bolletta su cui poggiava scivolò a terra.
Bene.”
Le formiche furono poco contente di doversi nuovamente spostare perché “il gigante” aveva cominciato a far girare la sedia, minacciando di annientarle sotto i feltrini.
Quando si fu girato di spalle al tavolo, Zachary poté afferrare il tagliacarte e passarlo sotto la corda. Iniziò a muovere la mano destra prima in alto, poi in basso. Ci sarebbe voluto un po’, specie considerando che la lama non era esattamente quanto di più tagliente potesse esserci al mondo. Forse un pezzo di vetro avrebbe fatto prima, ma certo a Zachary in quel momento non importava. Doveva andarsene, anche a costo di farlo legato ad una sedia.

Lui rimase ad osservarlo tutto il tempo che fu necessario, spostando di tanto in tanto lo sguardo fuori dalla finestra, ad un cielo che aveva visto annegare il Sole e aspettava di vestirsi di stelle più lontane.

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Capitolo 2
*** Le Regole ***


Capitolo 2
Le Regole


Tirò le maniche della felpa a coprire i polsi arrossati. Poi si passò una mano tra i capelli, mentre l’altra aggiustava gli occhiali sul naso. Nel complesso, cercò di darsi l’aspetto di chi si è trovato a casa di un amico a guardare un film, dimenticandosi di avvisare.
Zachary inspirò a fondo, portando lentamente una mano sul campanello del suo appartamento. A farlo entrare nel palazzo era stato un anziano ricurvo dell’ottavo piano, con un cappello calato su un codino di capelli bianchi troppo lunghi per un vecchio.
— Facciamo le ore piccole, eh? — Aveva gracchiato, battendo il pomo d’argento del suo bastone sull’orologio. L’una e mezza di una notte senza Luna. Poco importava che l’anziano stesse uscendo per andare chissà dove, a fare chissà cosa, per tornare a chissà quale orario: erano sempre i giovani reputati “degeneri” ad essere nel torto.
Un altro respiro e la mano che aveva sfiorato fiduciosa il campanello tornò ad afflosciarsi lungo un fianco. Zachary fissò l’occhiolino della porta come se questo ricambiasse il suo sguardo. Poi il tondino sparì dalla sua vista, portato indietro dall’aprirsi dell’ingresso.

Stiracchiò un sorriso forzato, mentre il cervello formulava un unico pensiero: “Merda.”
Sullo sfondo di una sala da pranzo illuminata a giorno, incontrò un’agente in divisa blu scuro, dalla corporatura modellata dal giubbotto anti-proiettile e le braccia così lunghe che avrebbero potuto abbracciare un container. L’uomo rischiò di travolgere il ragazzo e di far rovinare entrambi sul pavimento appena cerato, ma si fermò giusto in tempo.
— Trovato. — Fece l’agente vittorioso e alzò il polso destro a controllare l’ora — Dieci secondi. Un nuovo record! — Lo guardò riconoscente ed entusiasta al tempo stesso, benché la sua gratitudine sembrasse rimbalzare sulla depressione dilagante sul volto di Zachary. Quest’ultimo stava rapidamente passando in rassegna eventuali scuse e contro-scuse, corredate o meno da catastrofi naturali e cellulari traditori. Nessuna, purtroppo, gli suonava plausibile.
Raccontare di un folle che l’aveva sequestrato per insegnargli tre regole e ingaggiarlo per un lavoro (di cui non aveva voluto, né potuto, sapere altro)? Fuori discussione. Non voleva che sua madre si preoccupasse più del dovuto. Stava bene, in fin dei conti.
L’agente, che per la famiglia rispondeva al titolo di zio Karl, scivolò alle sue spalle. Lo fece in silenzio, senza nemmeno sfiorare il porta-ombrelli nell’angolo tra il muro e la porta, come solo anni di addestramento avrebbero potuto insegnargli.
Poggiò le mani sulle spalle di Zachary e lo spinse dentro.
Abbagliati entrambi dalla spropositata quantità di luci accese, nessuno dei due si accorse dell’ombra che si avventò sul giovane. Dalla foga si sarebbe detto tentasse di strozzarlo, mascherando l’omicidio con un innocente abbraccio.
Zachary annaspò, stretto tra le braccia della madre che singhiozzava convulsamente al suo orecchio, mentre Karl chiudeva la porta d’ingresso.
— Eleanor, lo uccidi. — Osservò un paramedico e le sue parole furono accompagnate da un gesto della mano. Stava appollaiato vicino alla finestra, col mento su di un palmo. Zio Brendon, sempre per la famiglia. Due metri di comprensione e complicità incoronati dai riflessi dorati di lunghi capelli biondi.
La donna scese dal figlio, troppo alto per lei e per essere ancora chiamato bambino. Questi riuscì a malapena a raddrizzarsi dolorante, prima che la madre gli si avvinghiasse nuovamente al collo.
Karl soffocò una risata passandogli accanto. Vedere la sorella saltare in quel modo era uno spettacolo. Una sorta di rimunerazione per le ore trascorse ad aspettare il figlio al prodigo, bevendo litri di caffè istantaneo e prodigandosi nel rassicurare Eleanor con le migliori frasi fatte del suo repertorio.
Il giovane cercò di afferrare le braccia della madre e costringerla a rimettere i piedi per terra, mugugnando un “mamma, ti prego”, rivolto più al soffitto che ai ricci scuri di lei.
Eleanor si sentiva leggera, quasi divertita. Le gambe le formicolavano come panetti di burro in padella: fu anche per questo che, benché il suo bambino avesse sciolto l’abbraccio, la mano destra scivolò da dietro al suo collo fino a trovare quella del figlio e stringerla forte, perché la sostenesse. Lo trascinò riluttante sul divano.
Dal canto suo, Zachary non oppose grandi resistenze. Era stanco. Non tanto fisicamente - anche se fare di corsa dalla campagna alla città non era stata un’idea brillante - quanto mentalmente: voleva smettere di pensare, stendersi sul letto e lasciare che il cervello si dilettasse davanti a qualche sogno più o meno sensato. Ma più di ogni altra cosa, desiderava che tutti quanti la smettessero di trattarlo come un pupazzo: lui l’aveva sequestrato e sua madre non faceva altro che abbracciarlo e accarezzarlo.
Sospirò, buttandosi di peso ad affondare sui cuscini del divano, gli occhi chiusi e la bocca adibita alla raccolta di ossigeno.

