Alto nel cielo vola il corvo, viene a prelevare la mia anima.
Ho ucciso mia madre e giaciuto con mio padre. Mai più vedrò il mondo con occhi umani.
Mia madre praticava. Per colpa mia, come amava ricordarmi. Era
molto bella e fin da giovanissima aveva mostrato una sorprendente attitudine
alla danza. Era stata notata ed aveva cominciato ad esibirsi con un certo
successo, tanto che le avevano organizzato una tourné nell'isola centrale:
"la fanciulla alata" la chiamavano. Ma aveva conosciuto mio padre. Parlava
sempre di lui quando era ubriaca, cioè la maggior parte del tempo,
disperandosi perché era sparito dopo averle rovinato la vita e la
carriera, lo malediceva e poi pregava perché tornasse. Stringeva il
medaglione d'avorio che portava sempre, piangendo, poi mi afferrava le braccine
infantili e, guardandomi negli occhi, mi chiedeva "Perché sei nata?".
Che domanda dificile da fare a un bambino, io non sapevo rispondere. Talvolta
me lo chiedo anche ora "Perché sono nata?" e non ho ancora trovato
risposta.
Ho passato la mia infanzia accanto ai fuochi da campo dei soldati. Mia madre
si era unita ai disperati e agli approfittatori che seguono le truppe per
fornir loro compagnia, alcool e sesso. Quel che mi ricordo di quel periodo
è che ero sempre sola. Non perché fossi l'unica bambina in
quella massa eterogenea, ma ero troppo diversa per piacere agli altri. Capivo
le cose e parlavo come un adulto e trovavo stupidi i loro problemi. Forse
se avessi finto di essere meno intelligente di quello che ero, sarei riuscita
a farmi accettare, ma ero troppo orgogliosa. Imparai a cavarmela da sola
e a tenere gli altri a distanza. Imparai anche a difendermi, perché
i paria sono da sempre le prede favorite di tutti.
Avevo poco più di sette anni ,quando venni aggredita da un branco
di teppistelli. Non ricordo bene cosa avvenne, ero terrorizzata e il sangue
che perdevo dalla fronte mi annebbiava la vista. So che afferrai una pietra
e colpii quello che mi teneva sotto e lui cadde, senza un suono, con gli
occhi vitrei. I miei aggressori mi lasciarono e fuggirono in preda al panico.
Io rimasi in piedi accanto al corpo, finché mia madre non venne a
trascinarmi via. Fui fortunata che il ragazzo era orfano e nessuno reclamò
giustizia. Quel giorno appresi quanto grande sia il potere della morte, che
aveva trasformato quel ragazzo grande, grosso e violento, che gridava con
voce stridula e mulinava i grossi pugni, in una cosa immota e silenziosa
che fissava il cielo serenamente. E giurai che mai più avrei avuto
paura della morte, ma che le avrei camminato al fianco. Lunghi anni di pratica
solitaria mi insegnarono a muovermi nel più assoluto silenzio e a
centrare una mela con un sasso da quindici metri: non farsi notare e colpire
a distanza, sono i precetti che mi hanno segnato la vita.
Un paio di anni dopo un giovane soldato, colpito dalla mia mira, si
interessò a me e mi prese come allieva. Era poco più di un
ragazzo, un apprendista lui stesso, ma era la cosa più simile ad un
maestro che avessi mai avuto. Veniva tutti i giorni a prendermi, il mio Sota,
e mi insegnava a combattere. Per la prima volta in tutta la vita qualcuno
sembrava ritenermi importante e io mi sentivo felice. Mi costruì lui
stesso un'arma, a imitazione della sua, legando un falcetto a un peso con
una lunga corda. Io avrei voluto una kusarikama vera, ma lui rideva, dicendo
che non sarei neanche riuscita a sollevare la pesante catena, tanto meno
a lanciarla. Voleva che diventassi una guerriera e io mi sforzavo di soddisfarlo
in tutti i modi, arrivando ad allenarmi di notte, dopo aver svolto le mie
faccende. Fu da lui che mi rifugiai quando mia madre morì.
Accadde il giorno del mio undicesimo compleanno.
