Il pendaglio di Sangue

di Chia_aihC
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Premessa ***
Capitolo 2: *** Inizio ***
Capitolo 3: *** Mezzanotte ***
Capitolo 4: *** Sangue ***
Capitolo 5: *** Venezia ***
Capitolo 6: *** Tamer ***
Capitolo 7: *** A caccia ***
Capitolo 8: *** L'inizio della fuga ***
Capitolo 9: *** Raggi di sole ***
Capitolo 10: *** Ritorno a casa ***
Capitolo 11: *** All'interno ***
Capitolo 12: *** Compagni di viaggio ***
Capitolo 13: *** Verso Parigi ***
Capitolo 14: *** Il capo del concilio ***
Capitolo 15: *** Terra e fuoco ***



Capitolo 1
*** Premessa ***


PREMESSA

 

Dolore.

Le spalle lanciavano piccole fitte, come aghi che s’infilavano lentamente e inesorabilmente sotto la pelle. Le braccia non le percepiva nemmeno più, innaturalmente tese sopra la sua testa. La sensibilità tornava nelle vicinanze dei polsi, legati da pesanti catene di ferro duro e tagliente.

Dolore.

Il pavimento sotto di lui era freddo, come il muro cui era appoggiato. Aprì gli occhi per non vedere assolutamente nulla: era avvolto nel buio più totale e questo gli impediva di capire anche la posizione in cui era messo il resto del suo corpo. E tutto attorno a lui c’era un odore nauseante, di chiuso e umido e muffa e qualcos’altro, che gli causava conati di vomito.
«Ti sei risvegliato...»
La voce gli arrivò come un soffio leggero, dinanzi a lui. Era chiaramente una voce maschile, fredda e distaccata.
«Chi sei?» biascicò.
Persino le sue corde vocali non rispondevano più alla sua volontà. Volse la testa attorno, senza scorger nulla, nemmeno una piccola fonte di luce, nemmeno un movimento o uno spostamento d’aria per fargli capire dove si trovava.
«Chi sei?» ripeté a voce più alta.
Ancora nulla. Cercò di muovere le gambe, ma non rispondevano ancora; cercò di divincolare le braccia, ma ottenne solo di tagliarsi i polsi ancor più profondamente e di far scorrere un po’ di sangue.

Un tocco.

Lieve, leggero, più simile a un refolo d’aria che a un contatto fisico. Proprio accanto alle sue catene. Scivolò leggero e impalpabile tra le sue braccia, frenando la goccia di sangue che aveva preso a scorrervi sopra.
«Chi sei?» urlò questa volta, rabbrividendo per quel tocco.
«Qualcuno che fa molto meno rumore di te.» la voce proveniva nuovamente davanti a lui, sempre distante, sempre distaccata, senza traccia d’ironia.
Non poteva esser certo che fosse stato il suo interlocutore a toccarlo, non sapeva quanto era lontano da lui. Ma non l’aveva nemmeno sentito muoversi! Chi diavolo era vicino a lui, allora?

Passò ancora del tempo, in silenzio. Non sapeva nemmeno lui quantificare i minuti che erano trascorsi da quando si era svegliato. Il suo corpo, però, aveva ripreso completamente vita. E forse un po’ gli dispiaceva: ora non erano solo le spalle e i polsi a dolergli, ma tutto. A cominciare dal sedere, poggiato sul freddo pavimento, per finire con i piedi, innaturalmente storti e incatenati anch’essi. E il petto, così tirato a sostener lo sforzo delle spalle. Stava per impazzire.

«Dove mi trovo?» provò a chiedere, con poca speranza di ottenere una qualche risposta.
«Non vedi da solo? Gli occhi ce li hai.» fu la risposta che ottenne.
Quella voce cominciava a irritarlo: lo stava prendendo in giro? Come poteva vedere in quel buio! Eppure, nel tono della risposta ancora una volta non vi era traccia d’ironia, era solo forse un po’ scocciato.
«E’ troppo buio! Non vedo nulla!» provò allora a dire.
«Troppo buio....» ripeté la voce, sempre davanti a lui.
Sembrava quasi sorpresa.
“Ho a che fare con un pazzo squilibrato cretino?” si trovò a pensare, per metà arrabbiato e per metà preoccupato. Ma come diavolo era finito in quella situazione?

L’ultima cosa che ricordava era di essersi chiuso la porta di casa alle spalle, di aver dato da mangiare al gatto di sua sorella, di essersi cambiato e infilato nel letto. Doveva essere l’una di notte quando era rientrato a casa. E poi? Lo squillo di un telefono, se non ricordava male...ma la sua mente non riusciva a ricollegare le immagini. Ricordava perfettamente la sua camera, illuminata da quella luce bluastra che passa dagli spiragli delle tapparelle la notte, la luminosità sufficiente per non andare a sbattere contro il letto, per intravvedere i mobili della propria stanza. Ricordava il rumore fastidioso di un telefono che squillava e di aver maledetto gli scocciatori notturni. Ma non riusciva proprio a rammentare di essersi alzato per rispondere oppure se si era rigirato tra le coperte, sbattendo la testa sotto il cuscino.
Buio.
La sua memoria era buia esattamente come quella stanza.
«Tu davvero non vedi nulla....» sbottò la voce, il tono sembrava quasi quello di un bambino che scopriva per la prima volta qualcosa, come per esempio che il fuoco brucia...
Non gli rispose. Gli sembrava ridicolo! Sicuramente quell’uomo si stava prendendo gioco di lui! Sicuramente aveva un qualche marchingegno che gli permetteva di veder nell’oscurità. Come quegli occhiali a raggi infrarossi che vedeva spesso usare dalle spie nei film che gli piaceva tanto guardare!
«Perché sono qui...» bisbigliò, più a se stesso che all’altro.
«Perché ti ci ho portato io.» gli rispose, con una semplicità disarmante.
«Perché io!» gridò allora.
La situazione cominciava a inquietarlo terribilmente. Era sveglio ormai da un po’ e il suo cervello riprendeva a lavorare in modo lucido. Si trovava chissà dove in compagnia di chissà chi. Incatenato. Non ricordava nulla. La persona che si trovava dinanzi a lui era chiaramente uno squilibrato: o si divertiva a prenderlo in giro oppure era completamente privo di ogni legame con la realtà! Era stato rapito? Per cosa? Per un ricatto? La sua famiglia non era particolarmente ricca, né nota. Suo padre lavorava come impiegato presso un ufficio contabile e la madre era casalinga. Sua sorella andava ancora alle medie, troppo piccola. Velocemente il suo cervello cercava una motivazione valida, ma nemmeno il lavoro del padre, in quell’ufficio, poteva esser vagamente ricollegato a un motivo di rapimento. Allora si trovava sicuramente in balia di uno squilibrato e non era stato rapito...
Cosa poteva volere da lui?
“Calmo! Dannazione, devo rimanere calmo!”
E se si trovava davanti a un serial killer? Non aveva sentito di assassinii nella zona in cui abitava...che lui fosse la sua prima vittima?
Panico panico panico!
“Calma! Non saltare a conclusioni affrettate!” si disse.
“Ma quali conclusioni affrettate?! Sono rinchiuso in un posto buio e puzzolente, legato mani e piedi come fossi un salame! E parlo con qualcuno che non vedo, che sembra venir da marte e che ha il pieno controllo su di me!!”
«Che intenzioni hai?» gli chiese lui allora.
Malgrado tutti gli sforzi che fece, non poté impedire alla propria voce di tremare.
«Al momento? Sono stanco, penso riposerò e poi mi rimetterò a lavorare.» sospirò la voce.
«NON PRENDERMI PER IL CULO, PEZZO DI MERDA!» gridò allora.
“Pessima mossa”, si disse. “Farmi prendere dal panico e aggredirlo! Bravo! Irritalo bene, così se potevi avere qualche possibilità di sopravvivere te le sei giocate tutte!” e il pensiero successivo: “Ma sì...come speravo di liberarmi? Impietosendolo? Se proprio deve uccidermi, che sia alla svelta!”
«Tu mi hai chiesto le mie intenzioni e io te le ho dette. Perché mi insulti?» fu la risposta che ottenne, pacata e distante come tutte le altre.
Rimase spiazzato. Che rispondergli ora? Si agitò lievemente, le catene tintinnarono fastidiosamente tutto attorno a lui. Il buio perenne lo snervava, il dolore era quasi diventato una costante del suo corpo, tanto da non percepirlo più.
«Perché ti agiti tanto?» gli chiese l’altro, tranquillamente.
«Secondo te? Non sono mica steso su un divano e sommerso da cuscini, ti pare?» sbottò lui, sempre incapace di tenere a freno la paura tramutata in rabbia.

Gli venne un terribile dubbio...se l’ultimo ricordo era il suo letto, voleva dire che il tizio lo aveva rapito in casa...che ne era della sua famiglia? Aveva preso solo lui? E se non fosse così? Insomma...abitavano al quarto piano in un condominio della zona residenziale...come aveva fatto a entrare in casa e uscire col suo corpo? Dov’erano i suoi famigliari?...
«Ti sbagli. Non sei mai rientrato a casa questa notte...Ti stai confondendo...» gli rispose l’altro.
Alzò la testa, di scatto, procurandosi così uno strappo muscolare. Aveva ragionato a voce alta senza accorgersene, evidentemente. Altrimenti come poteva avergli risposto?
«Cosa vuoi dire?» chiese, insospettito.
«Che non ti ho preso in casa tua, come credi. Ti ho preso nel vicolo del locale dal quale sei uscito. Quello con l’insegna rossa.» spiegò tranquillo.

Rimase fermo un istante, immobile. Dannazione, aveva ragione lui! La telefonata nel mezzo della notte era arrivata la settimana scorsa. Questo sabato lui era andato al “Ground” con gli amici...c’era la festa di compleanno di Davide...era tornato a casa da solo...come sempre...
«Perché hai preso me? Perché ero da solo, vero?» sussurrò.
«In parte. È più facile, quando girate soli. In parte no, non ne ho veramente bisogno al momento...»
«Bisogno di cosa?» sibilò tra i denti, stretti per evitare che si mettessero a battere e per trattenere l’urlo di rabbia e paura che gli era sorto dentro al sentire quelle parole, al suono di quella voce fredda e distante.
«Mi ucciderai?» sibilò di nuovo, dopo un lungo silenzio da parte del suo carceriere.
Ancora silenzio.
«Sì, credo di sì.» rispose l’altro.

Non un suono, non un tono particolare, non un’inflessione: non c’era gioia, soddisfazione, paura o chissà che altro in quella voce. Nulla. Nulla di nulla! Una sillaba, una semplice constatazione, come affermare che l’acqua bagna.
«Allora fallo subito, maledetto!» gridò lui in risposta. «Che aspetti? Che invecchi legato qui a questo muro, dannato bastardo?»
«Te l’ho già detto. Non è necessario ora. Non ne ho bisogno.» sempre calmo, come se i suoi insulti non lo sfiorassero nemmeno, come se la sua rabbia e la sua paura per lui non fossero che aria smossa.
«Allora perché? Perché mi hai preso?»
«C’è una cosa che ho perso. Mi sembra di ricordare che fosse una cosa importante. Forse sei tu che puoi aiutarmi a ritrovarla.»
Puntò lo sguardo là dove gli sembrava provenire la voce e digrignò i denti:
«Vaffanculo!» scandì bene le sillabe di quell’insulto. «Mi vuoi uccidere e dovrei aiutarti? Sei un cretino!» ringhiò.
«Non vedo motivi per cui tu debba insultarmi. Non c’è niente di personale in quel che ti potrei fare...» rispose l’altro, pacato.
«Vuoi uccidermi! Se permetti c’è eccome qualcosa di personale! Per me!» gridò, esasperato, muovendo le catene e alzando sempre più il tono della voce per sovrastare il rumore.
«No! Non c’è!»
Si bloccò. Per la prima volta percepiva la presenza fisica dell’altro. Una massa grande di fronte a lui, imponente. La voce...la voce sembrava aver preso consistenza, diventando pesante, terribile. E per la prima volta ne ebbe veramente paura. Una paura folle.
Rimase immobile, si sentì come avvolgere da quella presenza, l’odore nauseabondo di quel luogo si fece ancora più pregnante e gli fece venir voglia di vomitare.

«Non c’è niente di personale: tu sei il mio cibo. Se non ti mangio, non sopravvivo. Niente di personale.» ripeté la voce.
E dopo aver detto quelle parole, la presenza si dissolse, la voce tornò incorporea.
Ma la paura rimase...
“Se non ti mangio...Oddio! Un seria killer, cannibale per di più! Oddio, oddio, oddio!” le lacrime cominciarono a scender sul suo viso, incapace di controllarle. Lo avrebbe mangiato, lo avrebbe divorato...non aveva possibilità di salvezza...
«Che cosa fai?» gli chiese l’altro.
Non rispose. Non aveva senso. Non più.
«Che cosa fai?» tornò a chiedergli, con più insistenza.
Era tornata normale, o meglio, come all’inizio. Perché di normale quella voce non aveva assolutamente nulla.
«Vaffanculo...vaffanculo...» ripeté sottovoce.
Che senso avevano tutte quelle domande...che senso aveva tutto questo? aveva solo vent’anni. Si divertiva con gli amici, studiava legge all’università, portava fuori a giocare la sua sorellina e la proteggeva. Doveva andare in vacanza in tenda con gli amici quest’estate, fare il giro di tutta l’Europa in treno...doveva fare ancora un sacco di cose...ma non doveva rispondere a lui. Questo non era stato previsto...
«Ti ho fatto una domanda...»
«CHE CAZZO VUOI? Prima mi dici che mi vuoi uccidere, che non è personale! E poi pretendi pure che sia gentile con te e rispetti le buone maniere?! FOTTITI! Non sarà personale per te, psicopatico di merda, ma quello che vuoi mangiare è il MIO corpo! Quindi per me è personale!»
«Non ho mai detto di voler mangiare il tuo corpo...» rispose l’altro.
La voce di un bambino ingenuo che non riesce a collegare bene tutte le parole, che non comprende i collegamenti astratti. La situazione lo irritò sempre di più:
«Perché diavolo dovrei risponderti? Non ti fai nemmeno vedere, vigliacco! E io dovrei prestarmi ai tuoi giochetti sadici? Prima mi dici che vuoi mangiarmi e ora ritratti? Ma che cazzo sei?» gli gridò contro.
Più che a lui gridò al buio, come aveva fatto da quando si era risvegliato.
«Ah già...l’aveva scordato. Tu non riesci a vedermi...hai detto che per te è troppo buio...mmmh...»
Dopo qualche istante una piccola candela si accese a qualche metro da lui. Era piccola, ma gli ferì comunque gli occhi.
«Così va meglio?» gli disse la voce.

Lentamente l’oscurità si tinse di giallo, lieve, poteva solo vedere le ombre ancora, qualche oggetto come il tavolo su cui la candela era sistemata. Non molto altro. Vide parte del suo corpo: le gambe erano piegate di lato, le caviglie legate da una grossa catena di ferro arrugginita e i jeans impolverati e strappati da un lato. Non indossava più il cappotto nero e nemmeno la felpa leggera, evidentemente glieli aveva levati. Aveva solo la maglietta blu, semplice, anche quella strappata e con un alone sospetto di colore cupo sul fianco sinistro. Era ridotto peggio di quel che si era immaginato...Volse gli occhi intorno.

E gridò.

«ODDIO! ODDIO! ODDIO!»
«Perché gridi? Perché ti agiti?» domandò la voce.
«NON AVVICINARTI MOSTRO!» gridò ancora.
Poteva scorgerlo ora, solo un’ombra che si accucciava lontano dalla candela. Serrò gli occhi per non vedere. Ma ora l’odore che lo aveva nauseato al risveglio aveva un nome: cadaveri...cadaveri in evidente stato di putrefazione.
Dovevano essercene almeno tre attorno a lui. Cadaveri di giovani, due uomini e una donna. Legati, esattamente com’era legato lui. Dovevano trovarsi lì da settimane... si contorse per evitare di vomitarsi sui vestiti.
«Che cosa ti succede? Sei tu che hai chiesto la luce!» sbottò la figura davanti a lui.
“Ti diverti, non è vero, pezzo di merda?” pensò ansimando, con in bocca un sapore amaro e i muscoli del collo che gli dolevano. Ma era la cosa più facile da credere. In realtà, come prima, nella voce di quell’uomo non vi era traccia di divertimento, non sembrava compiacersi di quella situazione. Certo, non sembrava nemmeno dispiaciuto o rammaricato. Era come se per lui tutto quello fosse normale, come se tenere tre cadaveri legati a catene e porvi in mezzo la quarta vittima fosse più che normale!
“Certo! Come no! Venite a vedere il mio bell’arredamento! Lo trovate accogliente? Quando sono solo guardo i volti delle mie vittime e mi tengono compagnia! Vuole un cadavere da salotto signora? Glielo consiglio caldamente!” pensò, sempre più schifato.
«Uccidimi in fretta, ti prego!» disse, ma più che una preghiera sembrava quasi un ordine, se ne accorse anche lui.
«Ti ho già ripetuto che non ne ho bisogno ora.» disse.
Vide l’ombra muoversi, spostare il peso da una parte all’altra. Stava lavorando, o facendo chissà cosa seduto al tavolo su cui poggiava la candela. Aveva messo quella luce il più lontano possibile da se stesso, in modo da rimanere in ombra.
«Se non ti servo come pasto, allora perché diavolo mi tieni qui? Ti diverte giocare col cibo?» ringhiò, cercando di esser sprezzante.
Aveva focalizzato lo sguardo su di lui, cercando di ignorare i tre cadaveri, cosa alquanto difficile per altro. Aveva bisogno di aggredirlo, lo reputava necessario.
«Ti ho già detto anche che mi servi per cercare quello che ho perso. Altrimenti no, non ti avrei preso. Non si gioca col cibo, mai. Il cibo è qualcosa di utile alla sopravvivenza e nulla più, non è un piacere, non è un gioco. Pensavo lo sapessi, credevo fosse una delle vostre regole basilari che v’insegnano da bambini.» rispose, con la solita calma che ormai lo stava facendo andar su tutte le furie, come se stesse ripetendo una lezione mandata a memoria.
«Che diavolo sei, tu?» disse, spiazzato da quella risposta.
Lui si alzò dalla sedia, poggiando sul tavolo quello a cui stava lavorando. Non riusciva a vedere cosa fosse, l’ombra del suo carnefice si stava stagliando ormai davanti a lui. Era ancora solo un’ombra, ma già poteva distinguerne alcune caratteristiche. Non che vi fosse molto da notare, dato che era perfettamente normale, sia d’altezza che di costituzione: né particolarmente alto né particolarmente robusto ecco. Più o meno aveva la sua stessa corporatura. Era vicino ormai, in piedi di fronte a lui. Indossava abiti normali, un paio di jeans scoloriti e una maglia nera a maniche lunghe. Chissà perché quando lo aveva visto muoversi si era immaginato indossasse un lungo cappotto ampio...o un mantello...
Avrebbe potuto vederlo in volto, ma non osava alzare lo sguardo. Doveva esser lui a chinarsi, almeno questo glielo doveva! “Stupido senso d’orgoglio...” si disse, ma non desiderava affatto rinunciarvi.
L’altro si chinò.
Un viso normale: corti capelli castano scuro, lisci e spettinati. Un viso pulito con la bocca ben disegnata, le ragazze lo avrebbero trovato carino, sì, ma nulla di più. Persino lo sguardo era normale, forse un po’ ingenuo ecco. Un bambino, esattamente come aveva pensato sentendolo parlare. Lo sguardo pacato e ingenuo di un bambino. Ma non limpido. C’era come una patina offuscata che glielo velava, rendendogli gli occhi verdi vagamente cupi.
Ma tutto considerato a prima vista era un ragazzo più o meno della sua età perfettamente anonimo. Insospettabile...
«Mi chiamano Alam...» disse.
La voce con cui pronunciò il proprio nome era soffice, come una carezza.
«Io...io sono...»
«Non te l’ho chiesto.» Alam sorrise, nel dire queste parole, tranquillo. «Tu chiedi il nome al cibo che mangi?»
Si irrigidì. Come poteva esser così calmo e normale e al contempo dire cose così terribili. Il suo volto assunse una smorfia disgustata e di panico nello stesso istante. Alam mutò la sua espressione, corrucciando le sopraciglia dubbioso:
«Che ti succede? Perché fai quella faccia?»
«E che faccia dovrei fare? Mi dici tranquillamente che vuoi mangiarmi e io dovrei star tranquillo e calmo?» gridò.
«Capisco...è perché non ti ho chiesto il nome...va bene, puoi dirmelo se ti fa piacere.»
“Ma è proprio scemo?” pensò, ma pensò anche che era stufo di cercar una logica in tutto quello. Avere il volto di Alam così vicino al proprio era un vantaggio: gli impediva di veder gli altri cadaveri. Se non lo assecondava, sarebbe tornato a fare quel che stava facendo prima al tavolo, lasciandolo solo in quell’orrore.
«Il mio nome è  Alex.  Mi chiamo Alex.» rispose allora.
«Ci chiamano quasi allo stesso modo, allora. Bene! E ora che sai chi sono, hai altre domande Alex?»
«Mi lasceresti andare?»
Ci aveva provato. Non che si aspettasse un risultato, ma intanto ci aveva provato.
«No. Altro da chiedere?» tranquillo, non aveva sorriso, non aveva cambiato minimamente espressione.
«Che cos’è che hai perso?» gli domandò.
Forse...forse se lo aiutava, lo avrebbe risparmiato. Forse poteva calmarlo, poteva riuscire a farselo amico e...
«Non ne ho idea. Se lo sapessi non avrei bisogno di te, non credi? Se sai cosa cerchi puoi cercarlo da solo, non ti pare?»
«Ok...ok...» era meglio assecondarlo.
Alam sembrò fermarsi un secondo sul suo viso, un’espressione riflessiva dipinta sul volto. Senza aggiungere altro si alzò e tornò al tavolo. E così i tre cadaveri ricomparvero a occupare visuale di Alex.
«Chi...chi erano loro?» gli domandò.
Senza alzare gli occhi dal tavolo, Alam rispose:
«Che importanza ha?»
«Immagino nessuna per te, ma per me ne ha!» sbottò Alex.
In realtà non si sentiva particolarmente empatico nei confronti di quei tre corpi, ma parlare e concentrarsi su Alam risultava quasi più facile che stare in silenzio a pensare a quanti minuti, ore o giorni mancavano alla sua morte. Alam, in ogni caso, non colse la sua ultima provocazione.

Passò ancora del tempo. Il suo carceriere rimaneva sempre fermo seduto al tavolo, intento a fare sempre la stessa ignota attività, nel silenzio.
«Da quanto tempo è che sono qua?» domandò.
«E’ passato un giorno, sta trascorrendo la seconda notte.» rispose Alam, con calma.
«Ho sete.» sussurrò Alex.
Alam alzò lento lo sguardo dal tavolo:
«Anche io un po’, ma si può resistere. Non mi hai ancora aiutato a trovar quel che cerco...» disse, il tono della voce con una lieve intonazione di quella che poteva parer indisponenza.
«Come faccio ad aiutarti se non so in cosa devo aiutarti! E sono anche immobilizzato qui!» gridò Alex, esasperato.
Non ottenne risposta. Era inutile parlare con lui. Non lo avrebbe aiutato di certo! Sembrava completamente disinteressato a lui, disinteressato anche a ciò che aveva perso. Eppure aveva detto che era una cosa importante...
Importante...

Chiuse gli occhi.

Il telefono squillava. E lui si era appena coricato. “Dannazione! Cosa vogliono a quest’ora della notte?!”. Si era alzato, scaraventando le coperte giù dal letto, e con passo pesante si era diretto in salotto. Dalla porta della camera di Anghel apparve uno spiraglio di luce. Sua sorella si era svegliata. Non ci badò, perché il trillo del telefono lo reclamava urgentemente.
«Pronto!» urlò nella cornetta.
«E’ lei Alex Weeder?» un uomo, la voce calma e tranquilla con un’inflessione chiaramente straniera, come se avesse chiamato alle tre di pomeriggio e non all’una di notte.
«Sì, sono io! E lei chi diavolo sarebbe?» disse senza preoccuparsi minimamente di mascherare l’irritazione.
Dall’altra parte vi fu un istante di silenzio:
«Per caso, le dice niente il nome Alexander Hawker?»
La voce di quell’uomo era particolarmente seria e compita. Aveva cancellato in un istante la rabbia di Alex.
«No...no, mi spiace...quel nome non mi dice nulla...perché me lo chiede?»
«Sono il detective Hampton. Alexander Hawker è scomparso la settimana scorsa, qui a New York. Tra i suoi effetti personali abbiamo rinvenuto un’agenda in cui era annotato il suo nome. Lei è di origini americane, signor Weeder?»
«Mio...mio padre è americano, ma si è trasferito in Italia prima di sposare mia madre...non sono mai stato a New York e non conosco nessun Alexander Hawker...non ho proprio idea di come il mio nome possa esser finito in quell’agenda, mi spiace...» balbettò.
«Come immaginavo...se avrò ancora bisogno di lei, la contatterò. Scusi il disturbo.» e aveva riattaccato.
Alex era rimasto col telefono a mezz’aria per una manciata buona di minuti. Cos’aveva voluto dire quella telefonata? Si volse lento verso la porta del salotto e vide sua sorella, Anghel, che lo guardava con gli occhi spalancati e una mano stretta attorno al collo del pigiama.
«Anghel, che ci fai ancora in piedi?» le chiese. «Forza, a letto! Non c’è nulla di cui aver paura!»
La ragazzina si era attaccata al suo collo, non appena lui le aveva teso le braccia. Tremava, ancora così piccola. Undici anni e un corpo e una mente da bambina. Così fragile...

Aprì gli occhi e si guardò attorno di nuovo...
Era nella stanza buia, la candela era stata sostituita. Evidentemente aveva dormito per un bel po’. Alam era ancora ostinatamente chino sul tavolo. Guardò i tre cadaveri. E si sforzò di rimaner concentrato su quello che sembrava in uno stadio più avanzato di decomposizione. Non era molto portato né in chimica né tantomeno era un coroner, ma non gli risultò difficile individuare quello che cercava...
«Per caso...questo ragazzo arriva da New York?» domandò titubante.
Alam sembrò pensarci per qualche istante. Poi annuì come se nulla fosse.
«Si chiamava Alexander Hawker?» domandò ancora.
«Non ne ho idea. Te l’ho detto. Di solito non parlo con ciò che mangio...»
«Te lo sei portato dietro da New York?» proruppe orripilato Alex.
«Perché? Cosa c’è di sbagliato? Tu, se vai a fare un viaggio, non ti porti qualcosa da mangiare con te di solito?» la voce di Alam, pur mantenendo il tono piatto e inespressivo di sempre, aveva qualcosa di diverso.
Inspiegabile...qualcosa come di consistente, di corporeo, più concreta e cruda, più tagliente. Più terrificante...e parlava lentamente, quasi ansando, come se si stesse sforzando.

Alex cercò di non pensare a quel che voleva dire “portarsi qualcosa da mangiare per il viaggio” e a tutte le conseguenze che questa frase poteva avere. Rimase a pensare al fatto che ora lui si trovava lì, in compagnia del cadavere di un ragazzo americano che conosceva il suo nome e lo aveva annotato in un’agenda...perché?
Era stanco, dannazione, terribilmente stanco! Non mangiava da un giorno ormai, aveva fame e sete...se serviva ad Alam, perché allora non si era premurato di farlo mangiare? Voleva forse sfinirlo? Come poteva essergli d’aiuto? La mente si annebbiò un’altra volta per la fiacchezza.
«Ho sete...» sbottò Alam, improvvisamente.
Si alzò lento dal tavolo.
«E’ passato il secondo giorno...sta per trascorrere la terza notte...» ansimava visibilmente.
Gli si avvicinò di nuovo. In effetti, gli occhi di Alam sembravano proprio affaticati, quasi cerchiati. Erano passati quindi due giorni da quando era rinchiuso lì dentro! Come avevano fatto a passar così veloci? Che cosa stava succedendo?
«Hai trovato quel che cerco?» gli chiese Alam, debolmente.
«Ti ho già detto che non posso trovare qualcosa se non so cosa cercare!» era stanco anche lui, avrebbe voluto urlarglielo in faccia, ma non ne aveva la forza.
Alam abbassò lento il capo, come dispiaciuto. Ma il suo volto non era dispiaciuto, né soddisfatto...il suo volto non era niente.
«Vuol dire che non sei nemmeno tu...» sospirò lievemente.
Sembrava accaldato. Si era chinato nuovamente davanti a lui, ma questa volta tra le mani reggeva un piccolo oggetto. Si accorse che Alex lo guardava con interesse.
«Ci sto lavorando dalla sera in cui ti ho preso.» disse, inespressivo come sempre.
Era un tondo di legno, grande quanto il palmo della mano di Alam, su cui aveva disegnato a basso rilievo un falco che sorvolava un campo d’erbacce; dietro il falco, più piccola per creare prospettiva, una torre solitaria. Era perfetto, persino nei dettagli delle piume e nei fili d’erba del campo.
«E’ molto bello...» disse Alex.
Ma ad Alam non interessava la sua opinione, evidentemente, perché non commento, non disse nulla, rimase solo a fissare il disco di legno su cui aveva lavorato per due giorni.
«Cos’è che non sono?» domandò Alex.
Si sentiva stremato, il corpo ormai aveva perso sensibilità e se non avesse mangiato qualcosa sarebbe svenuto di certo; ma la vicinanza di Alam lo inquietava così tanto, che il farlo parlare gli sembrava la scelta migliore.
«Il mio tamer...non sei il mio tamer...»
«E’ questo che stai cercando? Stai cercando questo “tamer”?» improvvisamente Alex si risollevò.
Aveva una possibilità di uscire da quella situazione! Poteva fingere di dimostrarsi disponibile ad andare a cercare questo “tamer” e poi si sarebbe dileguato! E addio Alam! E al diavolo la sua follia di cercare il “domatore”!!! Non gli importava sapere a quale gioco sado-masochista potesse mai corrispondere, non voleva più essere coinvolto dal delirio di quel pazzo!
Alam sembrò pensare per qualche istante, fissando il viso di Alex come in cerca di qualche cosa.
«No...quel che è certo è che tu non sei il mio tamer...questo vuol dire che non puoi esser tu ad aiutarmi a trovar quel che ho perso...» bisbigliò.
Sembrava quasi stanco, anche se il suo corpo non mostrava il benché minimo segno di debolezza. Si era rialzato e passeggiava in mezzo alle sue vittime con aria assente, distaccata. Alex era certo che se mai fosse riuscito a rimettersi in piedi, sarebbe di certo crollato a terra. La vista gli si annebbiò ancora. “No, dannazione! Non ora che ho una possibilità di fuga! Rimani sveglio, razza di cretino!”
«Se...se mi lasci andare, potrei andare in giro a cercare il tuo “tamer”! Potrei darti una mano, ti pare?» tentò ancora.
“Fa che se la beva! Insomma, non è di certo una cima di uomo! Se mi crede sono salvo! Fa che se la beva, ti prego!” gridò nella sua mente, cercando di mantenersi il più vigile possibile.
Ma Alam non sembrava nemmeno rendersi conto della sua presenza lì.
«Che sete...troppa...ora è troppa...» bisbigliò per un istante.
Si fermò a guardare quel che rimaneva di Alexander Hawker. Lo vide toccare lievemente il collo e la pelle esposta del giovane, come se lo stesse analizzando. Piegò il capo di lato, pensieroso. Poi armeggiò con qualcosa che teneva tra le mani e che prima, evidentemente per la stanchezza, Alex non aveva notato. Improvvisamente, sotto i suoi occhi terrorizzati, il corpo di Alexander prese fuoco e in meno di un minuto già non era rimasta che cenere e puzza di carne bruciata, che andava a mescolarsi con gli altri odori rivoltanti a cui Alex ormai non faceva più caso. Subito passò agli altri due corpi e anch’essi ebbero la stessa sorte di Alexander.

«MA CHE FAI?!» gridò, disgustato, fissando la macchia nera che prima era stata un ragazzo.
Alam si volse di nuovo a guardarlo, le sopraciglia lievemente inarcate, come se solo in quel momento si fosse reso conto di avere uno spettatore:
«Mi pare ovvio! Non potevo più nutrirmi di loro, non ti pare? Tu cosa fai degli avanzi? Ah, già...voi li buttate nelle discariche, li ammucchiate tutti assieme e poi date fuoco una volta che ne avete accumulati quantità esorbitanti. Bè...è la stessa cosa, no?»
«Ma che diavolo sei? Sei un pazzo? Non sei umano di certo!» gridò, più per smuovere quel suo essere apatico che per altro.
«Certo che non sono umano! Mi sembra più che logico, dal momento che è di voi umani che io mi nutro!» sbottò Alam, come se Alex avesse detto una grande banalità mascherata da scoperta.
«E allora che cosa sei?» Alex ne aveva abbastanza di questa storia, di Alam, della sua follia.
“Uccidimi e basta, dannato pazzo! Non far impazzire anche me prima di farlo!” pensò esasperato.
«Pensavo fosse più che evidente.» disse Alam, osservandosi attentamente.
Non c’era nulla di diverso in Alam, nulla di diverso nell’aspetto da un qualsiasi altro ragazzo incontrato da Alex.
«Ho sete, Alex. Tu sei la mia prossima cena. E io sono il vampiro che ora ti mangerà.» e nel dirlo, aprì la bocca più del dovuto, mostrando i due canini molto pronunciati e appuntiti.

La risata di scherno che era nata in Alex, morì nella sua gola.

E il giovane cadde.

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Capitolo 2
*** Inizio ***


1. Inizio

 
«Anghel! Anghel, svegliati!»

Anghel mugugnò qualcosa d’incomprensibile, giusto per far capire che aveva sentito. Nonostante i suoi sforzi di fingersi sveglia, i colpi alla porta non cessarono minimamente. Anzi, ripresero più vigorosi e la voce si fece più insistente.
«Sono sveglia! Sono sveglia!»gridò dopo un attimo.
Anche così, Sofia, la sua coinquilina, non cessò di darle il tormento. Imprecando mentalmente contro se stessa, scese dal letto e aprì la porta della sua stanza.
«Ok, ora sono veramente sveglia!»bofonchiò.
«Sì sì, come no! Hai una faccia che dice l’esatto contrario, mia cara! In ogni caso ho già messo su il caffè; sarà pronto tra un attimo!»le disse Sofia, voltandole le spalle e dirigendosi verso la cucina.
Erano sole in casa.
La sera prima Anghel aveva pregato Sofia di buttarla giù dal letto la mattina successiva, a qualsiasi costo. Doveva recarsi in segreteria il prima possibile per svolgere le pratiche per la laurea. Non poteva permettersi ore interminabili di attesa! E così, eccola in piedi alle 7:30.
Non capitava spesso di vederla alzata così presto. Riusciva ad addormentarsi solo molto tardi, la notte, e quindi dormiva per gran parte della mattinata. Aveva preso un ritmo di vita alquanto anomalo: riposava metà della notte e metà del giorno, più o meno...più di giorno che di notte a pensarci bene.
E quella sera non era stato differente. Aveva preso sonno solo due ore prima della sveglia di Sofia.
Strascicando i piedi si diresse verso la cucina, inciampando quasi nel suo gatto che, svegliato di soprassalto quanto lei, stava ora correndo verso la sua ciotola piena di croccantini.
«Alex, dannazione!»gli gridò contro.
«Allora? Com’è andata questa notte?»le domandò Sofia, versandole il caffè. «Ok, a te tutta la caffettiera da tre, se no mi sa che non ci arrivi in segreteria!»aggiunse poi, dopo averla guardata bene in faccia.
Anghel sorrise.
Viveva con Sofia da tre anni, si erano conosciute il primo anno di università, Sofia frequentava matematica, lei invece aveva scelto lingue e letterature straniere. Vivevano in quella casa dall’inizio della facoltà, era abbastanza vecchia, ma il proprietario l’aveva tenuta degnamente. Godevano di tutti i comfort desiderabili, eccetto la lavastoviglie, ma ad Anghel non seccava lavare i piatti: si divertiva a sentire prima il sapone e poi l’acqua calda scorrere lungo le sue dita. Vivevano in quattro lì dentro: lei, Sofia, Lisa e Claudia. Le ultime due si erano trasferite da poco, frequentavano il loro primo anno ed erano arrivate dallo stesso paese, occupavano l’unica stanza doppia della casa. Erano “a posto”.
Questo, per Anghel, significava che la lasciavano in pace, non la disturbavano né la importunavano. Esattamente come faceva Sofia.
Vivi e lascia vivere.
Così andava bene!
Certo, Sofia la conosceva da più tempo...alcune cose della propria vita Anghel si era persino spinta a raccontargliele. Come ad esempio che erano undici anni che non dormiva quasi mai di notte, ma non le aveva mai spiegato il motivo: quello lo conosceva  solo lei lì, a Padova.
Del resto, aveva scelto di frequentare l’università lontano da casa proprio per evitare che il suo cognome fosse ricollegato all’evento di cronaca che aveva visto coinvolta la sua famiglia undici anni prima. Era quasi impossibile che fosse così noto anche in quella città.
Anghel proveniva da un paese della Toscana, vicino a Siena. Vi avrebbe potuto studiare, come aveva fatto suo fratello, ma non ne aveva mai avuto intenzione. Non appena finito il liceo si era iscritta a Padova senza pensarci due volte: era lontana da casa e in una città non eccessivamente ampia e dispersiva. Si era trovata bene.
«Sofi...per caso sai dove ho messo la scatola con i croccantini di Alex?»domandò, dopo aver rovistato in lungo e in largo per la cucina.
«Hai guardato in camera tua?»le chiese l’amica.
Anghel le rivolse uno sguardo in tralice. E corse in camera. In effetti era lì, appoggiata alla scrivania sopra i libri che stava consultando per la tesi. Che sciocca! Sempre disordinata! Ma dove aveva la testa?
Dopo aver nutrito il suo gatto, ed essersi convenientemente preparata, uscì di casa e si diresse verso la segreteria studenti. Un giorno come tanti altri, nel mezzo della primavera. La città era soleggiata, passeggiare per il centro era un piacere che lei non si negava praticamente mai. Abitava nelle vicinanze della Basilica del Santo, doveva attraversare quasi tutto il centro storico per giungere alla segreteria, ma non aveva importanza. Era una giornata fantastica.
Come molte altre.
Ma quello non era un giorno qualsiasi. Da undici anni a questa parte, quel giorno aveva smesso di essere come tutti gli altri.
Anghel aveva avuto ancora gli incubi, quella notte. “Dannazione, già che non dormo molto, pure quelle poche ore devono esser rovinate?” pensò mentre percorreva la Riviera dei Ponti Romani. Lo stesso sogno, ancora.
 
Un telefono che squilla, la camera di casa sua, in Toscana, tinta di azzurro freddo e blu e nero...suo fratello che entra e si staglia di fronte a lei. Non lo vede chiaramente, ma sa che le sta sorridendo. È buio, lui solo un’ombra scura che le sorride mesto. La chiama per nome, dolcemente, come è solito fare. È sempre protettivo nei suoi confronti, perché lei è piccola e fragile. La chiama ancora e le tende una mano. Le dice “sono qui, Anghel, sarò sempre con te!”, lei gli prende la mano. È bagnata e appiccicosa. Lui si allontana e lei lo chiama ancora, improvvisamente ha paura perché sa che le sue parole sono bugie, sa che non sarà sempre con lei! Perché le ha mentito? E quel sorriso? Perché così triste? Si scosta dal letto e accende la luce e tutta la sua stanza è un mare di sangue. E grida.
 
Sempre lo stesso sogno. Ogni anno. Da undici anni. Dalla notte in cui suo fratello fu ucciso.
Anghel alzò gli occhi al cielo. Era arrivata in via Altinate, non mancava ancora molto...Basta con questi pensieri tristi!
La giornata trascorse tranquilla, come sempre. Consegnò tutti i documenti che doveva consegnare, andò a parlare con il suo relatore di tesi, si rinchiuse in biblioteca per un paio d’ore. E poi ritornò a casa sua.
Sofia era andata a studiare fuori, non sarebbe rientrata fino a quando non le avrebbero chiuso le porte dell’aula studio in faccia. Lisa e Claudia non sarebbero ritornate prima della settimana successiva. Aveva la casa tutta per sé e per Alex. Mise della musica nello stereo dell’ingresso e lasciò che tutto l’ambiente si riempisse di note, poi cominciò a rassettare. Adorava quegli istanti, poteva quasi concedersi una giravolta, un ballo. Alex le girava tra le gambe, danzando con lei. Se lo prese in braccio, affondando il viso nel suo pelo grigio nebbia e ruotando intorno, le note che la trasportavano impedendole di sentire quel senso d’angoscia che l’aveva presa dal risveglio.
Non servì.
Lasciò andare Alex, che cominciava ad agitarsi in maniera insopportabile. Guardò la sua lunga coda pelosa sparire dietro la porta di camera sua e decise di seguirlo. La tapparella era ancora abbassata, la stanza aveva un che di spettrale con la luce artificiale e l’odore di chiuso e di notte che ancora vi si respirava. Alex si era infilato sotto il letto, il suo angolo preferito. Ripensò al primo gatto che aveva avuto. Anche quello era grigio, ma a pelo corto. E gli occhi erano azzurri, non verdi come quelli di Alex. Si chiamava Icaro. Era morto anche lui undici anni fa, lo stesso giorno in cui....
“Basta Anghel! Non è che pensarci tutto il giorno farà cambiare le cose!”
Ma non c’era verso.
La fotografia di famiglia le rimandava quattro sorrisi sbiaditi. Non aveva più fotografie così vere. Non aveva più visto né sua madre né suo padre sorridere in quel modo. Nemmeno lei ne era poi così capace...fingeva il sorriso, ma raramente era spontaneo. Sarebbe dovuta tornare a casa, dopo la tesi, per almeno un paio di mesi, fino a quando non riprendevano i corsi della specializzazione almeno. Non ne aveva voglia, per niente.
I suoi genitori non avevano mai voluto lasciare la loro casa, quella in cui lei e suo fratello Alex erano nati e cresciuti. Troppi ricordi a cui erano affezionati, troppi legami che temevano di rompere andandosene. La camera di Alex era rimasta identica, chiusa a chiave il più delle volte, per tutti quegli anni. Ad Anghel non era permesso entrarvi, le veniva fatto credere che nessuno ci passava più del tempo. Ma sapeva che sua madre, tutte le sere, vi stava per un’ora almeno. A piangere. L’aveva sentita molte volte, nelle sue notti insonni. Non aveva mai detto ai genitori della sua fatica ad addormentarsi, così avevano creduto che le occhiaie e la fiacchezza mattutina fossero causati da una qualche patologia, da una debolezza costituzionale. E le avevano impedito di sforzarsi: non aveva mai praticato sport, a scuola aveva sempre avuto l’esonero da educazione fisica. Le era stato impedito di uscire di casa la sera fino ai diciotto anni. O meglio, gliel’avevano impedito anche dopo! Aveva cominciato ad andare fuori liberamente la sera solo lì, all’università.
Non che lei avesse mai avuto molta voglia di uscire.
Il buio le ricordava perfettamente la notte di undici anni prima. Lo aveva trovato lei...
Alex era sparito da due giorni. I genitori avevano chiamato tutti i suoi amici, gli ospedali e infine la polizia. Interrogati, i suoi compagni erano concordi nel ricordare che era uscito dal “Ground”, il pub del paese, intorno all’una e di averlo visto dirigersi verso casa come sempre. E poi non lo avevano più sentito. Anghel, che non era altro che una bambina di undici anni, si era rinchiusa in camera sua per tutti e due i giorni in cui non si era saputo nulla di suo fratello. La polizia aveva controllato a tappeto tutti i dintorni. Quella notte fu la prima volta che lei ebbe l’incubo. Come accadde poi ogni anniversario della sua morte, Alex apparve nella camera della sorella e le sorrise mesto, lasciandola poi in un mare di sangue.
Quella notte Anghel si svegliò urlando. E scese dal letto, correndo.
«Anghel! Anghel amore, che succede?»aveva gridato sua madre.
Ma lei non le aveva prestato ascolto. Il cuore le batteva forte e in pigiama era corsa fuori casa, giù per le scale a piedi nudi e fuori dal portone del palazzo. Suo padre era uscito subito dietro di lei. Ma Anghel era già in strada, incapace di frenarsi, quasi come una sonnambula che non sentiva il freddo della notte, né le voci che le gridavano di fermarsi, né le macchine che le sfrecciavano attorno. Seguiva un’ombra, l’ombra di suo fratello che le aveva sorriso triste e le aveva detto che sarebbe rimasto con lei per sempre. Lo inseguiva, perché lui l’aveva chiamata, per non farlo andare più via da sé. Passò senza rendersene conto il “Ground” e girò nel vicolo buio che faceva angolo con l’ingresso del locale. Non c’era niente. Qualche bidone dell’immondizia e nulla più. Si era fermata ansante in mezzo al vicolo, i piedi gelati a contatto con l’asfalto sporco di fango...aveva piovuto quella mattina.
«Anghel! Anghel per l’amor di Dio, fermati!»suo padre l’aveva rincorsa fino a lì.
A lei non importava. Aveva visto di nuovo l’ombra di Alex ferma, contro il muro del vicolo. Poi era scomparsa, come inghiottita dal terreno. Si era diretta senza paura in quel punto. Era suo fratello, la stava chiamando. Cosa mai doveva temere da lui? C’era un tombino lì, lievemente smosso. Se Alex era sceso, poteva farlo anche lei. Stava giocando, forse? Stava giocando con lei a nascondino, come quando era più piccola? Lo avrebbe preso a pugni, una volta ritrovato. E poi lo avrebbe abbracciato e si sarebbe fatta stringere al suo collo, come sempre. Alex era forte.
Il padre di Anghel aveva visto sua figlia sparire in un tombino non appena girato l’angolo. E l’aveva seguita.
Anghel si era trovata in fondo alla fognatura. Un piccolo sentiero di pietra delineava un passaggio che lei, decisa, aveva preso a percorrere. Il cunicolo era scarsamente illuminato. Alla fine vide una piccola fonte di luce, tenue, ma in quel buio era più che sufficiente per segnarle la strada.
«Anghel! Anghel, che stai facendo qua? Voi sparire anche tu?»
Suo padre l’aveva raggiunta, girata di forza, e ora le teneva le spalle strette tra le mani, il viso contratto dalla tensione e segnato dal dolore. Sembrava sul punto di piangere. Anghel l’aveva guardato, sorpresa, quasi sconcertata. Non capiva il perché della sua rabbia.
«Ma papà! Sto andando da Alex!» aveva spiegato con semplicità, indicando il punto luminoso alle sue spalle.
Suo padre aveva alzato lo sguardo e si era bloccato. Fu un attimo, mollò lievemente la tensione e la figlia schizzò via dalla sua stretta. Inutile fermarla ora, così si era deciso a seguirla.
Il corridoio finiva in una piccola stanza quadrata con un tavolo e una sedia posti proprio di fronte all’ingresso. E una candela ormai quasi completamente consumata sul bordo del tavolo, lontano dalla sedia.
«Alex? Alex sei qui? Ti ho trovato!» gridò la bambina, saltando i tre gradini che la separavano dalla stanza e finendo proprio nel centro.
Suo padre dietro di lei.
«Anghel! NO!»
Lo sentì gridare.
Troppo tardi.
La mano grande e calda del padre aveva tremato quando era andata a contatto con i suoi occhi, per coprirli, per impedirle di vedere quel che ormai aveva già visto. Addossato al muro, di fronte al tavolo, c’era Alex. Legato mani e piedi da catene pesanti di ferro. Il capo chinato sul petto, come se dormisse. Il petto immobile. Per coperta il suo stesso sangue.
 