Due tocchi al suo ginocchio costrinsero Zachary a riaprire gli occhi. Alcune luci erano state spente, solo il soggiorno e la cucina rimanevano illuminati.
Per un motivo o per l’altro, avere le luci accese aveva un effetto terapeutico su Eleanor, come se la rassicurassero, divorando le paure della notte.
Zachary guardò sua madre. Gli sorrideva, mentre la stessa mano che aveva richiamo la sua attenzione si sollevava e indicava di guardare avanti.

Il signor Oakley fumava la pipa e fumava la pipa perché era irritato.
Come ricordandosi solo in quel momento di dover delle spiegazioni, magari affiancate da qualche scusa sentita, Zachary ebbe un sussulto e si mise seduto sul bordo del divano con la schiena ben diritta.
Preparò i propri polmoni all’arduo compito che li aspettava - non ricevere ossigeno per i minuti immediatamente successivi - mentre lo sguardo, indisposto ad incrociare quello del padre, seguiva zio Karl affiancarsi al fratello vicino alla finestra, avendo appena assolto al ruolo di spegni-luce.
Eleanor accarezzò la mano del figlio in un gesto che poteva dirsi incoraggiante e ingenuo al tempo stesso, a seconda che credesse o sperasse di ottenere delle spiegazioni valide.
— Ehm... — Zachary si rimproverò da sé quel pessimo inizio. Si schiarì la gola.
Howard Oakley aggiunse del tabacco alla pipa, gli occhi nascosti dalla piega delle sopracciglia.
— Sono stato a casa di un amico a vedere un film. Mi sono addormentato. Non ho potuto chiamare. —
Era un pessimo bugiardo. La voce eccessivamente acuta, le frasi brevi recitate con meccanicità malamente studiata. Se fosse stato un attore si sarebbe tuffato in una cassetta di pomodori per evitare agli spettatori la fatica di gettarglieli addosso.
Si concesse un breve respiro, prima di tornare a trattenere il fiato succube della ruga che si delineava sul volto del padre. Questi aveva allontanato lentamente la pipa dalla bocca per parlare, ma anche per far patire al figlio l’attesa di vedere finalmente la mano appoggiarsi sul ginocchio.
Il signor Oakley odiava la guerra e qualsivoglia forma di violenza fisica o psicologica. Tuttavia, amava vendicarsi a suo modo.
— Non ti credo. — Sentenziò capitale, dopo un tempo che avrebbe potuto coprire intere ore e accogliere l’alba. Poi guardò la moglie i cui ricci seguivano il cenno del capo, sembrando contrariati anch’essi.
Howard si domandò se leggere le labbra le desse la facoltà di percepire le menzogne. In quel caso, avrebbe comunque preso le difese di Zachary?
Lui no. Nemmeno se l’avesse onorato della verità.
Eleanor era troppo buona. Una caratteristica peculiare nella sua famiglia, tanto che, a un gesto della donna, zio Brendon si sentì in dovere di rendervi onore, schierandosi a sua volta dalla parte di Zachary, che all’osservazione di Howard non aveva trovato di che replicare.
— È tardi. Come paramedico e zio suggerisco a Zach di andare a letto. — Lanciò un’occhiata eloquente al ragazzo, immobile nella pallida contemplazione della pipa sul ginocchio nodoso del padre. Fu solo quando la vista gli risultò ostacolata da una mano agitata davanti al volto che rinvenne. Sua madre gli fece il chiaro segno di andare a letto. E subito. Prendeva sempre molto sul serio le prescrizioni di Brendon.
Zachary si sollevò lentamente, con la circospezione di chi teme l’aria delle quote elevate. Poggiò le labbra sulla fronte di Eleanor, trovandola piacevolmente calda, e sfilò davanti agli zii sussurrando un “buonanotte” a mezza voce, mentre sentiva la disapprovazione di suo padre farsi opprimente sulle spalle, seguito dall’odore di tabacco.
Il giorno dopo, si ripromise, avrebbe dovuto articolare meglio la propria bugia.

