A nuova vita

di Melisanna
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Infanzia ***
Capitolo 2: *** Adolescenza ***
Capitolo 3: *** Giovinezza ***
Capitolo 4: *** L'età adulta ***
Capitolo 5: *** La Morte ***



Capitolo 1
*** Infanzia ***


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Alto nel cielo vola il corvo, viene a prelevare la mia anima.

Ho ucciso mia madre e giaciuto con mio padre. Mai più vedrò il mondo con occhi umani.

Mia madre praticava. Per colpa mia, come amava ricordarmi. Era molto bella e fin da giovanissima aveva mostrato una sorprendente attitudine alla danza. Era stata notata ed aveva cominciato ad esibirsi con un certo successo, tanto che le avevano organizzato una tourné nell'isola centrale: "la fanciulla alata" la chiamavano. Ma aveva conosciuto mio padre. Parlava sempre di lui quando era ubriaca, cioè la maggior parte del tempo, disperandosi perché era sparito dopo averle rovinato la vita e la carriera, lo malediceva e poi pregava perché tornasse. Stringeva il medaglione d'avorio che portava sempre, piangendo, poi mi afferrava le braccine infantili e, guardandomi negli occhi, mi chiedeva "Perché sei nata?". Che domanda dificile da fare a un bambino, io non sapevo rispondere. Talvolta me lo chiedo anche ora "Perché sono nata?" e non ho ancora trovato risposta.
Ho passato la mia infanzia accanto ai fuochi da campo dei soldati. Mia madre si era unita ai disperati e agli approfittatori che seguono le truppe per fornir loro compagnia, alcool e sesso. Quel che mi ricordo di quel periodo è che ero sempre sola. Non perché fossi l'unica bambina in quella massa eterogenea, ma ero troppo diversa per piacere agli altri. Capivo le cose e parlavo come un adulto e trovavo stupidi i loro problemi. Forse se avessi finto di essere meno intelligente di quello che ero, sarei riuscita a farmi accettare, ma ero troppo orgogliosa. Imparai a cavarmela da sola e a tenere gli altri a distanza. Imparai anche a difendermi, perché i paria sono da sempre le prede favorite di tutti.
Avevo poco più di sette anni ,quando venni aggredita da un branco di teppistelli. Non ricordo bene cosa avvenne, ero terrorizzata e il sangue che perdevo dalla fronte mi annebbiava la vista. So che afferrai una pietra e colpii quello che mi teneva sotto e lui cadde, senza un suono, con gli occhi vitrei. I miei aggressori mi lasciarono e fuggirono in preda al panico. Io rimasi in piedi accanto al corpo, finché mia madre non venne a trascinarmi via. Fui fortunata che il ragazzo era orfano e nessuno reclamò giustizia. Quel giorno appresi quanto grande sia il potere della morte, che aveva trasformato quel ragazzo grande, grosso e violento, che gridava con voce stridula e mulinava i grossi pugni, in una cosa immota e silenziosa che fissava il cielo serenamente. E giurai che mai più avrei avuto paura della morte, ma che le avrei camminato al fianco. Lunghi anni di pratica solitaria mi insegnarono a muovermi nel più assoluto silenzio e a centrare una mela con un sasso da quindici metri: non farsi notare e colpire a distanza, sono i precetti che mi hanno segnato la vita.
Un paio di anni dopo un giovane soldato, colpito dalla mia mira, si interessò a me e mi prese come allieva. Era poco più di un ragazzo, un apprendista lui stesso, ma era la cosa più simile ad un maestro che avessi mai avuto. Veniva tutti i giorni a prendermi, il mio Sota, e mi insegnava a combattere. Per la prima volta in tutta la vita qualcuno sembrava ritenermi importante e io mi sentivo felice. Mi costruì lui stesso un'arma, a imitazione della sua, legando un falcetto a un peso con una lunga corda. Io avrei voluto una kusarikama vera, ma lui rideva, dicendo che non sarei neanche riuscita a sollevare la pesante catena, tanto meno a lanciarla. Voleva che diventassi una guerriera e io mi sforzavo di soddisfarlo in tutti i modi, arrivando ad allenarmi di notte, dopo aver svolto le mie faccende. Fu da lui che mi rifugiai quando mia madre morì.

Accadde il giorno del mio undicesimo compleanno.