Anghel si risvegliò di soprassalto.
Si era addormentata...e non se ne era nemmeno resa conto.
Si alzò ancora più irritata di quanto lo era quella mattina. Era buio. Guardò l’orologio: le 19:30.
“Merda...”pensò distratta. I supermercati avrebbero chiuso dopo poco. E non aveva ancora fatto la spesa.
Uscì di corsa senza nemmeno dare una carezza ad Alex il quale, offeso, si rimise sotto il letto a sonnecchiare. Aveva dato a quel gatto il nome di suo fratello. Avevano entrambi gli occhi verdi. Sua madre detestava quell’animale, ma non aveva avuto cuore di toglierglielo. Quando lei e suo padre erano tornati a casa dall’ospedale, in cui lei aveva riposato per una settimana dopo lo shock causato dalla vista del corpo del fratello, le venne detto che Icaro era morto, perché aveva ingerito veleno per topi. Senza proferire parola, Anghel aveva superato sua madre e si era chiusa in camera sua. Non aveva parlato. Non avrebbe più parlato fino all’età di quindici anni.
I suoi genitori avevano consultato tutti gli specialisti del settore, anche quelli un po’ meno qualificati. Da tutti avevano avuto la stessa risposta: «Parlerà quando vorrà lei. Il suo è un disturbo post-traumatico da stress, lasciatele tempo.» Avevano provato a mandarla in terapia, a darle farmaci, qualsiasi cosa tranne cambiar casa.
Riprese a parlare il giorno in cui, tornando da scuola il primo anno di liceo, trovò per la strada un cucciolo grigio e impolverato, gli occhi verdi come quelli di suoi fratello. Spaurito e tremante. Buttato nel mondo troppo presto. Ricordava di aver pensato “Come me...” quando lo aveva raccolto. Era entrata in casa e corsa in cucina, dove sua madre stava preparando il pranzo.
«Posso tenerlo?» aveva chiesto.
Sua madre si era girata, lasciando cadere il coltello sul banco della cucina. Le lacrime agli occhi. Non lo voleva quel gatto, ma sua figlia aveva parlato. Solo per questo sarebbe potuto rimanere.
Davanti ai suoi Anghel lo chiamava semplicemente Gatto, per non urtarli. Ma quando era sola lo chiamava Alex. Avevano lo stesso sguardo. Non poteva dargli un nome differente.
Il supermercato, per sua fortuna, era ancora aperto e semi deserto. Meglio, nessuna coda alla cassa. Sarebbe tornata a casa in fretta, avrebbe coccolato Alex e preparato la cena anche per Sofia. Uscì dal supermercato con la sporta della spesa stretta in una mano mentre con l’altra tentava di chiudere la borsetta.
Qualcosa frenò la sua corsa. Qualcosa di morbido che però la fece rimbalzare indietro. Quando alzò lo sguardo, incontrò quello di un giovane che poteva avere si e no la sua età. Il viso sereno e tranquillo, come se nulla fosse successo. La guardava senza sorridere e senz’espressioni. Ma al contempo sembrava analizzarla. Era quasi buio, i lampioni erano già accesi e mandavano strane ombre su quel volto estraneo.
«Scusami!» sbottò Anghel.
Si sentiva infastidita da quegli occhi. Così verdi, pensò distratta mentre evitava il ragazzo e tornava a passo svelto verso casa sua.
«Anghel, grazie al cielo ci sei tu!»
Anghel volse lo sguardo, improvvisamente irritata. Vide arrivare Sofia, trafelata, e si trattenne a stento dal darle uno schiaffo. Si volse lievemente verso il ragazzo a cui era andata addosso. Era ancora là, fermo immobile, a guardarla con lo stesso sguardo inespressivo. Aveva sentito di certo il suo nome e la cosa la rendeva inspiegabilmente nervosa.
«Per fortuna che ti sei ricordata di andare a far la spesa! Non abbiamo nulla nel frigo e avremmo dovuto digiunare!»
Sofia non aveva nessuna colpa. E del suo nome quel ragazzo non se ne sarebbe fatto nulla. Quindi le sorrise, mascherando l’irritazione. Si diressero verso casa e passarono una serata in tranquillità. E presto Anghel si dimenticò del giovane. Ma lui non scordò per nulla lei.
 
***
 
Alam si guardò attorno.
Eccolo ancora a Padova. Non era poi così diversa dalle altre città che aveva visto in tutti i suoi viaggi. Ora doveva solo trovare un posto abbastanza riparato in cui sostare. Poggiò a terra il pesante borsone che aveva a tracolla, lasciandolo cadere con un tonfo. Padova era piena di vecchie chiese. Una cripta? No...non aveva tempo di girare per tutte le chiese di quella città per trovarne una sufficientemente buia e nascosta. Aveva bisogno di conoscere l’impianto fognario del luogo...e aveva fame...molta...
Ma prima un nascondiglio!
Si guardò attorno. I cancelli dei giardini reali erano già sbarrati. Questo voleva dire che non ci sarebbe stato nessuno dentro. O quasi comunque. Bene. Meglio. Poteva recuperare cibo e casa.
Nessuno notò uno sbuffo di polvere davanti ai cancelli. Nessuno si accorse della sparizione di un ragazzo vestito di nero.
Alam si accucciò dietro un albero, nel caso che qualcuno fosse passato in quell’istante. Con uno scatto si avvicinò al tombino più vicino e, fulmineo, vi s’infilò dentro richiudendosi il coperchio alle spalle.
«Ehi Andre! Allora, ce l’hai?»
Voci, sopra di lui. Bisbigliavano.
Non erano il massimo, il loro sangue era di sicuro poco pulito, ma meglio di niente! Doveva agire in fretta, se non voleva che si drogassero proprio prima del suo pasto.
Con un altro balzo si attaccò a testa in giù, tenendosi alle fessure del tombino. Poteva vederli, proprio accanto all’albero dietro cui si era nascosto lui. Avevano tirato fuori qualcosa, lo guardavano attentamente, vogliosi, non vedevano l’ora di provarlo.
Che strano...proprio come lui....
Alam piegò la testa di lato. Troppa fame. Smosse il coperchio del tombino, lentamente. Del resto, avrebbe potuto anche far rumore. Era molto vicino ai due, non gli sarebbero scappati, nessuno dei due. Meglio. Aveva fame. Troppa. Ancora un po’ e sarebbe esploso dalla fame.
I due giovani non si accorsero nemmeno di quel che accadde. Non vi fu un grido, solo due ansiti di sorpresa. Poi più nulla.
Alam alzò lo sguardo verso la strada. Una giovane coppia stava passeggiando. Lei rideva, stringendo il braccio a lui, e si dondolava un po’ camminando sui tacchi troppo alti a cui, evidentemente, non era abituata. Lui le sorrideva. Il vampiro piego la testa di lato.
No.
Era sazio. Anche troppo. Questa volta aveva esagerato!
Ma erano tre giorni che non mangiava quasi nulla perché aveva perso tempo a muoversi solo di notte e a dormire di giorno. Non aveva avuto la possibilità di cacciare. La fame era stata troppa, non aveva saputo controllarsi.
Eppure era consapevole che non gli avrebbe fatto bene!
“Ecco, ti sei ingozzato. E ora ti farà male lo stomaco perché hai mangiato velocemente!”pensò, tranquillo.
Con un gesto fluido prese un corpo per mano e, dopo aver controllato che per la strada non girasse più nessuno, si rituffò nel tombino trascinandosi dietro gli avanzi della sua cena.
Erano tre anni che andava e veniva da Padova ininterrottamente. Non vi poteva sostare a lungo. E lei non aveva intenzione di muoversi così spesso. Doveva occuparsi di lei, ma non poteva circoscrivere così marcatamente il territorio di caccia. Lo avrebbero scoperto facilmente.
Del resto, l’ultima volta lo avevano quasi preso...
Per questo ora aveva bisogno di un altro nascondiglio. Quello sotto Prato della Valle non era più sicuro.
Da undici anni la guardava da lontano. Non si avvicinava mai. Il perché non lo sapeva nemmeno lui. Per un qualche motivo aveva la certezza che non avrebbe potuto tenerla con sé, se si fosse mostrato a lei. Non ancora almeno. Lui, che l’aveva cercata per molto tempo, ora non poteva starle accanto. Era fastidioso. Quasi quanto la fame trattenuta per giorni. Ma era la cosa migliore da fare per sopravvivere. Avvicinarsi a lei equivaleva a morire. Allontanarsene portava allo stesso risultato. Rimanere a metà strada non era proprio la soluzione ideale, ma sembrava quella più appetibile.
Quel condotto fognario portava ad un allargamento proprio sotto la cappella degli Scrovegni, almeno secondo i suoi calcoli. Sarebbe andato più che bene, per il momento. Con l’ultimo attacco avevano quasi distrutto il suo nascondiglio. Per poco non crollava il tetto sopra di loro...
Lo stavano braccando, e da molto. Lo sentiva nell’aria, sentiva il loro odore, l’odore del cacciatore. Lo volevano, ad ogni costo. Per cosa era un mistero anche per lui. I vampiri non si nutrono tra loro, questo è certo. Quindi non volevano mangiarlo. E allora cosa mai potevano volere da lui? Non possedeva neanche un tamer...
Va bene! In quel momento non erano nei paraggi. Forse lo stavano ancora cercando tra le Alpi al confine francese. Li doveva aver seminati più o meno in quelle zone, quindi poteva uscire liberamente e andare a controllarla. Non la vedeva da un po’. Guardò i suoi avanzi accasciati per terra. Lo spazio era piccolo, non poteva ammucchiarli. Diede loro fuoco in modo da ridurli in cenere e in un attimo tornò all’aperto, nei giardini dell’arena.
Era ancora presto. Alcuni umani giravano per le strade, nonostante fosse solo lunedì. Sapeva per esperienza che di rado gli uomini si muovono di notte il lunedì sera. Sembra che sia, per loro, una sera diversa dalle altre. Cosa mai avesse di diverso Alam proprio non capiva. Quando avrebbe potuto unirsi al suo tamer glielo avrebbe chiesto. In ogni caso, meglio non correre pericoli inutili. Si era appena rifocillato, sarebbe stato sciocco esporsi ora, nel pieno delle sue energie. Veloce si nascose dietro un albero e ne uscì subito dopo, con l’aspetto di un gatto. Un elegante soriano dagli occhi gialli, un gatto comune.
La visuale non era proprio delle migliori. Ma non aveva importanza. Vedeva bene, anche meglio di un gatto normale. Con qualche balzo da un balcone all’altro arrivò rapido sui tetti. Era anche più agile di un gatto qualsiasi e l’oscurità gli garantiva una certa protezione da occhi indiscreti. Il suo istinto, inoltre, gli diceva che non aveva inseguitori alle sue spalle quella notte.
Non ci mise molto a percorrere la strada che lo separava dalla sua meta. Lei abitava poco distante dalla chiesa più grande della città, dalla finestra poteva vederne le guglie. Con destrezza si pose sul poggiolo della casa di fronte. Da lì aveva la visuale perfetta della camera di lei, di un’altra stanza, abitata da altre umani, e della cucina. Aveva imparato che era specialmente in quest’ultimo ambiente che questi esseri si riunivano con più probabilità tutti assieme. Per il cibo, aveva pensato lui subito. La sua tamer però non amava molto stare in compagnia più del necessario e si richiudeva spesso nella sua stanza appena terminato il suo pasto.
Stavano ancora pranzando. La finestra un po’ aperta. Non poteva avvicinarsi di più. C’era un gatto in quella casa, non gli avrebbe consentito l’accesso. La vide mangiare, in silenzio. L’altra umana non smetteva un attimo di muovere la bocca. E non tanto per ingurgitare qualcosa.
“Che senso hanno tutti quei preparativi se poi non ti nutri?”si chiedeva spesso.
Non era forse più facile come faceva lui? Hai fame, esci, prendi e mangi. Semplice, efficace. La fame sparisce, il corpo sta bene, ti puoi muovere tranquillamente. Quando non hai fame non mangi. Se hai fame e non mangi, per molto almeno, muori. Ecco. Semplice.
Gli umani complicavano troppo le cose.
Piego il capo di lato. La sua tamer aveva finito di mangiare. Si alzò e andò in camera sua. La terza finestra alla sua sinistra si illuminò di colpo. La campana della basilica rintoccò le dieci di sera. La giovane accese il suo computer e iniziò a battere i tasti. Ogni tanto si fermava, guardava un oggetto alla sua destra, poi riprendeva. Qualche volta usciva dalla stanza e andava in cucina... per bere. Alam si accucciò, cercando una posizione più comoda per quel corpo felino. Una volta trovata avrebbe potuto resistere fermo immobile per ore. L’aveva già fatto.
Stanca di battere i tasti, la sua tamer si alzava ancora e si accendeva la televisione. Il campanile rintoccò la mezzanotte. Alam non si muoveva. La sua tamer non si addormentava mai presto. Nemmeno lui dormiva di notte, quindi non doveva essere un problema, no? Certo, era consapevole che lei fosse umana, ma non capiva la necessità del sonno notturno. Passarono altre due ore. Alam si sgranchì le zampe e decise di fare un giro perlustrativo della zona. Era più facile proteggerla quando stava a casa. Si sentiva fortunato per il fatto che uscisse così di rado. Trovava insopportabile doverla seguire tra la folla: rimanere con il suo solito aspetto gli sembrava rischioso e non aveva ancora trovato un animale sufficientemente agile da muoversi in mezzo a tutta quella massa, ma grande abbastanza da non esser schiacciato. Lei usciva sempre solo il mercoledì sera.
Da quel che aveva capito, era quasi un obbligo. La sua tamer doveva andare a confondersi in una massa di corpi per un’ora o due la settimana, tenendo in mano qualcosa da bere.
La prima volta che Alam si era trovato in piazza Erbe il mercoledì sera, aveva avuto quasi un capogiro. Si era sentito euforico, eccitato. Ricordava di aver pensato “Perché ho mangiato prima di uscire?”. Si era trovato davanti un’immensa dispensa di cibo a sua completa disposizione: niente più caccia! Ma aveva dovuto riprendersi in fretta. Doveva tenerla d’occhio, non aveva tempo di nutrirsi. E poi era già sazio. Sarebbe stato solo un capriccio.
Il mercoledì andava sempre da lei a stomaco pieno, per non rischiare. Ma era comunque fastidioso tutto quell’ammasso di corpi e profumi.
Le altre sere era più facile. Lei stava in casa, lui perlustrava la zona circostante, aspettava che si addormentasse e poi tornava nel suo rifugio, per riposarsi anche lui, dopo aver cenato. Era una routine che andava avanti da undici anni. Da quando l’aveva trovata. Doveva proteggerla. Gli veniva naturale quasi quanto mangiare. E aveva anche lo stesso motivo: sopravvivere. Senza di lei, sentiva che non sarebbe salvato.
Ritornò alla sua finestra. Rintoccarono le tre di notte. La luce ancora accesa. Si rimise comodo.
Alle quattro lei spense e si coricò a letto. Intravide la sagoma scura del suo gatto sgusciar da sotto il letto e mettersi alla finestra. Gli occhi verdi del felino incontrarono i suoi. Alam rimase immobile. Quel gatto...
Non lo lasciava avvicinare a lei nemmeno nel sonno. Da anni ormai. Quasi sei anni che non poteva starle accanto mentre dormiva, se non rimanendo sul davanzale della finestra, senza mai poter entrare. Non capiva...forse era perché erano due cacciatori. Ma non aveva importanza. Se lui, Alam, non poteva avvicinarsi, allora anche nessun altro aveva il potere di starle accanto, o di farle del male. Era al sicuro. La zona l’aveva controllata bene, dall’alto e dal basso. Il suo istinto era tranquillo. Chinò il muso in direzione dell’animale. Lo vide quasi muovere il capo allo stesso modo, come rispondendo con un inchino. Quindi, con un balzo, Alam scese da poggiolo e s’incamminò con sembianze umane verso il rifugio.
Erano le cinque di notte. Avrebbe albeggiato tra qualche tempo, doveva procurarsi la cena ora. E non sarebbe stato così facile! “Ingordo! Potevi tenerne un po’ per adesso, no?” si disse, ripensando ai due ragazzi nei giardini. Stava già prendendo in considerazione l’idea di dover andare a dormire a stomaco vuoto quando vide qualcosa muoversi alla sua sinistra. Un lampo nero. Tra le sue mani il collo di un uomo sulla cinquantina, sporco e spettinato, ricoperto di giornali, sollevato da terra. Aveva imparato, in quegli anni, che uomini del genere vivono per la strada. Gli stringeva la gola, tanto da non lasciargli modo di gridare. L’uomo lo guardava con una strana espressione sul viso. L’aveva vista spesso, nei suoi pasti, ma non capiva cosa volesse dire. “Non è esattamente il genere di cibo a cui son abituato, ma in mancanza di altro...” si disse, sospirando.
Quindi, spalancò al bocca. L’espressione di quell’uomo si fece ancora più strana, gli occhi sgranati, la bocca aperta a dismisura eppure storta, le sopracciglia inarcate, le mani che gli afferravano i polsi. Quasi non le sentiva, un tocco leggero sotto la maglietta scura. Alzò lievemente il pollice, con cui aveva bloccato la giugulare, per crearsi uno spazio. Si era portato la gola dell’uomo all’altezza del viso. Non che gli piacesse molto mangiare in piedi, ma era tardi e lui aveva sonno. Il vicolo era buio, nessuno lo avrebbe visto. Lo infastidiva essere guardato da qualcuno mentre mangiava. Con decisione ficcò i canini superiori nella giugulare dell’uomo. Questi sussultò un attimo al suo tocco. Poi morse con i denti dell’arcata inferiore per ampliare il taglio. La carne aveva un sapore orribile. Ma tanto non era quella che avrebbe dovuto mandar giù. Quindi succhiò.
Era quasi disgustoso. Ma mai come il sangue dei due tossici che aveva assaggiato al suo arrivo. Sapeva un po’ di vecchio, questo sì, ma almeno non aveva un retrogusto metallico. Bevve fino a saziarsi. Una mano in tasca, l’altra che sosteneva la preda dal collo. Quando si sentì sazio, lasciò andare la presa e l’uomo cadde riverso a terra. Alam lo guardò sovrappensiero. Poi spostò lo sguardo verso i cassoni dell’immondizia vicini. Sarebbe stato più facile. Perché non poteva buttare i suoi avanzi come facevano gli esseri umani? Se l’era chiesto molte volte. Ma era sempre stato il suo istinto a dargli una risposta.
Quindi si caricò l’uomo sulla spalla e, veloce, corse nel suo rifugio. Nessuno lo avrebbe potuto vedere, neanche se si fosse sporto dalla finestra in quel momento e avesse guardato la strada. Era troppo veloce.
Arrivato, bruciò anche quel corpo e si preparò un qualcosa di simile a un giaciglio con ciò che aveva nella sua sacca da viaggio. Appena fu pronto, sentì le campane, molto in lontananza, scoccare le sei. Tra meno di un’ora sarebbe sorto il sole. Ripensò un attimo al suo tamer.
Ora era lì, a pochi metri di distanza. Finalmente era lì con lei. Avrebbe potuto trovar quello che cercava. Il non poter starle accanto lasciava un senso di vuoto che nessun umano, per quanto pieno di sangue potesse essere, riusciva a riempire.

Alam aveva fame di Anghel.
 

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Capitolo 3
*** Mezzanotte ***


2. Mezzanotte

 
«Anghel? Sei pronta? Ci aspettano!»
«Un minuto e arrivo!» gridò lei dal bagno.
Mercoledì sera. Sofia ci teneva particolarmente e a lei non pesava poi più di tanto uscire e confondersi con la gente. Poteva anche essere piacevole! Non era abituata alla folla, ma non la infastidiva affatto; si sentiva più protetta, come se potesse sparire in essa senza lasciare traccia. Alex odiava vederla uscire di casa la sera, miagolava ininterrottamente il più delle volte e lei era costretta a chiuderlo in camera sua. Quell’animale era più protettivo dei suoi genitori! E, nonostante ormai avesse quasi otto anni, sembrava ancora un cucciolo desideroso d’attenzioni costanti.
Sorrise allo specchio.
La sua immagine le rispose al sorriso, uno sguardo distante. Aveva gli occhi nocciola, non ricordavano per nulla quelli di suo fratello... I capelli erano scuri, quasi neri, leggermente mossi e con riflessi rossastri a seconda dell’inclinazione della luce. Come quelli di Alex. Ma nient’altro del suo viso sembrava riuscire a far riaffiorare quel ricordo sbiadito. Ormai erano solo poche sensazioni, il profumo del suo dopobarba sulla pelle ancora giovane, così diverso dall’odore del padre. Le sue spalle, il vento e la risata quando la faceva saltare in aria.
Chinò lo sguardo.
“Che noia!”pensò infastidita dai suoi stessi pensieri.
Detestava quel momento dell’anno.
«ANGHEL! Dannazione, sei pronta? Dai che è tardi!»
Sofia era più che impaziente. Come darle torto? Sotto casa le aspettavano un gruppo di persone, tra cui un ragazzo che alla sua amica piaceva: era questo il motivo di tanta fretta. Anghel non la capiva più di tanto: cinque minuti in più o in meno non potevano certo fare una grande differenza! Ma non commentò. Uscì dal bagno e le lanciò un sorriso ironico.
«Sono pronta, sono pronta!» le rispose, ridendo.
Sofia le diede uno spintone e la insultò a mezza voce, cosa che fece ridere Anghel ancora più forte. Quindi uscirono.
Lei conosceva di vista le persone con cui uscirono quella sera, in tre anni non era ancora riuscita a mandare in memoria i loro nomi. Erano quasi tutti compagni di corso di Sofia, eccetto due che, come lei, abitavano con qualcuno del “gruppo dei matematici”, come li aveva presentati Sofia ad Anghel la prima volta. Il ragazzo che piaceva alla sua amica studiava ingegneria. Si stava per laureare ed era andato a vivere solo quell’anno con un compagno di corso di Sofia. Era carino, almeno secondo Anghel, ma anonimo. Si chiamava... dannazione, lo aveva scordato di nuovo! Eppure le aveva fatto venire l’emicrania a furia di parlar di lui! Gabriele... Giacomo... no... forse il suo nome non iniziava nemmeno con la g...
Non aveva importanza, tanto lei sarebbe rimasta comunque in silenzio ad ascoltare, senza capire, i loro discorsi da scienziati, ridendo quando gli altri ridevano, pensando ai fatti suoi per la maggior parte del tempo.
Si diressero verso piazza Erbe. Erano le undici di sera, la piazza era già gremita per metà. Una calca di gente attorno alla fontana vicino al Palazzo del Comune, ancora più gente attorno agli ingressi dei bar. Qualcuno si offrì di andar a prendere da bere per tutti e quattro di loro si staccarono dal gruppo, tra cui Sofia, che seguiva instancabile mister “Come-cavolo-si-chiama”. Rimasta sola, fece come sempre finta d’interessarsi ai discorsi degli altri.
«Ciao... Anghel...»
Anghel si girò di scatto. Tutti si fermarono e si voltarono a guardare.
Il ragazzo dell’altra volta, quello contro cui aveva sbattuto all’uscita del supermercato. Chi era? Gli porgeva un bicchiere colmo di birra, sorridendo affabile. Un sorriso finto, di circostanza. Gli occhi erano neutri, ma fissi su di lei.
«Come...?» balbettò lei, incapace di reagire.
«Ti ricordi? Mi sei venuta addosso l’altro giorno. Ti ho vista arrivare in piazza e ti ho subito riconosciuta!» le spiegò il ragazzo, sorridendo.
«Sì, sì mi ricordo di te! Ma...»
«E’ difficile scordarsi un nome particolare come il tuo!» le disse lui, sempre tendendole la birra.
Gli altri del gruppo si erano rigirati, indifferenti a quella situazione. Sofia tardava a tornare. Sentiva improvvisamente una sete impellente e accettò quindi il bicchiere che le offriva quello strano personaggio. Era improvvisamente isolata dal gruppo.
«Grazie. Ma non mi hai ancora detto come ti chiami.» gli rispose, dopo aver sorseggiato un po’ la bevanda.
Era ancora fresca, subito si sentì più tranquilla. La situazione era più che normale, specialmente alla loro età: un ragazzo vede una ragazza, si sente attratto, la rincontra per caso il giorno dopo e nel luogo in cui è più probabile veder gente. Normale. Certo, a lei non era mai capitato, soprattutto perché evitava di farsi notare. Ma poteva succedere.
Quella sera si sentiva particolarmente annoiata dai discorsi del “suo” gruppo di amici, quindi perché non provare a chiacchierare con questo ragazzo? Era una cosa nuova.
Bevve un’altra sorsata.
«Vieni, ti presento ai miei amici! Sai, ho raccontato loro come ti ho “scontrata”. Erano curiosi di conoscerti!» sorrise il giovane.
“Bene”, pensò Anghel,“altri nomi da mandare a memoria e cancellare subito dopo!”
«Non mi hai ancora detto come ti chiami!» ripeté lei, seguendolo.
Si volse un attimo indietro. La folla aveva inghiottito i volti a lei noti. Non importava, si sarebbero ritrovati senz’altro più tardi. Aveva il cellulare acceso e Sofia non usciva mai senza. Tutt’al più si sarebbero riviste a casa.
«Allora? Mi vuoi dire come ti chiami o no?» disse.
Lui l’aveva presa per mano per non perderla. Volse lievemente il capo verso di lei, in modo che potesse vedergli appena il profilo. Stava ancora sorridendo. Ad Anghel sembrò che quel ragazzo si fosse dipinto in faccia quell’espressione e che ora non fosse in grado di fare altro! Le sembrò una cosa ridicola. Bevve ancora. Era proprio buona quella birra. Non ne aveva mai bevuta una così dissetante. E a lei, di solito, non piaceva molto bere alcolici.
«Dove sono i tuoi amici?» domandò, quando si accorse di essersi lasciata alle spalle la piazza e di aver imboccato via Roma.
«Qua vicino, tranquilla.»
«Il tuo nome? È legato da un segreto di stato?» chiese ancora.
Il ragazzo rise delicatamente. Quel suono le ricordò il rumore di quei sonagli di ferro che suonano al vento, quelli che si appendono alle porte o alle finestre... le sfuggiva il nome. Ma era un bel suono... affascinante...
«No, il mio nome è...»
 
***
 
“Alam! Dannazione!”
Si muoveva rapido, con le sembianze di un gatto, da un tetto all’altro. Si era svegliato tardi.
“Mai più! Mai più!”si disse, cercando di non perdere l’equilibrio e cadere.
Aveva fatto una sciocchezza. Due tossici e un alcolizzato tutti nella stessa notte. Aveva dormito per due giorni e una notte e ora era già mercoledì, si era svegliato tardi, aveva una fame incredibile e aveva perso le tracce del suo tamer!
Cosa doveva fare?
Quella notte, alzandosi dal giaciglio, la testa gli stava scoppiando, le pareti del rifugio giravano tutto attorno a lui. Non beveva sangue di quel genere da molto tempo, non ne era più abituato! Gli aveva fatto subito effetto! Aveva controllato sull’orologio che teneva sempre accanto a sé. Segnava ora e giorno. Le ventitré e trenta di mercoledì notte. Peggio di così non poteva essere. Sapeva che lei usciva di casa massimo alle ventitré. Quindi doveva già essere arrivata in piazza da tempo... ma doveva comunque controllare per esserne certo!
Aveva anche fame.
Ma se perdeva altro tempo rischiava di non vederla per nulla!
Ma aveva fame!
Che doveva fare? Dannazione! Non poteva nemmeno chiederlo al tamer! Era da tanto che nessuno gli diceva cosa fare né come, doveva stabilirlo da solo! Così aveva deciso di andare da lei. Del resto, con tutto il tempo che ci aveva messo a trovarla, non l’avrebbe certo persa così facilmente solo per la fame! Poteva resistere... poteva sopportare almeno un altro giorno di digiuno. Non era carino, ma lei era più importante.
Fosse stata solo la fame.
La testa gli doleva, i rumori erano così fastidiosi, tanto da fargli perdere l’equilibrio; aveva impiegato molto tempo a trasformarsi in gatto. Tutto gli risultava più difficile, persino muoversi sull’asfalto!
Arrivò a casa sua che erano le ventitré e quarantacinque. Ben quindici minuti? Ci aveva impiegato troppo. Era troppo affaticato. Aveva troppa fame. Non poteva certo sperare di esserle d’appoggio in quello stato! E quella sera si sentiva anche particolarmente agitato!
Si guardò attorno... nessuno in vista. “Proprio ora?” pensò. Un piccolo rumore attirò la sua attenzione. Un colombo a qualche metro da lui.
Ad Alam il sangue degli animali non piaceva per nulla. Era solo un palliativo per calmare la fame! Non lo nutriva veramente e le forze tornavano solo per un’ora, al massimo due se l’animale era molto grande. Ma non era la stessa cosa degli esseri umani! Il loro sangue era perfetto! Certo, a meno che non lo inquinassero con una qualche sostanza...
“Lasciamo perdere!”pensò. “Altrimenti scappa!”.
Con un balzo fu sul piccione, non mutò nemmeno aspetto per non sprecare energie. Velocemente chiuse le sue fauci da gatto sul collo tremante della bestia e succhiò tutto il poco sangue in esso contenuto.
“Che schifezza!”pensò una volta gettata a terra la carcassa.
Non era necessario incenerirla, di piccioni morti se ne vedevano in quantità esorbitanti. E in ogni caso, probabilmente non ne sarebbe stato capace in quello stato. Almeno il mondo aveva smesso di girare senza senso! Bene. Ora doveva solo trovare Anghel.
In casa sapeva per certo che non c’era. Le finestre tutte buie, aveva intravisto gli occhi verdi del felino appostato dentro la sua camera in attesa del ritorno della padrona. Tutto come al solito.
Doveva individuarla in fretta. Presto avrebbe avuto nuovamente fame ma prima doveva accertarsi che stesse bene. Si fermò un istante. I suoi muscoli avevano avuto uno strano spasmo, incontrollato.
Non gli era mai successo.
Lo aveva avvertito in molte delle sue vittime, persino nel piccione, nell’istante in cui lui di solito schiudeva la bocca. Ma lui non lo aveva mai provato... cos’era mai?
Campane. Mezzanotte...
 
***
 
Mezzanotte.
Le campane risuonarono nella mente di Anghel, come un ricordo sfocato, come una parola che non vuole saperne di esser ricordata.
«Dove mi stai portando?» chiese, rintronata.
Lui le aveva detto il suo nome, ne era sicura. Ma già non lo ricordava più. La sua memoria era annebbiata! Eppure era solo una birra... va bene che non era abituata a bere, ma una birra bevuta così lentamente non avrebbe dovuto darle solo capogiri? Non capiva.
«Dai miei amici. Te l’ho detto, Anghel, vogliono conoscerti.» le rispose lui.
Camminava un passo avanti a lei, trascinandosela dietro. Non si era più girato. Non ricordava più nemmeno che volto avesse il giovane che aveva seguito.
«Dove siamo?»
Non riconosceva quella via. Avevano lasciato via Roma svoltando per una traversa poco prima di sbucare a Prato della Valle. E poi avevano continuato a deviare per vicoli che lei non riconosceva più. Si era persa. La testa le pulsava, l’acciottolato sotto di lei seguiva linee intersecate, le mattonelle si alzavano e si abbassavano, facendola ondeggiare come su una barca.
Di colpo, strappò la propria mano da quella del giovane e lo guardò orripilata, fissando lui e il bicchiere vuoto.
«Che... che cosa... cosa mi hai fatto bere?» sussurrò.
Lui la guardava, le sopracciglia lievemente inarcate, il volto una maschera imperscrutabile.
«Birra, che altro?» le disse semplicemente.
Erano fermi in una strada stretta, attorniati da case. Lui la fronteggiava, le braccia lungo i fianchi, gli occhi verdi, quasi neri ora per il buio della notte. Ne ebbe paura. Improvvisamente si ricordò che lo aveva temuto da subito, da quando aveva alzato lo sguardo sul suo viso due sere prima. Come aveva potuto scordarsene?
«Io non mi sento molto bene, voglio tornare a casa. Scusa. Vedrò i tuoi amici un’altra volta!» così dicendo, gli diede le spalle e provò a incamminarsi verso via Roma.
Qualcuno le sbarrò la strada.
«E’ troppo tardi per andare a dormire, perché non aspetti l’alba con noi? Potrebbe essere divertente.» davanti a lei una donna.
 
***
 
Mezzanotte e un quarto. Era tardi.
Si era rifugiato nella balconata di Palazzo della Ragione, sufficientemente in alto per avere una visuale completa della piazza. C’era sempre troppa gente. E lui aveva ancora una fame incredibile! Tutto quel cibo...
Ma proprio quella sera doveva perdersi il suo tamer? Aveva fame! Il mercoledì era più probabile per lui trovare qualcosa di buono!
“Adesso basta, Alam!”si disse.
Era abituato a darsi ordini in terza persona. Gli risultava più facile rispettarli.
Doveva trovare Anghel, individuarla tra la folla. Ancora quello spasmo muscolare che lo aveva colto prima, a casa di lei. Urgenza. Aveva fretta di trovarla.
Erano dieci minuti che osservava la folla dall’alto quando finalmente scorse la massa di ricci rosso fuoco dell’umana che viveva con il suo tamer. Bene. Se lei era lì, allora Anghel doveva trovarsi nelle vicinanze.
Ma non era tranquillo.
Mosse rapido la testa attorno, circoscrivendo la zona con lo sguardo.
Anghel non c’era.
Dove poteva essere, dal momento che non si trovava nemmeno a casa?
Un altro spasmo.
“Anghel...”        
 
***
 
La donna poteva avere all’incirca una trentina d’anni. Portava corti capelli rossastri. Aveva lo sguardo scuro e inespressivo uguale a quello del ragazzo che aveva seguito. Le bloccava la strada. Da un lato lei, dall’altro lui. Nessun portone dove rifugiarsi. Anghel tremò.
Dove diavolo era capitata?
«Non è divertente! Voglio tornare a casa.» disse lei, sentendosi subito dopo una sciocca.
I due non si mossero, rimasero vicini a lei, senza commentare. Immobili, le braccia lungo i fianchi, rilassate. Ad Anghel venne in mente il suo piccolo Alex alla finestra che puntava fisso una mosca, apparentemente calmo. La testa continuava a farle male.
Le sembrò che le luci dei lampioni si offuscassero, fino quasi a spegnersi. Barcollò un po’ verso il muro che aveva di fronte.
«Che... che volete da me?» cercò di dire, ma le parole uscivano a stento dalla sua bocca.
Non ottenne risposta. Li vide però, li vide avvicinarsi lenti e attorniarla, stringendola sempre più contro il muro.
«Lasciatemi...» sussurrò.
Lui... o lei... non sapeva più chi fosse chi, non riconosceva più nemmeno i contorni del proprio corpo. Qualcuno le passò una mano lungo la linea del mento, scivolando lento sul collo. Un’altra mano le sfiorò il polso, alzandole il braccio sinistro. Una puntura fredda. Sentì la carezza leggera di soffici capelli che le sfioravano la guancia, una lingua calda le carezzava il collo.
«Lasciatemi...» provò a dire di nuovo.
Ma nemmeno un suono le uscì dalla gola.
«Finirà presto...» disse una voce calda, lievemente tintinnante, al suo orecchio.
Sì... finirà presto... pace... finalmente dormirò di nuovo...
 
***
 
Alam saltava veloce da un tetto all’altro. Aveva recuperato la forma umana. Se qualcuno lo avesse scorto, pazienza. Aveva fretta. Troppa.
Altri spasmi, sempre più frequenti.
Anghel.
Doveva sbrigarsi! Ma dove si trovava? Come diavolo faceva a trovarla?
“Alam, sbrigati!”si disse.
La città scivolava veloce sotto di lui, il suo sguardo coglieva ogni più piccolo movimento. Era tornato di corsa a casa di lei, giusto per controllare. Ma lì non c’era. Il gatto gli aveva lanciato uno sguardo dalla sua finestra. Cosa voleva? Anghel non era in casa.
Dov’era allora?
Con un balzo saltò sui tetti delle case fino alla Basilica del Santo. Forse da lì poteva avere una visuale più ampia. Si arrampicò agilmente sulla punta più alta. Parte della città si spalancò ai suoi piedi, con le sue luci e i suoi rumori.
“Anghel...”
 
***
 
Si sarebbe lasciata andare, avrebbe dormito, avrebbe abbracciato Alex...
Un tonfo.
Anghel aprì gli occhi e vide tre macchie indistinte una sull’altra. Non riusciva a capire bene le forme, ma un’ombra sembrava più scura delle altre. C’era buio. La sua mente vacillò ancora un attimo e poi riprese parte della sua lucidità. Una delle tre ombre si era gettata addosso a quella che doveva essere la donna con i capelli rossi, le stava sopra, stava... ecco che la terza ombra si era buttata sulle spalle della prima e l’aveva scaraventata lontano dal corpo della donna. C’era un odore strano nell’aria. La prima figura in un attimo era di nuovo in piedi. Si era scagliata contro le altre due, quella della donna si stava aggrappando all’altra per sorreggersi... o almeno così pareva.
La prima ombra si scagliò con forza contro le altre due. Anghel vide una luce improvvisa, le ferì gli occhi. Fu costretta a portarsi una mano sul viso.
Allora si accorse di avere un piccolo taglio sul polso e doveva averne anche un altro sul collo: sentiva qualche goccia di sangue scivolare lenta.
«PRESTO! AFFERRA LA MIA MANO!» una voce nuova.
Senza pensarci prese la mano che le veniva offerta. Si sentì alzare da terra con forza. Non si era nemmeno resa conto di essersi seduta contro il muro. Subito qualcuno la spinse in strada e lei si trovò costretta a correre, tirata da una forza a cui non era in grado di opporsi.
Presto giunsero in via Roma. La corsa non si arrestò. La vista ancora annebbiata. L’ombra scura di fronte a lei, frenetica, si voltava a destra e a sinistra e indietro.
Il suo corpo non la sorresse più. Era troppo stanca.
 
***
 
Aveva sentito il suo sangue. Era inconfondibile. Quell’odore lo avrebbe riconosciuto ovunque. Il sangue del suo tamer...
Qualcuno la stava aggredendo!
Non ricordava di esser mai stato così veloce, non sapeva di poter saltare da così in alto. Alam era sceso dalla cattedrale con due soli balzi e si era subito messo a correre per le strade. Aveva impiegato non più di cinque minuti a raggiungerla.
Nel vicolo qualcuno aveva fatto saltare i lampioni, in modo da render la zona meno illuminata. Inutilmente. Li vide perfettamente.
Anghel seduta a terra, la testa piegata indietro, due corpi sopra di lei, uno le teneva il collo, iniziando a inciderlo coi canini, l’altra le stava succhiando sangue dal polso.
Non ebbe bisogno di pensare. Il suo istinto agì per lui. Con foga si lanciò contro i due vampiri, prendendoli per il collo e scaraventandoli lontano da lei. Quel che seguì non seppe mai spiegarselo bene. Le sue mani colpivano a destra e a sinistra, cercando di centrare punti vitali dei due assalitori.
Avevano bevuto il prezioso sangue di Anghel!
Ad un certo punto il maschio gli si scaraventò sulla schiena, conficcandogli le zanne nella spalla. Scartando alla sua sinistra, Alam riuscì a liberarsi un braccio, agguantare la nuca del vampiro e scagliarlo lontano contro il muro. Subito si era voltato. Il sangue di vampiro.
Non ricordava di averlo mai assaggiato.
Ma non voleva nutrirsi.
Ora voleva solo proteggere Anghel. Del maschio poco gli importava. La femmina aveva toccato il suo sangue. Sulle labbra brillava ancora qualche stilla rosso cupo. Sentì dei brividi lungo la schiena, la arcuò e le spalle fremettero. Si gettò su di lei, mirando al collo bianco, deciso a spezzarglielo, a staccarle la testa.
Riuscì ad azzannarle una spalla. L’altro, il maschio, si era ripreso subito e gettato su di lui, deviando la sua mira. Poi lo aveva preso per la spalla e lanciato lontano. Era andato a sbattere contro un muro, l’intonaco si era staccato cadendo con lui sul selciato. Nella bocca sapore di sangue, della femmina e suo. Era amaro... sapeva di cemento e metallo.
No... non poteva certo nutrirsi di vampiri...
La testa gli girava, si sentiva debole, non aveva praticamente mangiato… non aveva la forza per un combattimento. Doveva portare Anghel via da lì.
Lei era ancora stesa a terra.
Vide i due vampiri alzarsi, la femmina si appoggiava al maschio. Si erano voltati verso Anghel. Doveva sbrigarsi e liberarsi di loro in fretta. Si era alzato di scatto e gettato di nuovo contro i due vampiri. Non aveva molte altre possibilità. Con tutta la forza rimastagli ficcò una mano nel petto di lui, l’altra in quello di lei. Con le dita arpionò lo sterno di entrambi. Non gli avrebbe uccisi. Non era abbastanza in sé. Aveva fame.
Diede fuoco. Un lampo. Uno soltanto, quanto il suo organismo gli concedeva. E poi li lanciò lontani.
Avrebbero dovuto metterci un po’ a rigenerare i tessuti!
Meglio non rilassarsi troppo. Erano pur sempre cacciatori. Lui non avrebbe rinunciato a una preda così facilmente. Prese Anghel per mano e la trascinò verso via Roma, verso la luce.
Doveva portarla al sicuro.
Casa di lei? Sì... lì c’era il gatto. Se non lasciava avvicinare lui, non avrebbe consenso nemmeno a loro di entrare; e poi lei avrebbe dovuto dar loro il permesso. Certo... c’era sempre la coinquilina... casa di lei era comunque l’ideale.
Proprio in quel momento, Anghel si era accasciata al suolo. Inutile chiamarla, dovevano averle fatto qualche cosa...
Quindi non poteva riportarla a casa sua. Non poteva entrare, lui! Quindi?
Non gli rimase che un’unica soluzione.
“Ho troppa fame...”pensò, mentre prendeva Anghel sulle spalle.
“Alam, devi mangiare. Se non mangi, non vivi.” si disse.
Cercò un vicolo abbastanza scuro. Era mercoledì sera, qualcuno avrebbe trovato. Però la giovane, per quanto leggera, gli impediva i movimenti. Si spinse fino a piazza degli Eremitani, vicino al suo rifugio. Non c’era nessuno. Non aveva molta scelta. Dopo aver appoggiato a terra il suo tamer, Alam cacciò quanto più poteva. Non ottenne molto: un topo, due piccioni. Troppo poco sangue. Per nulla umano. Quindi poco nutrimento, non sufficiente a recuperare le forze perdute nello scontro. Avrebbe cacciato la notte successiva. Ora Anghel doveva risvegliarsi. Se la caricò di nuovo in spalla e discese nel primo tombino che trovò.

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Capitolo 4
*** Sangue ***


3. Sangue

 
Anghel si rigirò con fatica. Tutto il suo corpo sembrava completamente indipendente dalla sua volontà. Era sdraiata contro qualcosa di morbido, ma sentiva lo stesso il pavimento duro sotto di sé.
«Ti sei svegliata.»
La voce proveniva davanti a lei. Una piccola candela poggiata chissà dove rischiarava il luogo.
«Dove sono?» riuscì a dire, mentre tentava di mettersi a sedere.
La testa le esplodeva in maniera insopportabile.
«Cos’è quest’odore terribile?» fu la seconda domanda.
Ancora nessuna risposta.
«Non ti sforzare. Sei ancora debole.» fu tutto ciò che ottenne.
Vide un’ombra più scura delle altre nell’angolo alla sua sinistra. Poggiava contro il muro. Aveva la voce di un ragazzo, ma non riusciva a vederne il volto.
«Chi sei tu?» disse risoluta.
Aveva paura. Tutto quel che ricordava era di aver accettato la birra che le veniva offerta da quello strano ragazzo. Poi vuoto totale. E ora era davanti a un tizio che non si mostrava in faccia, era stesa sopra un sacco a pelo imbottito e si trovava in quello che poteva benissimo essere lo scantinato di chissà quale palazzo. Nell’aria un odore terribile... di fogna...
«Dove mi hai portata?»
Si guardava attorno, ma tutto aveva ancora contorni sfocati e indefiniti. E la testa continuava a pulsare dolorosamente. Si era messa seduta, puntellandosi con le mani. Ma anche le braccia le facevano molto male.
«Non potevo riportarti a casa. Non potevo lasciarti là.» fu la risposta che ottenne.
Non aveva senso.
«Dove siamo?» chiese ancora, con più forza nella voce.
«Siamo nel posto dove dormo.»
«A casa tua, quindi?» chiese scettica.
Va bene che agli studenti universitari veniva proposto di tutto, ma non aveva mai sentito di scantinati putrescenti affittati a Padova.
Il ragazzo non rispose, né si mosse dal suo angolo. Le sembrava inquieto, l’ombra s’alzava e s’abbassava ritmica, un suono roco si diffondeva nella stanza. Sembrava ansare, affaticato.
«Che ne è stato del ragazzo che era con me?» chiese, sospettosa.
Non le piaceva la situazione, per nulla.
«E’ riuscito a scappare. Qui sei al sicuro, per ora.»
Ansimava visibilmente. Faceva fatica a parlare.
Non l’aveva legata, non era bloccata nei movimenti. Se l’avesse rapita, si sarebbe almeno dovuto accertare che non le fosse possibile muoversi... oppure contava unicamente sulla sua forza! Certo che, sentendolo così stanco, dubitava anche di questo.
Forse non l’aveva rapita... cos’era successo quella sera?
«Devi riposare ancora. Qui non ti troverà per il momento... fino all’alba veglierò io...»
Anghel si guardò attorno una volta di troppo. La testa le scoppiò letteralmente. Era inutile discutere, anche volendo correre via, non avrebbe potuto: il suo corpo non sembrava risponderle! Forse per il momento era il caso di dar retta a quello sconosciuto. C’era qualcosa nella sua voce... qualcosa di conosciuto... qualcosa di pericoloso eppure caldo...
Mentre pensava a quel suono strano, che sembrava avvolgerla, si coricò e si addormentò nuovamente.
 