Senza occhiali, il soffitto al buio era un’insieme di puntini minuscoli, quasi fossero i pixel di un televisore spento. Osservandoli attentamente cominciavano a muoversi - ma forse era solo frutto della sua immaginazione - e allora potevano essere paragonati a miriadi di insetti più piccoli di un moscerino.
Sbuffò, girandosi su un lato. Le molle del letto cigolarono, impadronendosi della notte: un solo piccolo rumore contro l’immensità del silenzio, costretto a ritirare le truppe finché la minaccia non fosse passata.
Zachary vagò con lo sguardo dove sapeva trovarsi la scrivania. Più che vederla, la immaginò: il piano largo, la lampada in un angolo, i libri aperti, le penne sparse... avrebbe dovuto riordinarla, come lo avevano esortato a farlo innumerevoli volte.

Non contraddire chi è più grande di te.

Fece una smorfia e tirò le lenzuola a scacciare quel ricordo molesto. La voce di quel folle gli rimbombava nel cervello: ogni volta che pensava a qualcosa, sembrava che una di quelle sue maledette regole fosse stata fatta apposta.

Non contraddire chi è più grande di te e ti dice di fare ordine.”
Non contraddire chi è più grande di te e ha capito che stai mentendo.”

Inspirò a fondo, aprendo definitivamente gli occhi.
La sveglia sul comodino segnava spietata le quattro del mattino. Rimase a guardarla storto qualche istante, tentando di addossarle la colpa della sua insonnia. Mentre si domandava se cambiare orario l’avrebbe predisposto ad una sana dormita, si risolse di tirarsi a sedere, sollevandosi sui gomiti.
Inforcò gli occhiali e accese la luce.
Ricordava che, una volta, il dottor Ward gli aveva detto che scrivere le cose che lo preoccupavano avrebbe favorito il loro “smaltimento” da parte del sub-conscio, che se ne sarebbe liberato. Zachary non ci aveva creduto granché ed ora che si accingeva a dargli retta, l’idea di assecondare le originali cure del suo dottore lo allettava molto di più che pensare di mettersi a scrivere in nome della seconda regola di quel lui.
Lo faceva per relegare i suoi problemi su un foglio, non certo per ricordare.
Descrisse alla carta dell’infelice esperienza avuta con l’uomo e di come gli avesse messo in testa quelle maledette regole che non lo facevano dormire.
Appena la penna ebbe tracciato l’ultima frase: “Esci da qualunque situazione, sempre e comunque”, la mano corse ad accartocciare il foglio e gettarlo nella spazzatura.
Zachary stese le braccia sopra la testa, sbadigliando. Per una volta pensò che avrebbe dovuto dire al dottor Ward che un suo metodo aveva dato risultati soddisfacenti.
Ma quando si fu rimesso a letto, temette di dimenticarsene e di nuovo la voce di lui tornò a rimbombargli nel cervello.