Una bambina siede in ginocchio accanto a un basso tavolino. Ha lunghi e arruffati capelli neri ed è snella e dall'aspetto fragile. accanto a lei è posato un falcetto, una corda logora lo lega ad un piccolo peso. Il tavolo è apparecchiato con stoviglie in legno e terracotta dall'aspetto dimesso, ma la cena è molto ricca, con diverse pietanze cucinate con cura, persino un piatto di carne. La bambina mangia timidamente, ogni tanto alza gli occhi verso la madre, seduta di fronte a lei, come per chiedere conferma che quel banchetto è a sua disposizione. Sembra che aspetti che qualcuno le porti via il cibo e la punisca per averlo toccato. Ma c'è anche qualcosa in più negli occhi della bambina, come se sospettasse, con una lucidità anomala per la sua età, che quell'improvvisa liberalità nasconda qualcosa.
"Coraggio, mangia, è il tuo compleanno! Guarda quanta buona roba! Mi ricorda quando ero famosa, allora cenavo così tutte le sere..." . La bambina è contenta, stasera la madre non beve e non parla di quell'uomo, le ha preparato la cena e sorride. E' così bella! Con un sorriso così luminoso! La bambina non può fare a meno di sorriderle di rimando. Forse in fondo non c'è niente da temere, forse la madre vuole davvero festeggiare il suo compleanno e forse, ma solo forse, oggi non è pentita di averla fatta nascere. "Ma guarda questi capelli! Sono tutti spettinati! Dovresti tenerli un po' meglio, stai ferma che li pettino". Alla bambina piace che la madre le pettini i capelli. Non lo fa spesso. La madre si siede dietro di lei e le comincia snodare i capelli con un grosso pettine di legno. "Siamo rimaste soltanto tu ed io. La mamma vuole bene solo a te. Ma quanti nodi! Anche tu devi volere bene alla mamma. Lei ha solo te. E' così sola ora che papà se ne è andato. E' sempre sola." La bambina si agita a disagio, questo non le piace. Quando comincia a parlare così, la madre si mette a piangere. E' brutto quando lei piange. La bambina non vuole assolutamente che lei pianga il giorno del suo compleanno. E non vuole che pensi a quell'uomo, vuole che pensi a lei. La bambina dà alla madre un ciondolo intagliato nell'osso. "Che bello! E' così bello! Lo hai fatto tu?" La bambina annuisce. "E' così brava la mia bambina, così intelligente, lo dicono tutti! Sa fare così tante cose" La madre scoppia a piangere. Abbraccia la bambina, la stringe così forte che quasi non la lascia respirare. "Mi dispiace che tu debba finire così... mi spiace tanto.. siamo rimaste soltanto noi due... non c'è altro da fare... se solo tuo padre non se ne fosse andato, saresti vissuta in una reggia... se soltanto avessi il sangue, se ti fossi risvegliata, forse sarebbe tornato a prenderci... ma così non puoi fare altro, dobbiamo pur vivere in qualche modo... Ormai sei abbastanza grande, devi cominciare a portare un po' di soldi a casa...tante qui hanno cominciato anche più piccole". Negli occhi della bambina qualcosa si spegne. Adesso ha capito. Capisce dove la madre ha trovato i soldi per la cena e perché oggi le vuole bene. Vorrebbe avere il sangue, così si risveglierebbe e quell'uomo tornerebbe. Allora forse sua madre sarebbe davvero felice che lei sia nata e il suo compleanno sarebbe una buona ragione per festeggiare. Ma non è così, la bambina sa che non sarà mai così. Sua madre non sarà mai felice, lei non può fare nulla per renderla felice. La bambina afferra il falcetto e lo affonda nel ventre della madre. La madre la lascia. Guarda la bambina con un'espressione strana. Non sembra che il colpo le abbia fatto male, pensa la bambina, sembra stupita e basta. La bambina estrae il falcetto. Dalla ferita cola molto sangue, non credeva che sarebbe uscito così tanto sangue. La madre si tocca il ventre con le mani, poi se le porta al volto e le guarda ottusamente, con aria attonita. Prova a dire qualcosa, ma al posto della voce dalla bocca le esce un rivolo di sangue. La madre si accascia sulla bambina, continuando a fissarla con gli occhi che piano piano si spengono. La bambina la guarda di rimando, con occhi altrettanto vuoti. Poi la madre muore. La bambina se la spinge via di dosso, le sfila dal collo un medaglione d'avorio e se lo mette in tasca.

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Capitolo 2
*** Adolescenza ***


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Pulii la lama e mi cambia. Poi corsi da Sota. Singhiozzai tra le sue braccia, piangendo per la morte di mia madre. Lui mi consolò e non mi chiese mai niente, di puttane ne muoiono tante.