***
 
Alam era stremato.
Si era stancato troppo. E non aveva mangiato.
Quegli animali non avevano fatto altro che stuzzicare ulteriormente il suo stomaco. Ma non poteva certo uscire e nutrirsi in quel momento! Erano ancora là fuori, tutti e due. Non li aveva uccisi, lo sapeva bene. Se fosse bastato quello a eliminare i due cacciatori certo se ne sarebbe accorto. No, erano ancora a caccia. E cercavano lei. Ne era certo.
Se si fosse arrischiato in superficie, probabilmente lo avrebbero sentito e seguito fino a lì. Non poteva batterli ancora... anche se avesse avuto tempo per saziarsi a sufficienza, chi gli diceva che non sarebbero arrivati a lei approfittando della sua assenza? Era pericoloso.
La sua pelle fremeva.
Sì... erano ancora in pericolo. Lei e lui.
Erano gli stessi che l’avevano braccato la volta precedente? Quelli che avevano individuato il suo rifugio in Prato della Valle? Come saperlo, on li aveva visti e non era rimasto abbastanza a lungo da ricordarne l’odore.
Li aveva sentiti arrivare, scivolare lungo le condutture fognarie; era riuscito a scappare perché era rimasto vigile. Perché aveva mangiato bene. Ma ora? Era stanco, ferito e affamato.
Ma era col suo tamer...
Lei si era svegliata un attimo, ancora intontita. Chissà come l’aveva cacciata quel vampiro? Non aveva molti contatti coi suoi simili, ma sapeva che ognuno aveva il suo modo particolare di procacciarsi il cibo. Anghel aveva lo sguardo annebbiato, il suo corpo era completamente inerme, senza peso.
“Perché non cercano un’altra preda? È pieno di cibo...”pensò.
Ma loro volevano Anghel.
Era piccola, aveva poco sangue, sarebbe bastata a nutrire a mala pena uno di loro. L’avevano cacciata in due e sempre in due si erano avventati su di lei. Li aveva visti. Perché si erano avventati su una sola preda? Lui si spostava sempre solo, ma era consapevole del fatto che potevano esserci vampiri che cacciavano in branco. Voleva dire che i loro tamer si erano uniti, poteva succedere...
Tornò a fissarla. Non si era mostrato per undici anni. E ora era lì, stesa per terra, dormiva. Ora che l’aveva lì cosa doveva fare? Proteggerla, certo... aveva impiegato così tanto a trovarla... era così tanto che non aveva accanto a sé un tamer... cosa si provava ad averlo vicino? Pensieri confusi in una mente non lucida, sentiva dentro di sé il susseguirsi incostante di frasi sconnesse.
Eppure, nonostante la presenza di lei, non percepiva nessun cambiamento rispetto al suo stato normale. Eppure lei era senza ombra di dubbio il suo tamer, l’aveva capito subito, era bastato guardarla la prima sera. Ancora come undici anni prima si sentiva alla ricerca di qualcosa di cui non era consapevole.
Era stanco. E aveva una fame dannata!
Si alzò dal suo angolo e andò vicino alla luce. Si guardò le mani. Sangue.. .ma era sangue dei due vampiri. Gli imbrattava le braccia fino ai gomiti. Sotto le unghie sentiva ancora dei residui dei tessuti dei due cacciatori. “Meglio di niente...” sbottò. Aveva troppa fame.
Leccò via tutto il sangue, ma quello sulla maglietta era praticamente irrecuperabile, ormai seccato. Si pulì anche il viso. Aveva ancora fame.
Andò verso la sua borsa e tirò fuori un’altra maglia, a maniche corte, blu scuro. Chissà dove l’aveva recuperata... proprio non ricordava. Si analizzò la spalla ferita, aveva ancora dei segni rossi e lungo la schiena due squarci si stavano richiudendo lentamente. Troppo lentamente... sanguinava ancora un poco.
“Meglio metterla più tardi.”pensò guardando la maglia blu.
Prese allora quella nera e la incenerì in un battito di ciglia. Altra energia sprecata, ma non doveva lasciare tracce. Avrebbero potuto seguirne l’odore.
Lei dormiva profondamente. Si chinò sul suo corpo. Era strano vederla così da vicino. Con un dito le scostò una ciocca di capelli dal viso... il suo tamer... il collo liscio, senza alcun segno, immacolato... lo sfiorò lentamente. Il maschio l’aveva toccata lì, doveva ripulire le tracce, ma non l’aveva morsa, non aveva fatto in tempo a toccare quelle arterie così colme di sangue... buon sangue... fresco... pulito...
“Adesso basta Alam! Tanto è inutile!”si disse, togliendo di scatto la mano.
Era inutile. Era il suo tamer... lui non poteva di certo... non senza...
“Dannazione! Ho fame!”
Toccò allora il polso. Aveva visto chiaramente la femmina morderla e leccare qualche goccia di sangue. Infatti c’era un piccolo taglio. Ma si era già coagulato. Non era stato fatto per nutrirsi, quel taglio. Troppo piccolo, troppo poco profondo. Forse lui aveva fam, lei era solo golosa, chissà. In ogni caso, Anghel non aveva ferite scoperte. E le sue si stavano già rimarginando.
“Se fosse sveglia, mi darebbe qualcosa da mangiar, ma non posso così...”si disse, rimettendosi nell’angolo. Non aveva senso starle accanto. Se la toccava sentiva lo stomaco aggrovigliarsi esasperato per quell’astinenza forzata. Meglio starle lontano ancora per un po’.
In fondo erano undici anni che l’aspettava. Cosa avrebbe comportato un giorno di più?
 
***
 
Anghel si risvegliò lentamente.
Aveva fatto un sogno strano... un incubo diverso dal solito.
“Non è stato un incubo!”pensò nel riaprire gli occhi.
Il soffitto buio, le pareti grigie, il pavimento duro sotto la sua schiena. Si guardò il polso. Un lieve taglio lungo la vena. Non era proprio un incubo. E allora cos’era stato?
“Aspetta, se non era un incubo, vuol dire...?”si guardò attorno.
Era là, nell’angolo, dove lo aveva intravisto nel dormiveglia. Era steso a terra, la schiena poggiata contro la parete, il volto nascosto sotto il braccio. Sembrava dormire. Indossava jeans logori e strappati in più punti e una maglietta blu a maniche corte. Era magro, terribilmente magro. Sembrava scappato da un ospedale. Di lui vedeva solo i capelli castani, corti, spettinati e impolverati. Accanto a lui c’era un borsone aperto, buttato a terra, dal quale uscivano vari indumenti, come se vi avesse rovistato dentro a casaccio e senza metodo. La candela era quasi finita, rimaneva poco più di cinque centimetri di cera. Davanti alla candela un segno di bruciatura, rosso. Guardò la stanza. Le uniche due aperture si trovavano sulla parete dov’era appoggiata lei.
Ancora non sapeva cosa ci faceva lì. Ancora non sapeva con quale intenzione quello strano ragazzo l’avesse portata lì! Si ricordava perfettamente le strane sensazioni che aveva provato quella notte: al suono della sua voce si sentiva protetta e al sicuro, ma al contempo ne era terrorizzata. Quell’ombra, qualcosa di caldo pronto a proteggerla... o a soffocarla...
Si alzò, il più silenziosamente possibile. Il suo “silenziosamente” le parve tanto rumoroso da spaventarla: il sacco a pelo su cui era stata sdraiata frusciò fastidiosamente, le sue scarpe da ginnastica scricchiolavano terribilmente. Doveva andarsene. Non le piaceva la confusione, non le piaceva rimanere in quel posto inquietante e fetido.
Qualcosa attrasse la sua attenzione. Un piccolo disco di legno, gettato per terra accanto alla borsa aperta. Si avvicinò e lo prese.
Era di poco più grande del palmo della sua mano, finemente lavorato e ben tratteggiato nei particolari. Raffigurava una torre posta al centro di un campo d’erbacce, un falco volava con le ali ben tese, sembrava quasi vero, con le piume definite nei dettagli.
Strinse quel tondo nella mano, fino quasi a farsi male. Strinse gli angoli della bocca, fino a far diventare le labbra bianche. Posò di nuovo lo sguardo sul giovane. Gli occhi vitrei...
Era immobile, perfettamente addormentato, una piccola sveglia nella mano.
Sarebbe stato facile... molto… e lei non vedeva l’ora di farlo. Le mani le tremavano, incapace di tenerle ferme.
Ma se si fosse svegliato?
No...
Doveva procurarsi qualche cosa e tornare al più presto!
Guardò l’orologio. Segnava le quattro... di notte? Lo avrebbe scoperto presto.
Tenendo il tondino di legno nella mano uscì dalla stanza. Si trovava nelle fogne veramente! La cosa l’avrebbe sinceramente colpita, ma la vista di quell’oggetto la teneva in uno stato di trance. Aveva in mente un unico obiettivo e portarlo a termine era tutto ciò che avrebbe fatto d’ora in avanti!
S’incamminò sul passatoio vicino alle due porte. Poco più avanti vide una luce proveniente dall’alto, una piccola scaletta sulla parete e un tombino smosso sopra di lei; la luce era molto intensa, quindi doveva essere pomeriggio. Arrampicatasi, si trovò in mezzo ad un vicolo proprio dietro piazza Eremitani.
“Grazie al cielo non c’è nessuno...”sospirò una volta risalita in superficie.
Puzzava.
Ne era consapevole, ma non le importava. Camminò spedita lungo le strade di Padova, consapevole degli sguardi allucinati che la gente le lanciava, ma incurante di tutto quel che le stava attorno. Percepiva con chiarezza solo quel pezzo di legno stretto nel palmo della mano e la calma che regnava dentro di lei, una calma risoluta. Aveva immaginato quel giorno per molti anni, lo aveva sognato e descritto poi con chiarezza di particolari ogni volta che la rabbia e la tristezza diventavano incontrollabili.
Arrivata a casa armeggiò con le chiavi che teneva in tasca. Sofia era in camera sua.
«Anghel! Sei tu?» una voce soffocata, semi coperta dalla musica.
«Sì!» gridò lei in risposta.
«Ma dove sei stata?» l’amica sbucò dalla stanza non appena lei si chiuse la porta di camera sua alle spalle.
La specchiera del suo armadio le rimandava l’immagine di una giovane disastrata. Il viso spettinato aveva tracce di trucco sbavato, la pelle era annerita in più punti, i vestiti erano logori. Lo sguardo era assente, come annebbiato. Senza lacrime, senza niente. Come quello che sentiva dentro. Niente.
«Anghel... Anghel, stai bene? Cos’è successo? Ero preoccupata! Avevi anche il cellulare spento!»
Sofia aveva bussato alla porta.
«Va tutto bene, Sofi! Davvero! Sono stata con un ragazzo, per tutta la notte... ora sono stanca, domani ti racconterò tutto, vedrai!» rispose, atona.
«Come vuoi... io ora devo uscire, ma questa sera mi devi dire tutto!»
Non l’aveva convinta. Non era convinta nemmeno lei... però per il momento non doveva preoccuparsene. Avrebbe avuto modo di cercare una valida scusa e di risultare convincente. Sentì la porta di casa sbattere e uscì di nuovo. Andò in bagno, togliendosi i vestiti e gettandoli sul pavimento man mano che camminava. Completamente nuda, si gettò nella vasca e si lavò. Gesti meccanici, senza uno scopo ben preciso, senza nemmeno essere percepiti completamente. Rimase per un po’ sotto il getto d’acqua a guardare le piastrelle della doccia.
Quando uscì era passata mezz’ora. La campana suonò le diciassette e trenta. Si guardò attorno, nella casa silenziosa. Dalla sua camera fece capolino il muso grigio di Alex, che subito si rintanò di nuovo sotto il letto. Lei camminava nuda e ancora bagnata per il corridoio. Entrata in camera prese le prime cose dall’armadio e, sempre senza rendersene veramente conto, si vestì.
Poi andò alla scrivania.
Era nel primo cassetto.
Lo portava sempre con sé, come monito, per non dimenticare.
Non che una cosa del genere fosse possibile, no! Non avrebbe mai dimenticato...
Lo aveva trovato accanto al suo corpo, ai suoi piedi. Suo padre era in stato di shock, quasi quanto lei, davanti al cadavere del figlio completamente sgozzato, davanti a tutto quel sangue. Successivamente, le analisi della scientifica fecero sapere che il sangue non era di Alex, ma era di svariati animali. Nel corpo del fratello non ve ne era più una goccia, era stato prosciugato! Probabilmente il suo assassino lo aveva dissanguato a testa in giù e poi ricomposto in quel modo... per motivi inspiegabili, avevano detto. Ma, del resto, il suo assassinio era inspiegabile! Non c’erano impronte, nessun indizio ritrovato. La polizia aveva indagato per mesi e anni. Era un caso tutt’ora irrisolto...
Quella notte, per qualche momento, Anghel era scappata dalla presa del padre e si era avvicinata al corpo inerme del fratello. Come attratta... e lo aveva trovato, ai suoi piedi, intriso di sangue... un tondo di legno finemente intagliato. Lo aveva preso.
Crescendo, si era resa conto che aveva con sé una prova che, forse, avrebbe potuto aiutare la polizia a catturare il mostro che le aveva strappato Alex. Ma nella sua mente si era fatta strada, dal momento stesso in cui aveva visto il corpo, l’idea che lei avrebbe trovato il suo assassino.
E lo avrebbe ucciso.
Quel tondino.
Lo prese e lo confrontò con quello che aveva il ragazzo nella fogna. Erano identici: stesso disegno, stessa mano ferma e precisa nell’intagliare i dettagli.
“E’ lui!”
Il campanile rintoccò le diciotto.
Aveva fame. Andò in cucina e si preparò qualcosa da mangiare.
“Se non ti sbrighi, magari si sveglia e se ne va! E tu lo hai perso per sempre...”si disse.
Ma nonostante ciò, fece tutto con calma. Rassettò anche alla fine, riponendo con cura piatti, bicchieri e posate. E solo allora lo prese.
Il coltello più affilato, quello che usavano per tagliare la carne o il pane secco.
Chiuse la porta di camera sua, con Alex dentro che era rimasto sotto il letto. Infilò la giacca e uscì, col manico del coltello che le toccava la maglietta e la lama, nei pantaloni, che le carezzava il fianco sinistro.
 
***
 
Alam sentì uno strano bruciore allo stomaco. Non era fame. La fame era diversa. Inoltre aveva fame da molto ormai, il suo stomaco si lamentava da più di un giorno per la fame.
No...
Questo era un dolore diverso...
Alzò il braccio che gli copriva gli occhi, impedendo alla candela che aveva acceso per lei di ferirglieli, e la vide.
Stava sopra di lui, il viso rivolto verso il suo. Era un viso strano. Alam piegò la testa di lato per vederlo meglio. I capelli scuri le ricadevano davanti, coprendo parte dei lineamenti alterati. Stava mostrandogli i denti, stretti, le sopraciglia erano incurvate verso il basso, le narici dilatate. E gli occhi sembravano brillare particolarmente.
Il suo tamer...
Sembrava quasi ringhiare.
Abbassò lo sguardo, tranquillo. E vide.
La mano di lei era poggiata quasi contro il suo addome, teneva stretto un coltello. Di esso sporgeva solo il manico, mentre tutta la lama era stata conficcata nella sua pancia. Da lei... il suo tamer...
Tornò a guardarla.
«Perché? Ho sbagliato?» chiese tranquillo.
Forse aveva fatto male a lavarle le ferite, forse aveva dormito male sul suo letto... il tamer doveva avere un qualche motivo per averlo accoltellato.
«Vaffanculo, pezzo di merda!» sibilò lei, avvicinandosi al suo orecchio.
Alam non capiva.
Però gli aveva fatto male.
«Non ti ho ucciso subito solo perché volevo che mi vedessi in faccia mentre morivi!» gli ringhiò sul volto.
Doveva esser stato un errore grave, ma parte dei ricordi che aveva era offuscata dalla fame. Doveva nutrirsi...
Il coltello uscì lentamente dalle sue carni, producendo un lieve risucchio. E un bruciore particolare alle sue viscere.
“Così non penso alla fame...”si disse.
Nell’aria, però, si spanse odore di sangue e metallo. Sgradevole a dir la verità...
“Lo starà facendo per me? Perché non può nutrirmi?”
Rimase immobile, tranquillo, a guardarla. Anghel stava sopra di lui, ancora più concentrata, gli occhi più grandi, il braccio alzato all’altezza del viso. Lo riabbassò di colpo. Alam lo sentì anche troppo, entrare e infilarsi perfettamente tra le costole del lato destro del suo torace. Sentì subito un peso opprimente nel polmone. Il suo petto si alzò senza il suo comando, un singulto. Il sapore venne subito dopo. Un rivolo di sangue caldo che gli carezzava la gola e si insinuava tra le sue labbra dischiuse.
Guardò la sua tamer.
No.
Così non poteva andare.
Il petto gli bruciò intensamente mentre tentava di alzarsi. Lei cercava in qualche modo d’impedirgli i movimenti. Cominciava a capire.
“Non nutrirmi... uccidermi.”lo vide nel suo sguardo.
Non era come un cacciatore, ma sembrava comunque aver fame in un certo senso. Sembrava che Anghel avesse fame di lui. E questo non poteva permetterlo!
Con tutta la fatica che aveva fatto per undici anni, sommata a quella dell’ultima notte! Lui aveva fame, molta più di lei. Non era lei che doveva nutrirsi. Era lui! Aveva poca forza, questo era certo, ma ancora sufficiente per fronteggiare una preda.
Anghel era il suo tenar, non c’erano dubbi, ma era piccola e fragile. Con un colpo di spalle se la scrollò di dosso facilmente, facendola finire con la schiena a terra. Subito fu in piedi. Non era stata una mossa felice: lo sforzo di alzarsi così di scatto gli fece sanguinare ancora di più la ferita allo stomaco e sentì il coltello, ancora conficcato nel suo polmone, spostarsi lievemente. Con un gesto rapido se lo sfilò dal petto. Bruciava. Grondava di sangue, sangue prezioso per lui, specialmente in quel momento. Vide Anghel puntellarsi sulle mani per rialzarsi. Non lo stava guardando. Non importava. Non poteva sprecare quel sangue, non ora. Così leccò il coltello...
Non che fosse una vera e propria cena. Era pur sempre sangue suo e di certo non lo avrebbe nutrito! Ma già era debole, sprecarne una minima goccia gli sembrava pericoloso.
Lasciò cadere il coltello non appena si accorse che Anghel era in piedi di fronte a lui, pronta a scagliarglisi contro, con i pugni alzati.
Fastidiosa.
Il braccio si alzò da solo, la ragazza non ebbe tempo di accorgersene, come tutte le sue prede. Nessuna preda si accorgeva di lui, fino a quando non si trovava nella sua stretta. Ma non mirò al collo. Era pur sempre il suo tamer. No, le prese solo entrambi i polsi, stringendoli e immobilizzandoli.
Il volto di Anghel mutò. Gli occhi sempre spalancati e anche la bocca, solo che questa ora aveva preso una strana forma ovale. E negli occhi era sparita l’espressione della caccia, vi era quella della preda. Non aveva intenzione di lasciarla. Lei aveva provato a ucciderlo.
Cosa doveva fare ora?
«Lasciami andare, stronzo!» gridò lei, dimenandosi.
Non ci pensava nemmeno! Era sopravvissuto per anni, cercandola. E non lo aveva di certo fatto per morire per mano sua!
«Cosa ho sbagliato? Perché vuoi uccidermi?» le chiese allora.
Così, magari, poteva rimediare al proprio errore e smettere quello strano gioco.
«TU HAI PRESO MIO FRATELLO!» gridò allora lei.
Suo fratello?
Alam rimase pensieroso per un attimo. Se non ricordava male, gli sembrava di rammentare che la parola “fratello” indicasse qualcuno con cui si condividono gli stessi genitori... o qualcosa di simile... Forse Anghel si riferiva...
«Tu hai preso mio fratello Alex...» ripeté sottovoce.
Continuava a tenerla per le mani. Il polso di lei si fece violaceo, ma non vi fece caso. La vide piegarsi a terra, inginocchiarsi di fronte a lui. Forse non lo avrebbe più attaccato. Ma non voleva rischiare. Poggiò la schiena alla parete, stanco, stremato. Aveva fame...
Alex...
Sì, lo ricordava. Era stato grazie a lui che aveva trovato Anghel... lo ricordava per questo e perché gli aveva detto il suo nome. Di solito non parlava molto col cibo, non lo riteneva necessario. Sapere il nome di ciò che mangiava era superfluo.
«Prova a negarlo... tu hai preso Alex...» sussurrò ancora lei, la testa china al suolo.
«Sì.» disse semplicemente.
Era vero, lui aveva preso Alex. Per trovare lei.
Anghel alzò di scatto il volto. Alam rimase per un attimo immobile a guardarla. Non capiva: in poco tempo il suo volto era diventato una specie di maschera, solcata da piccole gocce d’acqua. I suoi occhi si erano arrossati ed erano come liquidi essi stessi… era strano, particolare.
«Lo hai preso e lo hai...»
La bloccò, mettendole una mano sulla bocca.
Girò la testa ovunque. Erano lì...
Non proprio lì, ma vicini. Troppo... come avevano fatto? Ma certo. Lui non possedeva un coltello e di certo lei non ne aveva uno con sé la notte precedente. Di sicuro era uscita per procurarselo. Dovevano averla seguita.
Erano vicini. Tutti e due? Forse, non ne poteva essere sicuro. Di certo si erano nutriti e le loro ferite erano guarite. Le sue invece, per quanto richiuse, erano ancora evidenti e gli impedivano movimenti fluidi. Senza contare che ora la sua tamer gliene aveva procurate due nuove, che sicuramente non sarebbero guarite in fretta... e non aveva mangiato nulla da lunedì...
No, non era in grado di combattere. Dovevano scappare.
Lo sguardo tornò su Anghel, gli occhi sbarrati, il suo corpo tremava, lo sentiva bene contro la mano che le aveva premuto sul viso.
Cosa doveva fare? Poteva lasciarla lì...
Del resto, lei aveva tentato di ucciderlo. Doveva rischiare la vita per lei? Poteva rimettersi a cercare, era sopravvissuto per anni cercando... poteva buttarla a terra facilmente e uscire da lì, mangiare e andarsene di nuovo in cerca. Di nuovo.
“Alam, non fare il cretino! È lei il tamer!” si disse.
Sì. Non voleva più cercare. Anche se aveva tentato di ucciderlo, ora le era legato, lo vedeva nel suo sguardo. Non avrebbe potuto lasciarla a morire. Gli occhi scuri di Anghel non glielo permettevano.
Decisione presa. Sì. Ma ora? Cosa fare? Non poteva combattere, né tanto meno trasportare Anghel a casa, dove sarebbe stata al sicuro. Inoltre, se la lasciava andare, avrebbe tentato di fargli ancora male, non avrebbe collaborato.
«Ti ricordi la notte scorsa? I due?» le disse, rapido e a voce bassa per non farsi sentire.
Era una precauzione inutile. Quel luogo puzzava terribilmente del suo sangue. Lo avrebbero trovato anche ad occhi chiusi. Anghel mosse la testa su e giù. Aveva imparato, osservando alcuni umani, che era un sì.
«Ci hanno trovato! Questo vuol dire che possono arrivare presto e ucciderci. Io non sono in grado di battermi ora. Quindi.» riprese fiato.
La sua bocca era ancora piena di sangue. La ferita al polmone non si stava rimarginando! Era un problema.
«Quindi ora io ti tolgo la mano dalla bocca e tu mi seguirai fuori di qua! Poi, appena uscita, correrai a casa più veloce possibile!» le disse.
Lui li avrebbe trattenuti. Del resto, lo aveva capito ieri notte, volevano lei non lui. Lo aveva capito nell’istante in cui si era accorto che non erano affamati. Non capiva proprio per quale altro motivo si dovesse cacciare, se non per fame. Né comprendeva perché mai volessero proprio Anghel, ma sapeva per istinto che era così. Quindi doveva per forza di cosa impedire loro di seguirla, darle il tempo di entrare in casa. Non aveva trovato altre alternative. Lo avrebbero potuto uccidere? Forse... e allora perché si dava tanto da fare per lei? Anche questo, per Alam, era un mistero. Ma effettivamente non si poneva nemmeno la domanda.
Il suo istinto si era attivato quando aveva incrociato lo sguardo di lei e gli aveva detto che così doveva fare.
Anghel annuì. Aveva capito. Ora doveva fare in fretta.
Senza più parlare, le tolse la mano dalla bocca e la sospinse fuori dalla stanza. Si guardò attorno, guardingo. Stavano arrivando da destra. Quindi a sinistra. L’uscita che si trovava là portava direttamente al centro dei giardini dell’Arena. Era quella che aveva preso la sera del suo arrivo. La trascinò dietro di sé. E intanto lasciava gocce di sangue lungo il sentiero...
Senza parlare le indicò il tombino smosso. Lei iniziò a salire. E loro arrivarono nella stanza. Li sentì, sentì i loro ansiti, il loro guardarsi attorno, il loro annusare la traccia di sangue. Anghel era uscita. Fece un balzo e anche lui fu fuori. Quindi la sospinse verso il cancello che dava su piazza Eremitani. L’avrebbe aiutata a saltarlo e poi si sarebbe fermato per intercettare i due vampiri.
«Troppo tardi...» ringhiò una voce dietro di lui.
Una mano gli si conficcò nella spalla, strappandogli un grido. Da quanto non gridava?
Fu questo il pensiero che gli attraversò la mente quando venne scaraventato contro le pareti di pietra. Sentì qualcosa rompersi. Era qualcosa di suo o erano le pietre? Non sapeva distinguere bene... il dolore era diventato quasi una costante. Scrollò la testa, provocando una pioggia di polvere, e tentò di appoggiarsi sulle mani per risollevarsi.
Il braccio destro si piegò, inanimato. Ecco cosa si era rotto!
Un grido, poco distante.
Sollevò lo sguardo. La vista non funzionava più bene... i contorni erano sfocati... ma li vide, tutti e tre. La femmina e il maschio troneggiavano sopra Anghel, stesa a terra.
Odore di sangue...
Non era quello di lei, lo avrebbe riconosciuto.
Faticosamente si alzò in piedi. Se si fosse dato uno sguardo al corpo, avrebbe visto uno squarcio sul petto che mostrava carne viva, con parte di muscolo, mentre il braccio pendeva inerme lungo il fianco. Ansimava. Si avvicinò ai tre.
Ormai non lo consideravano. In effetti, nemmeno lui si sarebbe considerato più pericoloso. Ogni tanto il mondo diventava buio e lui perdeva quasi l’equilibrio, poi riappariva per mettersi a ruotare. Questo non gli impedì di vederla.
Era seduta a terra, la bocca socchiusa e tirata, il labbro inferiore tremava lievemente. Il suo sguardo passava ora sulla femmina ora sul maschio, velocemente, sbarrato.
Odore di sangue.
L’avevano tagliata, lungo la spalla sinistra, forse per strapparla da lui. La sua maglia era completamente rossa, il taglio doveva essere profondo.
Era abbastanza vicino.
«Cosa credi di fare?» disse la femmina. «Mi devi ancora un morso!» ringhiò poi.
Alam l’aveva morsa? Non ricordava... sentì solo una fitta al fianco sinistro, vicino al taglio che gli aveva fatto Anghel poco prima. Sentì l’odore della pelle della vampira vicino a lui, un ringhio basso. Lo spinse via.
Alam si accasciò a terra, poco distante. Era stanco.
“Basta...”pensò.
Persino il suo pensiero era stanco.
Vide.
Vide la rena sotto di lui tingersi di rosso. Profumava. Sangue... sì... sangue... il mondo girava attorno a quella tinta così viva... sì, ora basta.
Un altro grido, alzò lo sguardo. La vampira non lo aveva lanciato lontano. Vedeva Anghel chiaramente, nella stessa posizione di prima. Ora aveva un taglio anche sulla fronte.
Una mano, la vide scorrere lungo la ferita e raccogliere avida quel sangue... seguì la mano con lo sguardo. Era quella di lui... lo vide.
Lo vide leccare avidamente quelle gocce. Il sangue del suo tamer. Lo stava bevendo. E anche lei. Lasciavano spandere il liquido di cui aveva così tanto bisogno lungo la rena. Lo sprecavano. Il sangue del suo tamer...
E li vide.
Gli occhi di Anghel si posarono fugacemente su di lui, inerme a terra. Ancora sbarrati, occhi da preda.
Il suo tamer.
«E ora... ora ti mangerò...» sibilò il vampiro maschio.
E s’avventò veloce contro di lei. Ma quel che incontrò fu una maglietta blu scuro, interamente macchiata di sangue.
Come aveva fatto, non sapeva spiegarselo. Lo aveva visto bere il sangue e avventarsi su di lei. Aveva visto i suoi occhi. Era bastato. Si era alzato e si era messo fra lui e Anghel. Sentiva lo sguardo del suo tamer puntato sulla sua schiena.
«Sei ancora in grado di muoverti?» chiese la femmina.
Alam non le rispose. Voleva mangiare. Andavano bene anche loro. Voleva proteggere Anghel. Poteva ancora farlo.
Sentì un tonfo sordo alle sue spalle e si girò lievemente. Con la coda dell’occhio la vide stesa a terra, immobile, con gli occhi chiusi, i capelli neri sparsi sul suolo. Una ferita al petto, di cui prima non si era accorto.
Nonostante tutto, nonostante i tagli, il braccio inutilizzabile e la fame, Alam sentì qualcosa alla bocca del suo stomaco ferito. E d’istinto digrignò i denti. Quello che uscì dalla sua gola fu un ringhio basso e profondo, lo sentì risuonare in tutto il corpo. Fissò i due vampiri, immobili davanti a lui.
Ora erano loro ad avere lo sguardo della preda.
E ora era lui il cacciatore.
Il ringhio basso diventò sempre più forte. Un calore intenso partì dal suo corpo.
Sì, erano loro le prede. Lui aveva fame. Le avrebbe mangiate. Sì. Avevano bevuto il sangue di Anghel. 
SÌ!
Gridò. E insieme al grido, tutto il calore che sentiva dentro di sé fuori uscì.
Vide rosso. Rosso e arancio.
Poi non vide più nulla.
“Anghel....”

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Capitolo 5
*** Venezia ***


Venezia

«Si sta svegliando...»

Anghel si mosse lentamente. Un fruscio leggero, morbido contro la sua pelle. Provò ad alzare un braccio, ma dovette lasciar perdere perché il più piccolo spostamento le causava fitte di dolore insopportabili. Una luce calda le sfiorava il corpo e gli occhi.

«Non devi sforzarti. Sei ancora troppo debole per alzarti dal letto!» una seconda voce, diversa dalla prima.

Di uomo, adulto.

Forse si trovava in ospedale. Tutto quello che ricordava era ...

«Dove sono?» domandò, la voce roca come se non la usasse da tempo.
Era troppo assurdo per essere vero.Aveva sognato. Aveva avuto un incidente mercoledì sera e da allora aveva sognato. Il ragazzo col tondino di legno, la fogna, il sangue... e quei due...

«Vampiri...» bisbigliò nel dormiveglia.

«Sì...»

 

Anghel si svegliò nuovamente, la luce era debole. Aprì gli occhi, ora più sveglia e cosciente. Non era in ospedale, per niente. Si trovava stesa su un letto a baldacchino dall’aria alquanto antica, avvolta in coperte calde. Il braccio, la testa e parte del busto erano fasciati stretti, le bende bianche. Indossava una camicia da notte verde. Si sentiva molto Dorothy del Mago di Oz quando arriva nella città di smeraldo. Solo che Dorothy non aveva tutti quei dolori al minimo movimento...


Aveva i muscoli indolenziti e la pelle le tirava sotto le bende. Tagli. Nello stesso punto in cui ricordava che...


La porta di fronte al letto si aprì ed entrò una giovane donna, forse non aveva nemmeno trent’anni, con i capelli raccolti in una crocchia spettinata, corvini. Gli occhi erano azzurri, sembravano quasi bianchi su quel volto pallido e incorniciato di nero. Si avvicinò al letto, silenziosa. Anghel osservò tutti i movimenti, lenti, che compiva nella stanza: poggiò un vassoio su di un tavolino intarsiato posto accanto alla cassettiera, vicino all’ingresso; scostò le tende, facendo entrare tutta la luce possibile nella stanza. Quindi si diresse verso il letto.


«Ti sei svegliata, finalmente. Cominciavamo a dubitarne.» sussurrò.

Aveva una voce delicata, bassa ma delicata. Le scostò le coperte e analizzò con sguardo distaccato i bendaggi.

«Sono ancora puliti; vuol dire che le tue ferite stanno guarendo. Domani potremo già toglierteli.» le comunicò, molto professionalmente.

Forse era in una clinica privata. Non era mai stata in nessun ospedale a Padova, ma di certo non potevano avere camere come quelle! Clinica privata? Ne dubitava fortemente.

«Dove sono?» chiese.

«Sei a Venezia, mia cara.» la voce maschile che aveva udito prima.

Sulla soglia era apparso un uomo sulla cinquantina. Aveva la barba ormai bianca e folta, mentre i capelli mantenevano ancora qualche traccia del colore scuro. Il volto era asciutto, con una bocca ben disegnata e degli occhi scuri. Doveva essere un bell’uomo, da giovane, manteneva ancora un aspetto piacente, nonostante l’avanzare degli anni.

«E cosa faccio a Venezia?» sussurrò.

La donna si era spostata, andando a sedersi sulla sedia della scrivania posta alla destra del letto. Teneva lo sguardo fisso su di lei, senza al contempo perdere mai di visto l’uomo.

«Sei a Venezia, perché qui potevamo curarvi meglio.» fu la risposta che ottenne.

Curarvi? Lei e chi?

«Qual è l’ultima cosa che ricordi?» le venne chiesto.

Anghel fissò il soffitto di legno del baldacchino. Era intarsiato, lanciava strane ombre lungo tutto il centro del soffitto.

Non voleva ricordare, ma non voleva nemmeno lasciare quella domanda senza risposta.

«Ero in mezzo ai giardini dell’Arena... a Padova... con un ragazzo... mi avevano ferito alla testa, al petto e alla spalla... e...» la voce le morì in gola.

Le immagini le sfrecciavano nella memoria, da una parte lei cercava di scacciarle, dall’altra le tratteneva per darvi ordine.

«E cosa?» la incitò l’uomo.

«E c’erano due persone, un ragazzo e una ragazza, che inseguivano me e... l’altro... e loro hanno picchiato il ragazzo che era con me e hanno picchiato anche me, mi hanno ferito facendo uscire del sangue... e poi... e poi hanno allungato le mani verso le mie ferite e... e... hanno preso del sangue sulle loro mani... e lo hanno leccato via... e... e avevano... i canini... erano... oddio! Ero di certo troppo sconvolta... non poteva assolutamente essere...»

«Vampiri.» finì per lei la donna.

Anghel si volse a guardarla. Sì. Era esattamente questo che aveva pensato vedendo quei canini bianchi spuntare dalle bocche dei due. Aveva tremato, si era sentita contorcere lo stomaco dalla paura, immobilizzata. Aveva lasciato che la ferissero e si prendessero il suo sangue. Aveva assistito allo scempio che avevano fatto di quell’altro... quello che aveva ucciso Alex... quello che lei non era riuscita a uccidere a sua volta... ricordava di avergli chiesto aiuto con lo sguardo, stupidamente perché era sciocco chiedere aiuto a qualcuno che poco prima hai accoltellato! Eppure ricordava distintamente quel giovane, intriso di sangue, che avrebbe dovuto esser già morto sotto i suoi colpi, alzarsi e scattare tra lei e i due aggressori.

E poi era svenuta.

«E’ stato un sogno, vero?» domandò, la voce tremula.

I vampiri non esistono.

Questo t’insegnano. O meglio, non è che viene proprio esplicitato apertamente, ma è così. Vampiri, maghi, fate, demoni, mostri e quant’altro non esistono. Sono frutto dell’immaginazione di scrittori e sognatori. Non sono altro che metafore, inesistenti. Aveva sognato di certo.

«Ovviamente non si tratta di un sogno.» fu sempre la donna a rispondergli, secca, implacabile e al contempo tranquilla.

Anghel si volse di scatto verso di lei. La stava guardando, con lo sguardo perso, assente, inespressivo. Cosa voleva dire? Dove diavolo era finita? Una clinica psichiatrica?

«Jahèl... la ragazza è già sufficientemente traumatizzata senza che tu le sconvolga di colpo il suo equilibrio. Esci, per favore.» disse l’uomo, la voce ferma ma gentile.

La donna chiamata Jahèl si alzò calma, per nulla turbata o risentita dal rimbrotto dell’uomo, e si chiuse la porta alle spalle.

«Devi perdonarla... nonostante tutti gli anni che ha, ancora non riesce a essere completamente consapevole di quando sia opportuno parlare e quando invece tacere. Inoltre è spesso carente di tatto...» disse l’uomo, sedendosi sul bordo del letto.

«Cosa voleva dire? Cosa intendeva con “non era un sogno”?» balbettò, ancora non completamente padrona di se stessa.

«Esattamente quello che ha detto. Non hai sognato, ragazza. Per nulla.»

Anghel fissò quel volto segnato già da alcune rughe senza vederlo veramente...

«Forse è il caso che ti racconti alcuni fatti. È giunto il momento che tu sappia cosa ti capiterà da ora in avanti. Forza, alzati e seguimi.» le disse, battendo lievemente la mano contro le coperte.

Anghel fece come le era stato detto. Si sentiva molto stanca e mentalmente provata, troppo per potersi opporre a qualunque ordine. Che qualcuno le dicesse cosa fare, in quel momento, era alquanto riposante.

L’uomo la condusse fuori dalla stanza, lungo un corridoio cui erano appese vecchie stampe e quadri raffiguranti feste e paesaggi veneziani. Era veramente a Venezia? Come ci era arrivata? Vi erano alcune porte, chiuse, lungo le pareti, e una scalinata di marmo nel centro. Ma loro la superarono e si diressero all’ultima porta, in fondo. Era uno studio. Non vi era traccia del muro unicamente perché ricoperto da una pesante libreria di mogano, colma di libri, che arrivava sino al soffitto. Distrattamente, Anghel notò che i ripiani di questa libreria tenevano due file distinte di libri. Era una vera biblioteca, dal momento che la stanza, pur così colma, le sembrava grande.

Davanti alla porta vi era una scrivania, anch’essa di mogano, finemente intagliata, alle cui spalle vi era una finestra. Doveva essere il tramonto, la luce filtrava già tenue, aranciata, attraverso le tende bianche. Alla sua sinistra vi erano tre poltrone e un tavolino basso, su cui era apparecchiato un servizio da tè per due, ancora caldo. Fu lì che il suo cicerone la fece accomodare. Anghel, come una bambola, accondiscendeva a qualsiasi comando.

«Il mio nome è Samuele Leonardi. Sono il proprietario di questa casa.» le disse, servendole il tè in una tazza e offrendole al contempo qualche biscotto di pasta frolla appena sfornato.

«Io sono Anghel Weeder.» rispose in automatico.

«Anghel... è un nome inconsueto, persino per qualcuno con origini non italiane...»

«Lo so. Fu mia madre a sceglierlo. Disse... mi disse che voleva che nessun altro avesse un nome come il mio... disse che le nonne volevano mi chiamassi Angela, ma che lei si rifiutava, così inventò questo nome... per me...» spiegò lei.

«Bene, Anghel...»

La porta si aprì ed entrò Jahèl. Senza dire nulla andò a sedersi alla scrivania e riprese a guardarli, come in attesa.

«Jahèl, vieni qui un momento. Credo che vedere ora sia più efficace che parlare...» le disse Leonardi.

Jahèl si alzò, lenta, e prese posto sulla terza poltrona; quindi si avvicinò calma al viso di Anghel e aprì la bocca, quel che bastava perché la ragazza potesse vederne le zanne bianche.

«Va bene così, Jahèl. Credo basti, per farle capire che non ha affatto sognato...»

Anghel era sbiancata improvvisamente, le sue pupille si erano dilatate e il cuore aveva cominciato a battere incontrollato.

I vampiri esistono...

I vampiri esistono...

I vampiri...

No, dai... non poteva essere! Le avevano impiantato dei canini finti! Da qualche parte aveva letto che un gruppo di giovani fanatici si credevano veramente vampiri e si facevano mettere dai dentisti dei canini finti. Doveva essere uno scherzo! Si ripeteva questa frase nella mente, tenendo stretta tra le mani la tazza bollente, ma, per quanto fosse più assurdo pensare all'esistenza di creature che si nutrono di sangue umano, qualcosa dentro di lei continuava a dirle che i vampiri esistono veramente.

«Credo sia meglio che appoggi questa...» disse Leonardi, prendendole la tazza dalle mani e poggiandolo nuovamente sul tavolo.

Anghel stava tremando.

«Posso immaginare quanto sia difficile per te accettarlo, ma vedi... ormai ti è indispensabile comprendere...» continuò l’uomo, tornando a intrecciare le mani sul ventre, fissandola da sopra le lenti degli occhiali.

Anghel lo guardò, senza capire, incapace di articolare anche solo una sillaba.

«State scherzano vero? Io non sono pazza... non... tu non sei un vampiro e quelli sono sicuramente finti» tentò di dire rivolta a Jahèl, che per tutta risposta allargò il sorriso.

Sentì un brivido percorrerle la schiena e un impulso irrefrenabile alla fuga, mentre i suoi muscoli doloranti la lasciarono pietrificata sulla poltrona.

«Su alcune cose, il nostro istinto di sopravvivenza è ancora più forte della ragione, non credi? Sai bene qual'è la risposta, anche se la tua mente si rifiuta di crederci.»

Accanto a lei stava un vampiro; quella notte era stata attaccata da due vampiri, avevano bevuto il suo sangue...

«Vedi ormai anche tu sei innegabilmente legata ai vampiri. Devi conoscere la verità, onde evitare danni a te o al resto del mondo...» ripeté il signor Leonardi in tono grave.

«La verità?» capiva sempre meno.

«Sì. La verità che al mondo esiste una razza di cui molti esseri umani ignorano l’esistenza. Come ben sai, ogni creatura è predatore di qualcosa e al contempo preda. Noi esseri umani prediamo la terra dei suoi animali e delle sue piante, per nutrircene. Quindi, in questo siamo predatori. Al contempo siamo prede. Tu potresti dire: certo, alcuni animali cacciano l’uomo per fame. Ma, ti rammento, che nessun animale si nutre stabilmente dell’uomo. Siamo prede dei momenti disperati oppure gli animali ci uccidono per difendersi. Quindi, in realtà, nessun animale noto ha come base della sua alimentazione l’uomo. Di conseguenza, pare che non vi sia un predatore dell’uomo. In realtà c’è; rimane nascosto, si mostra di rado e si confonde col genere umano, ma è diverso. Il vampiro è il nostro predatore naturale...» fece una pausa, guardandola come se Anghel avesse dovuto aggiungere lei qualche cosa.

Il discorso era chiaro, certo. Non ebbe difficoltà a comprenderlo. Ma le scivolava addosso come acqua, quasi non lo sentisse. Leonardi riprese subito dal momento che lei pareva non aver domande.

«Bene. Non abbiamo notizie storiche certe sui vampiri, molte cose sono ancora avvolte nel dubbio. Per esempio la loro origine... nessuno sa come nasca un vampiro. Sono secoli che non ne nasce uno e quindi su questo vi sono molte leggende. Data la loro somiglianza fisica con l’uomo, molti e per molto tempo hanno ritenuto che in realtà il vampirismo fosse come una malattia: un virus trasmesso per contatto con liquidi corporei, una mutazione genetica di alcuni umani, un demone che entrerebbe nel corpo di alcuni morti. Ovviamente per quest’ultima non vi sono di certo basi scientifiche, mentre per le altre due... bè... scarseggiano. Nel corso dei secoli, di quest’ultimo particolarmente, sono state vagliate le due ipotesi senza trovare riscontri. Il sangue di un vampiro non sembra contenere sostanze particolari, pur essendo differente dal nostro; si è provato a metterlo a contatto con sangue umano, ma non si sono visti effetti che dimostrino la tesi del contagio. Per la teoria della mutazione esistono ancora meno prove. Altri, al contrario, ritengono che i vampiri discendano da un ceppo evolutivo parallelo a quello dell’uomo. E hanno concentrato le loro ricerche sulla riproduzione, pensandola simile a quella umana, a quella dei mammiferi. Senza trovarne riscontri per altro.»

Anghel si stava annoiando a morte. Le sembravano tutte parole vuote e prive di senso. Cosa le importava delle scoperte scientifiche? Cosa importava di tutto quello? I vampiri esistono. Cacciano l’uomo. Uccidono. Questo contava, no? Ma non voleva risultar scortese.

«Perché non lo chiedete direttamente a loro?» chiese, indicando Jahèl. «Dopotutto, lei vive con una vampira in casa, mi pare!» sbottò.

Jahèl volse il suo sguardo vitreo su di lei, gli angoli della bocca s’inarcarono in quello che poteva essere un sorriso... Anghel rabbrividì.