Se non te lo ricordi, scrivilo.

Al diavolo.



RE - Recensioni

Angiericcio: grazie, sono contenta ti abbia incuriosito :)
Eastre: grazie mille, sei stata molto gentile. Sono felice che ti piaccia e che trovi ben descritti gli ambienti - sono sempre stati un mio cruccio, a dire il vero (di fatti in questo capitolo sono un po' trascurati). Il concorso è andato molto bene, mi sono classificata quinta con un punteggio di 55,5/60. Posso ritenermi soddisfatta, è un ottimo punteggio.

Ringrazio chiunque abbia anche solo letto distrattamente questa storia.
Davvero, per me è già una piccola gioia sapere che, nonostante la mia auto-stima mi sia avversa, c'è qualcuno che legge e magari apprezza.

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Capitolo 3
*** Il Pazzo della Sorgente ***


Capitolo 3
Il Pazzo della Sorgente


Odore di patatine fritte s’insinuò nelle narici, facendogli storcere il naso.
Il capo ciondolò verso destra poco prima che la fronte incontrasse l’ostacolo di una fredda superficie liscia.
Zachary socchiuse gli occhi, catalogando così l’informazione di trovarsi contro un vetro. Un successivo sbattere di ciglia e messa a fuoco gli confermò che non si trattava di uno specchio, ma del finestrino di un’autovettura. Osservò interessato la condensa di un fiato raccogliersi in minuscole goccioline bagnate davanti sé e svanire subito dopo, come una fugace visione spettrale.
Spostò più in là lo sguardo dove incontrò il riflesso del conducente sul finestrino. Deglutì, ordinandosi di continuare a respirare. Strinse forte gli occhi in modo da potersi concentrare esclusivamente sull’aria che entrava come ossigeno, godeva di un breve alloggio nei suoi polmoni e veniva congedata con il diploma di anidride carbonica.
— Entra O2 esce CO2. — Mormorò a fior di labbra, come il dottor Ward gli aveva consigliato di fare. Aveva sostenuto l’avrebbe aiutato a regolare la respirazione. Funzionava... a volte.
— Che dici ragazzo? — Sbottò lui, al volante del pick-up giallo senape che Zachary ricordava aver intravisto parcheggiato davanti alla casa dove l’aveva sequestrato. Se avesse avuto la patente, probabilmente quella notte si sarebbe risparmiato il viaggio a piedi.
Lui si mise in bocca una manciata alquanto consistente di patatine, prese da un sacchetto appoggiato tra i due sedili.
Zachary voltò il capo all’improvviso. Non aveva paura, se lui avesse voluto fargli del male gliene avrebbe fatto molto prima, ma proprio per questo la frustrazione di non essere di nuovo padrone della sua esistenza aveva preso il sopravvento.
— Mi lasci andare! —
Lui gli lanciò un’occhiata obliqua, svoltando — Lo chiedi adesso che non sei legato, ragazzo? —
Aveva ragione, ma aprire la portiera e vedere l’asfalto sfrecciare sotto i suoi occhi contribuì soltanto a mozzargli il fiato in gola.
Di nuovo si mise a ripetere: “Entra O2 esce CO2”, come una ninna-nanna, mentre si lasciava andare contro il sedile.