Convinse la vivandiera a prendermi al suo servizio. Lei mi rasò la testa perché non prendessi i pidocchi, mi indicò l'angolo del carro dove potevo dormire insieme agli altri sguatteri e si dimenticò di me. Non credo abbia mai nemmeno saputo il mio nome. Si limitava ad urlare un ordine e si aspettava che venisse eseguito da una di quelle entità senza volto che le si aggiravano intorno. Se il lavoro era ben fatto, tutti ricevevamo di che mangiare, altrimenti tutti venivamo frustati dalla sua pesante cinghia di cuoio. Chi dovesse svolgere i compiti era affar nostro, bastava che venisse fatto tutto in fretta e bene. Come ultima arrivata mi ritrovai in fondo alla gerarchia, toccava a me passare gli strofinacci e grattare il fondo degli immensi calderoni, tenere il grande fuoco acceso e andare a riempire i secchi al fiume. Ma un po' alla volta riuscii a trovare il mio equilibrio, imparai a rispondere al volo agli ordini più graditi e a non farmi mettere sotto. Ed ebbi un'idea. Fino ad allora erano sempre stati i più forti o i più veloci ad aggiudicarsi i lavori migliori. Mentre gli altri dovevano sgobbare fino a spezzarsi la schiena, loro aiutavano la cuoca ai fornelli e si saziavano rubacchiando qualcosa qua e là. Altri, se si trovavano costretti a fare un lavoro duro, lo facevano volontariamente così male che venivamo tutti puniti. Io organizzai dei turni. Ognuno aveva diritto a un compito più piacevole dopo uno duro. Quando qualcuno si rifiutava di svolgere il suo dovere, per quanto fosse grande e prepotente poteva star certo che non sarebbe sfuggito alla nostra vendetta. Nottetempo riunivo tutti gli altri. Lo afferravamo, gli tappavamo la bocca con uno straccio perché non gridasse e lo riempivamo di lividi. In cambio chiunque avesse davvero bisogno di aiuto lo riceveva. Funzionava. I lavori venivano svolti e tutti erano soddisfatti. Riuscii a instaurare con loro una specie di rapporto di mutuo soccorso. Per il resto io me ne stavo per conto mio, non cercavo di mischiarmi ai loro giochi e loro mi lasciavano stare.

Tutte le sere andavo a trovare Sota. Se aveva voglia mi insegnava a combattere con la kusarikama, altrimenti mi raccontava quello che aveva fatto durante il giorno e io ero contenta di ascoltarlo. Gli mostravo i miei progressi, come la mia mira migliorasse di giorno in giorno, come la mia lama diventasse sempre più rapida e letale e come mi abituassi un po' alla volta a maneggiare la pesante catena. Lui era deliziato dalla velocità con cui imparavo e sognava di farmi diventare famosa, magari in un'arena. Diceva che saremmo diventati ricchi, ci saremmo comprati una villa e avremmo avuto anche dei servitori. Non credevo neanche allora che sarebbe mai stato possibile, ma era piacevole stare lì con lui che mi descriveva la nostra vita futura. E forse avremmo davvero potuto andare ad abitare insieme un giorno, non in una villa, ma in una casetta da contadini, avere tutto quello di cui avevamo bisogno e essere felici. Lui era l'unico padre che desiderassi.

E' sera. Una ragazzina si sta lavando il viso seduta sulla riva di un ruscello. Ha i capelli neri tagliati corti e una vestina lacera. E'molto magra, ma un seno acerbo comincia a gonfiarsi sotto il kimono. Ha un espressione pensierosa, vagamente triste. Nella cintura porta un falcetto e un peso, legati con una corda. Poco lontano, alle sue spalle, le prime tende di un campo militare, accanto a lei un grande melo allunga i suoi rami sul ruscello.

Un giovane esce dalla massa e si dirige verso di lei. Porta alla vita una kusarikama ed ha un volto gentile. La chiama, lei si volta e lui alza una mano per salutarla. La ragazzina gli corre incontro, un sorriso timido che si allarga sul viso. "Come sta la mia bambina? E' andato bene il lavoro? Non ti hanno rimproverata?" Lei risponde sottovoce. Il giovane le arruffa i capelli, la ragazzina lo guarda adorante. "Mi fai vedere cosa hai imparato oggi? Sì? Dai, sono curioso". La ragazzina infila i lembi del kimono nella cintura, scoprendo le gambe magre, prende la sua strana arma e fa danzare il peso intorno a se. E' concentrata, maneggia l'arma come se ne andasse della sua vita. In modo un po' impacciato, si muove secondo i passi di un kata. Il ragazzo si è seduto con la schiena appoggiata all'albero e la osserva con attenzione. Sembra che stia studiando i suoi movimenti, ma ogni tanto il suo sguardo scivola lungo le gambe nude della ragazzina e sulla sua scollatura distratta. La ragazzina finisce il kata, è leggermente sudata e ha un po' di fiatone, ma si volta verso il giovane con espressione raggiante. Il giovane applaude e le sorride. Ha un sorriso aperto e rassicurante! Alla ragazzina piace tanto. Il giovane è sempre allegro, non piange mai, è felice. E' felice che lei sia così brava. Il giovane le fa cenno di avvicinarsi. "Sei stata eccezionale, migliori sempre! La mia piccola guerriera!" La ragazzina si siede accanto a lui. "Certo, ora non sei più tanto piccola, quanti anni hai?" La ragazzina lo guarda, c'è qualcosa di strano. "Tredici" sussurra. "Tredici anni? Ma allora sei grande, una donna." La ragazzina si sente a disagio, qualcosa non va, decisamente. Le fa piacere che lui pensi che è una donna, ma non riesce ad essere proprio contenta. C'è una luce nello sguardo del giovane, una luce che le ricorda qualcosa di brutto. Qualcosa che ha a che fare con gli uomini che andavano a trovare sua madre. Il giovane la spinge contro il tronco e la bacia. E' una bacio lungo e profondo. Alla ragazzina non piace, non riesce a respirare e lui la stringe troppo forte. Rimane ferma e spera che lui smetta. "Ormai sei grande, non dovresti continuare ad andare in giro con le gambe nude come una bambina". La ragazzina si agita un poco, quando lui le infila una mano nel kimono e le stringe il seno, cerca di allontanare la mano, questo non va bene, sa cosa succederà ora. Lo hai imparato per forza se hai passato la tua infanzia in un bordello. "Non fare così, stai ferma. Sei grande, vedrai che piacerà anche a te. E' quello che vuoi in fondo, no?" Il giovane smette di baciarle il collo e le sorride. La ragazzina vorrebbe dire di no, che questo non è ciò che vuole lei, proprio no. Ma non ci riesce, si limita a scuotere la testa e a tentare di spingerlo via. Ma il giovane è molto più forte di lei, più grosso e pesante. La tiene ferma contro il melo, mentre le accarezza le gambe salendo sempre più in alto. "Vieni tutti i giorni da me, con le gambe nude e mi guardi in quel modo. Credi che non me ne sia accorto? Sono un uomo anche io, se mi provochi così, non ce la faccio a resistere." La ragazzina piange silenziosamente. Lei non voleva provocarlo, pensava di non doversi preoccupare di niente quando era con lui. Il giovane le slaccia la cintura. " E' perché ti voglio bene che lo faccio. Mi vuoi bene no? Allora ti piacerà. Stai ferma. Mi ferisci se ti agiti così" La ragazzina smette di divincolarsi, si sfrega gli occhi con il braccio per asciugare le lacrime. Lei vuole che lui le voglia bene, vuole che sia felice. Il giovane si abbassa i pantaloni. Gli occhi della ragazzina si fanno vacui quando lui la prende.