«Devi capire, Anghel, che ai vampiri non interessa particolarmente la loro storia, la loro origine; e sono secoli ormai che non nasce un nuovo vampiro, questo è certo. Molto probabilmente loro stessi non sanno in che modo si genera un membro nuovo della propria specie.» spiegò Leonardi.

«Pensavo che la riproduzione dovesse essere qualcosa d’istintivo.» disse Anghel.

«I nostri istinti e le nostre priorità sono diverse da quelli umani, non credo che vi possano essere comprensibili. Il nostro tempo si dilata in maniera per voi insopportabile...» disse Jahèl, sottovoce.

«Quel che Jahèl ha cercato di dirti, è che il tempo per loro non scorre come per noi. Il vampiro vive per un numero imprecisato di anni. Nessuno ha mai visto morire un vampiro di morte naturale. Sono sempre stati uccisi! Inoltre, vivono del loro istinto. Le emozioni che provano sono basilari per la sopravvivenza. Niente di complicato. È come un’equazione: fame uguale mangiare uguale procacciarsi il cibo. Questo è il modo di esistere dei vampiri. Ora, forse non ti sarà facile capirlo, ma ti prego di sforzarti, perché è molto importate che tu colga questo particolare: il vampiro non è umano. Questo vuol dire che emozioni elaborate come la pietà, la compassione, l’empatia o anche l’amore sono impossibili per queste creature. Le stesse espressioni facciali sono per loro un mistero.»

«Ma Jahèl ha sorriso.» disse Anghel.

«Certo... quello che sto per raccontarti, Anghel, è un altro mistero legato ai vampiri. Da sempre quando nasce un vampiro, nasce un tamer.» lasciò cadere questa parola nel silenzio.

«Un domatore?» domandò Anghel.

Suo padre era americano, lei studiava lingue. Il passaggio dalla parola inglese a quella italiana venne spontaneo.

«Sì... vedi, i vampiri sono dotati di alcune caratteristiche che li rendono nettamente più forti di noi esseri umani. Un uomo solo non può sperare di sopraffare un vampiro. Si dice che nemmeno un esercito possa sperare di ucciderlo. Sono molto forti, molto veloci, possono mutare aspetto e rigenerarsi velocemente. Inoltre, ognuno di loro ha delle peculiarità. Jahèl, ad esempio, è in grado di manipolare il vento. Ognuno, dalla nascita, può controllare uno e un solo elemento, come vento o acqua, o particelle elementari quali il ferro o qualche altro metallo, l’elettricità... Capisci che, lasciati liberi di agire istintivamente, la razza umana si sarebbe potuta estinguere presto. Il loro modo di vivere si basa sulla sopravvivenza, né più né meno di un qualunque altro animale. Se ha fame, il vampiro mangia. Il che vuol dire che, mediamente, un vampiro potrebbe uccidere dai tre ai cinque esseri umani a notte. Con questo non voglio dire che siano creature prive d’intelletto, incapaci di rendersi conto dell’importanza di mantenere un certo equilibrio naturale, anzi! Le loro capacità cognitive sono più che sviluppate; manca completamente la parte affettiva... con l’andare degli anni, il loro meccanismo fame-cibo diventa l’unica cosa a cui pensano. Diventano propriamente delle bestie, con la differenza che la loro vita è pressoché infinita. Per prevenire l’estinzione della specie umana, nello stesso misterioso modo in cui sono nati loro, alla nascita di un vampiro si associa la nascita di un tamer, un domatore.»

Anghel rimase a fissarlo per un istante. Se non vi fosse stata Jahèl, col suo sguardo inquietante e il viso assolutamente inespressivo, avrebbe pensato senza ombra di dubbio che stava bevendo una tazza di tè in compagnia del Cappellaio Matto o della Lepre Marzolina... i discorsi avevano la stessa pretesa di ragionevolezza... ma Jahèl c’era. E c’erano pure i ricordi della sera nei giardini, del dolore e dei denti. Leonardi riprese.

«Il tamer è un comunissimo essere umano. Non ha poteri particolari né forza fisica fuori dalla norma. L’unica sua diversità è che il vampiro a lui legato non potrà nutrirsi del suo sangue senza il consenso del tamer stesso. Bada bene, quel particolare vampiro. Per tutti gli altri verrà considerato come una preda al pari di chiunque!»

«Lei è un tamer? Il tamer di Jahèl?» chiese.

Leonardi annuì.

«Ma allora quanti anni ha?» domandò esterrefatta.

Ora cominciava a non capire più bene.

«Oh... io ho cinquantanove anni, Anghel. Vedi, i tamer sono mortali, la durata della loro vita non cambia, non si adegua a quella dei vampiri. No, noi umani non siamo nati per vivere così a lungo. Impazziremmo prima, senz’ombra di dubbio! La particolarità del tamer, e il suo compito, viene tramandato di generazione in generazione, seguendo i gradi di parentela.» spiegò.

«Ma cosa deve fare un tamer?» domandò a quel punto Anghel.

Un dubbio le si insinuava da un po’ nella mente. Perché le veniva fatto tutto quel discorso se non per...

«Il tamer è come un modello per il suo vampiro. Gli è quasi necessario. Vedi, il tamer ha il compito di “umanizzare” il vampiro. Cercherò di essere più chiaro. Come ti ho detto, i vampiri non sono affettivi. Bene, il tamer insegna loro i sentimenti. In realtà, i vampiri non apprendono mai a provarli, non riescono, non è nella loro natura... prova a pensare: se sentissero una qualche emozione vera, come potrebbero veder morire tante persone senza provar nulla? No... i vampiri imparano a imitare le emozioni e, in contemporanea, a contenersi nel mangiare. La vicinanza di un tamer, i suoi insegnamenti, fanno capire al vampiro che non per forza deve nutrirsi fino a uccidere la sua preda. Può anche trattenersi. Capisci l’importanza di un tamer? Tamer e vampiro hanno un legame particolare. Il vampiro protegge il suo tamer, sempre comunque preservando anche se stesso; il tamer ha molta influenza sul vampiro, ma non lo controlla, assolutamente. Rimangono in ogni caso creature molto indipendenti. Nonostante questo, i vampiri si fidano dei propri tamer e fanno quel che viene detto loro, se ciò non lede a loro stessi. In passato sono stati spesso usati in guerre e giochi di potere che erano tutti umani! Vi erano lotte e rapporti d’affari, compresi matrimoni, tra famiglie di tamer, per unificare sotto la propria casata quanti più vampiri possibili. Vi sono state guerre. Molti dei vampiri più antichi sono stati uccisi e, come ti ho già detto, non ne sono più nati di nuovi. Il vampiro è indipendente, certo, ma spesso si è trovato ad essere una marionetta dei propri tamer... capisci, immagino, che il potere di persuasione che si ha su queste creature è immenso. La responsabilità del tamer è grande.»

Anghel annuì, anche se non era proprio certa di capire...

«Sono anche io un tamer, non è vero?» domandò con un filo di voce.

Leonardi annuì.

«Ti ho detto che appena nasce un vampiro, nasce un tamer. Non è detto che vampiro e tamer vivano da subito a stretto contatto. Possono capitare molte cose che impediscono loro di avvicinarsi. Può anche succedere che un vampiro perda il suo tamer. E non riesca più a ricongiungersi con il tamer della nuova generazione.»

«Cosa succede in questi casi?»

«Se un vampiro nasce e non ha accanto a sé il tamer, quasi subito passa allo stato bestiale e uccide e si nutre al minimo stimolo. Esiste sempre il suo tamer, da qualche parte nel mondo, certo. Ma se mai si incontrassero, difficilmente si potrebbe recuperare questo vampiro. Vedi, potrebbe non essere nemmeno in grado di usare la parola. Il vampiro che perde le tracce della famiglia del tamer va in cerca di quello successivo, ma non è detto che riesca a trovarlo. Se un vampiro non riesce a ricongiungersi al suo tamer in circa cento, cento-cinquant'anni, dimenticherà lentamente tutto ciò che ha appreso dai tamer precedenti, fino a scordarsi di cosa sia un tamer. Dopo duecento anni perderà anche la parola e sarà sempre più simile a una bestia che a un uomo.»

«Se io sono una tamer, vuol dire che un vampiro è legato in qualche modo a me... giusto? Pensate che sia uno di quelli che ha perso le tracce dei tamer anni fa?» chiese.

Per quanto tutto le sembrasse assurdo, cominciava a intuire la logica dietro quei discorsi. Entrare nella mentalità di un mondo abitato da vampiri le parve più facile di quanto aveva supposto all’inizio di quella lunga conversazione.

«Sì. Vedi, vampiri e tamer, tra le altre cose, si sono assunti il compito di eliminare i vampiri allo stato di bestie. Individuammo quello che riteniamo essere il vampiro legato a te una ventina d’anni fa. Devo dire che è abile, ci sfuggì molte volte! Però ci accorgemmo anche che non era ancora allo stadio feroce, pur avendo perso pare tutte le conoscenze impartite dai tamer precedenti, quindi doveva esser solo da meno di duecento anni. Non poteva essere appena nato, perché sa per certo cosa sono i tamer. Un vampiro che non è mai stato a contatto con uno di noi, ne ignora persino l’esistenza. Undici anni fa, riteniamo che lui ti abbia trovata. Pensiamo anche che il suo istinto lo ha tenuto lontano da te, come se in un certo senso sapesse che non eri preparata ad averlo accanto. Questa è una cosa alquanto sorprendente, sì, molto rara. Ma non più di tanto: se tu non sei pronta, la sua vita può essere messa in pericolo da te. Quindi il suo istinto lo tenne distante, ma sufficientemente vicino per proteggerti. Ti è rimasto accanto nell’ombra per undici anni. Mentre noi lo tenevamo sotto controllo.»

«Perché lo sorvegliavate?» chiese Anghel.

«Questo particolare vampiro manipola un elemento raro, il fuoco. Di solito è più facile che un vampiro possa modificare qualcosa che comunque è presente all’interno del suo organismo: elettricità dagli impulsi neuronali, per esempio; ferro, nel sangue; e via discorrendo. Ma nemmeno i vampiri sono fatti di fuoco. Il fuoco è un elemento esterno a loro come a noi. Un vampiro manipolatore di tale elemento è una vera rarità. Osservandolo, ci siamo accorti di non essere i soli a tenerlo d’occhio. Qualcun altro, negli ultimi anni, si era preso il disturbo di spiarlo. Non sappiamo chi, certamente, ma sono quasi certo che stessero guardando lui per arrivare a te!»

«Ora non la seguo più.» disse, con gli occhi sgranati.

«Il tamer passa secondo la linea familiare. Non hai idea di quanti possibili intrecci di casate ci sono nel giro di un solo secolo! Se il tamer odierno non ha figli, il vampiro passa ai fratelli o ai nipoti. Se non ci sono, ai cugini... e via discorrendo all’infinito. Capirai ora quanto sia difficile risalire negli alberi genealogici, andando in là nei secoli! Quanto debba essere difficile per un vampiro ritrovare il tamer una volta perso... Tornando a noi. Se, come sospetto, qualcuno vuole avere il tuo vampiro, deve assicurarsi che tutti i possibili futuri tamer vengano eliminati, capisci?»

Capiva, capiva perfettamente. Qualcuno stava cercando di ucciderla e aveva mandato due vampiri contro di lei.

«Non è stato facile non farsi notare da quel vampiro. È molto scaltro, molto più scaltro di quel che mi aspettassi.» fu Jahèl a parlare. «Quando ti trasferisti a Padova, lui ti venne dietro. Ma si accorse di esser sorvegliato. Così cominciò a girare anche per mesi, sempre in direzioni differenti. Era impossibile capire quando sarebbe tornato da te e da che direzione. Avevo perso le sue tracce tra le Alpi, qualche giorno prima dell’attacco ai Giardini.» spiegò. «Ti ha difeso bene, devo ammettere. Visto quel che gli hai fatto, io non ti avrei difesa per niente... tutte quelle energie sprecate...»

«Jahèl...» la redarguì Leonardi.

«Perché? Che gli ho fatto?» domandò Anghel.

«Come? Non ricordi più? Gli hai conficcato per due volte una lama nel petto.» disse Jahèl, sogghignando.


***

Mi scuso per la lunga pausa, causata da impegni lavorativi...
Spero di riuscire a essere più costante ora :)

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Capitolo 6
*** Tamer ***


Tamer

Anghel spalancò gli occhi.

Lui?! lassassino di suo fratello...era ilsuovampiro? No, impossibile! Non lui! Si aggrappò stretta alla poltrona, cercando una qualche prova che testimoniasse che Jahèl si era sbagliata. Ma persino la sua memoria era contro di lei.

La ricordava bene... una maglietta blu scura, interamente intrisa di sangue, pararsi tra lei e il vampiro che era scattato verso il suo collo scoperto. Lo aveva visto, lievemente accucciato come un animale pronto all’assalto, ansante. Lo aveva visto per un secondo appena, perché era subito svenuta a terra e non ricordava altro.

«Ha incenerito quasi metà dei giardini dell’Arena. Ritrovarvi in mezzo alle fiamme non è stato facile.» continuò Jahèl. «Dopo essere esploso, facendo fuggire i due vampiri, si è lasciato cadere sopra di te, per proteggerti! Incredibile, veramente. Era senza più una goccia di energia; mi domando quando abbia mangiato l’ultima volta per ridursi così...»

Anghel si alzò di scatto, seguita dallo sguardo piatto di Jahèl.

«Non può essere! Non lui! No! Non lo accetto!» gridò, muovendosi nella stanza, frenetica.

«Perché no? È stato più che bravo, direi.» riprese la vampira, con calma.

«BRAVO?! HA UCCISO MIO FRATELLO!» gridò Anghel, esasperata.

Nella stanza calò il silenzio. Jahèl Leonardi cambiarono espressione. Rimasero immobili per qualche secondo a guardarla.

«Non posso stare accanto a lui! Io voglio ucciderlo perché lui mi ha tolto mio fratello!» spiegò.

Non che fosse necessario, il suo grido di poc’anzi era più che sufficiente.

«Impossibile.» disse, laconico, Leonardi.

«Come impossibile? Io mi rifiuto di fare da “domatrice” all’assassino di mio fratello!» sibilò tra i denti, ansando per la rabbia.

«Certo, questo è comprensibile! Quello che è impossibile è che sia stato il tuo vampiro a uccidere tuo fratello.» le spiegò l’uomo.

Anghel sentì qualcosa crollarle sulle spalle, tanto che ebbe un impercettibile cedimento verso il basso e pensò bene di tornare a sedersi.

«Ma... ma lui stesso ha affermato di averlo preso.» balbettò.

«Non so cosa sia successo a tuo fratello, ma ti assicuro che, se avete gli stessi genitori, è certo che non l’abbia ucciso lui.» tornò a ribadire Leonardi.

Vedendo lo sguardo attonito della giovane, pensò bene di continuare a spiegare:

«Il vampiro, come ti ho detto, non può nutrirsi del sangue del suo tamer a meno che non sia il tamer stesso a offrirglielo. Allo stesso modo i parenti più prossimi, e quindi genitori e fratelli, sono per lui intoccabili. Se capita qualcosa al tamer odierno e questi non ha eredi, è tra i famigliari prossimi che nascerà il futuro tamer. Per il vampiro diventano intoccabili. Al solo sfiorarne la pelle, capiscono che non possono nutrirsene. Questo legame svanisce già alla parentela di secondo grado. E, tra laltro, persino il compagno del tamer è intoccabile, almeno nel tempo in cui riveste questo ruolo, dal momento che, essendoci un legame speciale, potrebbe essere il possibile genitore della generazione futura! Mi pare quindi più che impossibile che quel vampiro abbia ucciso tuo fratello.»

«Ma... è stato lui a prenderlo... me lo ha detto!»

«Allora è una cosa che devi chiarire con lui.» scandì Leonardi.

Anghel era stanca, stremata. Quella conversazione, così assurda, le aveva fatto venire un terribile mal di testa.

«Riprende a sanguinare.» constatò Jahèl.

«Per oggi è più che sufficiente. Ormai è notte, devi andare a dormire.» disse.

Anghel annuì e si lasciò ricondurre nella stanza in cui si era svegliata alcune ore prima. Leonardi si chiuse la porta della stanza alle spalle una volta uscito. Ormai sola, Anghel si gettò sul letto e subito si addormentò.

 

***

 

Cercò di muoversi.

Qualcosa gli impediva i movimenti. Non andava bene. Per niente.

Aprì gli occhi. Attorno a pareti spoglie, pitturate di bianco. Di certo non era il suo ultimo rifugio... si guardò il corpo. Ovvio che non poteva muoversi! Funi, di spesso metallo, lo incatenavano, avvolgendolo completamente. Per quanto riusciva a vedere, sdraiato su qualcosa di rigido e freddo, non vi era nemmeno un centimetro dal collo in giù che non fosse coperto da pesanti, fredde catene grigie. Dove si trovava non poteva di certo saperlo. Dove fosse la sua tamer me che meno.

Si ricordava di essersi lasciato cadere su di lei per proteggerla dalle fiamme che aveva generato. Al momento, però, non avrebbe saputo dire se il suo fosse stato un gesto pensato o se, semplicemente, le fosse piombato addosso per caso. Aveva ucciso i due vampiri?

Alam ne dubitava. Era perfettamente consapevole delle sue capacità in quegli istanti. Non avrebbe potuto generare calore sufficiente da liquefare i due. In realtà, non capiva nemmeno da dove gli era arrivata la forza per creare quelle fiamme... forse la vicinanza del tamer lo rendeva più resistente...

Ma adesso Anghel dove si trovava? E lui perché era legato in quella stanza bianca?

Una porta si aprì, alle sue spalle. Piegò la testa indietro per poter scorgere la figura che vi stava entrando.

«Vedo che finalmente sei sveglio. Son quattro giorni che non dai segni di vita. Ti sei rigenerato?» una voce maschile, giovane.

La figura si mise davanti a lui. Era un ragazzo, i capelli biondicci e gli occhi verdi lievemente a mandorla. Alam piegò la testa di lato, sembrava buono...

«Hai fame, non è vero? Direi! È da quando sei arrivato qui che praticamente non mangi.»

«Quindi sono sei giorni.» sibilò, il tono di voce roco.

Il giovane fece un passo indietro. E subito la sua faccia si contorse, si morse le labbra e abbassò lo sguardo... non era lo sguardo della preda. Del resto, in quella situazione Alam non era per nulla pericoloso. Sei giorni che non cacciava, tutte quelle ferite da rimarginare... quelle catene da spezzare... no, non poteva nutrirsene liberamente!

Ma aveva un aspetto così invitante...

La vena del suo collo pulsava proprio sotto la pelle. Lì, dove era più visibile, scorreva veloce molto sangue, rosso, vivo, caldo. Già se lo sentiva scendere lungo la gola, placando la sua fame.

«Ti abbiamo dato delle flebo di sangue, per aiutarti a rigenerarti. Ma ovviamente non possiamo placare così la tua fame, certo.»

La voce tremava, ancora sfuggiva al suo sguardo. Ora sembrava veramente una preda. Alam glielo vedeva chiaramente sul viso, seguendo con gli occhi due gocce di sudore che gli scorrevano sulla guancia.

«Slegami...» sussurrò.

Era tutto quello che voleva... mangiare... e poi cercare Anghel.

«Tra un attimo... tra un attimo verrai slegato.» balbettò il ragazzo.

La porta si aprì di nuovo, la testa del giovane scattò verso di essa e subito la sua espressione mutò: la bocca si aprì di poco, gli occhi si fecero più liquidi e le sopracciglia si abbassarono alle estremità vicino alle tempie. Alam sentì che si stava avvicinando qualcuno. più di una persona; tra loro c’era un vampiro, di questo era certo, ne sentiva l’odore... e c’era anche...

«Sì...» sospirò, improvvisamente rilassato.

Anghel apparve nella sua visuale, sembrava in buona salute. Aveva delle bende, ma non puzzava di sangue. Era viva.

Nell’istante in cui lei entrò, le catene si sciolsero con un lieve clic. Fu facile allora lasciarle scivolare contro il corpo e mettersi a sedere di fronte a lei.

La guardò, doveva stare attento. Non aveva certo dimenticato il coltello. Poggiò le mani contro il bordo del tavolo su cui era stato posto e fissò Anghel. Lei aveva uno sguardo strano. Ancora i suoi occhi erano fatti come dacqua, liquidi, ma questa volta sul viso niente gocce. Lo guardava anche lei. Non aveva armi in mano. Ne era certo perché le mani le teneva strette e basse e se le sfregava nervosamente.

«Come ti chiami?» chiese lei, dopo molti istanti di silenzio.

Le altre tre figure, il giovane, il vampiro e il terzo umano, stavano in disparte. Non se ne curò, non erano pericolose per il momento.

«Alam, il mio nome è Alam.»

«Alam...» ripeté lei.

A sentirle pronunciare il proprio nome, il corpo di Alam ebbe un brivido che partì dalla nuca e arrivò fino in fondo alla schiena. Di scatto raddrizzò le spalle e scrollò il capo, tornando poi a fissarla.

«Alam... tu ti ricordi di mio fratello... Alex?» disse ancora lei.

Una domanda simile glielaveva fatta prima di colpirlo ai polmoni. Si abbassò sulle braccia, pronto a balzare al minimo segno di pericolo.

«Sì.» disse, ma risuonò più simile a un ringhio.

Anghel chiuse gli occhi ed ebbe un fremito. Ma subito tornò a guardarlo.

«Alam, hai preso tu mio fratello?» chiese ancora.

«Sì.» ringhiò lui.

Non poteva combattere contro il vampiro presente. Non ne aveva la forza. Fuggire dal suo tamer? Poteva farlo, perché no? Se lei era pericolosa...

«Alam, rispondimi sinceramente. Ti sei nutrito col sangue di mio fratello e lo hai ucciso?» la voce di Anghel tremava.

Per un istante lui la guardò fissa negli occhi. Non aveva più lo sguardo della cacciatrice che le aveva visto nelle fogne, qualcosa di diverso, che non aveva mai visto... si risollevò un poco, piegando la testa di lato per vederla più chiaramente.

«No, non mi son nutrito di Alex.» rispose serio.

Fu a quel punto che nuovamente le sue guance si riempirono di solchi d’acqua. E uscivano dagli occhi. Il suo tamer cominciò a produrre strani versi dalla bocca e ad abbassare e alzare il petto in maniera frenetica, perdendo acqua sempre più copiosamente.

Ad Alam tutto questo non piaceva, per nulla.

«Ho visto il tondino di legno nella tua borsa... era uguale... a quello che aveva accanto il corpo di mio fratello... io... io ho pensato subito! E invece tu... nonostante io ti abbia... ti abbia ferito due volte... tu non mi hai lasciata... tu... mi hai salvata... tu...»

Era complicato capire quel che stava dicendo. Si mangiava parte delle parole, parlava tra un verso e l’altro, tirava su forte col naso; non poteva dirgli dopo quel che doveva? Faceva fatica... e poi aveva fame ora!

«Sei il mio tamer. È naturale.» le rispose, calmo.

Anghel si bloccò a guardarlo, il volto arrossato. Uno sguardo strano. Non lo riconosceva quello, non laveva mai visto... e poi disse:

«Mi dispiace, Alam. Mi dispiace immensamente.»

 

***

 

Pronunciare quelle parole le venne naturale e chiedergli scusa fu come una liberazione.

Aveva riflettuto a lungo su tutto quello che il signor Leonardi le aveva rivelato la sera precedente. Era rimasta a letto, immobile. Aveva pensato ad Alex, al giovane che lei aveva accoltellato. Lo rivedeva, più chiaramente ora. Uno sguardo perso, vitreo... ma quando laveva guardata dopo essersi accorto del coltello nello stomaco, piegando la testa le aveva chiesto semplicemente perché... Ho sbagliato qualche cosa?... E lei lo aveva colpito ancora. Avrebbe potuto ucciderla, ora lo sapeva, senza che lei potesse far molto per impedirglielo. Si era limitato a immobilizzata, sempre con uno sguardo da lei considerato indecifrabile, ma che forse era solo troppo limpido, semplice, minimale. Pochi pensieri nella sua mente. Solo risposte istintuali.

Si sarà chiesto perché lo abbia ferito così tanto.. .nonostante la sera precedente mi avesse salvato dai due vampiri...”

Lo ricordava bene, lo rivedeva tutto quel sangue che grondava dal corpo del ragazzo. A terra, la ghiaia che si tingeva di rosso velocemente tutto attorno al suo corpo.

Ma ha preso Alex... si era detta.

Però non lo aveva ucciso, almeno secondo quello che le era stato detto. Inoltre, qualche cosa la legava a quel vampiro... non se ne era forse accorta, appena sveglia nelle fogne? Un senso di paura, ma al contempo di protezione; sì, lo rammentava perfettamente.

La porta si era aperta e Leonardi era entrato, tranquillo.

«Vieni. Pare che il vampiro si sia risvegliato, finalmente. Devi farti vedere da lui, altrimenti potremmo non riuscire a contenerlo.»

Dopo aver indossato i vestiti che le aveva fatto trovare nella stanza, ancora una volta eseguì gli ordini senza commentare, ben felice di non dover prendere decisioni. Non si chiese se voleva o meno incontrarlo. Lo faceva e basta perché così le era stato detto. Leonardi le aveva accennato al fatto che per undici anni lui era rimasto a vegliarla, nascosto. Il legame tra vampiro e tamer... non lo capiva, certo, ma qualcosa poteva già intuire. Se lei, senza nemmeno vederne il volto, si era quasi sentita al sicuro in sua presenza, forse per il vampiro era la stessa cosa...

Leonardi la condusse in una stanza che si trovava nel seminterrato della casa. Erano nelle radici di Venezia? Jahèl le aveva detto che si trovavano lì, le parve di ricordare... la vampira li aspettava in fondo alle scale, sempre con la stessa aria assente che le aveva visto al risveglio. Entrò.

Lo vide.

Quasi non prestò attenzione alla seconda figura nella stanza, un giovane che si fece subito da parte al loro ingresso. Il vampiro era completamente stretto da pesanti catene. Ad Anghel si strinse il petto nel notare che lui ora la stava seguendo con lo sguardo... occhi verdi... stessa espressione assente di Jahèl, ma al contempo le parve come un bambino che non vedeva lora di rivederla. Le catene caddero al suolo, fragorosamente. Notò con la coda dellocchio che Jahèl aveva schiacciato qualcosa lungo la parete, azionando forse un meccanismo che liberasse il giovane.

Questi si mise a sedere, lento, senza perderla di vista un solo istante. Era a torso nudo. Anghel le vide ancora, ben distinte, le due ferite quasi completamente rimarginate che gli aveva causato... e molte altre che si era procurato per difenderla.

Quando pronunciò il suo nome, sentì dentro di che questo le riempiva non solo la bocca, ma lintero organismo. E lo vide rabbrividire un istante. Forse era qualcosa legato al suo essere il tamer di Alam... il nome del vampiro era parte di quel legame...

Gli fece quelle domande, difficili per lei da pronunciare, perché doveva. Era certa che Alam non le avrebbe mentito. Candidamente le aveva detto la verità quella notte, nelle fogne, con due ferite profonde, come se non si rendesse conto del dolore che le stava causando, che le aveva causato la perdita di Alex. Ma lui non se ne rendeva affatto conto! Doveva mettersi in testa che lui non poteva capirlo!

Mentre le rispondeva, si abbassava sempre più sulle braccia e la sua voce sembrava più un ringhio basso che una risposta umana. Ma non provò paura, nemmeno per un istante. Si preparava per difendersi. Lei lo aveva aggredito, quasi ucciso, era ovvio che non si fidasse! Guardò quelle cicatrici.

Sentì come se fosse stata lei la creatura ferita, come se fossero sul suo corpo quei segni. E provò dolore... e rabbia... e paura... e frustrazione, per esser stata tradita da qualcuno che non avrebbe mai dovuto farlo.

Era questo che provava Alam? No, di certo... forse rabbia e paura, forse... ma lei le sentiva per lui... era questo il potere del tamer?

Quando gli pose lultima domanda, lo vide sollevarsi in posizione eretta col busto. E di nuovo la guardò piegando la testa di lato.

Fu troppo!

Si sentì investire da un'onda di sentimenti: rabbia, dolore, angoscia e ancora dolore e non era sicura che fossero tutti appartenenti a lei. Scoppiò in singhiozzi disperati, senza riuscire a frenarsi, il senso di colpa per quel che aveva fatto, la tensione, la paura per quel che era stato e quel che sarebbe dovuto ancora accadere. Tutto lavvolse, e chiedergli scusa le sembrava la cosa più naturale del mondo.

Avrebbe potuto scusarsi quanto voleva, Alam continuava a guardarla, sempre seduto, non capendo nulla di quel che stava accadendo. Rimaneva immobile, come aspettando.

«Alam. Il tuo tamer sta piangendo.» disse Leonardi.

Vide il vecchio tamer scostarsi lievemente dal muro e avvicinarsi a loro. Allora Alam fece qualcosa che spaventò Anghel. Con uno scatto si frappose tra lei e luomo. La posizione era quella che aveva assunto poco prima, di difesa. Vedeva i muscoli della schiena tendersi e rilassarsi continuamente, pronti a scattare. Alam emise anche un lieve ringhio sommesso. Quasi nello stesso istante, Jahèl scattò in avanti e, assumendo lidentica posa di Alam, lo fronteggiò. Anghel vide chiaramente i bianchi canini della vampira.

«Alam, non è un pericolo. È lui che ci ha salvati!» disse allora, mettendogli una mano sulla spalla.

A quel contatto, Alam si voltò di scatto, la bocca ancora storta in un ringhio. Non doveva essere abituato a essere toccato, pensò Anghel. Forse lho scosso ancora di più... ma Alam sembrò rilassarsi e tornò in posizione eretta, pur non abbandonando latteggiamento difensivo.

«Vediamo di calmarci, tutti quanti!» la voce categorica di Leonardi risuonò per tutta la stanza.

Era chiaro che si stava rivolgendo più a Jahèl che ad Alam. La vampira si fece subito da parte, andando a rimettersi accanto al giovane che Anghel ancora non conosceva.

«E’ più che normale, per un vampiro come Alam, essere protettivo nei confronti del proprio tamer. Ma, come vedi, non hai nulla da temere. Le sue ferite le abbiamo curate, non perde più sangue e sta bene. Vedi?» disse poi indicando Anghel.

Alam si girò di nuovo verso di lei e senza troppi complimenti le abbassò la manica della maglia che indossava. Era sufficientemente larga da lasciarle la spalla scoperta fino quasi al gomito. Allora Alam le strappò le bende.

«Alam. per favore.» cercò di dire lei.

Non le andava molto che un ragazzo si mettesse a ispezionarla davanti a tre ignoti.Va bene...è un vampiro e sta solo controllando che io stia effettivamente bene. Ma porco cane! pensò Anghel, cercando di divincolarsi dalla stretta di Alam, inutilmente.

«Non si sarà calmato finché non vedrà coi suoi occhi che va tutto bene. Quindi ti conviene assecondarlo!» disse una voce ignota.

Anghel alzò lo sguardo. Era stato quel ragazzo a parlare. Ora si era messo più vicino al signor Leonardi e riusciva a vederlo chiaramente in volto. Era un vampiro anche lui? Le sembrava completamente anonimo, un ragazzo come altri. Ma del resto persino Alam poteva passare per un umano, magari per un pazzo visto il suo modo di comportarsi... in ogni caso, considerò le parole del giovane e le trovò sensate, per cui si rassegnò e si lasciò ispezionare dal vampiro.

Alam aveva tolto tutti i bendaggi, compresi quelli all’addome e sulla fronte. Le sue dita, fredde, le passavano sopra i segni lasciati dai tagli. Qualcuno aveva ancora la crosta, ma quelli più superficiali già avevano una pelle nuova. Il suo tocco le provocò un brivido. Ma ciò che la inquietò di più era lo sguardo di Alam... i suoi occhi, mentre percorreva ogni singolo taglio con la punta delle dita, diventavano sempre più scuri e grandi... diversi in ogni caso...

«Come vedi, vampiro, il tuo tamer sta molto bene. Non ci sono pericoli qui.» disse Leonardi.

«Sì, forse sì...» gli concesse Alam, alzando lo sguardo da Anghel.

Lei pensò che lui le sembrava tutt’altro che sicuro. Ma lasciò perdere.

«Ho fame.» disse poi Alam, piegando la testa di lato rivolto al giovane tra loro, che subito si acquattò dietro Jahèl.

«Lo immagino, Alam. Ma temo che questo giovane non possa per nulla essere considerato da te un pasto. Non possiamo permettertelo.» disse Leonardi, indicando sia se stesso che Jahèl. «Vedi, lui sarà il prossimo tamer di Jahèl. Non ti lasceremo certo cibartene.»

Anghel alzò lo sguardo verso il giovane. Così anche lui, come lei, avrebbe dovuto badare a un vampiro... certo, a lui era andata meglio! Da quello che aveva capito dal discorso della sera precedente, Alam sicuramente aveva perso le tracce del suo tamer da chissà quanto. Il che voleva dire per lei ripartire da zero per impartirgli un podi umanità. Senza contare che qualcuno le dava la caccia per poter possedere un giorno Alam, dal momento che manipolava il fuoco.

Non le importava chi diavolo fossero i suoi aggressori. Voleva, ora come ora, cercare una specie di tranquillità o un possibile equilibrio... e lo vedeva come un miraggio più che lontano.

Alam continuava imperterrito a guardare verso il ragazzo, che si sentiva chiaramente sempre più a disagio: essere fissato come un pezzo di carne da divorare non è affatto piacevole.

«Anghel, Alam deve per forza di cose mangiare, altrimenti non sarà in grado di controllarsi, di proteggervi. Quindi ora dovrà andare a caccia. E tu dovrai prepararti.»

«Prepararmi?» chiese Anghel.

Andare a caccia... voleva dire che lasciava uscire Alam a mangiare qualunque individuo incontrasse? Che storia era!

«Sì, vieni con me. Lascia Alam da solo con Jahèl. Gli spiegherà dove dirigersi per trovare qualcosa di nutriente per lui!» disse.

Ma come diavolo parlava? Era un vampiro! Gli esseri umani erano qualcosa di nutriente per lui! Mica un semplice panino!

Sentì lo sguardo di Alam seguirla fino alla porta, ma non si voltò. Era sufficientemente sconvolta al momento. Non voleva di certo guardalo ora in volto, col rischio di sentire ancora quel che provava lui! Con loro era uscito anche il giovane.

«Non vi ho ancora presentati! Lui è mio nipote, Bruno, figlio di mio fratello. Dal momento che non ho avuto figli e che nessun altro della mia famiglia più prossima è sopravvissuto, è di certo lui che diverrà il tamer di Jahèl alla mia morte. Quindi è qui per abituarsi alla sua presenza. Come puoi immaginare, non è facile la convivenza con un vampiro. Era tradizione, nell’antichità, abituare i futuri tamer, o i presunti tali, a vivere a stretto contatto con queste creature. Il passaggio alla condizione di tamer risulta così più facile, capisci?»

«Certo che capisco! Capisco anche di essere in una posizione più che svantaggiata!» sussurrò lei.

«Sì, credo di sì. Non so dirti da quanto Alam non abbia accanto a un tamer, ma direi da un bel po. Paura, rabbia, emozioni basilari per la sopravvivenza le sente ancora certo, pur non capendole dando loro una definizione. Ma non è sicuramente più abituato a vivere in mezzo agli umani e a confondersi tra loro...»

«Per cosa devo prepararmi?» chiese a quel punto, pur intuendo già la risposta.

«Per i primi tempi, dovrai uscire a caccia con Alam. Devi insegnargli che può nutrirsi senza uccidere le sue prede.» spiegò Leonardi.

Anghel si fermò in mezzo alla scalinata.

«Non ho la minima intenzione...» disse lei.

«E’ necessario. Non hai scelta. È uno dei tuoi compiti, forse il più importante. Se Alam non imparerà a non uccidere, non imparerà nient’altro!» la bloccò l’uomo.

Anghel notò lo sguardo di commiserazione sul volto di Bruno. La infastidì immensamente! Che diavolo vuoi, tu, dannato privilegiato?! pensò.

«Nella tua stanza troverai dei vestiti adatti per poterti muovere per le calli di Venezia con Alam. Per quel che riguarda la strada, non preoccuparti: Jahèl lo sta già istruendo per bene e il senso di orientamento che sicuramente lui possiede farà il resto.»

«Come fa a pensare che lui sia in grado di non perdersi disse Anghel, senza mascherare lirritazione e il panico che provava in quel momento.

«Perché ti ha seguito per undici anni, spostandosi di continuo senza mai perdere le tue tracce.» le rispose Leonardi, proprio mentre lei stava entrando in camera.

Così dicendo, le chiuse la porta e la lasciò sola, a cambiarsi.

 

***

 

Anghel era appena uscita e già si sentiva di nuovo inquieto. Gli aveva detto che andava tutto bene, che non erano in pericolo. Ma lui non era tranquillo.

Guardò di sottecchi la femmina che aveva davanti. Sembrava grande, forse più di lui, non sapeva dirlo... ma non gli piaceva per nulla! Aveva un odore particolare addosso. Qualcosa che gli ricordava il catrame e la cenere... misto a fiori di campo. Odori umani, uniti ad altri, ma non a sangue... non si era nutrita di recente... voleva mangiare Anghel? No... era quasi sicuro che non era così...

«Bene. Ora ti mostrerò il luogo più idoneo alla caccia in questa città.» gli disse, avvicinandosi.

«Non ne ho bisogno. Mi muovo da solo.» disse Alam calmo.

«Non dubito. Ciò nonostante, guarda la mappa. Dovrai muoverti a terra, non sui tetti, poiché il tuo tamer verrà con te. E non sei sufficientemente in forze per trasportarla sopra Venezia. Hai mai cacciato qua?»

Alam scosse il capo. Sapeva dove fosse Venezia, ma non vi era mai stato a nutrirsi, ne era quasi certo. Guardò la cartina e seguì le indicazioni attentamente.

Verrà a caccia con me... pensò lentamente, sentendo nella bocca il sapore del sangue.

Aveva fame.

Avrebbe cacciato col suo tamer.

Non c’era abituato... cosa doveva fare? Perché lei veniva con lui? Era capace di cacciare, lei doveva aiutarlo a ritrovare quello che aveva perso, non a cacciare...

Ma quando pensava alla sua presenza accanto a lui... in fondo non era pericoloso averla con sé...

Aveva fatto quella cosa strana, aveva versato acqua dagli occhi, e aveva detto “Mi dispiace” mentre lo faceva, guardandolo in un modo che lui non conosceva. Nel sentirla dire e vederla fare in quel modo gli era sembrato di sentire qualcosa.

Non capiva...

Non riusciva a capire cosa fosse successo e più che mai percepiva una mancanza dentro di sé! Ma ora era accanto al suo tamer, lei non lo aveva guardato come una preda, come un predatore... Alam era certo che lo avesse accettato...

«Sei certo di aver capito bene come muoverti?» gli disse la femmina.

Alam alzò lo sguardo.

Comunicava poco volentieri, specialmente coi suoi simili. Troppe differenze, troppa competizione per il cibo... non si sentiva tranquillo vicino a lei. E nemmeno il vecchio gli piaceva, il suo sangue era lento nelle vene, ribolliva in modo strano.

Annuì, laconico.

La mappa l’aveva guardata, non si sarebbe perso. Anche se, da un certo punto di vista, non avrebbe trovato spiacevole allontanarsi da quel luogo, ma sentiva che Anghel avrebbe voluto tornarvi, il suo tamer aveva detto che quelle creature non erano pericolose.

«Bene. Perché non verrò a cercarvi nel caso non torniate prima dell’alba. Dovrai trovarti un riparo da solo. Ora preparati.» disse lasciando la stanza.

Alam la guardò andare via. Cera una maglia, buttata per terra. Era nera. Poteva passare inosservato, senza bisogno di tramutarsi. Cercarsi un nascondiglio se lo avesse sorpreso il giorno? Lo avrebbe trovato, lo aveva sempre fatto. Il suo istinto lo avrebbe aiutato, come sempre. Sinfilò la maglia. Era leggera, come non averla addosso. Se il suo corpo fosse stato scuro di pelle, probabilmente non avrebbe nemmeno usato i vestiti. Erano un impiccio il più delle volte, spesso quando correva rischiava di agganciarli da qualche parte. Ma la sua pelle era chiara, se era una notte limpida era più che visibile. Doveva per forza coprirsi con abiti scuri. Uscito, vide che la femmina lo stava aspettando fuori dalla porta. Alam piegò il capo di lato, non riusciva a comprendere il suo atteggiamento. Cera qualcosa di strano in lei, oltre allodore. Un misto di... qualcosa che non riusciva a identificare bene.

Non era per niente tranquillo.

Senza dire una parola, lo scortò su una rampa di scale, che portavano allingresso di una villa ottocentesca. Alam guardò i soffitti su cui erano stati recentemente restaurati i bassorilievi di marmo, mentre aspettava paziente. Anghel ancora non cera.

«Bene. Siete pronti! Mi raccomando allora.»

Alam si voltò pigro. Erano apparsi sia lei che il vecchio. Del giovane uomo dall’aspetto appetitoso nessuna traccia. Anche Anghel vestiva di scuro, i capelli raccolti in una treccia, sempre una strana espressione sul volto.

Nemmeno lei riusciva a capirla, ma almeno non lo infastidiva... certo, avere qualcuno accanto mentre mangiava non sarebbe proprio stato piacevole... preferiva comunque Anghel alla vampira.

Senza badare a nessun altro, Alam uscì da quella casa.

Aveva fame.

Voleva cacciare e nutrirsi.

Di certo lo avevano in qualche modo cibato, mentre era privo di sensi, altrimenti i morsi della fame sarebbero stati senz’altro più che insopportabili. Ma non era la stessa cosa.

Erano giorni, troppi, che non sentiva il sapore della carne e del sangue nella bocca.

Emise un ringhio sommesso, non appena il vento notturno gli portò odore di mare e pesce, odore di antico e umido...

Sì... a caccia! pensò.

La notte lo inghiottì presto.

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Capitolo 7
*** A caccia ***


6. A caccia

«Alam! Non così veloce, Alam!»

Non riusciva a stargli dietro!

Erano veramente a Venezia... non si era mai affacciata alla finestra in quei due giorni. Non aveva effettivamente dato peso all’informazione fornitagli da Jahèl: in quei momenti si era sentita come sospesa in una realtà che non le apparteneva completamente, come se si fosse trovata ovunque e in nessun posto nello stesso istante. I fatti di cui era stata messa a conoscenza appartenevano a realtà troppo differenti dalla sua, quindi anche il luogo in cui glieli avevano rilevati non poteva avere nessuna consistenza terrena. Del resto, la casa si prestava bene a essere un luogo sospeso nel tempo, così antica, arredata ancora con mobili di epoche passate.

Ma ora si trovavano senza ombra di dubbio a Venezia. Piccole calli strette, in cui a mala pena potevano muoversi in due affiancati, e poi le piazzette con al centro dei pozzi chiusi; e la scarsa vegetazione, i ponti sospesi e l’acqua scura, quasi invisibile per gli occhi di Anghel... in effetti, persino Venezia si adagiava perfettamente alle sue sensazioni: a metà tra il mondo per lei reale e la fantasia, in una stasi temporale perenne. Ferma in un momento passato, Venezia lasciava che le ere trascorressero sopra di lei; galleggiava superiore allo scorrere del tempo stesso... sì... era perfetta.

«Alam, ti prego! Non posso correre così veloce io!» gridò lei alla volta del vampiro.

Quasi quasi gli metto un guinzaglio al collo!” pensò esasperata. Alam le pareva, del resto, un animale in tutto e per tutto. Era uscito di casa senza quasi accorgersi della sua presenza, si muoveva acquattato e circospetto, eppure rapido e deciso, lievemente incurvato. A causa del buio non riusciva a scorgerlo chiaramente, ma era certa che stesse fiutando l’aria.

Ma non dovrei aver paura di lui? In fondo è un vampiro e io dovrei essere la sua preda... quel ragazzo, Bruno, era terrorizzato da Alam!” pensò ancora, ma ritenne che la risposta si trovasse nel suo essere il tamer di Alam. Lui non l’avrebbe mangiata, ne aveva la certezza assoluta. E non si trattava unicamente di quella convinzione razionale di cui a volte si serviva per fare cose che non le piacevano ma che andavano fatte. No, era qualcosa di più radicato, come.... non sapeva definirlo in realtà, non aveva mai provato nulla di simile in vita sua!

«ALAM!» gridò, quando per la terza volta il vampiro non le diede retta.

Solo a quel grido, Alam si fermò e si voltò a guardarla, fermo a un angolo.

«Se vai così veloce ti perderò di vista! Non so correre come te!» gli disse, ansando, quando lo ebbe raggiunto.

«Ho fame!» fu la risposta che ottenne.

Anghel si bloccò di colpo. La voce di Alam l’aveva spiazzata. Era atona, lineare, senza influenze alcune. Un dato di fatto, una spiegazione, nessuna emozione dietro quelle parole. Leonardi aveva ragione: poche erano le sensazioni provate da Alam, e tutte elementari; paura, fame, senso del pericolo, rabbia forse... ferocia... e se ce ne erano altre, erano tutte così basilari, senza una definizione, da essere per lui istintive: non necessitavano di alcuna spiegazione!

Aveva un compito, quella sera. Leonardi le aveva spiegato come fare e lei era stata ad ascoltarlo, distaccata. Persino ora vi pensava come a qualcosa di lontano e indefinito, come a una storia letta in un libro che lascia una labile e quasi superflua traccia dentro. Doveva fermare Alam prima che uccidesse la sua vittima. Le era stato spiegato come si poteva capire che la preda del vampiro era arrivata al limite, quando intervenire e cosa fare per farlo smettere. Semplice in realtà, detto a parole.

D’un tratto andò a sbattere contro qualcosa. Alzando lo sguardo si accorse che era contro la schiena di Alam. Si era bloccato improvvisamente. Il volto lievemente sollevato.

Erano in una piccola piazza, che si affacciava sul Canal Grande. Poche luci, tutti i negozi chiusi, le imposte delle case sigillate. Venezia dormiva. Rumori... lo sciabordio del mare contro alcune barche attraccate poco distante, un fruscio ogni tanto, un rumore sordo... passi... Anghel si voltò di nuovo verso Alam, ma già lui non c’era più.