Una volta spento il motore del pick-up e gettato il sacchetto di patatine ormai vuoto, quella che si presentò a Zachary era la più grande parete rocciosa che avesse mai visto. O forse era solo la prima che ne osservava una così da vicino: alta, altissima, fatta di rocce incastrate ad arte da una divinità naturale, che si era anche curata di spruzzare macchie di erba e muschio sulle pietre più vicine al cielo. Dalla cima, un sottile filo nero si faceva largo sulla superficie biancastra della parete, come un rigagnolo d’inchiostro, fino al suolo, dove si allargava in una fessura triangolare.
Lui la indicò, mettendosi alle spalle del ragazzo — Le regole ti serviranno, lì dentro. —
L’altro non registrò immediatamente l’affermazione come rivolta a lui, né si preoccupò di dove dovesse entrare e di quali regole stesse parlando. Preferì rimanere ancora qualche istante nella silente adorazione del gigante di roccia.
Lo faceva sentire piccolo. E, con lui, tutti i suoi problemi, mentre l’apertura a forma di triangolo alla base della montagna si faceva più grande.
Quando il suo respirò andò perdendosi nell’umido della galleria davanti a sé, Zachary realizzò di essere stato trascinato da un alquanto impaziente lui ai piedi della parete.
Fece un passo indietro, trattenendo il respiro — Che vuole? — Balbettò senza guardarlo, ammaliato suo malgrado dal nero della grotta, ignoto, vasto, pericoloso — Perché io? —
L’uomo schioccò la lingua — Due volte ci siamo incontrati, due volte ti ho chiesto di un lavoro e due volte mi sei caduto tra le braccia. — Storse la bocca in un sorriso più simile ad un ghigno e sbuffò divertito — Io questi li interpreto come segni del destino. —
Zachary pensò seriamente di gridargli addosso che era svenuto per mancanza d’aria e non per l’intervento di un fantomatico - e sadico - destino. Preferì tuttavia porre un’altra domanda, che avrebbe richiesto una risposta con la quale prendere tempo e posticipare ancora di un po’ l’ingresso in quella cavità.
— Ma se era destino e non voleva sequestrarmi, — incrociò il suo sguardo — perché diavolo ero legato? —
Lui si strinse nelle spalle — Mio padre diceva che è il modo migliore per farsi ascoltare. Tu non ricordavi che ti avessi chiesto di lavorare per me quando ti sei svegliato. —
Aveva ragione, più o meno. Ora che ci rifletteva, l’incontro che aveva avuto con l’uomo la prima volta che l’aveva visto era piuttosto confuso, come se fosse stato immagazzinato male dai suoi ricordi. Sapeva soltanto che stava uscendo da un supermercato e che lui gli si era messo davanti, sbucando dal nulla. Si era spaventato e, come spesso gli accadeva, aveva trattenuto il fiato troppo a lungo.
Dopo il “colloquio di lavoro”, come l’uomo si ostinava a chiamarlo, si era sfortunatamente imbattuto in quest’ultimo all’uscita da scuola. Chissà se si era spacciato per un suo parente perché nessuno facesse nulla per aiutarlo.
Con un sbuffo annoiato, il giovane si sentì spingere dentro la parete di roccia.
Non oppose resistenza: lui stava ripetendo a voce alta la prima regola ed era evidente che lo stesse facendo perché la seguisse.

— Entra O2 esce CO2... —
Lui si fermò e, quando si fu voltato, gli puntò contro la pila elettrica.
L’interno della parete rocciosa era paragonabile a quello di una qualsiasi miniera: soffitti bassi irti di stalattiti, umido che entrava nelle ossa, acqua che gocciolava. E buio, tanto buio.
Zachary arrestò il passo, con aria colpevole. Si morse la lingua pensando si fosse arrabbiato per la nenia che ripeteva da quasi due ore.
— Di’, ti ricordi la strada? — Gli chiese invece, sinceramente curioso.
Il ragazzo si aggiustò gli occhiali sul naso, lanciando un’occhiata alle sue spalle. L’entrata non era più visibile da parecchio, tutt’al più che avevano girato molte volte. Ad un certo punto gli era persino parso che stessero tornando indietro o girando in tondo.
Scosse il capo.
Lo vide corrugare la fronte, mentre riprendeva a camminargli davanti.
Se non te lo ricordi, scrivilo. Seconda regola, ragazzo. Mettila in pratica. —
— Perché? Mi sembra che lui la strada la sappia. —
— Non contraddire chi è più vecchio di te. —
Zachary si prese la testa tra le mani e affondò le dita tra i capelli, indeciso se strapparsi quelli o sbattere la fronte contro il muro. Trattenne il fiato carico di rabbia, fino a quando non divenne paonazzo e buttò fuori tutta l’anidride carbonica che gli riuscì di espellere.
Si guardò brevemente attorno, prese un sasso e lo picchiò con violenza sulla parete alla sua destra. Cominciò a segnarla, tracciando una linea bianca mentre camminava.
— Si può sapere almeno dove stiamo andando? —
— Alla sorgente. —
Nonostante tutta la buona volontà che poteva averci messo nel seguire lui, sperando che accondiscendere alle sue richieste gli avrebbe permesso di tornare prima a casa, Zachary si fermò di nuovo.
Aveva appena preso atto di qualcosa che avrebbe preferito ignorare.
— Sei il pazzo della sorgente! — Esclamò, al metà tra il vittorioso e l’inorridito. Stava davvero seguendo un folle!
— Alcuni mi chiamano così. — Replicò lui piattamente — Non per questo dobbiamo entrare in confidenza, ragazzo. —
Zachary non lo stava ascoltando. Prestava più attenzione agli echi di voci lontane, dicerie, sussurri, bisbigli da corridoio: il pazzo della sorgente, un vecchio che credeva nell’esistenza di una fonte magica e che aveva votato una vita intera al suo ritrovamento. Nessuno aveva mai capito cosa stesse a significare l’aggettivo “magica”: vita eterna, ambrosia, latte e miele...
Alcuni dicevano fosse solo una leggenda, altri credevano che il pazzo esistesse, ma che la sorgente fosse solo frutto della sua mente malata.
Zachary faceva parte dell’ultimo partito (come fare altrimenti? Il pazzo l’aveva di fronte).
Stavano soltanto perdendo tempo.
Alzò lo sguardo su lui, poco più avanti. Le rughe sulla sua fronte sembravano tessere il filo di pensieri contrari all’ennesimo contrattempo su un’ipotetica tabella di marcia.
Se proprio dovevano sprecare il loro tempo, che almeno ne sprecassero poco.
Il giovane inspirò a fondo, rimise il sasso sul muro e raggiunse l’uomo. Lo divertì vederlo esitare di fronte ad un sorriso che si domandava se avrebbe dovuto fingere di vedere una sorgente inesistente.
Dopotutto, sarebbe potuta andargli peggio.