E' buio. La ragazzina è distesa accanto all'albero., lo sguardo fisso nel vuoto. Il giovane è seduto accanto a lei, appoggiato al tronco. Tiene la testa fra le mani e singhiozza. "Mi spiace, non volevo. Davvero non volevo... Ma non sono riuscito a resistere. Mi faccio schifo... Non lo farò più, lo giuro, non lo farò più... E' solo... Sei sempre lì, davanti a me, e io non posso averti... Non ce la facevo più ad aspettare " La ragazzina sente le parole rimbombare nel vuoto che ha in testa. Sembra che arrivino da lontano lontano, da un altro mondo. Il giovane non è felice. Lei credeva che lo fosse. Invece anche lui è come sua madre. Desidera qualcosa che lei non può dargli e piange. Lei vorrebbe dargli quello che lui vuole. Ma non può. Potrebbe permettergli di giacere con lei, ma lui sarebbe triste lo stesso. Piangerebbe come oggi, perché saprebbe di spezzare ogni volta qualcosa dentro di lei. La ragazzina lo sa. Il rimorso lo divorerebbe. Forse finirebbe per odiarla, per desiderare di non averla mai conosciuta. Il giovane non potrà mai essere felice, lei non può fare niente per renderlo felice. La ragazzina si alza. Il giovane continua a singhiozzare senza sollevare lo sguardo. Senza un suono, la ragazzina prende la sua arma. Torna verso il giovane, con un gesto rapido e deciso gli affonda la punta del falcetto nella nuca. Il giovane crolla a terra. La ragazzina rovescia il corpo sulla schiena. Slaccia la cintura e si porta via la kusarikama.

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Capitolo 3
*** Giovinezza ***


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Non potevo restare lì dopo quello che era successo.

Tornai ai miei alloggi, mi preparai una piccola sacca e sparii. Vagai per mesi, senza sapere dove andavo. Non so come riuscii a sopravvivere a quel periodo, in qualche modo trovavo il cibo di cui avevo bisogno e sfuggivo ai predatori, umani e non. Ogni notte mi assalivano gli incubi. Mi svegliavo mandida di sudore. Fissavo il cielo notturno scossa da brividi di terrore. Stringevo le braccia intorno al corpo e rimanevo immobile, ripetendo ossessivamente nella testa le parole di una qualche filastrocca e cercando di non pensare. Speravo che, se li avessi ignorai, i pensieri mi sarebbero scivolati addosso senza prestarmi attenzione. Ciò che mi impedì di perdere del tutto la lucidità fu la kusarikama di Sota. Mi teneva ancorata alla realtà. Mi allenavo tutti i giorni fino a cadere a terra sfinita. Solo nel vuoto che si creava nella mia mente quando avevo in mano l'arma trovavo la pace.

Ben presto smisi di sfuggire ai predatori. Allenarmi non mi bastava più. Avevo bisogno di combattere per non pensare, solo sfidando la morte in modo sempre più azzardato riuscivo a sopravvivere. Lottare per la mia vita mi regalava una notte di pace.

Non saprei dire quanto tempo passai così, un anno, forse meno, forse di più. Non saprei quanti uomini uccisi durante quei mesi. Li ho scordati tutti uno dopo l'altro.