Volse, terrorizzata, lo sguardo a destra e a sinistra. Lo aveva perso! Come aveva fatto a perderselo? “Dannazione!” imprecò dentro di sé. Altri rumori alle sue spalle.

Un rantolo soffocato, un lieve risucchio... un ansito... e ancora un risucchio lento.

Anghel si volse lenta...

Sentiva quel verso dentro di sé, le rimbombava nella bocca dello stomaco.

Alam era proprio dietro di lei, riparato sotto un arco e protetto da altri sguardi fuorché il suo. In piedi, le dava la schiena. Con una mano teneva stretta la testa di un uomo, impedendogli di gridare. L’uomo si dimenava, spasmodicamente, ma invano. Tirava calci ad Alam, lo strattonava con le mani libere. Era grande, Anghel ne vedeva l’ombra incombere su Alam, superandolo di una decina di centimetri in altezza. Nonostante questo, al vampiro bastava una mano sola per trattenerlo, incurante delle botte che riceveva, quasi non se ne accorgesse nemmeno.

La testa di Alam era piegata dall’altro lato.

Solo in un secondo momento Anghel la vide. Una donna, la bocca aperta in un grido muto, bloccato dal morso del vampiro. Alam succhiava, succhiava avidamente. Anghel sentì quel rumore riempire tutta la piazza, riempirla tutta senza lasciarle possibilità di fuga.

Ora era terrorizzata.

Gli occhi della donna erano spalancati per il terrore, per il dolore. Gli occhi dell’uomo pieni di lacrime d’impotenza e di panico, si posero su di lei, immobile a pochi metri da loro. “Aiuto! Aiuto!” le gridò una voce dentro. Poi la donna smise di muoversi, vide gli occhi rovesciarsi all’indietro, mostrandone il bianco vitreo... l’uomo mugugnò, un suono che perforò il petto di Anghel, un suono attutito dalla mano ferma di Alam che stringeva queòl volto... le lacrime cominciarono a rigare le guance, il corpo dell’uomo si fermò sfinito, accasciandosi e lasciando che fosse la mano di Alam l’unico sostengo. Un corpo che era morto insieme alla donna.

«Alam...» sussurrò Anghel, ritrovando la voce.

Si avvicinò di qualche passo.

«Alam, cosa hai fatto?» sussurrò ancora, accostandosi sempre di più.

Ma il vampiro non la sentiva. Lasciò cadere il corpo svuotato della donna, la luce flebile della notte ne investì il volto... capelli mossi, biondi, il viso di una giovane di appena trent’anni... morta... morta... lei non lo aveva fermato... sul collo uno squarcio sporco di sangue, ma nemmeno troppo. Alam gliel’aveva succhiato tutto.

«Cos’hai fatto...?» ripeté.

Alam non le diede retta. Senza perder tempo azzannò il collo dell’uomo. Anghel sentì chiaramente il rumore della carne lacerata, i denti del vampiro che entravano nella carne, la bocca sopra la pelle e il risucchio del sangue che usciva dalle vene dell’uomo. Gli occhi colmi di lacrime, le mani di lui tese spasmodicamente attorno al braccio di Alam. Lo vide, il momento in cui lei sarebbe dovuta intervenire... vide le braccia lentamente perdere forza, lasciare la presa... vide gli occhi perdersi, allontanarsi da ciò che anche lei poteva vedere... sentire... toccare... stava morendo. E lei immobile osservandolo morire... come aveva fatto con la donna.

Lei, che avrebbe potuto impedirlo...

«ALAM!» gridò allora.

Corse verso di lui, superando quei metri che li separavano più in fretta che poteva. E si aggrappò alla sua spalla. Inutile. Alam non si era smosso sotto i colpi di quell’uomo, non avrebbe nemmeno sentito i suoi! Gli occhi della vittima del vampiro si posarono per un istante ancora su di lei. Non aveva più lacrime. In compenso Anghel si ritrovò a piangere tutte le sue, perché aveva capito... aveva capito di aver fallito. Alam non avrebbe mollato la presa, l’uomo la guardava e con lo sguardo le chiedeva di non intervenire più. Aveva fallito... due volte.

Sotto le sue mani, il corpo di Alam seguiva il movimento della sua bocca, quel risucchio assordante.

Anghel pianse, attaccata alla schiena del vampiro, incapace di scostarsi. Auto-punendosi per la sua inadempienza.

 

***

 

Un tonfo accompagnò la morte della seconda preda. Alam si sentì sazio.

Era da tanto che non mangiava. Tutto quel cibo gli era stato proprio necessario. E il loro sangue era pressoché pulito, senza scorie chimiche all’interno! Si era proprio nutrito bene questa volta! Era decisamente soddisfatto. Alzò di scatto la schiena e sentì un secondo tonfo alle sue spalle.

Si voltò, sorpreso.

Anghel lo guardava, seduta a terra con le mani poggiate dietro la schiena. Aveva un’espressione che non capiva. Ancora una volta. Non capiva mai i volti di Anghel, non c’era mai qualcosa a lui noto nel suo sguardo. Ecco di nuovo quelle gocce che le rigavano il volto, occhi lucidi come acqua, i capelli sul viso, tremante... nel vederla in quello stato, si sentì strano, la bocca dello stomaco si contrasse improvvisamente, come se ancora avesse fame. Impossibile, dopo quel lauto pasto... si inginocchiò accanto a lei.

Si era completamente dimenticato della sua presenza già da quando era uscito nella notte. L’aveva sentita chiamarlo ogni tanto e solo per questo non era saltato sui tetti per far più in fretta. Ma da quando aveva visto quelle due prede accanto a sé non era esistito altro... sangue, fresco giù per la gola. Dopo quel digiuno forzato non vi era niente di più bello del sangue che scivola lento lungo la gola, sangue nuovo che rinvigorisce e rinfranca.

Così si era scordato di Anghel. Non si era nemmeno accorto di averla alle spalle! Pensare che si era preoccupato di aver qualcuno con sé durante la caccia!

Ma ora lei era lì, presente, concreta. Con quel viso così strano che gli torceva lo stomaco appena saziato... si inginocchiò accanto a lei e allungò una mano. Voleva assaggiare quelle gocce d’acqua che scendevano dai suoi occhi...

Ma Anghel si ritrasse, allungando un braccio per allontanare il suo, cadendo a terra.

«Non toccarmi...» gli disse, la voce tremava, incredibilmente bassa.

Alam piegò il capo.

«Li hai uccisi...» disse ancora.

Alam si volse a guardare le sue prede. La donna era riversa a terra, lo sguardo spento; l’uomo era accasciato contro il muro, la testa piegata sul petto. Una buona cena... istintivamente si passò la lingua sulle labbra, ancora intrise di sangue, buon sangue fresco... un retrogusto etilico appena accennato... inebriante...

«Smettila! Sei disgustoso!» gridò Anghel, spingendolo.

Impreparato, Alam cadde a terra e fu costretto a tenersi in equilibrio.

«Disgustoso? Perché?» chiese.

Finalmente aveva qualcuno a cui porre domande. Qualcuno che gli avrebbe risposto! Non era più costretto a parlarsi in terza persona, il suo tamer ora gli avrebbe spiegato tutto ciò che non comprendeva; come quell’espressione così strana del viso, con le sopracciglia curvate, la fronte increspata e la bocca aperta e storta.

«Non dovevi ucciderli...»

«Perché no? Avevo fame. Se hai fame tu mangi, no?» non era la prima volta che faceva un discorso simile, se lo rammentava bene.

A lui sembrava così semplice, possibile che tutti quelli con cui parlava non riuscivano a vedere la chiarezza del suo ragionamento?

«Puoi mangiare senza uccidere.» disse allora lei.

«Tu lo fai?»

«Certo!» sbottò Anghel.

Alam si morse il labbro. Non capiva... perché negava una cosa ovvia? Non aveva senso nascondere la verità, soprattutto quando questa è più che mai palese.

«Ti ho vista mangiare carne... non era una creatura viva un tempo?»

 

***

 

Anghel lo guardò a lungo.

Aveva risposto istintivamente. Certo che lei non uccideva! Quando lui, candidamente, le mostrò che mangiare carne equivaleva a mangiare creature morte, quindi uccise, non seppe più come rispondergli. E lui stava evidentemente aspettando un chiarimento: la sua domanda non era provocatoria, affatto! Voleva solo capire. Da lei non voleva altro che risposte, risposte che lei non sapeva dove cercare... se mai esistevano da qualche parte.

«Hai ragione. Mangio carne...» ammise. «Ma è diverso...» balbettò.

«In che senso?» chiese ancora lui.

Anghel ci pensò un attimo.

«Io non mangio creature che parlano!» si stava inequivocabilmente arrampicando sugli specchi, ma non sapeva proprio che dirgli! Stava improvvisando! Nessuno le aveva dato un copione su cosa dire a un vampiro per convincerlo a non divorare le sue prede! Dannazione a tutta quella dannatissima storia! Insensata, stupida e priva di senso!

«Solo perché tu non capisci, non vuol dire che non parlino.» disse Alam.

Cazzo!” pensò Anghel. Non le venivano in mente molte argomentazioni. E la presenza di due cadaveri, che non riusciva proprio a ignorare, non l’aiutava certo a trovar la giusta concentrazione.

«E se fossi io?» disse ad un certo punto.

Il suo sguardo era caduto di nuovo sul corpo della donna, i capelli scomposti attorno al cranio a formare una corona. Per un breve istante, guardandola, le apparve come una reginetta dei cadaveri... un’immagine molto inquietante... stava in piedi, con il collo squarciato e la sua corona di boccoli... a vincere il premio come miglior cadavere dell’anno...

Stava impazzendo, non c’erano dubbi, oppure questa assurda e sicuramente poco delicata fantasia le serviva a sdrammatizzare la situazione. Era stato in quell’istante che aveva immaginato se stessa con la corona di boccoli e il premio come miss cadavere.

Alam piegò nuovamente il capo. Era un gesto che faceva spesso, come un tic. Le ricordava immensamente un gatto.

«Cosa vuoi dire?» le chiese.

Impercettibile, un cambiamento nel tono della voce. Sempre impersonale, senza dubbio, ma più bassa. Come se da qualche parte nella mente di Alam il pensiero di lei morta risvegliasse lo spirito protettivo con cui l’aveva salvata nei giorni precedenti. Doveva aver toccato il tasto giusto per insegnarli a non uccidere.

«Se fossi io!» disse indicando la donna.

«Ma non sei tu, e io ti proteggo!» disse Alam.

«Perfetto! Ma se fossi io! Se per caso tu, per un qualunque motivo, non riuscissi a proteggermi, cosa faresti? Andresti semplicemente dal tamer successivo?» continuò Anghel.

In un certo senso era sicura che per Alam non si trattava di una questione semplice. Per undici anni l’aveva osservata da lontano. E protetta. Doveva pur significare qualche cosa.

«Ci ho messo molto a trovarti...» sussurrò.

Avrebbe dato qualunque cosa per capire cosa si stesse muovendo in quell’istante nella mente del vampiro, quali ricordi stessero affiorando.

«Pensa che sia io... ogni volta che ti avvicini a una preda, pensa che sia io!» disse.

«Non potrò più nutrirmi allora...» disse Alam.

«No, dovrai solo fermarti prima di uccidere la preda.» gli rispose.

«Ma in questo modo dovrò cacciare più volte per saziarmi!» protestò lui.

«Certo! Ma devi comunque pensare che si tratti di me! È necessario, Alam.»

«Perché?»

Anghel avrebbe tanto voluto strappargli quella domanda dalla bocca! Era insopportabile! Perché perché perché! Non gli bastava perché lo diceva lei?

«Perché se mai tu avessi bisogno di sangue e fosse disponibile solo il mio, io te lo darei! Ma tu dovrai saper controllare la sete e fermarti prima di uccidermi! Ecco perché! E devi allenarti con tutte le tue vittime!»

Alam la guardò. Per un momento Anghel pensò di aver detto una stupidaggine, ma le era uscita dalla bocca senza quasi controllarla!

«In questo caso, va bene.» sussurrò Alam.

«Va... va bene?» gli domandò lei, incredula.

«Sì. Se tu sei disposta a darmi il tuo sangue, io devo imparare a non farti male.» bisbigliò ancora lui.

Per un secondo, Anghel ebbe l’impressione che l’idea di bere il suo sangue terrorizzasse Alam. Ma il signor Leonardi le aveva detto che emozioni così complesse non erano parte di un vampiro. Forse era solo la sua immaginazione. Alam era molto simile agli esseri umani, fisicamente. Forse lei lo stava solo umanizzando. Dopo tutto, parlava persino col suo gatto come se questi potesse capirla completamente!

In ogni caso, c’era qualcosa in Alam che non la convinceva del tutto, sembrava in disaccordo con ciò che le aveva raccontato Leonardi. Non sapeva nulla di lui, niente che potesse aiutarla a comprenderlo e a insegnarli.

«Alam... quanti... quanti anni hai?» chiese.

Lui la guardò serio, senza rispondere.

«Quando sei nato?» domandò ancora lei, visto che non aveva ottenuto nulla con la prima domanda.

«Non lo so.» disse lui.

«Come non lo sai?» ma si sentì subito sciocca ad averlo detto.

Come le aveva insegnato Jahèl, per i vampiri il tempo scorre in modo differente. Forse persino il computo degli anni è diverso. Forse si dimenticano molte cose, con lo scorrere delle ere.

«Io l’ho scordato... ho scordato tutto.» le rispose, placido.

«Tutto?» chiese ancora.

Alam annuì.

«E ho perso qualcosa... qualcosa che devo trovare...» riprese.

«E cos’è che hai perso Alam?»

«Ho scordato anche questo...»

Il modo in cui le aveva parlato lasciò in Anghel una tristezza inimmaginabile.

«Non ricordi nulla?»

La fronte del vampiro si corrugò leggermente, in uno sforzo mnemonico.

«Parigi... qualcuno grida che bisogna correre all' Hôtel des Invalides... fiamme... e grida... qualcosa sulla libertà... e... polvere da sparo... un’esplosione...»

Non le dicevano nulla quelle informazioni. Poteva essere tutto e niente.

«Non ricordi altro?»

Alam alzò di nuovo lo sguardo su di lei. Uno sguardo vitreo, privo d’espressione. Qualsiasi situazione avesse vissuto non causava in lui alcuna emozione, niente. Forse era proprio questa la fonte della tristezza che provava Anghel. Alam non le rispose. Si volse invece verso la piazzetta, a guardare il pozzo.

«Rientriamo.» disse.

«Manca ancora molto all’alba, Alam. Rispondi alla mia domanda!» disse lei.

Non voleva essere un ordine, ma suonava terribilmente come un’imposizione. Era solo che voleva saperne di più.

«Ricordo di aver spostato una lastra di pietra e di essermi risvegliato dentro un vecchio castello abbandonato e distrutto in Francia. E di non aver avuto accanto a me un tamer. Ricordo... di aver girato molto a lungo per trovarti.»

«Dove sei stato?»

«Un po’ ovunque, non saprei con esattezza. Seguivo la scia del sangue.»

Anghel pensò che si riferisse alla linea di parentela, ma non chiese spiegazioni in merito. Del resto, per lei era quasi un’idea impensabile quella di scavare nel suo albero genealogico per risalire alle origini della sua famiglia. Tutto quel che sapeva era che suo padre era nato e cresciuto in America, che sua madre era italiana e che i nonni materni erano anch’essi italiani. Tutto qui. Già il pensiero di dover ricostruire la sua parentela in due continenti diversi era per lei un incubo. Non riusciva proprio a immaginare cosa avesse dovuto passare Alam per ritrovare il filo iniziale.

«Come hai perso il tuo ultimo tamer?» gli chiese ancora.

Nel frattempo lui si era alzato, le braccia abbandonate lungo i fianchi, lo sguardo perso nel canale che scorreva lento a pochi metri da loro.

«Non me lo ricordo.» rispose.

«Non ti ricordi il tuo ultimo tamer?» disse ancora Anghel, alzandosi anche lei.

«Non me lo ricordo.» ripeté, guardandola calmo.

«Ma ti ricordi qualche tamer?» chiese ancora.

«No.» rispose lui candidamente.

Anche lei sarebbe sparita dalla memoria del vampiro? Aveva faticato così tanto a trovarla per poi dimenticarsi di lei, abbandonando il suo ricordo nel tempo?

«Ma sai benissimo di aver avuto altri tamer in passato, giusto?»

«Penso di sì, altrimenti forse non ti avrei cercata così a lungo...»

Era tutto troppo triste per lei.

Alam era come se non avesse una storia.

Un unico ricordo, confuso e privo di fondamento, e la consapevolezza di cercare il tamer... questo era stato Alam? Per quanto poi? Aveva avuto un tamer, questo era certo, ma uno solo o erano stati di più? E quanti di più? Avrebbe dovuto chiedere a Jahèl se lei si rammentava dei tamer precedenti o se era normale dimenticare tutto! Le avevano detto che lentamente il vampiro lontano dal suo umano non ricorda molte cose, ma non sembrava il caso di Alam, che parlava correttamente e comprendeva molto di quel che lei cercava di dirgli.

Non riusciva a capire, effettivamente.

Alam era un intricato labirinto di domande e misteri.

E’ presto, del resto...” sbottò dentro di sé.

La questione che più l’inquietava era il fatto che cercasse qualcosa di perduto, senza sapere cosa. Non poteva trattarsi semplicemente dei suoi ricordi, perché era più che consapevole di non averli! Doveva essere qualcos’altro.

Era implicito che lui cercasse il suo aiuto per recuperare ciò che era andato perso. E lei sapeva di doverlo aiutare.

Ma non quella sera... per quella sera era sufficiente quel che aveva già fatto. Basta così...

Alam si era, nel frattempo, girato verso i due cadaveri. In quel breve frangente, Anghel era riuscita persino a dimenticarsi di loro. Riportarvi sopra lo sguardo non le piacque per niente. Alam invece vi si avvicinò calmo, come se fosse abituato ad avere a che fare con gente morta.

Sciocca che sei! Certo che lui è abituato!” si disse poco dopo.

«Alam che fai?» sbottò, correndo improvvisamente verso di lui.

Le sue mani erano diventate rosse, incandescenti. E, senza badare a lei, aveva toccato lievemente prima la donna e poi l’uomo. Subito questi avevano preso fuoco e bruciavano sotto i suoi occhi inorriditi.

«Alam!» gridò allora, dandogli un pugno sulla spalla.

«Avrei dovuto lasciarli qui?» domandò.

Anghel lo guardò. Non si sarebbe mai abituata a quel tono. La sua era una domanda seria.

«No...» sussurrò scuotendo il capo. «No, non avresti dovuto... hai fatto bene Alam.» bisbigliò, lasciando che le immagini dei corpi carbonizzati s’imprimessero in lei.

Per non dimenticare la tua inadempienza di questa sera!” si disse.

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Capitolo 8
*** L'inizio della fuga ***


7. L'inizio della fuga


«Anghel... Anghel, devi svegliarti.»

Anghel si rigirò lentamente nelle coperte. Non aveva la minima intenzione di muoversi né tanto meno di osservare se il sole esisteva ancora al di là delle lenzuola.

«Non ti fa bene dormire tutto il giorno!»

Una mano la scosse violentemente.

«Ho capito, ho capito. Sono sveglia!» e con uno scatto lanciò via le coperte.

Bruno le sorrise.

Erano ormai cinque giorni che lei viveva a casa Leonardi, a Venezia. Non che avesse potuto visitare molto la città... in effetti dormiva tutto il giorno e stava sveglia di notte, cacciando con Alam. Cinque giorni, sommati agli altri erano ormai quasi due settimane che mancava da Padova. E non aveva ancora avvisato nessuno... avrebbe dovuto farlo, al più presto. Ma non ne aveva ancora voglia. Il fatto di essere completamente sparita l’aiutava ad affrontare meglio la nuova situazione; tornare avrebbe voluto dire riprendere la sua vita quotidiana, cercando d’inserirvi in essa la presenza constante di un vampiro, la consapevolezza di essere cacciata da almeno due vampiri e da una famiglia di tamer che la voleva morta per il controllo di Alam. Non sarebbe stato per nulla facile. Meglio non pensarci per il momento.

Era bellissima, Venezia, di notte. Silenziosa. Una città spenta per lo più, immobile nel suo dondolare sull’acqua. Lei ed Alam evitavano sempre le zone più centrali, avvicinandosi unicamente nel caso lui non incontrasse nessuno, quindi aveva potuto visitare quei luoghi che solitamente non vengono toccati nei giri turistici. Dalla prima notte Alam si era rafforzato considerevolmente, tanto che non uscivano quasi mai passeggiando: lui la prendeva e saltava sui tetti della città, cosa che Anghel trovava insopportabile. Era stato bello, la prima volta: erano usciti dalla porta di casa e lui, senza quasi avvisarla, l’aveva caricata sulle spalle non curante delle sue proteste, e si era lanciato sopra i tetti di Venezia, saltando da un canale all’altro. Bellissimo, il cielo sopra di loro, le calli che serpeggiavano ai suoi piedi come un dedalo di vie a ricopiar le stelle. A rovinare il romanticismo, il rantolo affamato di una creatura che non vede l’ora di affondar i canini nella carne di una preda impotente e di macchiarsi inesorabilmente del suo sangue.

Poco tatto... poco romanticismo...

Dannato Alam!” aveva pensato. Si era messo a correre come un pazzo, là in cima. Col rischio che lei cadesse a terra, poi!

La caccia, però, era andata bene... oddio! Meglio della prima sera, se non altro. Alam non aveva più ucciso nessuno, lasciava che lei gli si avvicinasse e lo interrompesse. Certo, stavano fuori a caccia quasi tutta la notte: Alam doveva nutrirsi di almeno cinque o sei persone e questo aveva significato, per lei, vederlo azzannare più colli; vedere molti sguardi spegnersi l’aveva aiutata in un certo senso a prender distanza dalla situazione, quasi ad abituarsi. Da un certo punto di vista sentiva un lieve disgusto per la freddezza con cui, le ultime volte, si era avvicinata alle vittime di Alam e aveva controllato l’esistenza di un seppur debole battito cardiaco. Dall’altro ne era contenta: non avrebbe mai smesso, in nessun caso, di essere il tamer di Alam, abituarsi a lui era l’unica alternativa... certo, poteva sempre ucciderlo, ma le sembrava un’opzione talmente assurda da essere incontemplabile!

«Allora, buona caccia anche questa notte?» le domandò il giovane.

Anghel si era messa a sedere sul letto, le braccia abbandonate sulle gambe incrociate, non sapeva bene cosa guardare, perché le sembrava di essere ancora nel mondo dei sogni.

«Che ore sono questa volta, Bruno?» domandò lei.

«Le tre del pomeriggio.»

«Cosa?! Ma sono due ore prima rispetto a ieri!» protestò lei, ributtandosi subito sotto le coperte.

«Mi spiace, Anghel. Ma non puoi passare il resto della tua vita a dormire di giorno! Non ti fa bene e lo sai.» le disse lui, ridendo.

In cinque giorni, Anghel aveva comunicato solo con Bruno ed Alam. Bruno di giorno, per quelle poche ore che rimaneva sveglia col sole. E Alam di notte. Va bene, con Alam non erano così grandi i discorsi, poche parole semplici. E per di più lei sembrava la maestrina che spiegava al bimbo cosa volessero significare le lacrime o un sorriso. Era difficile. E Alam era impossibile e insaziabile, come allievo.

Quella notte, per esempio, si erano scontrati con una coppietta. Alam si era appena nutrito e, per fortuna, Anghel era riuscita a convincerlo a pulirsi bene da tutte le tracce di sangue. Come tutte le notti, ormai, lei aveva fatto in modo che la vittima fosse subito soccorsa. Il signor Leonardi era stato molto chiaro a proposito: aspettare il momento in cui la carenza di sangue causa svenimento, controllare bene gli occhi e poi staccare il vampiro; quindi constare che la preda sia viva, cercare soccorsi e andarsene subito. La vittima non ricorderà l’esperienza. Perché poi non dovesse ricordarla, proprio non lo capiva. Lei era stata aggredita, ma lo rammentava perfettamente! Il signor Leonardi non le aveva dato una risposta esaustiva, come a molte altre domande del resto. Era così e basta, forse per una qualche tossina presente sui canini o nella saliva del vampiro... chi lo poteva sapere!

Tanti misteri e nessuno che provava a chiedere aiuto ai vampiri stessi! Forse con le domande opportune qualcuno come Jahèl avrebbe anche risposto seriamente! Ma non spettava certo a lei il compito di svelare i misteri del corpo di un vampiro, al momento. Aveva ben altro per la testa.

Per esempio, una coppietta che si avvicinava a loro lentamente e sorridente.

«Presto, Alam, nascondiamoci!» aveva detto lei.

Alam si era allora avventato su di lei e l’aveva spinta in alto. Improvvisamente si era trovata contro un muro, con i piedi sospesi nel vuoto e tutto il corpo schiacciato tra le pietre di una casa e la massa compatta del petto di Alam.

Non era esattamente questo che intendevo.” pensò, mentre sentiva troppo vicino il corpo del vampiro e il suo alito ancora odorante di sangue... non era stato piacevole. Inoltre era a chissà quanti metri dal suolo, sopra una calle su cui stavano passando delle persone. E l’unica cosa che le impediva di cadere era la presa di Alam, aggrappato alle sporgenze di pietra della casa e stretto contro di lei.

Dai... proseguite!” pensò, cercando di inviare questo pensiero alla coppia di giovani. Sfortunatamente, si trovavano proprio in un punto davanti ad un canale: i due passanti si fermarono esattamente sotto di loro, lei poggiandosi alla balaustra che impediva di cadere nell’acqua, lui proprio di fronte a lei, le mani attorno al suo corpo. Stavano bisbigliando, lei ogni tanto ridacchiava, giocando con il laccio della felpa di lui.

Ma sembra un posto adatto per amoreggiare questo?!” pensò irritata Anghel. Alla giovane sarebbe bastato alzare lo sguardo per scorgerli. E di certo non sarebbe stata zitta: due corpi sospesi contro un muro non si vedono tutti i giorni! Ma perché mai Alam non era balzato sui tetti? Non era difficile per lui! E aveva anche già mangiato, non erano certo le forze a mancargli! Alzò lo sguardo, per vedere la cima del palazzo. Alam ne aveva saltati di ben più alti, con lei aggrappata alle spalle!

Stupido Alam!”

Voltandosi verso di lui lievemente col capo, notò che guardava alquanto interessato la giovane coppia. Non per fame, ne era certa. Quando era a caccia le sue pupille si dilatavano immensamente e anche l’iride sembrava divenir più scura e riempire tutto l’occhio. Ora era normale. No, sembrava curioso, stava ascoltando... di scatto girò la testa verso di lei per parlare. Grazie a questo movimento le diede una terribile botta sulla fronte e lei riuscì a trattenere a stento un grido di dolore. Alam invece non si era nemmeno reso conto di averla toccata! E stava aprendo la bocca per parlare. Svelta Anghel gli aveva messo la mano davanti, impedendogli di esprimere come sempre a ruota libera i suoi pensieri.

Che schifo...” per quanto si fosse pulito, sentiva ancora la consistenza appiccicaticcia del sangue. E i canini premevano leggermente contro il suo palmo. Fece segno di no con la testa: “No Alam, no! Non puoi parlare ora! Più tardi!” era quello che voleva comunicargli con lo sguardo. Sembrò bastare, perché Alam chiuse lievemente la bocca e si rigirò verso i due giovani, che avevano preso a baciarsi appassionatamente sotto di loro.

Era stato molto, molto... molto... molto fastidioso. E imbarazzante. Va bene! Alam non era proprio un ragazzo, ma ne aveva l’aspetto! E per quanto la situazione suscitasse in lui solo curiosità, a lei non piaceva per nulla: star lì a spiare due innamorati, o presunti tali... a sentire i loro rumori! Che schifo! Immersa poi nell’odore di Alam, che non era certo profumato di rose, e in ogni caso a più che stretto contatto con un corpo maschile, contatto non richiesto... fortunatamente i due decisero che la ringhiera sopra il canale non era il posto più comodo su cui scambiarsi effusioni e se ne andarono presto. Così loro scesero dal muro e Anghel poté sgranchirsi i muscoli tenuti in tensione per tutto il tempo. Ma ovviamente la tortura non era finita. Alam infatti seguì il più possibile con lo sguardo la coppietta e, una volta che questa girò l’angolo, si volse verso di lei a pretender spiegazioni.

«Cosa stavano facendo?»

«Si stavano baciando, Alam.» rispose lei, massaggiandosi le spalle doloranti.

«Cosa vuol dire?»

«Vuol dire che le loro bocche erano a contatto, Alam.»

«Perché lo facevano?» chiese ancora.

Era insaziabile, tanto quanto lo era di sangue... e lei quella sera era stanca.

«Non lo so Alam. Lo si fa perché può essere piacevole: baci le persone che ami, di solito.» disse, ma non appena ebbe pronunciato quelle parole, si rese conto di essersi messa in una posizione ancora più problematica di prima.

«Ami? Cosa vuol dire?»

«Alam è molto complicato! Si possono amare molte persone... vuol dire che vuoi bene a qualcuno, che... lo vuoi proteggere e vuoi che stia bene, che sia felice. E nello stesso istante, tu sei felice e stai bene in compagnia di questa persona, la cerchi... penso che si possa dire così...» non era molto efferata sull’argomento, sinceramente.

Non le era mai molto interessato, in effetti. Ma le pareva che la descrizione fatta potesse essere compresa da Alam. Avevano parlato di felicità giusto la notte precedente, in relazione ai sorrisi. Anghel gli aveva spiegato cos’è un sorriso e, quando Alam aveva provato a produrne uno aveva riso così tanto da non riuscire a parlare: Alam che sorrideva era veramente terribile da vedere, sembrava più un cane che mostra i denti! Fortunatamente non poteva certo offendersi, dal momento che non era nemmeno consapevole che Anghel ridesse di lui, né tantomeno che il suono da lei emesso fosse una risata!

Alam le parve pensieroso, dopo la sua descrizione dell’amore.

«Allora vuol dire che io ti amo.» sbottò subito.

Non era possibile. Detto in questo modo era veramente inascoltabile! Sembrava una conseguenza logica e venne detta con la stessa enfasi di “ho voglia di un panino quindi mangio un panino.” Per evitare altre domande, quella sera Anghel trattenne le risate. Ma Alam continuò:

«Visto che sto bene in tua compagnia e che ti proteggo vuol dire che ti amo, giusto? Quindi anche io devo baciarti!»

A quel punto Anghel scoppiò a ridere. Ma dovette fermarsi quasi subito, quando si accorse che il volto di Alam era pericolosamente vicino al suo. Il fiato del vampiro le stava facendo venire la pelle d’oca e, senza riuscire a trattenersi, gridò e lo spinse via.

«Perché? Tu mi hai detto...»

«Lo so cosa ti ho detto!» gridò ancora, due passi lontana da lui.

Il volto di Alam, così vicino al suo, era veramente bello... inquietante ma bello. Era una notte buia, non vi erano nemmeno le stelle, e la pelle del vampiro sembrava più bianca del solito. I capelli sempre spettinati apparivano quasi neri. E gli occhi, gli occhi così grandi e ben disegnati... eppure in quel quadro sicuramente piacevole da vedere c’era qualcosa di sbagliato, qualcosa che inevitabilmente lo rendeva repellente. Forse l’odore di morte che emanava, l’odore di sangue... o forse i canini troppo lunghi o il brivido di panico puro che la sua bocca era in grado di ispirare persino in lei, che non aveva alcun motivo di temerla. Alam era pericoloso. Non si poteva nascondere la sua natura, nemmeno con tutte le lezioni del mondo Alam sarebbe mai passato per un essere umano ad un attento esame... ora che si era allontanata da lui, tornava ad essere un cucciolo che non capiva nulla del mondo che lo circondava e che sapeva di aver fatto qualcosa di sbagliato, senza capire cosa.

«Alam, è vero, baci le persone con cui stai bene. Ma non per forza sulla bocca. Sulla bocca si baciano solo...» come togliersi da quell’impiccio? Anghel ancora optò per semplificare in maniera orribile un concetto che nemmeno lei comprendeva bene. «Baci in bocca solo le persone con cui vuoi avere dei figli!» ecco.

Aveva detto un’enorme stupidaggine! Enorme! Ma Alam non era pronto per capire la differenza tra l’amore tra due amici o con i famigliari e quello per un uomo o una donna con cui si vuol passare molto tempo assieme, finanche tutta la vita! Nemmeno lei la capiva bene questa differenza! Figuriamoci se era in grado di spiegarla a un vampiro che non sapeva nemmeno cosa fosse un sorriso!

«Oh... capisco. Allora io non bacio Anghel anche se la amo!» concluse Alam.

Va bene così... per oggi è più che sufficiente!” si disse.

Le era venuto un terribile mal di testa! Per quella notte poteva ritenersi soddisfatta. Certo, Alam aveva detto che l’amava e ovviamente questo significava che non voleva ucciderla e che voleva proteggerla, non certo che provava un qualche sentimento nei suoi confronti! Di questo era certa! Ma al momento era più che sufficiente! Del resto, Leonardi gliel’aveva detto: i vampiri non provano sentimenti complessi, nemmeno dopo secoli passati a stretto contatto con gli umani! Quindi bastava che Alam volesse proteggerla, fosse anche per una sua egoistica necessità di sopravvivenza vampiresca.

«A cosa pensi?» le chiese Bruno.

«All’ultima notte. Alam si è mostrato particolarmente curioso, più del solito almeno.» disse.

Si erano seduti attorno al tavolino in camera sua. Bruno le aveva portato la colazione e lei se la stava gustando con immenso piacere. Le colazioni in quella casa erano più che ottime!

«E’ positivo! Certo che è sorprendente... mai avrei detto che nel giro di una sola notte si potesse riportare un vampiro senza tamer ad uno stato più... evoluto...»

Bruno parlava in modo strano, quasi spiacevole a volte, dei vampiri. Li trattava come una specie inferiore a quella umana. Certo, emotivamente parlando erano proprio un disastro, ma era questo a renderli inferiori agli uomini? Anghel non riusciva a prendere una posizione sicura su questo punto. Ma quel che era certo è che l’infastidiva parlare di Alam in termini d’evoluzione.

«Cosa vuoi dire?» chiese, cercando di mantenere un tono gentile.

«Non ho visto molti vampiri ritrovare il proprio tamer, sinceramente. In realtà ne ho visti molto pochi, ma quelli che ho incontrato erano irrecuperabili. E Jahèl li ha uccisi tutti. Ma ho sempre pensato che per poter riprendere a nutrirsi senza uccidere, fermandosi al momento opportuno, richiedesse molto tempo! Tu in una sola notte sei riuscita a farlo. Alam non ha più ucciso nessuno e già adesso la tua presenza durante la caccia è quasi superflua, dal momento che si ferma da solo, senza bisogno del tuo segnale...» disse il giovane.

Era vero. Alam sembrava, almeno dal quel punto di vista, completamente autosufficiente. Per quanto non fosse più necessario, era stato lui a chiederle di accompagnarlo. In realtà Anghel era quasi certa che la volesse accanto per assicurarsi che non le venisse fatto del male, ma non lo disse a Bruno, le pareva una cosa sgarbata nei confronti della famiglia Leonardi.

Le ore di sole, quelle poche in verità che aveva passato sveglia, le trascorreva col giovane. Jahèl e lo zio di Bruno erano partiti la notte stessa in cui lei era uscita per la prima volta con Alam e da allora non avevano fatto ritorno. Nemmeno Bruno sapeva dove fossero diretti, né per quanto tempo; o lo sapeva ma non voleva dirglielo: del resto, lei chi era per poter fare domande e impicciarsi, no? In ogni caso la compagnia del giovane non era del tutto spiacevole. Studiava storia, concentrandosi principalmente su quella greco-romana e aveva due anni in più di lei; le teneva sempre compagnia nei pasti e sapeva esattamente quand’era il momento più opportuno per dileguarsi e lasciarla da sola, senza che lei avesse bisogno di ricorrere a qualsiasi segnale.

Dopo la prima notte, aveva parlato con lui dell’amnesia di Alam e di quell’unico frammento che era riuscita a strappargli. Bruno aveva commentato così:

«Posso dirti ben poco, in realtà. Jahèl non parla volentieri dei suoi tamer precedenti, ma so quasi per certo che li rammenta. Se non tutti, almeno la maggior parte... come lo so deriva dal fatto che qualche volte, mentre mi osserva studiare alcuni brani di storia, la vedo fare brevi cenni del capo solo su alcuni nomi, come se li stesse rammentando. Quindi anche questo è solo una mia supposizione, come vedi.»

«Certo che per i tuoi studi è comodo averla in casa, no?» aveva ribadito lei.

«Non molto, per la verità. Jahèl è incline al silenzio più totale su se stessa. Penso che persino con mio zio non parli più di tanto di sé e del suo passato. Mi ha detto solo una cosa, la prima volta che arrivai stabilmente in questa casa sette anni fa... era alla finestra di questa stanza, io avevoqundi anni ed ero orfano da due giorni, puoi immaginare cosa provai di fronte a lei. Insomma, l’hai vista anche tu! È una donna bellissima, ma più che inquietante...»

«Bè... è una vampira...» commentò Anghel.

«In ogni caso, mio zio mi aveva già detto la natura di Jahèl, sapevo che non era umana. Ma quando la vidi era incorniciata dal sole... erano le cinque del pomeriggio quando arrivai. E io sbarrai gli occhi e aprii la bocca,. In tutte le storie i vampiri muoiono alla luce del sole! Subito pensai che mio zio mi avesse preso in giro e mi voltai per cercarlo. Ma non c’era più. Fu Jahèl a parlare. Mi disse che no, mio zio non si era preso gioco di me e che sì, lei poteva stare alla luce del giorno perché aveva più di mille anni. Jahèl è nata esattamente nell’anno mille dopo cristo.»

«Quindi ha mille e nove anni?» domandò Anghel incredula.

Le pareva una tortura vivere così a lungo, un peso opprimente che doveva schiacciare il corpo sulla superficie terrestre. Per quanto si sforzasse, il tempo dei vampiri era per lei incomprensibile.

«Sì, ha mille e nove anni. Fu mio zio a spiegarmi che un vampiro, quando supera i mille anni di vita, può finalmente vivere alla luce del giorno. Jahèl si gode il sole da relativamente poco tempo insomma.»

Anghel aveva sorseggiato pensierosa il suo tè pomeridiano che fungeva da colazione quando lui aveva aggiunto:

«Se vuoi saperne di più, comunque, su Alam, posso dirti io qualche cosa.»

«Studi la storia comprendendo in essa l’esistenza dei vampiri?» domandò lei, sempre più sorpresa.

S’immaginava un’università di tamer, includente corsi paralleli a quelli della storia insegnata a scuola, tipo scuole di magia e simili.

Ma Bruno era scoppiato a ridere di cuore:

«Certo che no! Però posso dirti che l'Hôtel des Invalides è famoso. È un luogo parigino, in cui i ribelli alla corona francese si erano rifugiati e avevano ammassato le armi necessarie per la rivoluzione. È stato il 14 luglio del 1789, il giorno della presa della Bastiglia, il momento in cui iniziò tutto.»

«Vuol dire che Alam era là in quel momento? All'Hôtel des Invalides?» chiese Anghel.

«Può essere. Mio zio mi ha detto, una volta, che il ricordo più vivido di un vampiro è la sua nascita. Perché è così rimane un mistero... cosa che non mi stupisce affatto! È tutto un mistero ciò che è legato ai vampiri! Non si sa come nascono, ma si sa che loro lo ricordano perfettamente. Non si sa come si riproducono ma solo che hanno smesso di farlo! E Jahèl non è certo il vampiro più loquace del mondo a cui chiedere spiegazioni!»

«Non ti sta proprio simpatica, noto...» aveva detto Anghel, constatando il tono aspro di Bruno.

«Non è facile starle vicino. Io non sono il suo tamer, ma lo sarò quasi per certo. Nonostante questo non ha confidenza con me, non come con mio zio ovviamente. Eppure lui pretende che io e Jahèl passiamo insieme più tempo possibile! Insomma, è comunque un vampiro e per quanto non possa in alcun modo avvicinarsi al mio sangue, non è piacevole il modo in cui mi guarda. Inoltre è assolutamente inutile: non si instaurerà mai tra noi alcun tipo di legame, fino a quando non sarò io il suo tamer. E questo avverrà tra molto tempo... quindi è un po’ una specie di tortura a cui zio Samuele mi obbliga da sette anni.»

Anghel lo guardò a lungo.

Pensava a lui, ogni tanto; non poteva certo definirlo un amico, le teneva piacevolmente compagnia questo sì, ma c'era qualcosa nel suo atteggiamento spesso affettato che la lasciava perplessa e dubbiosa. Spesso, specie quando parlavano di vampiri, lui diventava improvvisamente scontroso e quasi aggressivo. A volte le sembrava che questo si accentuava ogni volta che veniva nominato Alam. Lei non poteva comprenderlo completamente, ne era consapevole, non poteva capire cosa volesse dire stare accanto a una creatura da cui istintivamente si fuggirebbe: lei era già tamer, tutte quelle strane emozioni che sentiva, così contrastanti con quelle che la logica le suggeriva, le facilitavano il compito di prendersi cura d Alam. Bruno non poteva ancora comprendere e, forse, questo lo disturbava e lo irrigidiva di fronte a lei. Nonostante ciò, Anghel non poteva fare a meno di essergli grata per tutte le volte che si era intrattenuto a tenerle compagnia.

Quella loro conversazione in particolare aveva dato ad Anghel di che pensare. Se aveva capito bene, poteva essere più che plausibile che Alam fosse nato nel 1789, il che voleva dire che aveva in totale duecentovent’anni... sicuramente non poteva aver perso il suo tamer all’età di cento anni, altrimenti avrebbe già dovuto restare privo della parola, quindi doveva esser rimasto solo dal 1900 circa. Forse era successo durante una delle due grandi guerre... sempre Bruno le aveva detto che probabilmente doveva esser successo qualcosa di molto grave, quasi inimmaginabile per un essere umano, per lasciare Alam privo di conoscenza o pressoché incapace di rigenerarsi. Questo poteva spiegare la perdita di contatto con la famiglia del tamer e l’amnesia. Certo era che, con quelle informazioni sotto mano, ora Anghel era più curiosa che mai di scoprire la storia di Alam. Si disse che, probabilmente, riuscire a conoscere il quando e il perché lui avesse perso la memoria, poteva aiutarla anche a capire cosa mai lui andasse cercando!

«Pensi di accompagnarlo ancora per molto durante la caccia?» le chiese Bruno, addentando un toast imburrato che lei aveva lasciato da parte.

«Non saprei... la notte precedente ha chiesto di me dopo tutto. Forse non si sente ancora sicuro.»

«O forse pensa solo che, se ti tiene sempre accanto, potrà esser più tranquillo.» concluse Bruno per lei, con una nota acida nella voce.

Anghel annuì, arrossendo lievemente. Alam era notevolmente protettivo, specie con Bruno nelle vicinanze. Se non fosse stata certa dell’impossibilità dall’evento, avrebbe potuto pensare che fosse geloso.

«In ogni caso uscirò a caccia con lui ancora una notte, poi basta. Così si tranquillizza un po’; inoltre devo anche chiamare casa e Sofi a Padova...»

«Non l’hai ancora fatto? Ma saranno terribilmente preoccupati! Anghel sono più di dieci giorni che manchi!» sbottò lui, mandando di traverso un pezzo di toast.

«Non aggredirmi! Lo so da sola, cosa credi? Solo... solo non mi è proprio venuto in mente di farlo prima...»

«Sei veramente incredibile, Anghel!» le disse allora lui, regalandole però uno dei suoi rari sorrisi.

 

***

 

Alam sentì l’odore della notte prima ancora che la porta della stanza si aprisse. Non aveva più rivisto il vecchio e l’altra vampira da quando era uscito a caccia con Anghel la prima volta, ma non se ne curava. La porta si apriva in automatico, forse un qualche apparecchio meccanico era programmato per sbloccare l’ingresso al tramonto del sole. Aveva rivisto solo il giovane uomo dall’aspetto alquanto buono, ma sempre in compagnia di Anghel e lei gli aveva proibito di assaggiarlo, anche se ora era diventato molto bravo a controllarsi.

In effetti credeva di doverci mettere più tempo. Era bastato pensare ad Anghel e gli era venuto spontaneo interrompersi. La mano della sua tamer si era appoggiata sulla spalla nell’attimo stesso in cui aveva intuito che doveva staccarsi.

Naturale. Istintivo. Come una cosa già fatta molte volte.

Chissà chi gliel’aveva insegnato? Anghel gli aveva fatto molte domande, la prima sera. Domande di cui ignorava la risposta. Gli aveva chiesto dei suoi precedenti tamer. Di certo ne aveva avuti, lo sapeva bene. Ma non li rammentava... e lei aveva assunto quella faccia... come l’aveva definita poi? Sì, perché i giorni seguenti aveva deciso che toccava a lui porre domande! E aveva chiesto tutto, a partire dalle gocce d’acque che ogni tanto scendono dagli occhi... lei le aveva chiamate lacrime...invece l’espressione del viso che aveva fatto quando lui non riusciva a ricordare nulla si chiamava... si chiamava... compassione forse? Non capiva bene cosa volesse dire quella parola, lei aveva provato a spiegarglielo, ma lo trovava difficile da comprendere.

In effetti, tutto quello che lei diceva gli risultava complicato. Persino il sorriso: lei aveva fatto molto rumore quando lui aveva provato a sorridere... aveva riso...

Solo una cosa l’aveva capita bene: amore uguale voler proteggere. Questo l’aveva ben compreso. I due giovani che avevano visto la notte precedente, tra tutti gli umani che aveva osservato, eccettuata Anghel, lo avevano particolarmente incuriosito. Qualcosa nella posizione di lui e di lei... qualcosa... lui come un predatore pronto a saltare al collo... ma non l’aveva morsa, l’aveva baciata... uno strano predatore in effetti, toccare senza prendere quel sangue fresco. Molto strano... ma non era questo strano tipo di caccia a interessarlo, c’era qualcos’altro che lo incuriosiva, qualcosa che non riusciva ad afferrare.