Quando la mascella, dedita alla caduta in stile libero verso il suolo, decise di tornare a rispondere ai suoi comandi, Zachary balbettò — Cos’è... cos’è questo? — E indicò davanti a sé.
Il cunicolo che avevano percorso terminava in un’immensa grotta circondata da stalagmiti simili a colonne portanti. Sul pavimento, rigagnoli bagnati convogliavano al centro di quella che il ragazzo intuì trattarsi della sorgente: un flusso d’acqua che scivolava su alcune rocce per tuffarsi nella pozza sottostante.
Ma più di ogni altra cosa, a colpire era la luminosità del luogo, illuminato da una tenue luce azzurrina proveniente dalla fonte stessa e che, percorrendo i filami d’acqua che la circondavano sul pavimento, creava un disegno simile ad un arabesco.
Era la prima volta che Zachary tratteneva il fiato non per paura, ma per l’onore di poter osservare qualcosa di tanto bello.
Lui lo aspettava a pochi passi dal lago, le mani affondante nel gilet imbottito e gli scarponi che dondolavano sulle punte.
— Ragazzo, ti perdi il meglio stando lì. — Lo rimproverò.
C’è dell’altro?” Si domandò il giovane, timoroso che avanzare di un passo avrebbe profanato quel luogo. Forse la magia sarebbe svanita, la luce, qualunque ne fosse l’origine, si sarebbe spenta e sarebbe rimasto solo con lui al buio. Avrebbe potuto annegarlo, se si fosse avvicinato. Possibile. Quello era pazzo.
Avanzò circospetto, senza toccare l’acqua, con una sorta di veneranda attenzione. Cercò di fermarsi rimanendo ad una trentina di centimetri dalla superficie chiara dell’acqua, ma lui gli fece cenno di avvicinarsi ancora.
— Beh? —
— Bevi. —
Zachary sgranò gli occhi. Scosse il capo e portò d’istinto la schiena all’indietro.
Inutile tentare di opporsi: la prima regola aleggiava nell’aria senza bisogno di una lingua dove annidarsi perché se ne sentisse il peso sulle spalle.
Chinandosi verso l’acqua, Zachary assunse l’espressione più schifata del suo repertorio. Portò le mani a coppa alle labbra e mando giù.
Per un momento credette che dovesse esplodergli in bocca o che scendendo lungo la gola tagliasse la giugulare... temeva quanto di più catastrofico e irreparabile il suo cervello fosse in grado di formulare, ma non accade nulla.
Guardò lui, sorpreso — È frizzante! —
— Lo so. — Disse l’uomo — L’ho assaggiata anch’io. —
— Come... sapeva... — Zachary si alzò e indicò allusivo la sorgente.
Lui alzò le spalle — Me ne parlò mio padre, anche se non mi disse mai dove trovarla. — Socchiuse gli occhi, come se stesse scrutando i suoi ricordi da lontano — Mi ci sono voluti anni. —
Il ragazzo ancora non capiva. Perché mostrargliela?
Se proprio la scelta di sequestrarlo, tra tutti, doveva imputarsi ad una fatalità, rimaneva il fatto che, anche venendo a conoscenza dell’esistenza della sorgente, non sapeva cosa lui si aspettasse che facesse.
Accennò ad esporre i propri dubbi a voce alta, quando lui lo precedette, facendo sfoggio del suo intuito — Il tuo compito ora è quello di uscire da questa situazione, ovvero di applicare la terza ed ultima regola. —
Zachary aggrottò la fronte perplesso — Quale situazione? —
— Quella che ti vede decidere se dire a tutti della sorgente e venir tacciato di follia o tenerti il segreto per te. —