Poi incappai in un grosso assembramento di truppe di una casata della Dinastia. Si erano accampati su una collina tranquilla e attendevano la fine dell'inverno per riprendere le ostilità. Io ero stanca di vagare e di combattere contro contadini fatti briganti dalla necessità. Avevo bisogno di sfide maggiori. Di qualcosa sotto cui seppellire i ricordi che mi assallivano. Ma dovevo convincere un comandante della Dinastia che una ragazzetta magra e stracciona potesse essere un ottimo acquisto. In serata scivolai tra le tende e vagai un po' per l'accampamento, cercando il punto migliore per poter attuare il mio piano. Non tentai in nessun modo di nascondermi e nessuno mi prestò attenzione: ci sono delle categorie di persone che sono invisibili agli occhi degli altri. Alla fine trovai uno largo spiazzo, non lontano dla centro del campo, dove un buon numero di soldati si era riunito per dividere insieme la cena e giocare d'azzardo. Li osservai per un po', protetta dalle ombre proiettate dalle tende. Erano allegri e ubriachi. C'era un ufficiale fra loro, scherzava con gli altri e bestemmiava quando perdeva. Era un dinasta, riconobbi le insegne, ma non sembrava uno dei Draghi. Non lontano da lui sedeva un uomo gigantesco, che beveva più di tutti e rideva forte,appoggiato all'impugnatura di un maglio.

Fu facile. Mi bastò entrare nel cerchio di luce. Camminavo in fretta tenendo gli occhi bassi, come per non farmi notare. Mi notarono subito. Tra i lazzi degli altri, l'uomo grosso si alzò e mi afferrò per un braccio. Io dissi che non volevo. Lui non mi ascoltò. Mulinai la lama del falcetto. Si tirò indietro con un ghigno, divertito all'idea che osassi sfidarlo. Afferrò l'impugnatura del maglio, fra le scherzose grida di incitamento dei suoi compagni. Il mio peso lo colpì al ginocchio e lui cadde a terra con una smorfia di dolore. Gli aprii la gola da parte a parte con il falcetto. Gli altri ammutolirono. Alcuni fecero per attaccarmi. Ma il Dinasta si alzò e mi propose di entrare nelle sue guardie personali.

Fu l'inizio di un periodo tutto sommato tranquillo. Avevo abbastanza da fare per non pensare troppo e, dopo la mia entrata in scena, tutti pensarono bene di lasciarmi stare. Ancora meglio, dopo un paio di anni divenni l'attendente di un altro comandante. I suoi uomini non mi conoscevano e, messo in chiaro che io non ero intezionata ad approfondire i rapporti, mi lasciarono in pace. Forse se avessi continuato a combattere al loro fianco e non mi fossi fatta notare, avrei passato con loro tutta la mia vita e sarei riuscita a tenere in qualche modo lontani i miei fantasmi.

Ma il mio destino era già segnato.