Ora aveva fame, di nuovo. E avrebbe cacciato bene quella notte! E avrebbe avuto Anghel con sé. Bene, era pronto!

Salì con grandi passi le scale di marmo trovandosi in breve nell’ampio ingresso. Lei era già lì ad aspettarlo, sempre in compagnia del giovane umano che tremava davanti a lui. Alam piegò la testa verso Bruno: era veramente appetitoso, le vene grosse e fresche...

«Vogliamo andare, Alam?» disse Anghel improvvisamente.

Lui si diresse verso la porta, prendendola per un braccio come sempre e, appena fuori, balzò sul tetto più vicino tirandosela dietro. Era molto leggera, non gli costava affatto averla con sé e, per quanto potesse sembrargli strano, non lo infastidiva esser osservato da lei mentre mangiava.

La sentì stringersi al suo petto, come le altre notti. Chissà perché? Doveva chiederglielo in effetti, gli stringeva sempre la maglietta molto forte. E tremava, specialmente quando saltavano da un tetto all’altro con sotto un canale.

Quella sera si sentiva particolarmente bene e aveva veramente voglia di cacciare. Ora che si era abituato, era piacevole fermarsi dopo una bevuta e riprendere la caccia!

La prima preda l’avvistò quasi subito, in gondola. Si fermò su un tetto e Anghel si staccò dalla sua maglietta. Si voltò a guardarla: anche lei aveva visto l’uomo sulla gondola e gli fece un breve cenno d’assenso. Così saltò giù, piombando esattamente davanti al traghettatore. Anghel era ovviamente rimasta aggrappata a un camino. Senza di lei era stato più facile nutrirsi. Aveva potuto cadere proprio di fronte alla sua preda e rialzarsi, bloccargli la giugulare senza nemmeno dargli il tempo di accorgersi di ciò che gli stava accadendo. La sua bocca si chiuse avida sulla pelle ruvida di barba della preda.

Che buono... sangue di lavoratore che non era ancora andato in taverna a spendere il suo guadagno giornaliero.

Si staccò in tempo, il corpo gli si accasciò contro privo di sensi ma sentiva ancora chiaro il battito delle vene sulla pelle. Avendo osservato bene Anghel, sapeva cosa fare. Sciacquò la ferita con dell’acqua che si era portato appresso, quella del canale gli aveva detto il suo tamer non sarebbe stata opportuna, e utilizzando il suo calore cicatrizzò la ferita. Sistemò l’uomo sulla gondola e tornò sul tetto. Anghel stava già usando un cellulare per chiamare soccorsi, così lui ebbe anche tutto il tempo per leccarsi la mano insanguinata e completare il suo spuntino.

«Sei stato bravo, molto!» disse lei, sorridendo. «E ora, alla prossima...»

Ma non la stava più ad ascoltare...

C’era qualcosa nell’aria, quella notte... qualcosa che lui ricordava bene...

«Alam... Alam che succede?» chiese lei.

Senza prestarle attenzione si alzò di scatto e la prese per un braccio. Dovevano scappare. Subito! La sentì protestare dietro di lui, ma non gli interessava. Quell’odore, lo aveva ben memorizzato, a Padova.

Era certo di non averli uccisi, ma pensava almeno di averli scoraggiati dal provarci! Invece eccoli ancora a caccia di lei... odore di sangue... odore di elettricità... la femmina... puzza di sangue fresco, appena versato...

Corse veloce tra i tetti di Venezia, allontanandosi dalla zona che Jahèl gli aveva indicato come sicura per la caccia. La femmina era vicina... troppo.

Dannazione Alam! Pensa!” si disse.

Lo vide subito dopo. E vi si gettò dentro. Buttò Anghel contro un angolo e il suo corpo sopra quello di lei. Essendo vestito di nero, poteva mimetizzarsi meglio.

«Alam! Alam che...» le mise una mano sulla bocca, come aveva fatto lei la sera prima.

Anche il più piccolo rumore li avrebbe fatti scoprire. Aveva trovato quel giardino proprio per caso e si sentiva estremamente fortunato per questo. L’aveva spinta a ridosso dell’alto muro di pietra che separava il giardino dal resto di Venezia, protetti da due alberi imponenti. E si era assicurato che nulla della pelle chiara di nessuno dei due potesse essere visibile! Era impegnativo, in effetti! Per fortuna, Anghel parve capire più che bene la situazione, perché spalancò gli occhi ma rimase perfettamente immobile sotto di lui. Doveva schiacciarla molto, perché quasi non respirava. Meglio così per ora... anche il suo respiro poteva tradire la loro presenza.

La femmina era vicina, molto.. .e sì... c’era anche il maschio...

Stavano passando proprio sopra di loro in quel momento, sentiva i loro respiri impercettibili e i movimenti delicati... pericolosi... trattenne il respiro anche lui... e li superarono.

Aspettò ancora qualche minuto e, quando l’odore si allontanò, stacco la mano dalla bocca di Anghel e la lasciò respirare.

Nonostante questo, lei pareva ancora bloccata.

«Erano... erano... loro?» bisbigliò, gli occhi ancora spalancati immobili, il respiro faticoso.

«Venezia non è più sicura.» rispose lui. «Devo portarti via. Subito!»

La mise in piedi, lei non oppose molta resistenza.

«Dove... dove andiamo ora?» riuscì a balbettare.

Paura... gliene aveva parlato due sere fa, dicendogli che in situazioni di pericolo si può rimanere bloccati, immobili, incapaci di reagire. Anghel ora aveva paura... moltissima! Quindi toccava a lui, era il suo compito proteggerla!

«Padova... torniamo a Padova...»

Se la caricò di nuovo sulle spalle e, con un balzo, si diresse verso la ferrovia e la strada che li avrebbe ricondotti sul continente.

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Capitolo 9
*** Raggi di sole ***


8. Raggi di sole


«Puoi dormire ora Alam.» Anghel parlava sotto voce.

Sapeva quasi per certo che in casa si trovavano tutte e tre le sue coinquiline e non era il caso di svegliarle: era molto tardi. Alam guardava la stanza, mentre lei rimaneva poggiata contro lo stipite della porta chiusa e l’osservava. Percepì quello strano senso di tenerezza che il vampiro riusciva a suscitarle. E ancora una volta si dimenticava la vera natura di Alam, tutte quelle volte che lo aveva visto chino su corpi tremanti, a succhiare, in cui lui le mostrava candidamente il suo non essere umano.

Non le importava. Non le era importato nemmeno quando lo aveva visto steso sul tavolo di metallo al suo risveglio nella casa del signor Leonardi. Per lei non era altro che una creatura sola, che si poggiava a lei per tutto, fidandosi di lei, proteggendola anche con la violenza di chi non sa gestire bene le proprie sensazioni, di chi non le conosce. Lo aveva accettato subito il suo ruolo di tamer, se ne rendeva conto ora, guardandolo girare la testa a destra e a sinistra, con lentezza.

Non c’erano stati molti ragazzi nella sua stanza e quei pochi si erano fermati appena un attimo. Forse era colpa sua: non le piaceva che qualcuno si soffermasse in spazi che le appartenevano, che la qualificavano perfettamente. Ma con Alam era diverso. Anche lui, come altri prima, studiava il suo ambiente privato. Ma non toccava nulla. Stava lì, nel centro della stanza, volgendo lo sguardo ovunque, senza sfiorare nulla, senza parlare, senza espressione. Alam prendeva le misure, analizzava quel luogo, con curiosità forse, non avrebbe saputo dirlo perché come sempre era inespressivo. Avrebbe voluto chiedergli quali fossero i suoi pensieri ora che era entrato, ora che, dopo undici anni di attesa e di attento controllo da fuori, poteva star lì, nel suo mondo. Ma non le sembrava giusto interrompere quel silenzio e la sua ispezione.

«Alam, sei stanco. Stenditi sul letto, tra poco sarà l’alba.» disse ancora, dopo qualche minuto.

Non appena finì quella frase spostò lo sguardo sulla finestra: era sbarrata per fortuna, le persiane erano chiuse e le tende tirate. Se il sole fosse filtrato, Alam poteva in ogni caso proteggersi sotto le coperte. Sì, poteva stare tranquilla.

«Alam...» lo chiamò ancora.

Non le pesava quasi più la sua inattenzione. Sapeva che non la stava ignorando volutamente, solo ogni tanto sembrava dimenticarsi della sua presenza. Troppo tempo da solo, senza qualcuno accanto: non era più abituato a dover considerare la presenza di altri individui.

Alam si girò a guardarla, solo con la testa. Chinò lievemente il capo in avanti in un cenno d’assenso stanco. L’aveva trasportata sulle spalle da Venezia a Padova, correndo e utilizzando strade secondarie, deviando spesso per non far capire la loro direzione. Arrivati in città, subito Alam si era fiondato nelle fogne assieme a lei. Il suo senso dell’orientamento era sorprendete, perché in breve ritrovò il nascondiglio che aveva utilizzato l’ultima volta, in cui anche lei era stata. I loro assalitori non avevano prestato molta attenzione a quel posto, preferendo correre dietro di loro. Quindi la sacca contenente gli oggetti personali di Alam era integra. Senza nemmeno badare al contenuto, aveva raccolto tutto ciò che gli capitava sotto mano e si era ridiretto in superficie, passando per altri cunicoli e uscendo da un tombino in via Altinate, ovviamente trascinandosi dietro anche Anghel. Era stata lei a proporgli la propria casa, come rifugio. Bruno le aveva detto che, come raccontavano molte leggende, i vampiri non possono entrare in abitazioni umane se non invitati, quindi non li avrebbero attaccati di certo in casa sua. Alam non aveva posto obiezioni e aveva accettato la sua proposta senza parlare.

Non si era nutrito a sufficienza quella notte e ormai era troppo tardi.

Il vampiro si stese sul letto e si tirò le coperte fin sopra il volto, addossandosi completamente contro il muro per allontanarsi dalla finestra. Anghel allora si sistemò nella porzione di letto rimasta libera. Non faceva freddo, non aveva bisogno di coprirsi. Sentiva chiaramente la presenza di Alam dietro di sé, la sua schiena abbassarsi e alzarsi regolarmente... si era già addormentato.

Da sotto il letto spuntarono due occhi luminosi, verdi. Si era quasi scordata di Alex! Il gatto le saltò rapido sulle gambe e percorse tutto il suo corpo, agile, arrivando fino al viso. Lei si lasciò annusare, leccare e intanto gli carezzava il pelo teneramente. Erano due settimane che era via, Sofia doveva essersi presa la cura di lui. Avrebbe dovuto fornire molte spiegazioni, troppe in effetti... due settimane senza far sapere nulla di sé, lasciandosi dietro anche Alex... sì, Sofia di certo non avrebbe lasciato correre... in effetti era praticamente una sua amica, doveva averla fatta preoccupare molto.

Doveva sforzare le meningi per cercare una scusa più che plausibile. E al momento questo richiedeva uno sforzo impraticabile, anche lei risentiva degli scossoni di un viaggio non certo comodo e della tensione della fuga.

Sentì Alex soffiare alla volta di Alam. Automaticamente se lo strinse al petto e lo cullò con la voce, come fosse un bimbo. Alam sicuramente costituiva una creatura minacciosa per il felino, quindi cercò di tranquillizzarlo. Non sentì l'animale sgusciarle via delle braccia e nascondersi, col pelo arruffato, sopra la libreria: il sonno la colse senza nemmeno darle il tempo di accorgersene.

Il profumo di caffè invase l’aria di casa. Anghel guardò la sveglia sopra il comodino. Erano le otto e mezza. Aveva dormito forse due ore eppure si sentiva sveglia. Lentamente si alzò dal letto e uscì dalla stanza, sentendosi immediatamente pedinata dal gatto.

«Buon giorno...» biascicò non appena entrata in cucina.

Due sguardi si alzarono di scatto verso di lei. Vide chiaramente Sofia attonita che non le toglieva gli occhi di dosso e la tazza che le tremava tra le mani.

«Dove sei stata?» le chiese, glaciale.

Per un istante ad Anghel parve di aver davanti sua madre e s’irritò. Non doveva darle spiegazioni, no? Poteva benissimo fare quello che voleva, senza dover render conto a Sofia! Questo le venne da dire, ma si morse il labbro per trattenersi e si sedette. In fondo l’aveva sicuramente fatta preoccupare e la colpa era sua che non aveva pensato nemmeno a mandare un messaggio col cellulare.

«Sono due settimane che non dai segni di vita, Anghel!» sussurrò Sofia.

«Hai chiamato i miei?» domandò lei.

Lisa, l’altra sua coinquilina presente nella stanza, lanciava sguardi dall’una all’altra, le gambe contro il petto, incapace d’intervenire.

«Ho detto loro che ti sei ritirata in un mutismo ostinato pre-laurea. Ti conoscono bene e mi hanno creduto... ho detto che avresti chiamato tu una volta finita la prima stesura.» sospirò lei.

«Grazie.»

Sarebbe stato un bel problema se si fossero allarmati. Sofia sapeva quanto fossero apprensivi, ma la stupiva in ogni caso scoprire che non li aveva avvisati. Non le voleva chiederle perché l’avesse coperta. In effetti era strano: due settimane di sparizione e nessuno viene avvertito? Non aveva pensato nemmeno a chiamare la polizia?

Forse Sofia aveva semplicemente supposto che lei avesse bisogno di un momento di isolamento totale.

In ogni caso era strano che nessuno fosse stato allertato per cercarla.

Decise di lasciar perdere. Era mattina presto, era appena tornata da una notte di fuga, era affamata e il non dover render conto ai suoi di quelle due settimane la riempiva di sollievo.

«Dovrai darmi un po’ di spiegazioni in ogni caso, signorina!» tornò alla carica Sofia.

«Certo! Ma dopo il caffè, vero?» le sorrise lei.

E, senza aggiungere altro, si versò nella tazza la dose rimasta nella caffettiera e si mise a sorseggiarla tranquillamente, sforzandosi d’ignorare lo sguardo penetrante dell’amica.

«Claudia?» domandò a un certo punto.

«Aveva impegni a casa, torna dopo domani. Non cambiar discorso!» fu la risposta, sintetica, quasi quanto un telegramma.

«Senti, Anghel. Visto che sei tornata posso andare ad aprire in camera tua? Così passa un po’ d’aria e di luce...» chiese timidamente Lisa.

L’atmosfera era tesa e la sua voce era appena percettibile. Doveva sentirsi immensamente in imbarazzo!

«Certo. Apri pure!» le rispose Anghel, da sopra la tazza fumante.

Le fu necessario udire il rumore della tapparella che veniva alzata con forza per ricordarsi chi dormiva nel suo letto.

«Lisa! ASPETTA!» gridò, lasciando cadere la tazza e rovesciando quel che rimaneva del caffè sul pavimento.

A mala pena sentì che Sofia la chiamava incerta. Si diresse più velocemente possibile in camera sua, tremante.

Il sole al mattino batteva inesorabilmente sul letto, dannazione! Alam si sarebbe trovato proprio sotto i suoi raggi! Cosa sarebbe successo allora? Lei doveva proteggerlo! Come aveva fatto a essere così stupida e superficiale?!

«Anghel! Certo che potevi anche dirlo!»

Lisa era alla finestra, una sagoma in contro luce girata verso di lei.. .e verso il letto... letto su cui era seduto, con la faccia più assonnata che mai, un Alam alquanto infastidito.

«Guarda che non ci son problemi se ti porti qualcuno in camera, basta che avverti!» le disse Lisa, passandole accanto con un sorriso malizioso stampato in faccia.

«A... Alam?» balbettò Anghel, incapace di formulare una frase di senso compiuto.

«Ti chiami Alam, quindi! Che nome particolare. Piacere io sono Lisa!» fece la ragazza, sempre più ironica, allungano una mano alla volta del vampiro.

Alam era decisamente disorientato. Guardò a lungo la mano tesa di fronte a sé, non capendo bene cosa stesse accadendo.

 

***

 

A svegliarlo era stato il rumore improvviso, più che il caldo e la luce. Si era alzato di scatto, senza pensare e questo era strano, in effetti. Da sempre il suo istinto gli diceva di diffidare di luci troppo forti, ma in quel momento non aveva dato nessun segno di allarme. Eppure, ne era più che certo, ora che si trovava seduto sul letto, che la luce proveniente dalla finestra era il sole.

Com'era possibile? Non avrebbe dovuto essere morto, bruciato immediatamente dai raggi? Invece la luce si rifletteva sulla sua pelle chiara e inondava il resto del mondo. Compresa Anghel, ferma sulla porta con la bocca spalancata, e una giovane irritante che strillava fastidiosamente e gli tendeva una mano.

Voleva offrirgli la colazione forse? In effetti aveva fame... e molta...

La corsa di quella notte era stata snervante. E un gondoliere solo, per di più nemmeno finito, non era certo sufficiente. Forse Anghel gli aveva portato da mangiare, chissà.

Guardò la mano tesa, il polso che s’intravvedeva dalla manica del pigiama, quella pelle sottile e giovane, così piena di vene... lentamente mosse la mano verso quella della ragazza e le prese la mano, portandosela vicina alla bocca.

«Bene! Avete fatto le presentazioni! Ora, Lisa, lasciaci soli un attimo. Rendo Alam presentabile e vi raggiungiamo di là!»

Anghel l’aveva bloccato, mettendo la sua mano sopra quella della strana ragazza dalla voce stridula e spingendolo lontano. Dopotutto non doveva trattarsi della sua colazione.

«Suvvia, Anghel. Non essere gelosa!» le gridò dietro la ragazza prima di andarsene a urlare qualcosa in un’altra stanza della casa.

Impossibile non udirla, fastidiosa...

Tornò a guardare Anghel. Ora stava in piedi accanto al letto, le mani sui fianchi, la bocca spalancata e gli occhi che giravano per tutto il suo corpo, analizzandolo.

«Ma... ma come?» balbettò.

La luce era davvero forte. Alam si alzò dal letto, lento, e andò alla finestra, scostando le fini tende e guardando la strada.

Giorno...

Il colori... era qualcosa che non s’immaginava neppure... i colori erano differenti... quasi irritanti in effetti tanto potevano essere forti contro le sue retine, impressionanti e... vivi...

Alzò la mano contro il vetro, premendola forte. E poi l'aprì e si sporse sul piccolo davanzale, affacciandosi sulla strada che conosceva a memoria. Era diversa ora, più concreta, più reale. Così rossi i mattoni del tetto di fronte, così intenso il cielo, sembrava una cupola posta sopra Padova, dipinta da qualcuno, sembrava un tetto che si poteva toccare. Era diverso il giorno... diverso... così... familiare.

«Alam... com’è possibile?»

Si girò verso di lei.

«Io... non ricordo...» balbettò.

 

***

 

Alam era differnete visto alla luce del giorno. Non che sembrasse umano, questo no: la sua pelle era così pallida da risultare pressoché bianca, gli occhi verdi spiccavano terribilmente su quel volto, così come i capelli scuri. Sembrava malato, in effetti. Non incuteva alcuna paura, nessun senso di pericolo, nessun timore. Era questo il feroce vampiro che saltava da un tetto all’altro e divorava le sue prede?

Certo, quando aveva stretto la mano di Lisa aveva notato chiaramente la dilatazione delle sue pupille, quella che aveva sempre ogni volta che si preparava a mangiare, ma era... ridotta... non sapeva come spiegarlo, ma era sicuramente meno pericoloso durante il giorno.

Eppure anche così le sembrava tristemente bello, poggiato con la schiena alla finestra, i capelli a incorniciargli il volto come una criniera, le braccia magre con cui si puntellava sul davanzale. Era... suo...

Sentì chiaramente il senso di appartenenza nei confronti di quella creatura, lo sentiva così forte come poteva percepire il contatto con la maglietta che indossava.

«Alam. Tu dovresti essere morto!» esplose.

«E’ bizzarro, vero? Sono sempre scappato dal sole.» fu la risposta che ottenne.

«Bizzarro? Alam, i vampiri con più di mille anni possono stare al sole! Come puoi avere più di mille anni, tu?» gridò ancora, ricordandosi tardi che non erano soli in casa e ringraziando mentalmente le spesse pareti delle case vecchie.

Cercò di riprendere il controllo e gli si avvicinò.

«Allora. I casi sono due: o tu hai appena compiuto mille anni oppure sei il vampiro più strano che sia mai esistito!» sibilò vicino a lui.

Lui la guardò senza rispondere. Non sapeva cosa rispondere, in effetti. Lui non ricordava nulla se non il 14 luglio 1789, la presa della Bastiglia.

«Sei un labirinto di misteri, Alam!» sbottò Anghel. «Dovremo cercare di comprenderli,»

«Ho fame...» fu la risposta che ottenne.

Anghel lo guardò in tralice. Certo che aveva fame. In pratica era a digiuno da due giorni! Ma ora era mattina, cosa poteva dargli da mangiare? Inoltre, se si metteva a saltare da un tetto all’altro non passava certo inosservato. Cercò di spiegarglielo, nella maniera più semplice possibile. Come risposta, Alam si mise a sedere sul letto, sempre guardandola.

«Non riesci a resistere fino a questa notte? Appena fa buio esci a cacciare, no?» gli disse allora lei.

Alam annuì, ma era quasi certa che non fosse per nulla contento della soluzione. Pazienza! Non poteva mica mandarlo a caccia di giorno, doveva trattenersi e resistere per un po’. Si mise a sedere sul letto accanto a lui. Forse Bruno si era sbagliato, forse non occorrevano mille anni d’età per poter stare alla luce del giorno! O forse, la data che Alam ricordava non aveva nulla a che fare con la sua nascita, ma riguardava qualcos’altro.

Le sembrava l’opzione più probabile e la sua prossima mossa sarebbe stata scoprire cosa mai collegava Alam all'Hôtel des Invalides. Come fare per ricostruire quel quadro era ancora da vedere, ma un modo l’avrebbe trovato! Doveva saperne di più su Alam, così forse avrebbe potuto anche capire chi le stava dando la caccia e perché. Il fatto che li avessero raggiunti anche a Venezia l’aveva risvegliata dal torpore che quella città aveva fatto sorgere in lei.

Cinque giorni trascorsi in uno stato di stasi: cacciare con Alam era tutto ciò a cui aveva pensato. Il mondo fuori Venezia aveva smesso di esistere e quindi anche i suoi inseguitori. Sembravano qualcosa di lontano, di non appartenente a lei; ma il loro ritorno l’aveva inevitabilmente riportata alla realtà: qualcuno stava cercando di ucciderla e non avrebbe smesso di darle la caccia fino a che la sua fame non fosse stata placata. Non poteva nascondersi a lungo, né rimanere nello stesso posto. Anche Padova presto sarebbe diventata pericolosa, dovevano andarsene il prima possibile!

Certo, facile a dirsi. Non era mica sola al mondo. Non poteva di certo sparire per mesi e mesi senza far sapere nulla! E i suoi?

Bene... prossima tappa, casa! Aveva deciso.

«Alam, domani partiamo e andiamo a casa mia.» bisbigliò.

«Va bene... ma dopo che ho mangiato!» ci tenne a precisare il vampiro.

«Certo! Puoi nutrirti per tutta la notte, se vuoi! Tanto, visto che abbiamo appurato che il sole non ti uccide, possiamo viaggiare in treno.»

«E quando riposo?»

«Sul treno, pensi di non riuscirci?» domandò lei, imbarazzata.

Alam annuì, lentamente.

«Ti chiudo le imposte così dormi ancora un poco?»

«E tu che farai?» domandò lui, improvvisamente più sveglio.

Anghel non si era ancora programmata la giornata, in effetti. La domanda la colse alla sprovvista.

«Penso che preparerò tutto per la partenza di domani, credo... e girerò un po’ per la città; essendo giorno non dovrei correre alcun pericolo, ti pare?»

«Vengo anche io!» disse Alam risoluto.

«Ma se eri così stanco!» sbottò lei, presa alla sprovvista da un temperamento così deciso.

Lo sguardo di Alam era inamovibile: non si sarebbe dato per vinto e di certo lei non avrebbe mai potuto impedirgli di seguirla per le strade di Padova o, peggio, per i tetti di Padova.

«Va bene, ma usciamo più tardi! Ora voglio che tu riposi ancora un po’. Vengo a chiamarti io,» disse.

Chiuse quindi nuovamente le finestre e uscì dalla stanza.

«Allora? Chi è quello?» domandò Sofia, non appena lei varcò la soglia della cucina. «E’ lui il motivo per cui non ti sei fatta sentire per tutto questo tempo?» un tono fastidiosamente malizioso nella voce.

Anghel annuì e le racconto una rivisitazione del suo ultimo mercoledì padovano. Le inventò un’improvvisa attrazione tra lei e il ragazzo e della fuga tra i monti e di due settimane di follia.

«Per una passione così travolgente, mia cara, mi sembri molto fredda!» la rimproverò l’amica.

«Cosa pretendi? Sono stanca!» disse allora lei.

Sofia uscì dalla stanza sogghignando allegra e lei rimase finalmente sola. Alex la raggiunse subito saltando sulle sue gambe e acciambellandosi comodo. Distrattamente lo grattò dietro le orecchie. Il micio alzò lievemente la testa, fissandola coi suoi occhi verdi e impassibili: sembrava ancora irritato per la presenza di Alam in quella casa. Sicuramente a lui non era sfuggita la sua natura.

«Non ti devi preoccupare, micio. Non ci farà assolutamente nulla! È nostro amico.» gli sussurrò alle orecchie.

In tutta risposta, Alex emise un flebile miagolio e le si strusciò sotto il mento. Quindi si allontanò e con un balzo si diresse verso la porta di camera sua, acciambellandosi davanti. A volte Anghel era convinta che lui la capisse meglio di chiunque altro; del resto, ora sembrava di guarda alla sua stanza, intimando chiunque di tenersi lontano.

«Anghel! Domani hai qualcosa da fare?» le chiese Sofia, dalla sua stanza.

«Penso di ripartire.» rispose lei.

«Di già?!» l’amica si presentò in cucina con un’aria abbattuta. «Sei appena arrivata! Volevo andare in giro con te!» sbottò, offesa e delusa.

«Devo andare a casa. E' molto che non rientro e, come mi hai fatto notare, non mi son nemmeno fatta sentire per due settimane... vado là per qualche giorno e poi torno! Non sparisco di certo!» sorrise Anghel, lusingata dall’essere desiderata da Sofia.

La ragazza mugugnò qualcosa d’incomprensibile e si diresse nuovamente in camera sua.

«Non possiamo nemmeno oggi... domani mattina ho un esame e devo studiare tutto il giorno! Uffa, Anghel!» gridò dalla sua stanza.

Da parte sua, Anghel sogghignò mesta. Non era molto soddisfatta di sé, in effetti. Stava mentendo, spudoratamente. E avrebbe continuato a farlo di certo. Non poteva restare a Padova, sarebbe tornata dai suoi per un paio di giorno e poi lei e Alam avrebbero deciso cosa fare. Quel che era certo è che lei non avrebbe mai fatto un giro con Sofia per Padova per molto, molto tempo...

«Va bene! Solo perché so bene quanto tua madre è apprensiva con te, lascerò perdere e ti concederò di partire senza offendermi troppo! Però, al tuo ritorno, mi devi un aperitivo!» disse, rientrando in cucina.

Le scoccò un sonoro bacio sulla guancia e uscì di casa. Lisa la seguì dopo poco, lasciando cadere per la casa un “ciao” quasi miagolato. Anche lei andava fuori a studiare per l’esame e non perse occasione per enfatizzare il fatto di lasciar la casa libera a lei e ad Alam. Se avesse anche solo lontanamente immaginato cosa fosse Alam, non si sarebbe di certo comportata in modo tanto leggero... o forse sì. Del resto, Alam aveva sicuramente provato l’impulso di bere il suo sangue, poco prima, e lei non aveva fatto una piega! Non poteva biasimarla: accettare l’idea che qualcuno ci prenda la mano per affondarci dentro i propri canini non era così semplice. Di certo non era il primo pensiero che si può provare quando qualcuno ci stringe la mano. Almeno, lei non l’aveva mai pensato prima di venire a conoscenza dell’esistenza di Alam e dei vampiri. Ma non era certo il momento per star immobile a perdersi in pensieri fatti di “e se poi?” no... aveva altro da fare, per esempio un bagaglio.

Doveva preparare qualcosa per il viaggio, qualcosa di molto comodo e rapido da trasportare, qualcosa di simile al borsone di Alam. Pratico, piccolo e il più leggero possibile. Avrebbero dovuto muoversi, in fretta anche. Erano braccati, doveva metterselo chiaramente in testa.

Entrò in camera sua, non preoccupandosi molto della presenza di Alam, una massa scura sul suo letto. Non accese la luce, quella che filtrava dalla porta le era più che sufficiente. Trovò quel che cercava, una sacca sportiva. Chissà da quanto l’aveva stipata nell’armadio? Di sicuro non l’aveva mai usata in quegli anni! I suoi buoni propositi di praticare qualche sport erano ovviamente rimasti solo buonissimi propositi ammuffiti nel fondo del suo armadio. Vi gettò dentro qualche cambio, poco e niente, per lo più abiti comodi e pratichi, larghi e preferibilmente scuri! Non andava di certo in vacanza, né si profilava davanti a lei una prospettiva di incontri e intrattenimenti sociali... quindi qualche maglietta, qualche felpa pesante e l’intimo. La giacca se la sarebbe portata appresso, anche se non faceva freddo. Il minimo indispensabile. Guardò le fotografie sulla sua scrivania, la sua vita prima di Alam... l’avrebbe lasciata lì, tutta. Forse, in questo modo, quella vita l’avrebbe aspettata. Così poteva ancora pensare di tornare, di trovare una soluzione che le permettesse di aprire gli occhi e scoprire che le corse notturne e i canini di Alam non erano altro che un incubo e che nessuno stava cercando di trovarla per dissanguarla.

O anche, poteva sperare di riuscire a ricreare nuovamente un equilibrio... lo aveva quasi ottenuto, in undici anni dalla morte di Alex. Aveva lavorato a lungo, ma l’aveva raggiunto! E, certo, ora era di nuovo al punto di partenza, con un mondo che si sgretola inesorabile per mostrare la verità sotto di lei: un baratro buio da cui non sapeva fuggire. Doveva solo riuscire a raggiungere quel fondo nero e lì ricostruire, nuovamente, una vita. Guardò il letto... non stava cadendo sola, questa volta. Alam la stringeva, fino quasi a farle male certo, ma la sua presenza sembrava una costante che le avrebbe impedito di sfracellarsi contro il suolo.

Ogni volta che si soffermava a pensare a quel che la legava a lui, sentiva sempre più che non l'avrebbe mai capito, che la questione andava troppo oltre, nel tempo forse, così lontano da superare il linguaggio verbale. Il signor Leonardi non le aveva spiegato con chiarezza in cosa, precisamente, poteva consistere quel legame così saldo che legava la vita immortale di un vampiro a quella volubile di un mortale. Nella penombra della sua camera sentiva solo che esso era indissolubile, un filo d’acciaio... era così per tutti? Un semplice sguardo consapevole rivolto alla natura di Alam era sufficiente a impedirle di scappare da lui? Sì, non sarebbe scappata da lui... lui ora era la corda a cui si stava aggrappando per non crollare.

La mattinata passò lenta, tranquilla per lo più. Alam dormì tutto il tempo, stranamente vegliato da Alex, e lei si rilassò nella cucina, rassettando, la partenza immanente come qualcosa in più sulla sua lista di cose da fare, ma si trovava in fondo e quindi le pareva ancora lontana. Pranzò sola, del resto in casa con lei non c’era nessuno con cui condividere un piatto di pasta...

Alam si svegliò verso le cinque del pomeriggio, la luce già più opaca verteva verso il tramonto. Anghel lo guardò in tralice: arrivò in cucina, stropicciandosi gli occhi come un bambino, e si lasciò cadere su una sedia, guardandosi attorno mentre stirava i muscoli.

«Hai fame, non è vero?» sussurrò, guardando quegli occhi neri che riempivano famelici il suo pallido volto.

 

***

 

Chiedergli una cosa simile, era veramente scorretto da parte sua.

Certo che aveva fame!

Aveva dormito tutto il giorno, come era solito fare del resto, ma qualcosa gli aveva impedito di riposare come si conveniva. E non era stata la fame, a quella poteva essere anche abituato.

Quei colori... il mondo così diverso per gli umani rispetto a come lui l’aveva sempre osservato, il mondo diurno, qualcosa di proibito, di sfumato.

Avrebbe dovuto morire, ne era ben consapevole. Per tutti quegli anni, da quando si era risvegliato, non aveva fatto altro che fuggire i raggi del sole perché istintivamente sapeva essergli fatali. Era la prima volta che il suo istinto si sbagliava.

Anghel lo guardava, dall’altro capo del tavolo, con un’espressione curiosa sul volto, una che non aveva ancora imparato. Ma era troppo affamato al momento per chiederle qualche cosa e ascoltarla diligentemente.

«Allora, vuoi uscire?» gli domandò lei, dopo qualche istante di silenzio.

«Potrò mangiare qualcosa?» rispose, di rimando.

«E’ ancora giorno, Alam. Non puoi, per adesso, è necessario che faccia buio!»

Alam guardò fuori, riconoscendo la finestra su cui si era adagiato per tutte le sue notti di guardia. Cosa conveniva fare? Uscire e non mangiare o rimanere lì immobile per il tempo che occorreva al sole di andarsene? Dubbio... cosa sarebbe stato meglio?

Non era abituato a stare troppo tempo al chiuso a meno che non fosse completamente addormentato.

«Usciamo...» sussurrò.

Anghel sorrise e si alzò dalla sedia dirigendosi in camera sua a prendere probabilmente un giubbino. Lui non ne aveva bisogno.

Riapparve dopo poco, sempre con un sorriso sulle labbra e uno strano brillio nello sguardo.

«Perché sorridi?» chiese lui.

In realtà non era particolarmente curioso di sapere i suoi motivi al momento, ma pensare ad altro poteva forse aiutarlo a concentrarsi su qualcosa di diverso dalla fame. Era certo che sarebbe stato difficile osservare tutto quel cibo muoversi libero accanto a lui, senza poter nemmeno allungare la mano.

«Perché ora sarò io a mostrarti il mio mondo.» rispose Anghel.

Alam la guardò a lungo. Era vero, toccava ad Anghel ora illustrargli la sua vita. Quel pomeriggio lei avrebbe mostrato il modo di vivere degli uomini al vampiro, non era lui a trascinarla sui tetti e nei vicoli, facendole assistere al suo rituale di nutrimento. Poteva essere interessante, in effetti. Non si rammentava di aver mai passato molto tempo a contatto con gli umani nel loro ambiente, l’aveva sempre ritenuto ininfluente per lui: sapere il modo in cui il suo cibo conduceva la propria vita non era poi così importante ai fini della caccia. Quel che gli serviva conoscere era innato in lui e riguardava esclusivamente la notte, mai il giorno.

Ma ora avrebbe attraversato le vie della città col suo tamer, lei gli avrebbe mostrato una realtà che in ogni caso doveva iniziare a imparare e riprodurre. Sapeva per istinto che doveva apprendere quanto più possibile e nel minor tempo, per la sicurezza di entrambi.

Così ricambiò lo sguardo di Anghel, che era sempre sorridente.

«Prova a sorridere Alam.» disse lei, avvicinandosi.

Lui piegò il capo di lato, curioso. Anghel aveva un profumo ottimo e quando alzò le mani verso il suo volto, le vene dei polsi guizzarono come piccoli torrenti nei boschi, brillando nel suo sguardo... un profumo squisito... e velenoso allo stesso tempo! Lei non gli aveva dato il permesso di nutrirsi col proprio sangue, quindi quest’ultimo era tossico, dolce ma mortale; lasciò che il tamer gli mettesse le mani sul viso e tirasse dolcemente i lati della sua bocca, plasmandogli il volto a suo piacimento. Rilassò tutti i muscoli facciali, chiudendo gli occhi per meglio concentrarsi. Stava imparando, se fosse stato ben attento avrebbe potuto riprodurre autonomamente quell’espressione.

«Ecco vedi? Così devi sorridere.» disse alla fine, trascinandolo verso la porta d’ingresso e bloccandolo davanti ad uno specchio.

Alam non guardava la propria immagine riflessa da molto tempo; quel che la lastra di vetro gli rimandava era un volto a lui poco noto. Sapeva per esperienza che era il suo, ma non se ne sentiva il proprietario; c’era qualcosa di errato in quel viso scarno, in quegli occhi verdi e freddi, nei capelli corti e scarmigliati... qualcosa... di non suo... non era così un tempo... lui aveva i capelli fin alle spalle, gli ricadevano sul viso e la bocca, il sorriso... quello lo rammentava, la posizione dei muscoli facciali la ricordava bene, qualcosa che aveva già imparato più volte un tempo, qualcosa che sapeva fare molto bene e che ora si riproponeva naturale sul suo viso. Allargò il sorriso, subito i denti bianchi brillarono in quel pallore che era il suo volto. Non doveva esser così, era diverso... allargò ancora e i canini brillarono, improvvisamente più lunghi... i suoi denti...

Aveva già sorriso, altre volte, il suo corpo lo ricordava perfettamente. Ma non così, non era così che sorrideva un tempo! C’era qualcosa di sbagliato. Cosa, nemmeno Alam sapeva spiegarselo.

«Che succede Alam?» domandò Anghel.

La guardò. Sembrava spaventata, non da lui ma da quello che stava facendo; e come farle capire qualcosa che era incomprensibile per lui? Come dirle che quel volto non gli apparteneva veramente? Era una cosa priva di senso, poiché sapeva che quello era il suo viso eppure non lo era... così le sorrise, con quel sorriso strano che non riconosceva.

«Niente... vogliamo andare?» rispose, porgendole il braccio.

«E questo dove l’hai imparato?» sussurrò Anghel, stringendogli l’avambraccio con delicatezza.

Alam guardò dritto davanti a sé, sempre con la bocca lievemente incurvata verso l’alto e lo sguardo freddo e distante.

Non disse nulla.

Anche quella risposta era perduta sotto i cumuli delle macerie del tempo.

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Capitolo 10
*** Ritorno a casa ***


9. Ritorno a casa

 

Il treno, sotto di loro, sferragliava veloce. Da Padova avevano preso un intercity che passava per Bologna. Ora si trovavano su un interregionale, preso alla stazione di Firenze, che li avrebbe ricondotti a casa. Non sapeva ancora come spiegare la presenza di Alam ai suoi o come etichettarlo... amico? fidanzato? Era difficile. Certo non poteva dir loro che era il suo vampiro personale, ma anche come fidanzato Alam non era certo credibile e le stava troppo addosso per poter passare solo per amico. Suo padre era molto sospettoso con tutti i ragazzi che si erano avvicinati troppo a lei, forse temeva la portassero via.
In un certo senso, poi, Alam la stava portando via... dove non era ancora chiaro, ma quel che sapeva era che per molto tempo non sarebbe tornata.
Guardò fuori dal finestrino. La campagna toscana sfilava veloce sotto di lei, verde... primavera... aveva piovuto nei giorni precedenti, un’aria umida si poteva intravvedere sui campi appena fioriti. Era da molto che non sentiva i suoi genitori. Loro avevano in qualche modo accettato il suo bisogno di allontanarsi completamente da quel posto e, quando si trovava a Padova, limitavano il più possibile le telefonate. Questo non modificava minimamente la sua situazione ogni volta che rimetteva piede a casa sua: non poteva uscire la sera, non poteva muoversi da sola se prima non aveva allertato qualcuno dei suoi spostamenti. Ad Anghel la situazione pesava relativamente, del resto nemmeno lei aveva mai provato un qualche sfrenato desiderio di uscire per le strade della sua cittadina, anzi.
Ma ora tornava a casa con un estraneo, avrebbe dovuto annunciare una lunga e per altro incomprensibile assenza sia da casa che da Padova, avrebbe dovuto dar spiegazioni di un ritardo della sua laurea e del desiderio di prendere e partire per non si sapeva bene dove. Un bel cambiamento per tutti! Niente più telefonate, niente più contatti, niente di niente per chissà quanto.
Come spiegarlo?
Guardò Alam. Si era addormentato nel sedile accanto a lei, un braccio sugli occhi per cercare di allontanare i raggi solari.
Erano partiti la mattina molto presto, quando tutta la città ancora dormiva. Non aveva salutato nessuno, nemmeno Sofia. E ne era contenta. Si era risparmiata un’altra menzogna da dover inventare. Uscendo di casa, chiudendosi la porta alle spalle aveva giurato a se stessa che, una volta conclusa quell’assurda situazione, si sarebbe voltata indietro e sarebbe tornata sui suoi passi. E l’avrebbe cercata, Sofia. L’avrebbe ritrovata... in fondo era l’unica persona che poteva veramente considerare un’amica. Si erano conosciute per caso, scegliendo la stessa casa, e la giovane appena ventenne, con quella massa di ricci rossi che le ballava attorno al volto, le aveva impedito di chiudersi in sé, l’aveva obbligata in qualche modo a vincere la sua reticenza nei confronti del mondo, l’aveva fatta sentire... normale...
Sì, sarebbe tornata.
Alam si mosse leggermente, protestando. Era ovviamente infastidito dal sole e non riusciva a risposare come avrebbe voluto. Sapeva che la sera prima si era nutrito a sufficienza, quindi almeno era sicura che poteva presentarlo ai genitori senza che gli occhi del vampiro si scurissero e diventassero inconfutabilmente disumani. Era anche stranamente certa che, come era accaduto a Venezia, Alam si fosse trattenuto e non avesse ucciso nessuno. Era uscito di casa non appena le sue coinquiline erano andate a dormire, passando per la finestra. E sempre da lì era tornato, silenzioso come un gatto. L’aveva svegliata lui. Se l’era trovato davanti, vicinissimo, il suo alito che sapeva di sangue le aveva bloccato il respiro per un istante. Si era addormentato praticamente non appena erano saliti sul treno fino a Firenze. Quando l’aveva costretto a svegliarsi per cambiare treno, aveva protestato così forte che quasi tutta la carrozza si era girata verso di loro a guardarli, incuriosita. Di malumore, l’aveva poi seguita sul binario da cui partiva l’interregionale, camminando dietro di lei e tenendola per un lembo della maglia. Si era sentita le guance bruciare dall’imbarazzo per via degli sguardi della folla: dovevano essere uno spettacolo particolarmente interessante, in effetti. Alam non riusciva a tenere gli occhi ben aperti per colpa della luce eccessiva e quindi procedeva tenendosi una mano sopra il volto e l’altra stretta a lei. Era talmente assonnato, poi, che non riusciva ad articolare bene nemmeno il suo nome e mugugnava qualcosa d’incomprensibile e privo di senso ogni volta che inciampava in qualche cosa.
Era strano vederlo di giorno. Già il pomeriggio precedente, a Padova, le era sembrato un bimbo spaurito, perso in un grande magazzino colmo di giocattoli che da un lato avrebbe voluto toccare ma dall’altro aveva il timore di farlo. Certo, con Alam bisognava considerare che i giocattoli erano le persone che passeggiavano loro accanto e il suo desiderio non si limitava al toccare, quanto all’azzannare... quel che più faceva ridere, però, era vedere il vampiro, la belva temuta, il predatore naturale dell’uomo, muoversi come un cucciolo curioso. Ad Anghel venne in mente anche un enorme negozio di gelati giganti e in costante movimento che sfilano davanti agli affamati in estasi. Alam era più o meno così, molto affamato, molto debole sotto i raggi violenti, molto pallido ma estremamente incuriosito da tutto quel che li circondava.
In stazione era stato lievemente diverso, perché tutto quel che il vampiro desiderava era un posto dove non potesse raggiungerlo il sole per poter continuare a dormire in pace.
Povero Alam...” pensò Anghel, guardandolo agitarsi ancora accanto a lei e tentando di dargli un po’ di sollievo, alzandosi a chiudere tutte le tende vicine a loro.
Il vagone, del resto, era praticamente vuoto, quindi poteva benissimo agire come più le piaceva.
«Ripetimi dove stiamo andando.» le chiese Alam, una volta che si sedette di nuovo.
L’espediente delle tende era stato evidentemente inutile.
«Dai miei genitori.» rispose Anghel, calma.
«Perché?» chiese ancora lui.
«Perché io e te andremo via per molto tempo, viaggeremo molto.» rispose secca.
«Perché?»
Un dannatissimo bambino! Ecco cos’era Alam! Un bimbo assetato di informazioni che non s’accontentava mai! Poteva essere veramente irritante.
«Perché ho intenzione di partire con te e scoprire perché sei tanto desiderato, al punto di uccidermi. E intendo farlo cercando prima di tutto di capire la tua storia, che tu hai in qualche modo dimenticato. Credo che sia in ciò che non ricordi la chiave per uscire da questa situazione.» spiegò Anghel sbuffando.
«Potremmo semplicemente scappare. Io li sento arrivare e ti porto via da loro! Così è più semplice.» rispose lui.
Anghel lo guardò sconcertata. Stava dicendo sul serio? Voleva veramente passare la sua vita in fuga?
Alam era dannatamente serio, quasi terrificante la sua certezza di star proponendo una soluzione più comoda.
«Non intendo passare il resto della mia vita fuggendo, prima di tutto. Secondo, hai detto che hai perso qualcosa d’importante, no? Se non capiamo cos’è come facciamo a cercarlo?» sbottò lei allibita.
Alam sembrò riflettere un momento sulla sua ultima affermazione.
«L’avevo scordato...» disse alla fine, tornando a nascondersi sotto il braccio.
Anghel aprì la bocca, incapace di emettere anche una sola sillaba. L’aveva dimenticato?! “Ma stiamo scherzando? Sono il tamer di uno stupido?!” pensò.
Ma non ritenne opportuno informare Alam del suo sconcerto, così chiuse gli occhi e si rimise a pensare ad una scusa plausibile da fornire ai genitori. Il viaggio stava per volgere al termine.
Almeno quella parte.
 
Non aveva avvisato del suo ritorno, quindi non si aspettava nessuno alla stazione.
Alam si chinò a prenderle la borsa, che lei aveva poggiato sulla piattaforma; nemmeno se ne accorse, perché era concentrata ad abbracciare quel luogo conosciuto con lo sguardo. Non lo faceva da molto... quando tornava a casa, non si soffermava mai a osservare quel panorama lievemente collinare, così statico e calmo nel suo ondeggiare sul verde.
«Anghel.» la strattonò Alam.
Era il primo pomeriggio e il sole doveva infastidirlo particolarmente, dal momento che il suo volto così insondabile era solcato da piccole rughe sulla fronte.
«Sì, adesso andiamo.»
«No, andiamo via! Non va bene qua!» sbottò lui, improvvisamente. «Prendiamo il treno.»
«Devo vedere i miei genitori, Alam! Te l’ho già spiegato!»
 