A conti fatti, il pazzo della sorgente aveva deciso di andare in pensione, ma prima aveva pensato di lasciar in eredità il suo ruolo a chiunque egli fosse riuscito a trascinare fino all’acqua.
E ora Zachary era messo nella condizione di dover scegliere se prendersi il titolo o fingere che nulla fosse successo.
Osservò lo scorrere dell’acqua lungo la roccia e le minuscole bollicine che salivano in superficie. Era bellissima, luminosa, fresca... dava un senso di pace che avrebbe saputo rasserenare l’animo più inquieto.
Sospirò, abbassando il capo. Non era giusto che solo loro ne fossero a conoscenza e il resto del mondo ritenesse una tale meraviglia una mera leggenda.
Poi fu come folgorato da un’idea: sul momento gli parve banale, ma era probabile che lui non ci avesse pensato. Aveva l’aria di chi agisce senza prendere in considerazione la possibilità che esistano modi più facili per giungere ad un medesimo risultato: caricava a testa bassa e partiva. Riflettere? Una futilità.
— Scusa, — Zachary soffocò una risata — non sarebbe stato più facile portare un bicchiere d’acqua fuori di qui? Voglio dire, invece che sequestrare me e chiedermi se volevo diventare il nuovo pazzo della sorgente? —
Aveva fatto centro. Lui non ci aveva pensato.
Schiuse le labbra sottili e rimase muto nel proprio stupore.
Suo padre gli aveva raccontato dell’esistenza di una sorgente da cui sgorgava acqua magica, ma non si era mai preoccupato di farlo sapere ad altri se non al suo erede. Aveva creduto fosse un segreto di famiglia da tramandare di generazione in generazione, anche se poi non aveva esitato a dire la verità a chi gli aveva chiesto cosa cercasse tutto il giorno a bordo del suo pick-up. Sapeva che non gli avrebbero creduto. Un segreto a cui nessuno dà credito rimane ancora segreto, solo che non ne rimane segreto il contenuto, quanto il fatto che sia vero.
Quando finalmente aveva trovato l’acqua si era solo rammaricato di non avere un erede a cui tramandare l’esistenza della sorgente. Dopotutto, non gli era mai importato che la gente lo chiamasse pazzo.
Lui si schiarì la gola, portando le nocche alla bocca. Ricambiò lo sguardo di palese divertimento di Zachary con un’ostentazione d’indifferenza.
— Sapevo che eri intelligente, ragazzo. — Svuotò il contenuto delle sue tasche, consistente nelle chiavi del pick-up, la torcia elettrica e in una caramella — Ma non ho nulla con cui raccoglierla. Hai forse un bicchiere con te? —
Zachary scosse il capo e disse — Uscire da qualunque situazione sempre e comunque. Troveremo qualcosa. —

Levigarono una pietra a mo’ di ciotola, presero dell’acqua e si avviarono verso l’uscita.
Forse, dopo, non li avrebbero appellati come i pazzi della sorgente.



RE - Recensioni

Angiericcio: grazie mille per aver rinnovato i complimenti, la mia poca-autostima ne giova sempre. Per ciò che si vede senza occhiali… non ho proprio niente di meglio da fare la notte che meditare su come descrivere la vista di un miope, ma sono contenta sia risultata realistica. Sinceramente ho cercato di evitare il classico "contorni sfocati", che secondo me non rende troppo l'idea. Grazie ancora.