Una tenda di velluto blu scuro. Un uomo, seduto ad un tavolino di legno intagliato, sta scrivendo alla luce di una candela. Dimostra una quarantina di anni ed è riccamente abbigliato. Un soldato entra nella tenda. E' un po' affannato e sembra intimorito "Signore, vi ho portato il soldato che ha salvato i plichi, devo farlo entrare?" L'uomo continua a scrivere senza sollevare la testa. "Altrimenti perché ti avrei mandato a chiamarlo? Fallo entrare e vattene." Il soldato si inchina impacciato ed esce. Si sente qualche parola mormorata all'esterno della tenda, poi il pesante tessuto si solleva nuovamente. Entra una giovane. E' alta, con un fisico asciutto. I capelli neri sono legati in una coda scomposta e il suo sguardo azzurro è freddo e malinconico. Porta un'uniforme scura, senza simboli nè gradi. L'uomo finisce di scrivere, piega la lettera, versa una goccia di ceralacca sui bordi e vi preme un anello. Si volta verso la giovane. "Mi dicono che è solo grazie a te che la missione ha avuto successo, nonostante la morte di mio cugino. Come ha fatto una ragazzina umana a salvare dalle grinfie dei Mnemon le nostre missive ed a uccidere ben tre dei loro?" L'uomo è inquisitorio, ma sembra anche vagamente divertito. La giovane non lo guarda, fissa un punto nel vuoto davanti a se. "Il comandante Lammet portava soltanto delle lettere false, mi aveva affidato i plichi veri, temendo un'imboscata. Ha avuto ragione. Siamo stati attaccati sui passi innevati da tre uomini con le insegne di Mnemon. Si sono concentrati sul comandante, non c'è stato niente che potessimo fare per salvarlo, ma con una trentina di uomini sono riuscita a fuggire portando in salvo le lettere. Sono riuscita a calmare i miei uomini, li ho convinti che ne sarebbero usciti vivi solo se mi avessero ascoltato. Quando si sono accorti che i plichi sul corpo del comandante erano falsi, i Sangue di Drago hanno cominciato a inseguirci. Erano inesperti, non temevano degli umani e sono stati imprudenti, si sono divisi. Il primo si è accorto degli arcieri che lo stavano aspettando nascosto tra gli alberi. Li ha caricati prima che potessero incoccare. E' finito impalato dai lancieri che lo aspettavano nascosti sotto la neve. Il secondo ci a seguito sottoterra, nelle caverne scavate dal corso di un fiume. E' incappato nella trappola che avevamo preparato, ed è rimasto imprigionato. Erano solo funi, si sarebbe potuto liberare in pochi minuti. Ma è impazzito di rabbia e si avvolto nella sua aura di fuoco. Non è una buona idea accendere una fiamma sottoterra. Noi eravamo già lontani, ma abbiamo sentito la terra tremare per l'esplosione. L'ultimo ci ha raggiunto quando eravamo fra i boschi a valle. L'ho aspettato io stessa. Mi sono appostata su un albero. Non si è accorto di me finchè non ho lanciato il peso. L'ha parato con la spada senza difficoltà, ma la catena si è avvolta intorno all'arma bloccandola. Sono saltata giù dal ramo, strappando il suo braccio verso l'alto con il peso del mio corpo e ho avvolto la catena intorno al tronco. Se avesse lasciato l'arma sarei morta e con me tutti gli altri. Ma era troppo orgoglioso, ha cercato di liberare la spada tirando. Per un secondo è rimasto completamente indifeso. Gli arcieri lo hanno trafitto con una ventina di frecce." La giovane smette di parlare e continua a fissare il vuoto davanti a se. Non si aspetta niente. Non c'è niente che un umano possa aspettarsi da uno dei Draghi, soprattutto quando si è dimostrato più furbo di loro. Si domanda se il generale si dimenticherà semplicemente di lei, se la punirà per non aver salvato il comandante o se magari la farà giustiziare insieme a tutti i suoi uomini per aver osato alzare le mani su dei membri della Dinastia. Forse la loderà con condiscendenza e la affiderà ad un altro ufficiale. Si potrebbe essere così, dicono che sia un uomo giusto. Il comandante si alza. "Sei stata abile, soldato. Ti darei il posto di mio cugino, ma non sarebbe una mossa saggia dare i gradi ad un umano esterno alla Dinastia" Lo sapeva, come sono facili i Draghi da capire! Esattamente come gli uomini. La giovane non è delusa, è quello che si aspettava. A lei non interessano i gradi, comunque. "Diventerai l'attendente di un altro ufficiale" La giovane si domanda distrattamente chi sarà, spera che sia un dinasta umano, non le piacciono gli stirpe di drago. Quell'uomo era uno Stirpe di Drago. "Fatti dare degli abiti migliori, non puoi vestire come uno straccione al mio servizio. E non mentirmi più d'ora in poi soldato. Mio cugino era troppo sciocco e pieno di sè, perché l'idea delle lettere false possa essere sua." La giovane si volta. Per la prima volta guarda negli occhi il suo interlocutore. E' severo, con una sorta di fascino ruvido e uno sguardo penetrante. E' riuscito a prenderla di sorpresa. Forse non è del tutto stupido. Meno degli altri, per lo meno. "Come ti chiami soldato?" La giovane non risponde subito, l'ultima volta che qualcuno l'ha chiamata per nome è stato molto tempo fa e non è un ricordo lieto. Sceglie una parola a caso. "Silenzio". L'uomo la guarda. Lei capisce che si è accorto di nuovo della sua menzogna e, per la prima volta da anni, si sente a disagio. Ma lui annuisce "E Silenzio sia. Va a riposarti, domattina ti voglio in piedi all'alba."

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Capitolo 4
*** L'età adulta ***


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Non ci sono più stati commenti ... :( ... spero che almeno Nykyo stia continuando a leggere! Il prossimo capitolo sarà l'ultimo! Cercate di lasciarmi le vostre impressioni, prima che finisca di pubblicare :)

Un servo mi preparò un bagno caldo e mi portò morbide vesti nere di seta e velluto. Dormii in un vero letto e il giorno dopo cominciai a lavorare al servizio del comandante Leedal---. Mi strappò dai campi di battaglia, vietandomi persino di allenarmi. Sosteneva che la mia vita era troppo breve per perdere tempo in un'attività nella quale, anche il più debole degli Stirpe di Drago mi sarebbe stato sempre immensamente superiore. Invece mi insegnò a leggere ed a scrivere. Io scoprii in me una fame di conoscenza che non credevo di avere. Una volta bevuto da quella fonte non potei più farne a meno. Ogni settimana lui mi dava un libro da leggere e apprendere e io lo divoravo in ogni attimo di pausa. Studiai storia, geografia, matematica, biologia, araldica e teologia. Dovevo presenziare alle riunioni con gli altri ufficiali, per imparare tattica e strategia. Mi parlava della situazione politica del regno, dei ruoli delle varie famiglie, delle poste in gioco. Un giorno mi portò una pergamena con un centinaio di ritratti miniati e pretese che per il giorno seguente fossi in grado di riconoscerli tutti. Infine mi introdusse alle scienze occulte, per le quali avevamo entrambi una predilezione. Le miei giornate erano così piene che riuscii a tenere i ricordi in un angolo buio della mente. A volte venivano a visitarmi di notte, ma accadeva sempre più raramente. Non soltanto perchè ero così stanca da sprofondare spesso in un sonno cieco. Avevo trovato in --- qualcuno che non mi era assolutamente secondo in intelligenza e che mi superava di gran lunga per cultura ed esperienza. Qualcuno per cui riuscivo a provare ammirazione e di cui desideravo la stima. Sentivo una totale comunione di pensiero e di sentimento con quell'uomo che aveva vissuto una vita così diversa dalla mia. Un uomo completamente opposto a me per nascita, classe e persino sostanza. La sua presenza scacciava i miei fantasmi e leniva le mie ferite. Risvegliò la mia voglia di vivere, mettendomi davanti a sfide continue e abbattè i muri della mia anima, concedendomi fiducia e rispetto. Appena mi ritenne sufficientemente pronta, mi affidò i compiti più delicati e cominciò a consultarsi con me su ogni questione, preferendo i miei giudizi a quelli dei suoi ufficiali. Passavo le miei giornate con lui servendolo come scudiero, segretario e consigliere e le notti studiavo per poter soddisfare le sue aspettative.