Una bambina siede in ginocchio accanto a un basso tavolino. Ha lunghi
e arruffati capelli neri ed è snella e dall'aspetto fragile. accanto
a lei è posato un falcetto, una corda logora lo lega ad un piccolo
peso. Il tavolo è apparecchiato con stoviglie in legno e terracotta
dall'aspetto dimesso, ma la cena è molto ricca, con diverse pietanze
cucinate con cura, persino un piatto di carne. La bambina mangia timidamente,
ogni tanto alza gli occhi verso la madre, seduta di fronte a lei, come per
chiedere conferma che quel banchetto è a sua disposizione. Sembra
che aspetti che qualcuno le porti via il cibo e la punisca per averlo toccato.
Ma c'è anche qualcosa in più negli occhi della bambina, come
se sospettasse, con una lucidità anomala per la sua età, che
quell'improvvisa liberalità nasconda qualcosa.
"Coraggio, mangia, è il tuo compleanno! Guarda quanta buona roba!
Mi ricorda quando ero famosa, allora cenavo così tutte le sere..."
. La bambina è contenta, stasera la madre non beve e non parla di
quell'uomo, le ha preparato la cena e sorride. E' così bella! Con
un sorriso così luminoso! La bambina non può fare a meno di
sorriderle di rimando. Forse in fondo non c'è niente da temere, forse
la madre vuole davvero festeggiare il suo compleanno e forse, ma solo forse,
oggi non è pentita di averla fatta nascere. "Ma guarda questi capelli!
Sono tutti spettinati! Dovresti tenerli un po' meglio, stai ferma che li
pettino". Alla bambina piace che la madre le pettini i capelli. Non lo fa
spesso. La madre si siede dietro di lei e le comincia snodare i capelli con
un grosso pettine di legno. "Siamo rimaste soltanto tu ed io. La mamma vuole
bene solo a te. Ma quanti nodi! Anche tu devi volere bene alla mamma. Lei
ha solo te. E' così sola ora che papà se ne è andato.
E' sempre sola." La bambina si agita a disagio, questo non le piace. Quando
comincia a parlare così, la madre si mette a piangere. E' brutto quando
lei piange. La bambina non vuole assolutamente che lei pianga il giorno del
suo compleanno. E non vuole che pensi a quell'uomo, vuole che pensi a lei.
La bambina dà alla madre un ciondolo intagliato nell'osso. "Che bello!
E' così bello! Lo hai fatto tu?" La bambina annuisce. "E' così
brava la mia bambina, così intelligente, lo dicono tutti! Sa fare
così tante cose" La madre scoppia a piangere. Abbraccia la bambina,
la stringe così forte che quasi non la lascia respirare. "Mi dispiace
che tu debba finire così... mi spiace tanto.. siamo rimaste soltanto
noi due... non c'è altro da fare... se solo tuo padre non se ne fosse
andato, saresti vissuta in una reggia... se soltanto avessi il sangue, se
ti fossi risvegliata, forse sarebbe tornato a prenderci... ma così
non puoi fare altro, dobbiamo pur vivere in qualche modo... Ormai sei abbastanza
grande, devi cominciare a portare un po' di soldi a casa...tante qui hanno
cominciato anche più piccole". Negli occhi della bambina qualcosa
si spegne. Adesso ha capito. Capisce dove la madre ha trovato i soldi per
la cena e perché oggi le vuole bene. Vorrebbe avere il sangue, così
si risveglierebbe e quell'uomo tornerebbe. Allora forse sua madre sarebbe
davvero felice che lei sia nata e il suo compleanno sarebbe una buona ragione
per festeggiare. Ma non è così, la bambina sa che non sarà
mai così. Sua madre non sarà mai felice, lei non può
fare nulla per renderla felice. La bambina afferra il falcetto e lo affonda
nel ventre della madre. La madre la lascia. Guarda la bambina con un'espressione
strana. Non sembra che il colpo le abbia fatto male, pensa la bambina, sembra
stupita e basta. La bambina estrae il falcetto. Dalla ferita cola molto sangue,
non credeva che sarebbe uscito così tanto sangue. La madre si tocca
il ventre con le mani, poi se le porta al volto e le guarda ottusamente,
con aria attonita. Prova a dire qualcosa, ma al posto della voce dalla bocca
le esce un rivolo di sangue. La madre si accascia sulla bambina, continuando
a fissarla con gli occhi che piano piano si spengono. La bambina la guarda
di rimando, con occhi altrettanto vuoti. Poi la madre muore. La bambina se
la spinge via di dosso, le sfila dal collo un medaglione d'avorio e se lo
mette in tasca.