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Capitolo 4
*** Un Plastico ***


Epilogo
Un Plastico


Non appena le porte automatiche dell’ascensore si furono chiuse alle loro spalle, il dottor Ward si voltò ad accogliere i coniugi Oakley: la signora Eleanor, così piccola che si sarebbe detta una bambina, e il signor Howard, un uomo nella media che come tale odiava gli ospedali. Forse era per proteggere la moglie dai medici che le teneva una mano su una spalla, il braccio dietro il suo collo.
Il dottor Ward ricambiò il caldo sorriso della donna e sillabò un “buongiorno” muto. Lei fece un cenno d’assenso col capo. Con il signor Oakley invece ci fu una più distaccata stretta di mano. Si guardarono brevemente un istante, poi distolsero entrambi lo sguardo e lo portarono sul vetro accanto, imitati da Eleanor.
Senza che li potesse vedere, un ragazzo dai capelli biondi e gli occhi scuri, cerchiati dalla montatura nera di un paio di occhiali, si stava dedicando anima e corpo alla costruzione di quello che sembrava il plastico di una montagna, seduto a gambe incrociate sul pavimento vicino al letto.
— Come sta? — Domandò Howard osservando il figlio parlare senza che nessuno fosse lì ad ascoltarlo. Eleanor probabilmente ne stava leggendo il labiale.
— Meglio. — Rispose il dottore dopo un sospiro. Si rigirò una penna tra le mani e aggiunse — Quantomeno ha smesso di trattenere il respiro per non sottoporsi alle cure mediche. È più collaborativo. —
Eleanor indicò il plastico, interrogativa.
— Nell’ultimo delirio credeva che un certo lui l’avesse assoldato per trovare una sorgente al centro di una montagna. —
Il dottor Ward sembrava aver terminato, ma il signor Oakley lo costrinse ad argomentare meglio la sua spiegazione: a suo avviso si stava soltanto assecondando la malattia del figlio, piuttosto che curarla.
Il medico fece un mezzo sorriso, che andò a scontrarsi con l’espressione contrariata dell’altro — Stiamo cercando di veicolare la schizofrenia di Zachary a qualcosa di materiale, come un plastico, così che non corra rischi nel seguire immagini astratte create dalla sua mente. L’ultima volta l’abbiamo trovato nel frigorifero delle cucine perché “aveva trovato l’acqua”, ignaro che stesse andando in contro ad ipotermia. —
Eleanor, in mezzo a loro, tornò a guardare oltre il vetro. Sorrise al figlio, consapevole che, anche se non ci fosse stato quel particolare tipo di vetro a dividerli e a impedirgli di vederla, era comunque troppo preso dal modello della montagna per prestare attenzione altrove.
Gli sorrise perché lui le aveva sempre parlato, anche se non poteva sentirlo, insegnandole fin da subito la gioia di vedere le labbra piegarsi a formare la parola “mamma”.

— Ti credono pazzo. — Osservò lui, seduto sul letto. Aveva il tono divertito di chi, in ogni caso, non si aspettava un epilogo diverso.
Zachary fissò con della colla alcune rocce sulla base del plastico. Erano minuscole, facevano ridere. Quelle della vera montagna erano molto più grandi.
— A lui non è mai importato. — Rispose dopo un po’.
— Ovvio. Se dovessimo dare retta a quel tuo dottore, io esisto solo nella tua testa. —

Se avessero creduto alle parole del dottor Ward, nessun “lui” sarebbe mai nato e non ci sarebbe stata nessuna sorgente da cui attingere un’acqua magica, frizzante e luminosa.
Zachary doveva forse credere di montare il plastico di qualcosa che non c’era?


— Io dico che sono loro i pazzi. Magari sono loro ad essere frutto delle nostre menti. —
Lui sollevò appena le sopracciglia, stupito. Era la prima volta che sentiva una cosa simile. In altre parole, quel ragazzo sosteneva che loro avessero creato il mondo.
Rise. Era un punto di vista interessante.

E certamente folle.



RE - Recensioni

AngiAstrid: a volte vorrei fosse possibile esprimersi in altro modo, ma non posso fare altro che dire "grazie" ancora e suonare ripetitiva. Infatti di solito non rispondo, ma quando comincio mi piace rispondere fino alla fine. A proposito di "fine" spero che il finale non ti abbia delusa. Come detto anche altrove, era un pezzo che desideravo di scriverne uno simile e finalmente ce l'ho fatta.
Grazie di cuore per essere giunta fin qui. Uno dei miei più grandi vanti è avere anche solo una lettrice che legge dall'inizio alla fine… se poi recensisce, quantomeno me lo fa sapere e io posso vantarmi.
Un sorriso :)

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