Per la prima volta vidi un uomo con gli occhi di una donna. Il suo salino profumo di mare ebbe ragione del disgusto che mi causavano gli altri effluvi maschili, la sua vicinanza non mi era odiosa come quello di qualsiasi altro, al contatto con il suo corpo e solo con il suo, non venivo assalita da ondate di nausea. Un giorno la mia repulsione per gli uomini fu vinta del tutto e mi scoprii a desiderarlo.

L'interno di un fortino. Il buio è rischiarato dalla luce di una candela che illumina uno scrittoio in legno su cui è fissata una carta geografica. Una giovane donna è in piedi di fronte ad essa. Tiene entrambe le mani appoggiate sul tavolo mentre la studia. Ha un volto attraente, nonostante il naso aquilino, e un fisico atletico. Indossa comode vesti in velluto nero e porta i capelli acconciati con cura nella foggia dei samurai. E' intenta e concentrata mentre studia la mappa. Accanto a lei un uomo. "Da dove credi che attaccheranno?". La donna indica un punto sulla mappa "Dai valichi, caleranno su di noi dalle foreste a nord e da qui, scenderanno lungo il fiume per cercare di accerchiarci". L'uomo le si fa più vicino e guarda la mappa da sopra le sue spalle "Sì, è quello che credo anche io. Come organizzaresti la difesa?" La donna si irrigidisce quando le vesti fluenti dell'uomo la sfiorano. Incosciamente cambia appoggio sulle gambe, per farglisi più vicino e prolungare il contatto. Se ne rende conto e si sposta di nuovo, infastidita. Lei non è debole. Non ha bisogno di un uomo. Non è come sua madre. "Qui in alto, sopra i valichi, pochi uomini con equipaggiamento leggero. Arcieri soprattutto." L'uomo si china sulla mappa. Posa una mano sul tavolo, passando il braccio oltre il corpo di lei. La donna sente il suo calore attraverso le vesti. Si accorge di aver perso il filo di ciò che stava dicendo. Chiude un secondo gli occhi. Lei non perde mai il filo dei suoi pensieri. Soprattutto, non per un uomo. Neanche uno come il comandante. Riprende a parlare."Il grosso delle forze, invece, le apposterei qui e qui, in modo da chiudere in una tenaglia quelli che scenderanno lungo il fiume." Alza il volto verso il suo interlocutore. Torce il busto per poterlo vedere in viso. L'uomo la sta fissando. La donna vorrebbe che lui parlasse. "Comandante?" L'uomo le carezza il collo con una mano. La donna si irridisce. Non vuole che lui rempia i suoi pensieri. Non vuole lasciarsi andare. Non vuole amare. L'uomo si china e la bacia. La donna si stringe a lui in un abbraccio spasmodico.

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Capitolo 5
*** La Morte ***


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Finalmente pubblico l'ultimo capitolo! Scusate l'attesa, ma ho avuto un periodo un po' pieno e non mi ero nemmeno accorta che efp era risorto...

Balthus: Grazie per la recensione, però... come avevo anticipato questo capitolo è l'ultimo... spero che riesca a uscire dall'incertezza!

Kylie: Ti ringrazio molto di avermi lasciato le tue impressioni, sapere che qualcuno segue le mie storie mi aiuta molto a scrivere. Riuscirà Silenzio a sfuggire al destino di morte che la insegue fin dall'infanzia? Spero che il finale sia all'altezza delle tue aspettative ^_^

Lo amai con tutta la terrorizzata passione di una bambina ferita. Non riuscii ad arginare in nessun modo i miei sentimenti dopo averli liberati. Mi affidai a lui totalmente e completamente. Dei tre anni che passai con lui, non ricordo un solo giorno in cui non sia stato costantemente al centro dei miei pensieri. Ero terrorizzata all'idea che potesse stancarsi di me e mi impegnavo allo sfinimento nei compiti che mi affidava, perchè i miei risultati fossero sempre eccellenti. Marden mi restituiva un amore intenso e silenzioso. Se in lui non c'era la sete di affetto che mi divorava, però c'era stata, fino a quel momento, una solitudine, ritrosa e imbarazzata, che la mia presenza colmava discretamente.