***
 
Adesso lei era infastidita, sapeva di aver fatto qualcosa di sbagliato, ma proprio non avrebbero dovuto trovarsi lì. L’aria era pesante, si era abbattuta sulle sue spalle non appena aveva posato il piede giù dal treno.
L’aria odorava di sangue...
Si guardò attorno, inquieto.
«Alam, sbrigati per favore!»
Si era allontanata da lui, non di molto certo, ma sufficientemente da preoccuparlo. Si affrettò verso di lei e la guardò dritto negli occhi.
Stava per accadere qualcosa.
Aprì la bocca per dirglielo, per farle sapere che da lì dovevano assolutamente scappare il più in fretta possibile!
«Non ho voglia di sentirti protestare adesso, Alam! So che t’infastidisce la luce, ma è essenziale per me tornare a casa ora! E, almeno che non stiano arrivando quei due vampiri, cosa di cui dubito dato che difficilmente hanno più di mille anni, non intendo andarmene!»
Alam richiuse la bocca, stordito.
Dannato giorno!” pensò.
Non riusciva a riflettere normalmente, se ne era accorto il pomeriggio precedente. Le informazioni visive ed uditive erano troppe e troppo forti. La luce lo lasciava intontito, come quando beveva troppo sangue pieno d’alcool. Era sufficiente il sopraggiungere della notte perché tutte le sue capacità tornassero a funzionare in modo normale... il sole non era naturale...
Ma non poteva evitarlo, almeno per ora. Anghel aveva ragione, i due vampiri che davano loro la caccia non si spostavano durante il giorno. Aveva senso sfruttare quel loro vantaggio. Stavano uscendo dalla stazione, Alam non aveva trovato una motivazione valida per trattenerla, perché l’aria aveva quell’odore pungente e stimolante di sangue umano, ma non vi era traccia alcuna dei loro aggressori.
La seguì per le strade del paese. Le ricordava bene, tutto era rimasto uguale come quella notte di undici anni prima.
«Alam... Alam affrettati!» sbottò Anghel improvvisamente.
Nella sua voce una nota tremante.
Si erano avvicinati a casa sua, ricordava il viale alberato con le case di tre o quattro piani che si affacciavano pigre sulla strada.
L’odore di sangue sempre più intenso.
Non dovremmo essere qui...” pensò.
Fame.
Quell’odore era troppo buono per lui, un profumo che invogliava l’appetito. Si fermò e chiuse gli occhi un istante, per riuscire a concentrarsi. Anghel gli aveva detto che i suoi occhi cambiavano colore quando aveva voglia di bere sangue e che questo si notava di più alla luce del giorno, doveva riprendere il controllo e riportare i suoi occhi alla dimensione normale.
«Alam!» gridò Anghel.
Aveva paura. Molta. Non era la stessa voce che le aveva sentito a Padova, quando erano stati attaccati, c’era qualcosa di diverso in questa paura.
Aprì gli occhi per vederla correre verso il condominio in cui c’era il suo appartamento. L’odore di sangue... da lì, proveniva inconfutabilmente da lì...
«Fermati!» gridò.
Troppo tardi, era già entrata nel palazzo. A lui non restò che andarle dietro, cercando di essere il più veloce possibile, giorno permettendo.
Dannazione!”
Se fosse calato il buio, allora sì che poteva raggiungerla in un lampo e bloccarla. Impedirle di salire quelle scale.
Troppo tardi.
Era entrata nel portone principale, senza aspettarlo. Rimase sbarrato fuori, nessuno lì nei dintorni che potesse invitarlo a entrare.
Sempre più forte... sangue...
 
***
 
Non era stato immediato, aveva dovuto percorrere tutto il viale che conosceva a memoria prima di notarle... era stato necessario arrivare fin sotto le finestre di casa sua per accorgersi del gelo e del silenzio che pervadeva l’aria.
Alam non sbagliava, non sbagliava mai! Doveva ricordarsene, sempre! Alam non le avrebbe detto di fermarsi se...
I sigilli... neri e gialli, proprio sul portone d’ingresso... sigilli spezzati, ma che ancora svolazzavano nell’aria, così sgargianti sul verde intorno. Li aveva visti, dall’ambulanza, undici anni prima. Stesi attorno al tombino da cui era scesa, così brillanti sotto le braccia di suo padre mentre tentava di proteggerla col proprio corpo da tutto il mondo.
Le finestre buie... troppo buie... cocci di vetro sotto quella del salone...
Era corsa in cima alle scale, senza parlare, senza capire.
La mente vedeva chiaramente la scena che si sarebbe parata davanti a lei, chiara e precisa. Sarebbe entrata in casa, come una furia disperata, per trovare suo padre seduto col giornale e le pantofole penzolanti dai piedi. Sua madre sarebbe uscita dalla cucina, asciugandosi le mani con uno strofinaccio, perché a quell’ora puliva i piatti e poi tutta l’intera stanza! L’avrebbero guardata, increduli di vedersela comparire in casa senza preavviso, dopo due settimane in cui non faceva avere sue notizie. Le avrebbero chiesto cosa fosse mai successo! E lei si sarebbe messa a piangere a dirotto, lasciando crollare quella stupida e insensata paura, e l’avrebbero abbracciata e avrebbero riso. Poi sua madre avrebbe pianto con lei, dicendole che era una sciocca.
Sì, sarebbe andata così.
«Anghel..? Anghel, sei proprio tu?»
Anghel era ferma, immobile davanti alla porta di casa, le chiavi tintinnavano tra le mani tremanti, guardava senza vederli gli infissi della polizia. Si voltò automaticamente.
«Signora Laura...» balbettò, riconoscendo la vicina di casa.
Aveva il volto trasfigurato, gli occhi gonfi e arrossati, era deperita come se non mangiasse da giorni.
«Anghel... entra, entra in casa mia, bambina...» balbettò la vecchia, accennando alla porta aperta su un piccolo corridoio pieno di ceramiche colorate.
«Devo... devo andare a casa... mi stanno aspettando...» provò a dire, senza troppa convinzione.
«Oh, bambina... non ti abbiamo trovata al cellulare...» disse la donna, la voce rotta dal pianto.
«Laura! Laura, chi è? Se sono giornalisti, mandali via!» una voce pesante, maschile, al di là dell’ingresso chissà dove, chissà in quale camera.
«Giovanni...» chiamò la donna.
Il marito apparve poco dopo sulla porta, bloccandosi nel vedere la figura piccola e pallida di Anghel con le chiavi tra le mani e lo sguardo assente. Fu un istante. Prese subito la situazione in mano e, sorpassando la moglie, strinse Anghel per un braccio e la portò di peso dentro la propria casa.
«Dov’eri, ragazza mia? Dove sei stata in questi ultimi giorni?» le chiese, accorato.
«Ero fuori Padova, con un amico... per la tesi... abbiamo spento i cellulari per non essere raggiungibili... appena ho potuto son tornata qua...» balbettò, cercando di mettere insieme la scusa che si era inventata per i suoi in treno.
«Siediti, bambina, siediti... Laura, preparale una tazza di tè!» gridò poi, rivolto alla donna ancora paralizzata in ingresso.
Anghel la sentì trascinarsi fino in cucina, tirando rumorosamente su col naso di tanto in tanto.
Nel salotto calò il silenzio fino a quando Lauts non rientrò con tre tazze fumanti. Anghel lasciò la sua sul tavolino basso e guardò il suo vicino di casa dritto negli occhi. Lui e sua moglie vivevano da sempre accanto a loro, si erano presi cura di lei come nonni dopo la morte di Alex, lei sapeva che non le avrebbero celato nulla.
«Dove sono i miei genitori?» sussurrò.
«Anghel...» rispose lui, tenendo il capo chino per sfuggirle.
«Niente favole, questa volta. Per favore.» aggiunse.
Non voleva sentire altro che la nuda verità, priva di tutti gli abbellimenti che una qualsiasi religione poteva offrire per sfuggire alla paura. Gliene avevano raccontate tante, dopo la morte di Alex. Non voleva sentirle ancora.
«Bene, Anghel. Tre notti fa... noi non eravamo in casa, avevamo una cena con vecchi amici. Al nostro ritorno l'intero condominio era sigillato e c'erano poliziotti ovunque; giù all'ingresso, abbiamo incontrato la signora Bronzetti, del primo piano. Ci ha detto di aver sentito una colluttazione molto veloce, provenire da casa tua, e un grido... tua madre.... ha gridato... Ci disse di aver chiamato subito la polizia, ma di non aver osato salire per controllare. Poi ha sentito il rumore di vetri infranti e... È anziana e quindi... comunque! La polizia ha trovato la porta di casa tua era spalancata. Nell’ingresso... nell’ingresso c'era tuo padre, riverso a terra... mentre tua madre era … sull’uscio del salotto... Anghel... hanno fatto... hanno fatto quel... ma era...»
«Basta!» Anghel chiuse gli occhi, le mani strette spasmodicamente ai poggioli della poltrona. «Va bene così... basta...»
«Anghel... abbiamo provato a contattarti. Sono anche venuti a casa tua a Padova, senza trovarti... una tua coinquilina ha detto che non c’eri e i carabinieri hanno fatto sapere che sarebbero ripassati loro...» sussurrò Laura, tra le lacrime.
Sicuramente Claudia... è l’unica che non ho incontrato... altrimenti perché non dirmelo?” pensò.
«Dal momento che non ti trovavamo, abbiamo pensato noi a tutto...» sussurrò Giovanni.
«Il funerale?» domandò apatica lei.
«Non c’è stato ancora. Vedi, cara, devono... devono svolgere l’autopsia... ci... ci sono molte cose poco chiare...»
«Cose cosa?» domandò schietta, infastidita dal tono lamentoso della signora Laura.
«I corpi... erano dissanguati quasi completamente, Anghel. Tuo padre era morto già quando la polizia è arrivata. Tua madre durante tragitto sull’ambulanza...»
Anghel annuì. “Vampiri...” l’avevano attaccata, distruggendo i suoi familiari più prossimi. “Per la successione del ruolo di tamer di Alam...”
I pensieri si susseguivano nella sua mente con una chiarezza e una limpidezza provocati dall’apatia del momento. Era così semplice, del resto... nel frattempo, il signor Giovanni proseguiva nella sua spiegazione dell’accaduto.
«Ma dal momento in cui la signora Bronzetti ha chiamato la polizia, dai primi rumori insomma, a quando hanno fatto irruzione... bè... era passato troppo poco tempo... non... non ci si capacita di come sia potuto accadere che siano stati...»
«Dissanguarli...» concluse Anghel per lui.
Giovanni annuì, pallido per lo sforzo di ricordare, ancora terrorizzato dall’accaduto. Anghel lo guardò come se fosse stato lontano da lei. Si sentiva come appartenente ad un altro tempo e luogo, ad un’altra epoca, lì in visita... poteva vedere le persone dietro un vetro opaco e satinato, indistinte figure bigie e piccole nella loro vita piatta.
«Sì... poi erano cosparsi di morsi, come se ad aggredirli fosse stata una banda di animali, un branco di cani... non so... è stato...»
«Va bene così, signor Giovanni. Ha fatto anche troppo.» sussurrò, sfinita, Anghel. «Dovrò... dovrò andare alla polizia, suppongo...» lo aveva fatto anche undici anni prima.
«T’accompagno, se vuoi!» si propose lui, il desiderio di rendersi utile, di non sentire il peso del dolore che vedeva su Anghel doveva essere eccessivo.
Undici anni prima erano stati molto vicini a loro, dopo la scomparsa di Alex. Non avevano mai avuto figli. Quando suo fratello era ancora vivo, spesso andavano a casa loro, a merenda, a guardare la televisione o a giocare. Nel periodo successivo al ritrovamento del cadavere di Alex lei, che non voleva nessuno accanto, non voleva nessuno che pretendesse il posto che Alex aveva avuto nella sua vita, era riuscita a sopportare la loro compagnia, a trarne beneficio. Erano le uniche persone, in effetti, che aveva accettato accanto. Ora, però, era diverso.
«Non è necessario... voi... avete già pensato a tutto?» domandò lei, guardando finalmente negli occhi i suoi due ospiti.
Annuirono, lentamente, come se temessero di farla scoppiare da un momento all’altro. In effetti, doveva apparire loro come una bomba in stasi, pronta a trascinarli nella propria esplosione da un momento all’altro.
«Sì... sì, abbiamo già organizzato anche la cerimonia funebre... e anche per... per la sepoltura è tutto pronto... vicino a...»
Vicino ad Alex.”
«Perfetto... vi risarcirò tutto, ovviamente...» sussurrò. «Ma devo chiedervi, ancora, di occuparvene voi... personalmente...»
«Certamente, cara! Faremo tutto noi, puoi starne tranquilla!» esplose Laura, abbracciandola tra le lacrime così difficilmente trattenute.
Anghel ricambiò l’abbraccio, senza sentire effettivamente le proprie braccia muoversi, senza nemmeno percepire la presenza di un corpo estraneo sopra il suo.
«Ora è meglio che vada... che vada alla polizia... io... mi farò sentire sicuramente! E vi ridarò tutto quel che avete speso!»
Cercarono di fermarla. Inutilmente, com’era ovvio. Anghel non li vide nemmeno quando li salutò; né badò alla porta sigillata mentre ci passava accanto. Scese lenta le scale. La sua mente calma stava ragionando e dentro di lei alcune certezza stavano delineandosi. Certezze oggettive, dati razionali. Erano stati lì. Non potendo avvicinarsi a lei ed eliminarla direttamente a causa della presenza di Alam, si erano avventati sui suoi genitori. In questo modo avevano eliminato almeno un possibile tamer... legami di sangue per linea diretta... sua madre o suo padre... non potendo saperlo con esattezza, per non correre pericoli, avevano eliminato entrambi. E dal momento che non aveva altri parenti stretti in vita, ora la linea di successione avrebbe saltato la sua famiglia diretta.
Doveva andare dalla polizia, lasciare la deposizione, ascoltare quel che avrebbero detto e poi sparire con Alam.
ALAM!”
Se ne ricordò solo al portone d’ingresso! Non l’aveva invitato a entrare! Ecco che cosa le mancava!
Alam era là, seduto sui gradini con una mano poggiata sulla guancia. Ad aspettarla. Un cane legato a lei da un guinzaglio invisibile, accanto alla gabbietta del suo gatto che egoisticamente non aveva osato abbandonare a Padova. Appena varcò il portone, il vampiro alzò la testa e rimase immobile ad aspettarla.
«Devo chiederti un favore...» sussurrò.
L’espressione di Alam non cambiò minimamente. La guardò senza capire cosa mai lei volesse dire, inconsapevole di tutto; il suo bambino da proteggere, da nascondere al mondo, impedire che gli venisse fatto del male... che venisse fatto anche a lui...
«Andiamo a cercare un posto per riposare, Anghel.»
 
***
 
Lo aveva lasciato da solo, sotto il sole. E lui non sopportava il sole.
Fortunatamente erano passate pochissime persone nel lasso di tempo impiegato dal suo tamer per tornare, nessuno poi aveva prestato particolare attenzione a lui. Sapeva come rendersi quasi invisibile, come conformarsi all’ambiente in modo da non suscitare attenzione. Certo, era la prima volta che doveva farlo alla luce del sole e quindi non era sicuro di riuscirci al meglio, ma apparentemente aveva funzionato! Nessuno si era avvicinato a lui così tanto da vederne le iridi scure riempire interamente il suo occhio, nessuno aveva sentito i rantoli della fame che quel profumo così intenso gli causavano. Nessuno aveva percepito la sua aria predatoria e si era insospettito.
Bene... Bravo Alam!” si disse.
Stava migliorando. Fino a qualche giorno fa non avrebbe avuto molti pensieri in proposito. La fame era forte, un modo per cacciare senza insospettire nessuno sotto i raggi del sole lo avrebbe sicuramente trovato; ma Anghel gli aveva detto di non farlo, e lui doveva dar retta a lei. Gliel’aveva spiegato, del resto: non poteva permettersi di essere scoperto e alla luce del sole era più debole e più vulnerabile che di notte. Il sole lo intontiva.
Quando la vide uscire dal portone, capì subito che qualcosa non andava. Anghel aveva cambiato espressione, era diversa, ne aveva assunta una nuova che mai le aveva visto dipinta sul viso. Non sapeva cosa fosse. Si era avvicinata a lui con foga, forse stava controllando che lui non avesse fatto nulla di sbagliato o avesse agito di sua iniziativa senza averla consultata. Ma sul volto non vi erano particolari espressioni di paura o rabbia o preoccupazione, queste gliele aveva mostrate molto bene e lui le ricordava perfettamente.
Era un volto diverso. Gli occhi scuri sembravano opachi, lontani... no, non lontani... vuoti. E il suo corpo sembrava muoversi senza controllo, in autonomia. Poi gli disse qualcosa che non capì bene.
«Devo chiederti un favore...»
La voce rispecchiava perfettamente ciò che aveva negli occhi in quel momento. Niente. Cosa mai era un favore? Non capiva bene... non capiva neanche cosa fosse successo. Tutto quel sangue lo stava annebbiando... fortunatamente per lui qualche nuvola scura si stava addensando sopra di loro e copriva la luce, quindi riusciva a ottenere una lucidità quasi decente, sufficiente per fargli dire:
«Andiamo a cercare un posto per riposare, Anghel.»
In realtà lo disse per se stesso. Era stanco di tutto quel viaggio in treno, della luce, della fame, del sangue che non poteva assaggiare. Però, pensandoci dopo, anche ad Anghel serviva un po’ di riposo. Sembrava dormire in piedi, con gli occhi spenti ma aperti e gli arti con una volontà propria. Doveva essere evidentemente stanca.
Annuì e si lasciò trascinare da Alam. Ora era lui a guidarla per il paese, conducendola nella campagna circostante, deciso a portarla nell’ultimo rifugio che si era costruito quando la teneva d’occhio lì. Era una piccola cava, proprio a qualche minuto di cammino dal paese.
Per arrivarci, però, ci misero quasi un paio d’ore. In effetti, lui ci metteva qualche minuto, di notte, correndo rapido. Non aveva tenuto conto delle difficoltà momentanee in cui si trovava. Fortunatamente, però, il rifugio era ancora intatto. Nessuno lo aveva scoperto.
Sistemò il sacco a pelo per terra mentre Anghel rimaneva immobile sulla soglia della cava e osservava tutti i suoi movimenti. Era piuttosto fastidioso, quel suo sguardo. Si sentiva sotto controllo, ma al contempo era come se lei non lo stesse veramente guardando. Quindi si sentiva anche ignorato. Avrebbe preferito che lei non ci fosse.
«Stenditi.» le disse, indicandole il letto improvvisato.
Anghel fece come le era stato detto e si lasciò cadere a terra. La osservò dall’altro angolo della grotta. Era curiosa... rimaneva immobile, con lo sguardo dritto al soffitto umido e gli occhi aperti, un respiro regolare, ma talmente piccolo da essere quasi invisibile. I capelli sciolti si erano sparpagliati tutto attorno a lei, anche sul volto. Ma non se li spostava, li lasciava lì come se non ci fossero realmente, o meglio, come se a non esserci fosse lei. Le mani, poi, le teneva lievemente scostate dal corpo, inermi.
Immobile.
Non sbatteva nemmeno le palpebre.
Alam piegò la testa di lato, osservando la strana angolazione delle sue gambe, non allineate ma piegate, come se fosse stata una bambola buttata a terra, un panno vecchio, qualcosa di usato che ora andava gettato via perché inutile.
Sembra morta...” pensò.
Un brivido freddo percorse la sua schiena e, con un gesto rapido, scrollò le spalle per togliersi di dosso l’ultimo pensiero. Quindi distolse lo sguardo, sentendo improvvisamente alla bocca dello stomaco un bruciore intenso e per tutti i muscoli del corpo una scarica elettrica particolarmente fastidiosa.
Non appena la sua mente venne svuotata dall’immagine di lei così immobile, chiuse gli occhi e si addormentò.

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Capitolo 11
*** All'interno ***


 

 10. All'interno


«Alam...Alam, svegliati! Devi fare una cosa per me.»

 

Qualcuno lo scrollava per una spalla e lo allontanava dal buio del sonno, da un incubo fatto di cenere e fiamme. Non ricordava molto di quel sogno, solo un’impressione... rosso... tutto attorno a lui... rosso e grida indistinte... e un pianto silenzioso, un volto di donna che piangeva... e poi nero...
Non sognava spesso. In realtà, ora che ci pensava, era la prima volta che gli succedeva da che ricordasse. Scrollò le spalle, mettendosi seduto.
«Ho fame.» sospirò, parlando a se stesso.
«Alam, ascoltami ti prego!» sbottò Anghel, scuotendolo malamente.
Si ricordò allora di non essere solo e, finalmente, si rivolse al suo tamer.
«Devi fare una cosa per me...» balbettò Anghel, una volta accertatasi di avere la sua attenzione.
Alam annuì, ma subito aggiunse:
«Prima mangio.»
E subito uscì dalla cava, lasciandola lì a osservare il terreno su cui un attimo prima si trovava lui, un nugolo di polvere smossa. Conosceva bene quei luoghi. Non vi aveva mai cacciato, perché si trovavano solo delle fattorie e agriturismi: difficilmente poteva passare inosservata la sua presenza. Ma ora sapeva fermarsi, poteva cacciare anche due o tre prede senza ucciderle. Poi sarebbe tornato nella cava da lei.
Si appostò lungo il muro della prima casa che incontrò. Era sera, ora di cena. Sentì i suoni tipici degli umani a tavola: tintinnii, qualche brusio di sottofondo, voci che si alzavano di tanto in tanto, a volte aggressive, a volte divertite.
Guardò oltre la finestra: una cucina rustica, quattro persone, quattro prede appena rifocillate, appesantite, lente... Alam si passò la lingua sui canini, lo sguardo perso su quella pelle delicata da donna, così dolce, e quella nervosa e tonica del giovane... così elastica... piegò il capo di lato, sentendo le sue pupille dilatarsi.
Doveva solo far uscire almeno uno di loro, uno qualunque andava bene.
Di scatto si girò di lato, insospettito da un fruscio. Subito un ringhio profondo, seguito a breve da un ululato e un forte abbaiare. Alam guardò il cane, legato alla catena. Era molto grande, forse gli sarebbe bastato per un po’: anche se non era sangue buono come quello umano, poteva essercene a sufficienza per saziarsi quel tanto che gli serviva per recuperare Anghel e andare in paese.
Scoprì i canini e si acquattò, dalla sua bocca fuoriuscì un rantolo. La bestia cominciò a ritrarsi ringhiando e guaendo... terrore... saporito quasi quanto il sangue, così inebriante... aprì ancora di più le sue fauci... la bestia e la preda... “La mia preda...” sibilò una voce dentro di lui e sogghignò pregustando il pulsare della vena del cane nella sua bocca.
«Chi c’è?» gridò una voce dietro di lui.
Ma che ti succede, stupido Alam?” pensò. Stava prestando poca attenzione, era distratto! Andando avanti di questo passo metteva in pericolo sia lui che Anghel!
Pensa!” s’impose, nascosto tra le ombre.
«Mi scusi! La mia macchina ha forato a pochi chilometri da qui. Mi permette di fare una telefonata?»
Che cazzo di scusa è? Non puoi far di meglio?!” si disse, subito dopo aver pronunciato quelle parole. Era rimasto in penombra, il cane appiattito e ringhiante a pochi passi da lui, il giovane davanti alla porta d’ingresso, un’esemplare sui vent’anni... aveva la sua stessa corporatura, forse un po’ più grosso di spalle, poco agile. Ma se fosse rientrato in casa non avrebbe potuto far molto per fermarlo senza rischiare di farsi scoprire. E se ora lo avesse visto in faccia, non avrebbe avuto molte alterative, avrebbe disobbedito ad Anghel... vide la paura sul volto del giovane umano, quel terrore inappagabile che così spesso aveva visto fugacemente negli occhi delle sue vittime, la paura di non sapere, il sentore di pericolo... puro panico che non riuscivano a spiegarsi fino a quando non capivano. E quando succedeva, era sempre troppo tardi. Il giovane scrutava nell’oscurità, certamente per capire chi si nascondesse nell’ombra, e certamente percepiva, seppur vagamente, il pericolo. Ma doveva essere un sentore vago, indistinto, una paura inspiegabile sufficientemente forte da farlo titubare, non così intensa da permettergli di scappare.
Appostarsi così, invitare la vittima a uscire o indurla a permettergli d’entrare nella propria casa non era il suo modo di procacciarsi il cibo... lui piombava dall’alto e assaliva subito. Era più semplice, nessuno sforzo per cercare di convincere le prede a ignorare il proprio istinto e avvicinarsi a lui!
Il giovane era decisamente poco convinto della sua storia, lo vedeva tentennare sulla porta.
Dannazione! Non ho tempo per cercare altrove!” pensò Alam. Fece un piccolo passo avanti, il volto in penombra in modo che non si notassero né i canini né gli occhi.
«Senta, non vorrei sembrarle scortese, ma ci sono stati degli strani avvenimenti da queste parti, nelle ultime notti. Mi spiace, ma non posso proprio...»
Rapido, Alam superò in meno di un secondo la distanza che li separava. Aveva colto l’esatto istante in cui un braccio del ragazzo si era sporto fuori dall’uscio mentre gesticolava e l’aveva trascinato via dalla casa, portandolo tra le ombre degli alberi, una mano stretta attorno al braccio, l’altra sulla bocca. Non che servisse, poi: era così spaventato e scioccato dalla velocità con cui tutto quello era successo da non aver certamente parole! Non poteva esser troppo prudente come voleva Anghel, ora. Si era spinto troppo in là.
Azzannò la gola del giovane.
Proprio come aveva immaginato... carne forte... muscolosa... e la vena era proprio lì, pulsava. Il liquido caldo gli scorreva lungo la gola, esaltandolo. Arrivò nel suo stomaco e glielo riempì completamente, ristorandolo. Le mani della sua preda le sentì agitarsi attorno al suo corpo. Lo aveva steso a terra e tenuto fermo, puntellandolo con le gambe mentre con le mani gli tappava la bocca e gli teneva girato il volto in modo da mostrargli bene la pelle. Lo sentì il punto di non ritorno, l’attimo esatto in cui doveva bloccarsi...
Lo sentì così chiaramente che per un istante stava per staccarsi e lasciarlo andare, mentre l’istante successivo stringeva nuovamente la mascella attorno alla ferita da cui ancora fuoriusciva sangue.
«Alberto? Alberto! Dove sei finito?» dalla porta della casa uscì un uomo.
Doveva essere il padre.
Alam si staccò dal corpo di Alberto. Il giovane ormai lo guardava senza vederlo, gli occhi già vitrei, la morte si impadroniva in fretta di ogni involucro vuoto.
Alzò gli occhi verso il padre della sua giovane preda. Ora che si era nutrito, in effetti, quella carne così in là con l’età non era appetitosa, ma lui aveva ancora un po' fame e non aveva molta voglia di girare per la campagna in cerca di nuove case.
Si appostò dietro un albero in attesa. Sentiva i passi frenetici dell’uomo avvicinarsi sempre di più, la voce sempre più forte e tremante. Capì che doveva aver visto il corpo del figlio perché una nota stridula risuonò nell’ultimo “Alberto” che udì.
E poi lo vide, sbucò da dietro un albero, un fucile in una mano e nell’altra una torcia elettrica. “Chissà a che gli servirà il fucile...” si domandò Alam, incuriosito. Ma non riteneva opportuno fermarsi a chiederglielo direttamente; non doveva essergli poi così utile, dal momento che non appena scorse il corpo del ragazzo gettò l’arma a terra e si chinò verso di lui. Una reazione che Alam non capì, in effetti: perché chinarsi e rinunciare così a una pronta fuga? Era un’azione priva di senso e di logica; sarebbe stato più saggio imbracciare l’arma, che sembrava dargli una qualche sicurezza, e poi rimanere in allerta. Così era finanche troppo semplice per lui.
Balzò fuori dal suo nascondiglio senza nemmeno dare all’uomo il tempo di rendersi conto di ciò che accadeva attorno a lui. Lo morse, bloccando immediatamente il grido di sorpresa e terrore che stava per uscire dalla bocca dell’uomo.
Niente a che vedere col sangue fresco della prima vittima! Avrebbe fatto meglio a nutrirsi prima dell’uomo maturo, tenendosi il meglio per ultimo. Ora avrebbe avuto per tutta la notte in bocca il sapore amaro di quel sangue duro e insipido.
Del resto, doveva riempirsi lo stomaco più che poteva: lui ed Anghel erano in fuga, tutte le volte che poteva nutrirsi doveva approfittarne al massimo per evitare di rimanere privo di energie nel caso di uno scontro.
Quando sentì la nausea salirgli alla gola, capì di essere più che sazio e lasciò la presa sull’uomo. Il corpo cadde privo di sensi su quello del ragazzo. Controllò il polso a entrambi: debole ma presente, percepì il battito dell'uomo... bene, almeno uno dei due era vivo. Poteva ritenere di aver rispettato almeno in parte il volere di Anghel! Ora doveva solo fare in modo che lo trovassero e lo soccorressero.
Certo che era più facile la caccia a modo mio...” pensò. Guardò il fucile e, sospirando annoiato, sparò due colpi in aria.
Sentì gridare qualcosa, senza capire cosa, mentre si allontanava di gran fretta, diretto alla cava per tornar da Anghel.
 
***
 
«MI HAI LASCIATA SOLA! Come hai potuto, Alam? Dannazione! Dove sei stato?» gli urlò contro, non appena lui fece ritorno alla cava.
L’aveva lasciata lì, a guardare una nube di polvere e calcinacci, era semplicemente sparito. Aveva fame ed era andato a mangiare. Lasciandola lì! Lei! E ora ritornava con quella maglia così... così... così sporca di sangue umano... come aveva potuto?
«Hai ucciso qualcuno?» domandò glaciale.
Alam era immobile, di fronte all’ingresso, le braccia abbandonate lungo il corpo, il volto inespressivo piegato di lato, la bocca sporca, il sangue ancora che colava sul mento e sulla maglietta. Al vederlo così ebbe un giramento di testa e un conato di bile le salì in gola. Indietreggiò.
Nella mente mille immagini.
«Anghel...» la voce inespressiva di Alam, lo vide muoversi verso di lei in mezzo a quel bagliore rosso e nero.
«Stammi lontano!» gridò, agitando un braccio per impedirgli di venirle accanto.
Lui si fermò subito, ma quel che lei vedeva non si bloccò con altrettanta facilità. La cava si tinse di rosso e divenne uguale alla fogna in cui aveva trovato Alex; e Alex la guardava con le braccia legate sopra la testa e la bocca aperta, che vomitava sangue. E subito, accasciati ai suoi piedi, sua madre e suo padre... e una gola squarciata, gli occhi vitrei della donna che Alam aveva ucciso davanti a lei, la bocca storta in un grido silenzioso... e sangue... ovunque.
Si tenne la testa tra le mani, scuotendola e massaggiandosi gli occhi, per non vedere. Ma le immagini non sparirono. E la tormentarono fino a che non vomitò.
«Anghel?» la chiamò Alam, oltrepassando la cortina di nebbia che quell’immagine le aveva lasciato nella mente.
«Non avvicinarti a me, finché non ti sarai pulito...»
L’ombra scura di Alam si bloccò proprio alle sue spalle. L’immaginava perfettamente, la sua faccia da bambino col capo reclinato in cerca di spiegazioni, lo stesso modo di inclinare la testa che aveva quando azzannava le sue vittime... come probabilmente aveva fatto anche quella sera...
No, non poteva sopportarlo.
Lo sentì armeggiare con la borsa alle sue spalle e poi fermarsi di nuovo dietro di lei senza parlare.
«Sei pulito?» chiese, titubante.
«Sì. Mi son cambiato la maglietta. Presto avrò bisogno di nuovi vestiti.» e mentre diceva questo una luce improvvisa e un forte calore si irradiarono alle sue spalle, illuminando la parete su cui lei aveva ostinatamente fissato lo sguardo.
Doveva aver dato fuoco agli indumenti che indossava prima. Magari una volta o l’altra gli avrebbe insegnato a lavarli, in modo da non doversene procurare sempre di nuovi... chissà poi in che modo se i procurava...
«L’hai uccisa, la tua preda?»
«Ho sparato qualche colpo in aria per avvertire le persone, come mi hai detto tu...» rispose.
«Ma ti sei accertato di non aver bevuto troppo sangue?» sibilò tra i denti, reprimendo un altro conato di vomito.
Lasciò perdere l’idea di Alam che sparava, non voleva sapere i dettagli di quella caccia! Nel frattempo Alam non rispondeva. Stava sempre dietro di lei, vedeva la sua ombra sul muro, quindi non la stava ignorando, non poteva essersi dimenticato della sua presenza come accadeva alcune volte! Allora perché diavolo non le rispondeva?
Si voltò di scatto, improvvisamente arrabbiata.
«Alam! Ti sei accertato, vero? Ti sei fermato in tempo, VERO?» gridò, gettandosi quasi contro di lui, andandogli talmente vicino da sentire il suo respiro pesante sul volto.
«Penso di sì.» rispose lui.
«Cosa vuol dire pensi di sì?! Tu devi esserne certo! Non devi solo pensare di lasciarle vive, devi esserne assolutamente CERTO!» gridò, picchiandolo coi pugni chiusi sul petto.
«Ho sparato un colpo in aria e ho sentito che venivano trovati. Ho fatto come mi hai insegnato.» rispose Alam calmo.
«Tu non hai la più pallida idea di quel che potresti aver fatto... di quel che hai fatto ogni dannato giorno della tua stupida esistenza!» gli sputò in faccia lei.
Voleva imprimere nella sua voce tutta la cattiveria e il disgusto possibili. Era colpa di Alam! Se lui non fosse esistito i suoi genitori ora sarebbero ancora vivi, lei sarebbe stata a Padova a scrivere la sua tesi, a laurearsi e a continuare la sua vita normale... e forse persino il suo Alex sarebbe stato con lei... era di Alam la colpa di tutto quello! Sua, della sua stupida esistenza! Se non ci fosse stato, nessuno avrebbe cercato di divenirne il tamer ad ogni costo! Lo guardò con disprezzo e l’espressione curiosa, e al contempo distaccata, del vampiro la disgustò a tal punto che non fu più in grado di trattenersi.
Gli si gettò contro, di peso, nel vano tentativo di buttarlo a terra. Quel che ottenne fu di spingerlo lievemente contro la parete della cava ma, forse, fu lui stesso ad appoggiarvisi. Prese a picchiarlo e a tirargli calci, senza nemmeno vedere cosa o dove lo colpiva, senza nemmeno capire se era lui o la roccia il suo bersaglio. E non si accorse delle lacrime che uscirono senza ritegno, e quel che colpiva non era più un muro o Alam... colpiva il nulla...
 
***
 
Alam la lasciò fare, senza nessuna reazione, in realtà non gli stava nemmeno facendo molto male. Era strano, quel volto così distorto. Rabbia... da quel che ricordava quella doveva essere rabbia... era noiosa, fastidiosa in realtà. Poco più di un prurito alla pelle, ma non sembrava intenzionata a smettere. E ancora non capiva cosa fosse successo.
Aveva mangiato, non era certo disposto a morire di fame! Le aveva detto una mezza verità, ne era consapevole. Ma qualcosa dentro di lui gli aveva intimato di nasconderle tutta la verità. In ogni caso, lei non sapeva della morte di una delle due prede. Perché quella reazione?
Inoltre, non era solo rabbia, c’era qualcos’altro che non capiva... guardò il viso di Anghel, quasi sfigurato dalle lacrime, gli occhi rossi, i pugni chiusi e irritati dai colpi, mani non abituate a lavorare... non lo guardava in faccia e se anche l’avesse fatto con ogni probabilità non sarebbe riuscita a vederlo, con tutta quell’acqua e sale che le offuscava la vista.
Alam chiuse gli occhi, le mani abbandonate lungo i fianchi, il peso tutto addossato alla cava e il volto lievemente sollevato, in attesa che smettesse, che si esaurisse quel qualcosa che muoveva la sua tamer.
L’aria intorno a lui, improvvisamente, si fece come più fresca e sentì dentro di sé uno strano senso di torpore, quasi fosse stanchezza o... non sapeva definirla... era piacevole. Alzò una mano all’altezza del torace, lì dove sentiva caldo... una massa di capelli, morbidi sotto le dita, la sensazione più bella che potesse ricordare, più bella ancora del sangue dopo giorni di digiuno; così bella che non osò aprire gli occhi per rovinarla, per perderla. Se li avesse aperti, tutto sarebbe andato perduto. Una brezza lieve percorse il suo corpo, inaspettatamente nudo. Ma sul suo petto un peso caldo lo proteggeva dalla notte e tra le dita iniziò ad arricciare qualche ciocca di quei capelli... così familiari... così... suoi...
Alam...”
Qualcuno lo chiamava. Non era mai stato chiamato così, da quando ricordava.
Alam...”
Smetterà, se rispondi...” dentro di sé, questo fu il primo pensiero.
«Alam...»
Aprì gli occhi.
Anghel stava piangendo sul suo petto, vestito con la maglietta precedentemente indossata, e lui stava arricciandosi i suoi capelli tra le dita, creandone piccoli boccoli che subito tornavano lisci. Aveva smesso di picchiarlo e ora le mani della giovane stavano artigliando la maglietta e nascondeva il volto contro il suo petto, il corpo ancora scosso dai singhiozzi.
«Mi dispiace, Alam... mi dispiace tanto!» balbettò Anghel, senza alzare il volto. «Non è colpa tua se sono morti...» riuscì ancora a dire, prima di perdere la voce nel pianto.
Alam iniziò a collegare gli eventi della giornata precedente. Non erano ricordi molto vividi, troppo luminosi forse, la sua mente sembrava raccogliere dati al rallentatore e ogni immagine che riusciva a racimolare richiedeva uno sforzo particolare per essere inquadrata chiaramente. Troppa luce, durante il giorno, troppo torpore...
Erano andati a casa dei genitori di Anghel, lei era corsa via lasciandolo fuori dal portone, aveva visto bene le finestre rotte. E lui quelle finestre le conosceva perfettamente... e poi c’era l’odore di sangue.
Era il sangue dei genitori di Anghel, senza dubbio. Ecco perché non voleva che lei tornasse a casa.
Non ha comunque senso... che pericolo c’era mai nello scoprire la loro morte?” si chiese Alam.
Le sue mani, autonome, continuavano a giocare con i capelli di Anghel. Il suo pianto sembrava essersi esaurito ora. Si chiese se, per caso, quel contatto fisico avesse in qualche modo contribuito a farla smettere, a calmarla. E poi, quella sensazione di poco prima...
«Alam?»
Riabbassò lo sguardo. Ora gli occhi arrossati del suo tamer lo guardavano, luminosi e umidi.
«Dimmi.»
«Puoi portarmi a casa mia?»
«Certamente.»
 