In quel periodo tornarono a farsi vivi i miei incubi, ancora più insistenti e vividi di prima. Rivedevo nel sonno il volto di mia madre. A volte era carico di rimprovero perchè mi godevo la felicità di cui l'avevo privata. Altre mi scherniva perchè ero diventata tal quale lei, che tanto disprezzavo. Altre ancora mi sussurava all'orecchio oscuri presagi. Durante il giorno mi scrollavo di dosso quelle notturne agoscie, sperando di cancellare il passato vivendo nel presente e ricacciavo il ricordo di mia madre nel profondo della memoria. Ma non riuscivo a cancellare un'inquietudine che mi impediva di vivere appieno quella felicità tanto a lungo anelata.

L'interno di una tenda luminosa. Una donna sta riordinando delle carte, catalogandole con cura. I capelli neri le ricadono in morbide onde sulle spalle. Ha mani snelle e lunghe e occhi luminosi e intensi. Porta al collo una lunga catenella di argento con un medaglione di avorio. Uno dei fogli scivola dal tavolo. La donna si china. Mentre si solleva, la catenella impiglia in un angolo del tavolo e si spezza. Il pendente di avorio cade in terra. La donna lo raccoglie e lo osserva pensierosa. Un improvviso timore la assale. Vorrebbe gettarlo via. Invece lo studia più da vicino. Si accorge che la caduta ha aperto una sottile fenditura sul fianco del medaglione. Sembra cavo all'interno. Prende un tagliacarte dal tavolo. Lo inserisce nella fenditura e fa forza. Il medaglione si apre come una conchiglia a due valve. Dentro c'è una ciocca di capelli neri avvolta in un nastro di raso e un ricciolo di pergamena. La donna sente lo stomaco stringersi per il panico. Desidera con tutta se stessa bruciare entrambi con il fuoco della candela. Ma non può. Il suo destino è già scritto. Lei lo sa. Prende i capelli e li osserva alla luce. Cupi riflessi blu danzano sul nero della ciocca. La donna avvicina i capelli al viso. Un profumo salmastro li pervade. Srotola il biglietto. Sono solo poche parole scritte con una grafia maschile. "Alla mia amata". La donna avvicina il biglietto ad una delle carte che sta riordinando. Confronta i due scritti con meticolosità. La grafia è molto simile. Sono solo poche parole, non abbastanza perchè possa essere sicura di riconoscerla. Ma non ha dubbi. Questa è la punizione per le sue colpe.Per i debiti che attendevano di essere pagati. Questa è la vendetta di sua madre. La luce nei suoi occhi si spenge.

Mi procurai il veleno con facilità. Nessuno mi faceva mai domande.

Quella sera lo attesi come ogni altra nella sua tenda. Forse alla luce si sarebbe accorto della lieve ombra scura sulle mie labbra e sulle mie dita, ma entrambi preferivamo le tenebre. In quante cose ci assomigliavamo!

L'interno di una grande tenda dalle pesanti cortine. E' buio. Un uomo e una donna giacciono su morbidi cuscini.

Lui le scosta i lunghi capelli dal volto mentre la bacia. La donna ricambia con passione. Ma un poco alla volta baci della donna si fanno sempre sempre più radi, i suoi movimenti più languidi e spossati. La stanchezza la pervade insieme ad una sensazione di freddo. Non aveva sentito parlare del freddo. Lentamente ricade sui cuscini. L'uomo si sdraia accanto a lei, carezzandole il viso. La donna si volta verso di lui, stringendogli la mano. Anche il respiro di lui è rallentato. La donna si chiede se anche lui senta tanto freddo. Non vorrebbe. Lacrime le scorrono sulle guancie, mentre il calore sulla sua pelle si spenge. L'uomo la fissa per un secondo, mentre un'improvvisa comprensione lo assale. La donna sapeva che avrebbe capito. Ma sapeva anche che avrebbe capito troppo tardi. L'uomo tenta di alzarsi, ma il corpo non risponde. Ricade sui cuscini. Prova a parlare, inutilmente. La donna si domanda che cosa stia provando. Si domanda se la odi. Se abbia paura. Rabbrividisce. L'uomo la stringe in un abbraccio. La donna sente il suo calore che la avvolge. Mentre sprofonda nelle tenebre si sente finalmente in pace.

Mi svegliai sdraiata sulla schiena, in mezzo a una fossa comune. Nel cielo azzurro si rincorrevano le nuvole e l'aria era limpida e fredda.

Sono stata strappata dalle braccia della morte, ma mai più vedrò il mondo con occhio umani. Ho ucciso mia madre e giaciuto con mio padre.

Alto nel cielo vola il corvo, viene a prelevare la mia anima.

Da oggi e per sempre sono sua.

Uh... mi sono dimenticata di avvertire che tra poco comincerò la pubblicazione di una nuova storia "Il corvo" nella sezione Horror. Anche se è scritta in modo molto diverso, a livello contenutisco prosegue la narrazione di "A nuova vita". Se vi siete interessati alle vicende di Silenzio provate a leggerla!

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