***
 
Anghel rimase a lungo sotto l’abbraccio del vampiro. In realtà non era molto consapevole delle mani fredde di Alam che le carezzavano i capelli. Un battito lento, quasi impercettibile... il cuore di Alam sotto il suo orecchio, ora che si era calmata, era come una campana lontana, coperta d’ovatta. Se non fosse stata consapevole della natura del vampiro, quel suono così debole, fragile, l’avrebbe terrorizzata.
Non era una scelta di Alam, affatto... lei era il suo tamer per caso, non l’aveva decretato lui. E la sua natura non poteva essere mutata solo per un suo sciocco desiderio. Non poteva renderlo un essere umano solo perché sarebbe stato più facile. Ucciderlo non le passò nemmeno per la mente.
I suoi genitori erano stati uccisi perché qualcuno voleva invertire un ordine naturale. Alam non c’entrava, lei nemmeno.
Dopo essersi ripetuta questa frase per una decina di volte, smise di piangere definitivamente. Non era facile né mai l’avrebbe veramente accettato. Ma era sufficiente che nella sua mente si fossero impresse tali parole per permetterle di tornare sul mondo, pensare quasi freddamente.
«Portami a casa...»
Aveva in mente quell’idea da quando era uscita dall’appartamento dei suoi vicini, quel pomeriggio. Lui non fece commenti, non si oppose come aveva fatto una volta scesi dal treno: ormai nulla più poteva metterla in qualche pericolo. La caricò sulle sue spalle, come a Venezia. In qualche modo cercò di estraniarsi dal forte odore di sangue che ancora emanava, per non perdere la calma così faticosamente conquistata.
Il tragitto dalla cava a casa sua fu anche troppo breve. Alam correva veloce, il mondo spariva sotto i suoi piedi. Anghel sentiva il contatto col corpo in movimento, uno sfregare di vestiti frenetico, così forte da non lasciarle nemmeno la forza di respirare, mentre le mani forti del vampiro le sorreggevano le gambe attorno alla sua vita. Si fermò un attimo sotto il portone del condominio, giusto il tempo necessario ad Anghel per percepire i movimenti frenetici del collo di Alam, mentre si guardava attorno come per orientarsi. Subito riprese a correre dietro la casa, dove c’era un piccolo giardino. Il suo giardino. C’era un albero, lo ricordava bene. Da piccola si divertiva sempre a immaginare un mondo diverso tra i rami spogli d’inverno e le foglie in estate... l’albero su cui le piaceva immaginare lo spirito di Alex che stava immobile a vegliarla durante il suo sonno.
«Dov’è Alex?» gridò improvvisamente all’orecchio di Alam.
«Chi?» chiese lui senza fermarsi, mentre balzava sui rami dell’albero.
«Il mio gatto!» strillò lei allora, proprio mentre con uno strattone lui la faceva scendere sopra un ramo ancora sufficientemente spesso da sostenerla.
«Alla cava, insieme alle nostre borse ovviamente.» rispose lui, distratto.
Non aspettò di sentirla protestare, perché Anghel stava per protestare, invece sfrecciò ancora più in alto di qualche ramo, giusto per arrivare all’altezza della finestra della sua camera.
Fino a quando mi stupirò ancora delle sue capacità?” si chiese lei, mentre ammirava la sagoma furtiva del vampiro balzare da un ramo all’altro senza quasi far muovere le foglie. La notte era fitta, non vide chiaramente quel che stava facendo, ma sentì solo un piccolo fruscio e poi un colpo di vetri infranti. Alam riapparve poco dopo e, sempre senza parlare, la prese per un braccio e, tenendosela in bilico sulla spalla, salì nuovamente l’albero.
Proprio come King Kong...” pensò lei, sentendo le foglie e i rami sfiorarle il viso e il corpo. Le sembrò di salire per molto tempo, forse Alam stava facendo molto più lentamente per non farle male!
«Tieniti a me fino a quando non te lo dirò io.» le ordinò lui.
Anghel obbedì, anche perché in quel piccolo ramo non c’era sicuramente spazio per lei, e se anche ci fosse stato non avrebbe retto il suo peso; aveva così i piedi che danzavano completamente liberi a qualche metro dal suolo.
«Lasciami.» le disse e, sempre senza riflettere, lo lasciò andare.
Fu sicuramente un miracolo l’essersi impedita di gridare. Alam, senza troppe cerimonie, sempre stringendole un braccio, la lanciò dentro la finestra della sua vecchia cameretta, ora spalancata.
Rovinò a terra, evitando per un miracolo i ciocchi di vetro per terra. Di scatto alzò la testa e, rivolgendosi a lui, disse tra i denti:
«Ma sei impazzito?»
Alam la guardò dal ramo, appollaiato come un gufo e piegando la testa.
«Che fai lì immobile! Avanti!» gli disse ancora sussurrando e togliendosi foglie dai capelli e sistemandosi per quanto possibile.
«Devi invitarmi.» disse lui.
Se ne era completamente dimenticata... dopo aver ricevuto l’invito, Alam s’infilò agile e silenzioso nella finestra e atterrò con grazia sul pavimento. Anghel lo guardò accigliata. Era irritante la perfetta fluidità dei movimenti di quella creatura! E umiliante anche, visto il modo assolutamente poco fine della sua precedente entrata.
Ma che razza di pensieri...”
La sua camera non era stata toccata, tutto era esattamente come l’aveva lasciato l’ultima volta: i rimasugli dell’infanzia, i libri delle superiori e alcuni dell’università, i romanzi che aveva letto e lasciato lì ad aspettarla, l’armadio con ancora alcuni poster sulle ante, poster di idoli di cui aveva perso la passione, la porta della camera con sopra un appendi abiti di legno, a forma di girasole, con una giacca e una borsa appese. La porta chiusa. Al di là di essa, il resto della casa.
Alam rimaneva immobile dietro di lei, sapeva che la stava guardando con attenzione, che non capiva perché si trovassero lì; il suo Alam che le aveva carezzato i capelli...
Dopo essersi riempita d’aria i polmoni, sperando di riuscire ad avere abbastanza coraggio per affrontare il resto dell’appartamento, aprì la porta e si diresse verso l’ingresso e il salotto. Il corridoio buio sembrava non finire più, le porte della camere di Alex e dei suoi genitori chiuse, come occhi cechi. Avrebbe voluto aprirle, rimanere un po’ di più in quella parte di casa che sembrava immobile, ferma ad un momento della storia in cui ancora tutto aveva un senso e un ordine discreto. Ma non lo fece, proseguì dritta, sentendo la presenza del vampiro dietro di lei, silenzioso, un’anomalia del suo mondo che in qualche modo doveva ora diventarne il centro. Il corridoio terminava con una porta, aperta la quale si sarebbe trovata di fronte all’ingresso.
Si bloccò, la mano tremante sul pomello di ferro chiaro, incapace di muoversi. Iniziò a battere i denti, senza nemmeno rendersene conto, e sentì le ginocchia piegarsi lentamente e cedere.
Poi, una stretta fredda ma salda sulla sua mano. Alzò lo sguardo e vide Alam, dietro di lei, la mano sulla sua, ferma sulla maniglia, il suo corpo come un puntello pronto a sostenerla.
«Anghel, non stai bene.» le disse.
Anghel spalancò gli occhi. La voce di Alam le arrivò all’orecchio come un sussurro che, pur spezzando il silenzio della casa, si amalgamava nell’ambiente in maniera perfetta, come se la voce del vampiro fosse aleggiata tra quelle mura da sempre... e quelle parole...
«No, sto bene Alam...» gli rispose.
Sapeva che non era vero e che Alam ne era consapevole, ma lo disse ugualmente, solo per sentire la sua reazione.
«Non stai bene... vuoi andare via?» le chiese.
Anghel si adagiò ancora di più contro il petto di Alam, improvvisamente certa di potersi affidare a lui pienamente. Qualcosa, in quel vampiro, le impediva di allontanarsi da lui, di non aver paura di lui, di fidarsi ciecamente. Ed era la prima volta che lui sembrava capire l’esistenza di un dolore che andava al di là delle ferite corporee e sembrava preoccuparsi anche di quel male.
«No... no, non voglio ancora andarmene. Però potresti rimanere sempre dietro di me... e tenermi la mano?»
Sentì la testa del vampiro chinarsi leggermente, in un cenno d’assenso, e contemporaneamente, lo sentì abbassare la mano con cui stringevano la maniglia. Quando la porta si aprì davanti a loro, lui, continuando a rimanerle alle spalle, le tenne stretta la mano e la seguì nell’ingresso.
Anghel non vide niente, non vide niente di quello che le era più famigliare di quell’ambiente. Tutto ciò che percepì fu la sagoma bianca di un uomo disegnata proprio davanti alla porta d’entrata. La sagoma di suo padre...niente sangue... solo qualche goccia caduta che si confondeva nel buio della notte. Come in un sogno voltò la testa verso la porta del salotto e si diresse verso quella stanza, Alam dietro di lei le permetteva di mantenere un contatto col mondo, le impediva di urlare. Non accese nessuna luce, la finestra era ancora aperta, coi vetri rotti e le tende stracciate. E la sagoma di sua madre bianca splendente contro il pavimento, proprio sull’ingresso del salotto.
Riusciva a vederli, immobili davanti a sé, morti, i volti contratti in una maschera di paura e incredulità. Gli stessi volti delle vittime di Alam... avevano agito in fretta, dovevano essere in due. Uno aveva attaccato suo padre, all’ingresso. L’altro sua madre.
«Come saranno entrati?» chiese Alam, più a se stesso che a lei.
Già... perché suo padre gli aveva invitati a entrare? Due sconosciuti in piena notte... non sarebbe mai successo. Non era mai così sconsiderato. Doveva conoscerli... e come poteva suo padre conoscere dei vampiri? Forse conosceva i tamer. Questo voleva dire che se un tamer è invitato a entrare anche il vampiro di conseguenza può avere accesso alla casa? Era assurdo! Alam sarebbe potuto entrare liberamente con lei, allora!
No... molto probabilmente i tamer erano conoscenti della famiglia e dovevano essersi presentati due umani alla porta di casa sua, assieme ai due vampiri. E suo padre avrà esteso l’invito a entrare a tutti....
Di notte....
Molto strano...
Amici di suo padre o di sua madre. Non aveva la più pallida idea di chi cercare.
Quel pensiero la sorprese. La sua mente ancora non aveva raggiunto la consapevolezza di quel che avrebbe fatto da quel momento in avanti. Ma il suo corpo sembrava esserci arrivato prima di lei: avrebbe cercato gli assassini dei suoi genitori, a tutti i costi! Era praticamente certa che fossero le stesse persone che avevano dato la caccia a lei e ad Alam. E qualcosa le diceva che su di loro ricadeva anche la responsabilità della morte di Alex.
Alam le lasciò la mano e si diresse verso la porta e la sagoma bianca di sua madre, chinandosi lievemente verso alcune piccole chiazze scure sul pavimento, che prima lei non aveva notato. Passò delicatamente una mano sul marmo del salotto e se le portò al naso, emettendo un lieve sibilo nell’annusarsi le dita.
«Hanno agito molto in fretta.» commentò apatico.
«Pensi che per un vampiro sia possibile dissanguare la persona velocemente?» domandò lei, cercando di mantenere un tono distaccato.
«Penso di sì. Non ha comunque senso!» sbottò improvvisamente.
Anghel alzò lo sguardo su di lui. Alam la guardava con la fronte corrucciata e lo sguardo sperso di un bambino che non riesce ad afferrare un concetto fondamentale.
«Per la tua successione, Alam. Stanno uccidendo tutti i possibili futuri tuoi tamer, in modo che, dopo di me arrivi la persona “giusta”... dal momento che mio fratello è morto, uno dei miei genitori sarebbe stato il tamer successivo. Che io sappia, poi, non ho altri parenti stretti in vita: zii non ne ho e i miei nonni son morti. Chissà ora quale linea familiare prenderà la successione al ruolo di tamer...» sussurrò.
«Questo lo capisco. So benissimo perché hanno ucciso la tua famiglia.» disse.
Ad Anghel parve quasi irritato, come se la sua spiegazione lo avesse in qualche modo offeso... strano, effettivamente. Alam che si offendeva non aveva molto senso... secondo quel che le era stato insegnato a casa Leonardi, Alam come qualsiasi altro vampiro non avrebbe mai provato una qualsiasi emozione complessa, né l'avrebbe imitata così presto nonostante si fosse dimostrato molto precoce nell’apprendere alcune delle cose che già lei gli aveva insegnato! E sicuramente non vi era alcun motivo per cui lui, di fronte a lei, imitasse delle espressioni e delle inflessioni umane... forse era stata la sua immaginazione...
Era stanca, effettivamente, ed era probabile che avesse letto nelle parole di Alam qualcosa che non c’era.
«Quel che non capisco è che hanno agito quasi immediatamente, senza quasi nemmeno entrare. Tuo padre, è stato attaccato sull'uscio, non ha avuto modo di invitarli. È come se questa casa appartenesse a qualcuno dei loro tamer. Questo sarebbe possibile solo se un tuo parente stretto fosse in vita: la proprietà della casa non è solo di chi ci vive, ma è legata anch'essa al sangue...» continuò il vampiro.
«Pensi che non sia opera dei vampiri che ci danno la caccia?» domandò lei, tremando al solo pensiero.
«No, anzi! Proprio il contrario. Solo che, come hai detto, non hai parenti stretti... E questa specie di regola dell'invito non vale come per la successione dei tamer, è proprio riservata a legami di sangue umani molto stretti... dovresti avere qualcuno della parentela di primo grado in vita.»
Da dove diavolo arrivavano tutte quelle informazioni se nemmeno due giorni prima non sapeva nemmeno di poter girare sotto il sole?
Alam la guardò a lungo eppure lei ebbe come l’impressione che non la vedesse veramente, come se si trovasse altrove, come se riuscisse a scorgere cose che a lei sfuggivano. Ma non aveva voglia di soffermarsi troppo su di lui con la mente, aveva altro da fare. Non era tornata lì per vedere quel che era rimasto della sua casa, né per far luce in una notte sola su ciò che era accaduto. Doveva muoversi! Con uno scatto del capo, si girò verso la cassettiera in salotto e, aperto il primo cassetto, estrasse un quaderno ad anelli, pieno di contenitori trasparenti.
«Cosa cerchi?» le chiese Alam.
«Il libretto degli assegni e i documenti bancari. Avremo bisogno di soldi e, per fortuna, i miei genitori avevano aperto un conto al quale posso accedere anche io, per ogni evenienza... erano molto prudenti...» sussurrò.
Non impiegò più di qualche minuto per fare ciò che si era prefissata, poi, sempre aiutata da Alam, ridiscese dall’albero. Si allontanarono in fretta, ma non tornarono subito alla cava fuori città. Si diressero verso il centro. Alam si allontanò da lei per pochi minuti, per andare a nutrirsi. Lei non volle accompagnarlo e lui non insistette: nessun pericolo nell’aria, evidentemente, altrimenti non l’avrebbe di certo lasciata sola. Quando si allontanarono verso il loro rifugio momentaneo, Anghel si abbandonò completamente sulla schiena del vampiro, ignorando il suo odore pungente, affondando semplicemente nel vuoto che le opprimeva il petto.
Niente lacrime...

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Capitolo 12
*** Compagni di viaggio ***


11.Compagni di viaggio

 
«Perché ti sei fermato?» stava per chiedergli la ragazza, quando il vampiro le mise una mano sulla bocca, stringendola e scrutando le ombre attorno alla cava.
Anghel guardò il volto di Alam, proteso verso l’ingresso del loro rifugio, e vide i suoi occhi brillare nella notte, come quelli di un gatto pronto a saltare al minimo fruscio. Doveva esserci qualcuno nella cava. Lentamente la mano del vampiro lasciò libera la sua bocca e lei stette ben attenta a non produrre il benché minimo rumore mentre pensava al suo Alex, dentro la grotta, e il cuore le martellava eccessivamente forte nel petto. Alam si mosse lento e silenzioso. Se non fosse stato accanto a lei non si sarebbe mai accorta della sua presenza e dei suoi spostamenti. Vide una figura alta e sinuosa uscire dalla cava, movenze delicate contro il chiarore notturno. Una creatura che attrae e respinge per la sua bellezza fredda. Un vampiro, Anghel non ne aveva alcun dubbio. Per quanto lo stretto contatto a cui erano soggetti l’aveva abituata ad Alam, era ben consapevole dell’eleganza intrigante che lui poteva esercitare su di un estraneo. Lo stesso fascino che ora lei sentiva nei confronti della creatura che si stagliava a qualche metro da loro. E il suo cuore prese a battere ancora più forte, diviso tra il desiderio di andare dal vampiro e il naturale terrore che questo ispirava al suo istinto.
Fu un attimo. Non si era nemmeno resa conto di quanto Alam si fosse avvicinato all’altro vampiro. Dall’erba balzò fulmineo e tutto quello che gli occhi di Anghel riuscirono a registrare fu una massa scura che veniva scaraventata violentemente a terra. Senza alcun suono nell’aria. Nulla si mosse per un tempo che alla ragazza parve infinito.
Alam e il vampiro sembravano scomparsi, inghiottiti dalla terra.
E se fosse così?” si ritrovò a pensare lei per pochi istanti, improvvisamente colta dal panico. Lui era l’unico essere col quale avesse ancora un effettivo legame. Se spariva a lei cosa mai restava? Senza pensare, uscì dall’ombra in cui lui l’aveva lasciata e corse nel punto dov’era scomparso. Una facile preda.
 
***
 
Alam stringeva con forza la fragile gola della vampira. Ne aveva sentito l’odore appena in tempo. Era stata molto scaltra... in qualche modo era riuscita a non fare avvertire la sua presenza fino all’ultimo istante. Se lui non fosse stato attento probabilmente li avrebbero sorpresi proprio all’ingresso del loro rifugio, senza lasciargli possibilità di reagire.
«Cosa fai qui.» sibilò, vicinissimo al volto della femmina, tanto da sentire il profumo di erbe aromatiche con le quali doveva lisciarsi i capelli.
Ne era impregnata... come l’aveva eluso? Vento? L’aria non era smossa...
«Elemento vento...» disse ancora, guardando quegli occhi di ghiaccio fissi immobili su di lui.
«Vedo che vi siete ripreso.»
«Alam!» la voce di Anghel dietro di lui risuonò forte in quel silenzio.
Perché si è mossa?” fu il suo primissimo pensiero. Si era esposta! Un attimo di distrazione, sentì la vampira divincolarsi sotto la sua stretta, ma lui fu più rapido. Riuscì a immobilizzarla nuovamente e contemporaneamente alzò la testa. Anghel era a pochi passi da lui ormai, riusciva a vederlo.
«Anghel!» una terza voce, da dentro la cava.
Alam si volse rapido, i muscoli tesi a bloccare la femmina. Cosa fare? Liberare la vampira e prendere Anghel o fermarsi un secondo a capire cosa stava succedendo? Aveva già visto questa donna, ma non era quella che li aveva aggrediti a Padova. Dove allora? Dalla grotta uscì un giovane umano, dai capelli castani quasi biondi. Non era un vampiro, era il ragazzo che aveva visto al suo risveglio a Venezia... allora questa doveva essere la vampira della famiglia. Tornò a guardarla, sempre chino su di lei, bloccandole tutti gli arti e la gola. La bocca rossa della donna, lievemente aperta, mostrava i canini appuntiti, ma non vi era minaccia nel suo sguardo. Qualcos’altro, qualcosa di familiare.
Occhi di ghiaccio, rivestiti di lacrime...” si trovò improvvisamente a pensare, senza motivo, e lasciò istintivamente la presa.
«Bruno!» sentì Anghel dire alle sue spalle, mentre era intento a rialzarsi. «Cosa fai qui?» la voce del suo tamer, lievemente tremula.
Accanto a lui, la vampira si rialzò e si risistemò i vestiti stropicciati. Quasi come rispondendo a un segnale, tutti rientrarono nella cava. I due umani si sedettero per terra, Alam notò che per prima cosa Anghel si accertò della presenza del gatto e, per un qualche strano motivo, anche lui si sentì rassicurato dal notare che era ancora lì e che stava bene. Quindi pensò bene di andare a sedersi accanto a lei, il braccio a contatto con quello del suo tamer, per sentirne la presenza, il flusso del sangue nelle vene sotto la pelle, per controllare che stesse bene e per esser pronto a caricarsela sulle spalle e a correre lontano. Vide che la vampira, dal canto suo, si appoggiava contro la parete della cava, rimanendo in piedi, dietro al giovane. “Vuole bloccarmi la via di fuga?” pensò. Sarebbe riuscito a esser più veloce di lei? Pensava di sì; la muscolatura della femmina era ben sviluppata ma non sufficiente. E sì, lui avrebbe dovuto alzarsi, caricarsi un peso addosso e correre, mentre lei doveva solo preoccuparsi di andare verso l’ingresso della grotta. Ma in quel caso l’avrebbe facilmente spinta via...
«Jahèl... mi spiace per quel che è successo. Alam stava solo cercando di proteggermi.» disse Anghel.
Perché si scusava? Lei si scusava per molte cose e ancora non riusciva a comprenderne il motivo. Ora meno che mai. Loro due erano braccati, chiunque avrebbe agito come aveva fatto lui vedendo un vampiro di fronte alla propria tana. Non aveva senso... le premette il braccio contro il suo.
La vampira tolse per un brevissimo istante lo sguardo da Alam, per rivolgerlo a lei.
«Ha agito con cognizione.» fu tutto ciò che disse e poi tornò a fissarsi su di lui, insistentemente.
«Come siete arrivati sin qui?» fu la seconda domanda di Anghel.
Altrettanto inutile, quasi come le scuse. Era più che ovvio! Erano scappati da Venezia, li dovevano aver seguiti a Padova e, non trovandoli lì, si erano sicuramente diretti nel secondo luogo dov’era più probabile trovarli. Anche per questo lui non era stato sin dall’inizio favorevole per quella meta! Il giovane uomo di nome Bruno, infatti, le spiegò fin nei minimi dettagli la loro ricerca, la preoccupazione del signor Leonardi per la loro scomparsa, il fatto che lo avesse inviato a cercarli scortato da Jahèl.
«Dovete tornare a Venezia. Lì sarete al sicuro!» fu la fine del discorso del giovane.
Al sicuro?” pensò Alam. “Ci hanno già attaccato, lì, sotto la protezione di Leonardi... e poi ha lasciato andare via Jahèl con questa fresca preda? Non hanno un effettivo legame, non ancora almeno. Jahèl non è tenuta a proteggerlo...” guardò la vampira, non fidandosi né di lei né del ragazzo. Iniziò a fremere, impercettibilmente. Ma Anghel doveva essersene accorta, perché spostò improvvisamente il braccio e lo infilò sotto il suo, cercando poi un contatto con la sua mano. Appena sentì le dita del tamer stringere le sue si calmò e riprese il controllo, mantenendo la tonicità sufficiente per scattare via, se necessario. Lo sguardo di Bruno saettò per un secondo appena sulle loro mani intrecciate, un lampo che colse solo lui. “Strano... l’espressione sul suo viso, non la riconosco...”
«Non intendo andare a Venezia.» fu la risposta secca di Anghel.
Finalmente qualcosa di sensato!” pensò il vampiro.
«Bruno, hanno ucciso la mia famiglia. Mio padre e mia madre... e sospetto possano esser stati loro a eliminare anche Alex, mio fratello! Ora rimango solo io. Non ho intenzione di vivere imprigionata a Venezia! Perché quel che è certo è che difficilmente potrò vivere liberamente se rimango stabile in un posto...»
«Ho saputo della tua famiglia... mi spiace...» cercò di dire il ragazzo, il sangue che defluiva sul viso ne scolorava deliziosamente i lineamenti.
Per fortuna che si era già precedentemente nutrito.
«Non dovete preoccuparvi.» disse Anghel, includendo evidentemente anche Jahèl nel suo discorso.
Come se alla vampira importasse qualcosa! Stranamente, invece, la femmina volse ancora una volta gli occhi verso il suo tamer: nessuna minaccia, nessuna fame riflessa in quelle iridi impenetrabili... ancora l’espressione che a lui risultava così familiare.
«E dove pensavate di andare, ora, se non a Venezia?» chiese Bruno, con uno sbuffo.
«Forse è meglio per voi non saperlo...» cercò di dire Anghel.
«Abbiamo preciso ordine di badare alla vostra incolumità. Quindi, ovunque andrete, noi vi seguiremo. E, v’assicuro, sarà difficile seminarmi...» sentenziò Jahèl.
Una sfida?” pensò Alam, convinto che le ultime parole si rivolgessero particolarmente a lui.
«Non intendo mettere altre vite in pericolo!» disse Anghel, fredda.
«Mio zio è convinto che chiunque stia attentando alla tua vita abbia intenzione di prendere il patrocinio di Alam, di diventarne tamer... per dominarlo, testualmente... Alam è ancora facilmente suggestionabile, come vampiro, è giovane e il tamer potrebbe benissimo muoverne le azioni a suo vantaggio.» spiegò Bruno.
«So benissimo perché vogliono Alam: il potere sul fuoco. Mi è già stato spiegato.» mentre diceva questo, strinse ancora più forte la mano del vampiro e anche l’altra, di scatto, andò a serrarsi sul braccio di Alam.
Il vampiro sentì un lieve calore partire da quella stretta e diffondersi poi lungo tutto il braccio. Ma quel che più gli procurò piacere fu la reazione del giovane umano, che si divincolò agitato e, corrugando le sopracciglia e la fronte, diventava sempre più rosso. “Arrabbiato...” pensò Alam, felice per quella reazione.
«Sì, quel che forse ancora non sai è che con un potere come quello di Alam dalla propria parte, difficilmente si perdono le battaglie, o le guerre...» continuò Bruno, dopo aver ripreso il controllo.
«Stai forse cercando di dirmi che...» balbettò lei.
«Che chiunque desideri così tanto Alam al proprio fianco, probabilmente non ha in mente niente di meno che un controllo dell’intero pianeta, sì... capirai che la questione non riguarda affatto solo te.» le parole del giovane caddero sulla cava come pietre.
Alam poteva sentire la tensione di Anghel, ne vedeva persino i muscoli muoversi, tremare, le mani perdere la loro ferma stretta... non avrebbe retto molto altro, non per quella notte. Stava crollando.
«Non possiamo più rimanere in questo luogo. È tempo di andare.» disse allora, categorico.
 
***
 
Anghel si girò a guardarlo.
Non gli aveva mai visto quello sguardo, così serio. Alam non era un vampiro giovane, era qualcosa di ancora più potente di quel che Bruno e il signor Leonardi sospettavano. Non era solo per il potere del fuoco! Un vampiro con oltre mille anni di vita alle spalle, così tanti da poter uscire alla luce del giorno. Inoltre, se i suoi sospetti erano fondati, era rimasto privo di tamer per oltre duecento anni e questo non l’aveva ridotto a una bestia priva d'intelletto. Un vampiro che in sole due settimane aveva imparato quante più cose possibili, troppe... e che si mostrava infastidito con una bravura tale da far sospettare la veridicità di tale emozione. E che, in quel momento, aveva negli occhi una fermezza così forte da far morire in gola qualsiasi forma di protesta che potesse venirle alla mente. Appoggiò remissiva la testa alla sua spalla, improvvisamente felice di poter far affidamento su una creatura come lui.
«D’accordo, allora. Andremo tutti assieme.» disse alzandosi, stanca.
«Noi abbiamo una macchina; i vetri dei sedili posteriori sono oscurati ed è possibile isolare l’ambiente in modo che non filtri la luce. Tu e Alam potrete star lì, dormirete. Noi vi condurremo ovunque vogliate andare.» disse Bruno, la sua voce era gelida, tagliente.
Forse stanco per il viaggio.
«Permetterai, invece, che io mi segga davanti, col guidatore. In modo da esser certa di non finire a Venezia contro la mia volontà.»
«Non ti fidi?» chiese il ragazzo con un sogghigno.
«No.» disse lei, senza scherzare.
Non aveva intenzione di fidarsi di nessuno all’infuori di Alam.
«Come vuoi. Allora, dove andiamo?»
«Parigi.» decretò sicura.
Bruno la guardò a lungo e poi, per un breve istante, guardò Alam. Anghel se ne accorse. Del resto era con lui che aveva parlato dell’unica data di cui il vampiro aveva memoria: la presa della Bastiglia, la rivoluzione francese, Parigi. Il punto d’inizio. Aveva intenzione di andar lì già da qualche giorno, quando erano scappati da Venezia. Bruno doveva aver facilmente capito il collegamento, ma per fortuna non accennò nulla.
In fretta, così in fretta da lasciarla stordita, si ritrovò su una macchina anonima, scura, seduta al fianco di Bruno, una coperta calda vicino alla testa per impedire che la luce del sole arrivasse ai due passeggeri collocati dietro di lei, e il peso di Alex sulle gambe, il respiro scuro e lento del gatto a riportarla alla realtà del mondo.
«Pensavi di fare strade particolari o soste?» chiese Bruno, non appena la macchina imboccò l’autostrada per Firenze.
«Non pensavo niente, Bruno... solo di arrivare a Parigi... se non ci foste stati voi, saremmo andati in treno, o in aereo...»
«Più facilmente rintracciabili.»
«Senza altre alternative!» rispose lei secca, irritata dal tono saccente del ragazzo.
Non avrebbe dovuto essere così acida, però. In effetti Bruno era forse l’unico essere umano, al momento, con cui poteva condividere qualcosa... del resto, presto o tardi anche lui sarebbe stato un tamer. Nonostante questo, ancora non se la sentiva di spartire con lui proprio tutto. Infatti, aveva taciuto sull’età di Alam: nemmeno il vampiro si era scomposto all’idea di viaggiare al buio. Anzi, probabilmente ne era pure contento!
«Scusami... sono impossibile....» sbottò subito dopo, massaggiandosi le tempie con le mani.
«Non importa...» rispose freddo lui.
In quel momento si ricordò che anche Bruno era orfano. E ora lo era anche lei....
Tutto troppo veloce. Due settimane prima era intenta a scrivere la sua tesi e tutto quel che la preoccupava erano i documenti e la burocrazia universitaria. Ora stava andando a Parigi, in compagnia di due vampiri, e non vi era più nessuno al mondo con cui avesse un legame di parentela.
«Bruno... io non ho altri parenti... chi mai...?» provò a chiedere.
«Non hai parenti stretti, ma chissà quante e quali ramificazioni ha preso la tua famiglia in un solo secolo. I tuoi genitori erano figli unici, giusto? E i tuoi nonni sono morti. Ma questi ultimi avranno avuto fratelli? O cugini? E questi, a loro volta, alle spalle hanno un intreccio ancora più complesso. Chissà a che ramo della famiglia sarà destinato Alam, se tu non ti riprodurrai.»
«E’ possibile sapere a priori a chi passerà il ruolo di tamer, anche se il legame parentale non è più così diretto?»
«Certamente. È avvenuto per secoli. Non è facile, questo no, ma non impossibile. Per alcuni vampiri è stato stilato ogni anno l’albero genealogico della famiglia di tamer, in modo da poter facilmente ripercorrerne la storia e collegare direttamente la successione. Un tempo, questo veniva fatto per ogni vampiro conosciuto.» spiegò Bruno.
«E dove sono custoditi? Forse sarà possibile trovare anche quelli di Alam.» pensò lei, già immaginandosi immersa in una biblioteca dalle dimensioni inimmaginabili, intenta a vagliare una montagna di cartigli sperando in un colpo di fortuna.
«Andarono perduti tutti, in un incendio. Solo di recente alcune famiglie di tamer hanno ripreso a stilarli dettagliatamente. Ma non vengono più raccolti assieme, proprio per evitare che ancora una volta vadano distrutti.»
«Quando successe?» domandò ancora, mai sazia di informazioni.
Tutto poteva essere vitale, al momento, fosse anche per distrarla dalla realtà che si era lasciata alle spalle a casa sua.
«Successe esattamente durante la presa della Bastiglia.» il giovane sembrava titubante nel darle quest’informazione, come se una parte di lui non desiderasse altro che cambiar discorso.
«Cosa successe?» non aveva la benché minima intenzione di rimaner esclusa da tali notizie.
Faceva parte del mondo dei tamer, ora! Non vedeva il motivo per cui avrebbe dovuto rimanere all’oscuro di alcuni segreti. Bruno sospirò, quasi rassegnato, Anghel vide la fronte corrucciarsi ed ebbe la sensazione che non le avrebbe rivelato tutto. Ma una parte almeno sì... stava a lei verificarla successivamente.
«Per riuscire a farti capire bisogna partire molto prima. Come mio zio ti ha spiegato, i vampiri vennero usati dai propri tamer come mezzo per raggiungere il potere. Molto presto, però, gli stessi tamer s’accorsero che quel che stavano mettendo in pratica avrebbe presto portato alla completa distruzione non solo della razza umana, ma di tutto il pianeta: vampiri mossi l’uno contro l’altro, nascosti tra gli eserciti. Esseri capaci di distruggere le più numerose armate... senza un adeguato controllo, presto sarebbe stato il caos. Fu così che, appena qualche anno dopo la caduta dell’impero romano d’occidente, alcune tra le più potenti famiglie di tamer, ossia quelle con i vampiri più temibili, si unirono e crearono il concilio dei tamer. Questo funzionava esattamente come una setta segreta, estesa su tutto il globo. Avevano raduni annuali o semestrali, a seconda del periodo storico, e come fondamento base vi era la legge secondo la quale nessun tamer avrebbe mai cercato di prevalere su di un altro; al tamer era impedito di ricoprire alte cariche politiche nel proprio paese, né, di conseguenza, poteva aspirare a governare; compito dei tamer, inoltre, era quello d’impedire che un'unica persona salisse a controllare l’intero mondo.»
«Insomma, rimanevano nell’ombra controllando gli equilibri politici dei vari stati.» concluse Anghel.
«Esattamente. Non vi sono, nella storia dell’uomo, molte famiglie famose di tamer. Ricche sì, senza dubbio. Ma non famose. Come potrai benissimo immaginare, non è stato facile e non son mancati i tamer dissidenti. Ma tutto sommato il concilio, interferendo il minimo con la storia dell’uomo, riusciva a controllare la potenza dei vampiri e a impedirne l’eccesso. Fu dopo l’anno mille che iniziarono a stilare i primi alberi genealogici, per poter controllare meglio le varie famiglie, nessuna esclusa. Non erano rapporti pacifici, ma di pari osservazione: nessuno si fidava ciecamente dell’altro, ma tutti prestavano attenzione affinché l’equilibrio non venisse spezzato.»
«Fino al 1789...»
«Sì. Quel che avvenne durante la rivoluzione francese non è molto chiaro. Si sa per certo che quello fu l’anno dell’ultimo concilio di tamer. Venne letteralmente spazzato via. Si ipotizza che alla base della rivoluzione vi fosse qualche famiglia ribelle di tamer, la quale avrebbe sobillato la folla per spodestare il monarca e salire al potere al suo posto. Per far questo, ovviamente, uno dei primi ostacoli era proprio il concilio. Quante famiglie fossero coinvolte non è chiaro, né se successivamente queste siano state bloccate, né come. Non si sa per certo nemmeno quali vampiri fossero implicati. Tutto quel che è arrivato sino a noi è che quello fu l’ultimo anno del concilio. In una villa, poco fuori Parigi, erano conservati tutti i documenti relativi alle varie famiglie, ai trattati, ai rapporti. Tutta la storia del concilio, per farla breve. Sempre la notte della presa della Bastiglia, quando vennero uccisi molti vampiri, la villa venne rasa al suolo da un incendio, sprigionato proprio in seno alla camera di consiglio che a fece collassare su se stessa. I vampiri sopravvissuti e le loro famiglie, di fronte alla rivoluzione e al disastro in cui essa si stava trasformando, dal momento che pareva ormai priva di guida, furono prostrati per la disfatta del concilio e non si riunirono mai più. Da allora sono riprese le sopraffazioni, non tanto per avere più territorio o per conquistare un dominio mondiale, quanto per eliminare più vampiri possibili. Una sorta di “ti uccido prima che tu tenti di ammazzare me”. Per questo, ora come ora, di vampiri ne son rimasti molto pochi. Durante le due guerre, specialmente nell’ultima, molti tra i più anziani sono stati eliminati e i giovani spesso rimanevano senza tamer e impazzivano in breve. Dopo la seconda guerra mondiale, visto il disastro che si stava profilando davanti, alcune famiglie si sono nuovamente unite, ricreando un nuovo concilio.»
«Mi stai dicendo che al mondo, dopo duecento anni, c’è un nuovo concilio di tamer e nessuno ne sa niente?»
«Bè... per tutta la storia nessuno ha mai saputo niente dei vampiri, perché ora dovrebbe essere diverso? Comunque sì, è da pochi anni che è stato ristabilito, una quarantina circa. Più o meno mantiene le stesse funzioni che aveva il concilio precedente, in più si occupa dei vampiri senza tamer, eliminandoli o cercando di ricostruire, dove possibile, la linea di successione. La maggior parte vengono eliminati.» spiegò Bruno, agitandosi sul sedile, la fronte corrucciata.
Era visibilmente infastidito.
«Tuo zio fa parte del concilio, vero?»
Bruno annuì stanco.
«Jahèl era sulle tracce di Alam, quando lui ti trovò. Solo per questo non venne catturato dal concilio, perché aveva ritrovato un tamer. Inoltre, pare che il tuo vampiro sia molto abile nel far perdere le proprie tracce. In undici anni, nessuno è mai riuscito a prenderlo, pur sapendo perfettamente dove trovarlo... Abbiamo il sospetto che chiunque voglia Alam abbia in mente progetti contrari al codice del concilio. Quindi è nostro compito proteggervi.»
«In pratica sei qui su ordine del concilio...»
«In pratica son qui su ordine di mio zio... sì...» disse, lapidario.
Anghel guardò di sbieco il giovane. Qualcosa non la convinceva molto nel discorso di Bruno. La presa della Bastiglia... il concilio caduto durante il 1789, l’unico anno impresso nella memoria di Alam... doveva sicuramente esserci altro, ma ora era troppo stanca e, non avendo la benché minima intenzione di addormentarsi, si concentrò sulla strada per rilassare la mente, in modo da averla il più possibile lucida.
Passò qualche ora, quasi in silenzio. Si scambiarono poche parole, il necessario. Hai fame, hai sete, vuoi fermarti, ti do il cambio alla guida... cose del genere. Fecero solo una sosta, in tutta la mattinata, per recuperare qualcosa per il pranzo e per sgranchirsi le gambe, oltre ad un ovvia tappa al bagno dell’autogrill. Poi ripresero il viaggio. I loro due compagni silenziosi non fecero mai notare la propria presenza. Per non tradire l’età di Alam, Anghel non scostò mai la tenda, nemmeno una volta. Così ogni tanto si dimenticava di loro e a volte si chiedeva cosa potessero mai fare. “Che razza di pensiero! Dormono, questo è certo... del resto, Alam è abituato da secoli a dormir di giorno. Anche se ha scoperto di poter girare liberamente alla luce del sole, rimane sempre una creatura notturna.”
«Allora, cosa fa il concilio dei tamer, nel dettaglio.» chiese ad un certo punto, sperando che l'umore del giovane fosse più sereno e aperto.
Erano ormai arrivati alla frontiera francese, mancava poco ed era il primo pomeriggio. Bruno stava mangiandosi tranquillamente il panino e quasi gli andò di traverso il boccone, preso alla sprovvista.
«Cosa vuoi sapere, di preciso?» chiese, una volta ripreso il controllo delle sue vie respiratorie.
«Tutto. In fondo, se non ho capito male, Alam era ricercato dal concilio fino a undici anni fa.»
«Non mi sembra che ci sia molto altro da aggiungere a quel che ti ho già detto. Il concilio moderno è ancora molto giovane. Inoltre è fragile. Le famiglie di tamer son rimaste molto poche e di queste, ancora meno sono quelle disposte a mettere nuovamente a repentaglio se stesse e il proprio vampiro. Se consideri che, pochi secoli fa, è bastata una notte per far crollare una delle organizzazioni più estese e solide del mondo... per di più negli anni successivi queste stesse famiglie, che ora cercano di collaborare, si davano battaglia. Diciamo che riguadagnare fiducia nell’istituzione del concilio non è facile. Quindi, uno dei fronti in cui si sta muovendo è questo: ottenere quanti più consensi possibili e l’adesione di tutte le grandi famiglie rimaste. Poi c’è la questione dei vampiri senza tamer, come lo era Alam. Non ne sappiamo il numero esatto, ma ogni tanto ci giunge notizia di un vampiro solo. E questo viene braccato, tenuto sotto controllo e, se possibile, catturato. Si cerca la sua famiglia di tamer, ma per molti è difficile ricollegarli a qualcuno.»
«Così li eliminate...» disse, fredda, lei.
«Non ci sono molte alternative. Tu non hai mai visto un vampiro senza tamer. Un vampiro che non sta a contatto con gli uomini da più di due secoli... non sai cosa diventano...» si difese lui.
«Non fare l’uomo vissuto con me!» sbottò, improvvisamente irritata dal suo tono saccente.
Non che avesse torto, affatto. Bruno era immerso nel mondo dei vampiri da chissà quanto tempo, di cose doveva per forza saperne e averne viste, ma c’era qualcosa nel suo tono, una specie di rimprovero che non poteva tollerare. Per cosa la riprendeva? Per aver detto la verità senza cercare d’abbellirla o di mitigarla? I vampiri senza tamer venivano eliminati, distrutti, uccisi.
«Non è questione di fare l’uomo vissuto o meno. La questione è che sono irrecuperabili, non è umano rimetterli in libertà. Sarebbero capaci di distruggere intere città, se lasciati liberi di agire secondo il proprio istinto. E mantenerli in vita equivale comunque a dar loro del sangue con cui nutrirsi. Da dove pensi che possa essere ricavato il sangue necessario? La fame di un vampiro solo è esponenzialmente più alta di quella di un vampiro con tamer. Non siamo ancora riusciti a capire perché, ma la questione è questa: sfamare un vampiro solo diventa un onere eccessivo. Quindi non rimane che eliminarli.»
«E Alam? Avreste ucciso anche lui?»
«L’ordine era quello di tenerlo sotto controllo. Era evidente che non era ancora ad uno stato irreparabile. Avremmo dovuto anche catturarlo, ma non ci siamo mai riusciti. È stato sempre più furbo di noi...» disse con un sorriso truce.
Anghel rimase immobile, fissando la strada, ma dentro di sé sentì di essere stranamente orgogliosa di lui.
«Poi, quando lui ti trovò, continuammo a mantenere un contatto. Questo perché lui non t’aveva ancora, per ragioni sue, contattata. Inoltre ci accorgemmo di non essere i soli a tenerlo d’occhio. Non abbiamo mai capito chi altri fosse sulle tracce di Alam, anche se, visto quale elemento lui controlla, non ci sfuggiva il motivo.»
«Parli sempre del concilio come se tu ne fossi in mezzo, te ne sei accorto, vero?» gli disse lei a quel punto, sogghignando.
Bruno si volse di scatto a guardarla, ma Anghel non avrebbe potuto dire quale fosse la sua espressione, in ogni caso la inquietò.
«Nel bene e nel male, diventerò il tamer di Jahèl. È una delle vampire più antiche conosciute, sai? La famiglia Leonardi gode di un’ottima posizione nel concilio per questo.» le rispose glaciale.
Stranamente non v’era traccia d’orgoglio nelle sue parole. Più rassegnazione... e tristezza.
«I tuoi genitori... sono stati uccisi per via della successione di Jahèl?» domandò, titubante.
Il silenzio che lasciò la sua domanda la fece arrossire, ma non riuscì nemmeno una volta a distogliere lo sguardo dalla strada per vedere l’espressione del suo compagno di viaggio.
«Scusa... non volevo...» la sua voce le suonò come il rumore inascoltabile delle unghie sulla lavagna.
Ma il silenzio divenne più intollerabile.
«Sono morti... in un incidente d’auto. Ero molto piccolo allora, ho ricordi vaghi e confusi. Zio Samuele mi prese con sé, nella sua casa a Venezia, e da allora io sono a conoscenza dell’esistenza dei vampiri. Non so se mio padre sapesse chi viveva con mio zio, forse sì. Non me ne parlò mai. Ma non credo li abbiano uccisi per la successione: avrebbero dovuto eliminare anche me, ma non sono mai stato vittima di attentati.» la voce fredda, come se elencasse una serie di numeri priva di senso.
«Scusa, veramente...»
«Il fatto che tu sia così indifferente per la sorte della tua famiglia non deve indurti a pensare che per tutti affrontare la morte sia così facile!» le sue parole colpirono lo stomaco di Anghel come una raffica di pugni.
Non che fosse mai stata picchiata, ma la sensazione non doveva esser tanto diversa: il respiro le venne a mancare e sentì le guance bruciare per l’afflusso di sangue.
«Evidentemente star così a stretto contatto con un vampiro ti ha resa più simile a lui.» l’ultimo colpo, in piena faccia.
Anghel rimase in silenzio, immobile, pensando solo a guidare, cercando di concentrarsi su qualsiasi altra cosa, cercando di far svanire l’eco di quelle parole e di non riflettere affatto su di esse.
Ma lui non ebbe pietà:
«Giudichi. Ti permetti di criticare l’operato del concilio senza conoscere le circostanze, senza sapere la verità su come funziona questo mondo. T’intrometti in cose che non ti riguardano minimamente e non sai nemmeno guardare a te stessa. Da meno di ventiquattro ore hai scoperto che la tua famiglia è stata uccisa e sei qui, fresca e tranquilla, a pormi domande del genere come se mi stessi chiedendo quale gusto di gelato preferisco! Così concentrata su quel... mostro! Andiamo a Parigi per lui, non è vero? Non t’importa di tua madre e tuo padre, immagino. Non te ne frega un cazzo! Lo sai che son morti per quel vampiro, vero? E te ne stai qui, tranquilla, a intrometterti in faccende che non ti riguardano! Non provarci mai più! Non ho la minima intenzione di far entrare la tua merda dentro la mia vita! Già son obbligato a farti da balia, contro la mia volontà!»
Anghel era sconvolta: le aveva parlato con tranquillità, come se stesse descrivendo il paesaggio. E l’aveva annientata.
«Se non volevi...» provò a dire.
«Non essere stupida! Ti ho detto che son obbligato! Ho dei doveri, verso il concilio. E se mi vien detto di seguire e proteggere una ragazzina, la seguo e la proteggo. Ma non farmi più domande sulla mia vita!» sibilò alla fine.
Anghel rimase in silenzio, annichilita. Bruno era sempre stato gentile con lei, strano ma gentile. Lo era stato solo per ordine del concilio? Sempre una farsa? Non osò ribattere. Se anche avesse osato aprir bocca e dire qualcosa, sarebbe subito scoppiata in lacrime. E questo proprio non voleva farlo...
 
***
 
Alam passò gran parte del tempo a fingere di dormire. Non c’era un motivo effettivo, non temeva la vampira che gli sedeva accanto. Solo voleva ascoltare quel che veniva detto e non dover intrattenere una conversazione. Si sentiva strano... E lo stomaco continuava a stringersi e a dargli fastidio. Avrebbe tanto voluto prendere quel dannato ragazzino per il collo, sbattergli la testa contro il vetro della macchina e stare a guardare i disegni che il suo sangue avrebbe formato sul cofano. La voce di Anghel tremava sempre di più, la sentiva vicina al pianto, sentiva che si stava facendo del male al suo tamer. Se non ci fosse stata la vampira di nome Jahèl al suo fianco, a controllarlo, non avrebbe esitato nemmeno un istante.
Il concilio dei tamer. Gli avevano dato la caccia... e i loro intenti non erano dei migliori, il suo istinto gliel’aveva suggerito, intimandogli la fuga costante.
Non mosse un muscolo per tutta la giornata, ben attento a non far intendere a Jahèl che fosse sveglio. La vampira aveva eluso la sua presenza, usava il vento a suo vantaggio impedendo che il proprio odore venisse scoperto. Ma anche lui era capace di fingere e celare. Del resto, se aveva ben inteso, anche lei lo aveva braccato in quegli anni. E lui era sempre fuggito.
Il giorno passò relativamente in fretta, nel dormiveglia cullato dal moto della macchina. Anghel non sembrava in imminente pericolo di vita e lui poteva permettersi di abbassare la guarda per pochi istanti.
La macchina si fermò e la coperta davanti a loro venne tolta.
«Bene. Possiamo fare una breve sosta qui. Per rifocillarci un po’!» disse il ragazzo.
Aveva fame... sì... lo trovava decisamente più appetitoso della notte precedente e questo voleva dire che aveva molta fame. Jahèl era accanto a lui. Lo stava forse controllando? Con la coda dell’occhio, però, vide che anche lei doveva essere terribilmente affamata: dell’azzurro del suo sguardo, ormai, non era rimasto più nulla.
«Tu e Jahèl, potete andare...» sentenziò il giovane.
Non aveva intenzione di lasciar decidere a lui. E se doveva proprio mangiare in presenza di qualcuno, non era certo quella vampira la compagnia che avrebbe scelto! Di scatto prese il braccio di Anghel e se la strinse al petto.
«Io mangio col mio tamer. Tu col tuo!» disse rivolto a Jahèl.
«Mi pare giusto...» rispose lei.
«Non essere ridicolo! Dobbiamo rimanere tutti uniti!» disse Bruno, rivolto però solo a lui nonostante anche Jahèl fosse a favore della sua scelta.
«Non andremo da nessuna parte. La macchina ci è molto utile e quindi la sfrutteremo. Se ci tieni tanto a rimaner tutti uniti, vieni a vedermi mangiare anche tu!» sibilò Alam, stringendosi sempre più Anghel, la quale non sapeva cosa dire e rimaneva a bocca aperta guardando prima uno e poi l’altro.
Che sensazione fantastica, la faccia di quel giovane rossa e la bocca storta a mostrare i denti. Voleva intimorirlo con quell’apparato che aveva ormai perso quasi tutto il potenziale pericoloso di un predatore? Era veramente bello! Senza dargli tempo di dire altro, né a lui né tanto meno ad Anghel, si caricò la ragazza sulle spalle come facevano a Venezia e sparì nella notte.

Compagni di viaggio

 
«Perché ti sei fermato?» stava per chiedergli la ragazza, quando il vampiro le mise una mano sulla bocca, stringendola e scrutando le ombre attorno alla cava.
Anghel guardò il volto di Alam, proteso verso l’ingresso del loro rifugio, e vide i suoi occhi brillare nella notte, come quelli di un gatto pronto a saltare al minimo fruscio. Doveva esserci qualcuno nella cava. Lentamente la mano del vampiro lasciò libera la sua bocca e lei stette ben attenta a non produrre il benché minimo rumore mentre pensava al suo Alex, dentro la grotta, e il cuore le martellava eccessivamente forte nel petto. Alam si mosse lento e silenzioso. Se non fosse stato accanto a lei non si sarebbe mai accorta della sua presenza e dei suoi spostamenti. Vide una figura alta e sinuosa uscire dalla cava, movenze delicate contro il chiarore notturno. Una creatura che attrae e respinge per la sua bellezza fredda. Un vampiro, Anghel non ne aveva alcun dubbio. Per quanto lo stretto contatto a cui erano soggetti l’aveva abituata ad Alam, era ben consapevole dell’eleganza intrigante che lui poteva esercitare su di un estraneo. Lo stesso fascino che ora lei sentiva nei confronti della creatura che si stagliava a qualche metro da loro. E il suo cuore prese a battere ancora più forte, diviso tra il desiderio di andare dal vampiro e il naturale terrore che questo ispirava al suo istinto.
Fu un attimo. Non si era nemmeno resa conto di quanto Alam si fosse avvicinato all’altro vampiro. Dall’erba balzò fulmineo e tutto quello che gli occhi di Anghel riuscirono a registrare fu una massa scura che veniva scaraventata violentemente a terra. Senza alcun suono nell’aria. Nulla si mosse per un tempo che alla ragazza parve infinito.
Alam e il vampiro sembravano scomparsi, inghiottiti dalla terra.
E se fosse così?” si ritrovò a pensare lei per pochi istanti, improvvisamente colta dal panico. Lui era l’unico essere col quale avesse ancora un effettivo legame. Se spariva a lei cosa mai restava? Senza pensare, uscì dall’ombra in cui lui l’aveva lasciata e corse nel punto dov’era scomparso. Una facile preda.
 
***
 
Alam stringeva con forza la fragile gola della vampira. Ne aveva sentito l’odore appena in tempo. Era stata molto scaltra... in qualche modo era riuscita a non fare avvertire la sua presenza fino all’ultimo istante. Se lui non fosse stato attento probabilmente li avrebbero sorpresi proprio all’ingresso del loro rifugio, senza lasciargli possibilità di reagire.
«Cosa fai qui.» sibilò, vicinissimo al volto della femmina, tanto da sentire il profumo di erbe aromatiche con le quali doveva lisciarsi i capelli.
Ne era impregnata... come l’aveva eluso? Vento? L’aria non era smossa...
«Elemento vento...» disse ancora, guardando quegli occhi di ghiaccio fissi immobili su di lui.
«Vedo che vi siete ripreso.»
«Alam!» la voce di Anghel dietro di lui risuonò forte in quel silenzio.
Perché si è mossa?” fu il suo primissimo pensiero. Si era esposta! Un attimo di distrazione, sentì la vampira divincolarsi sotto la sua stretta, ma lui fu più rapido. Riuscì a immobilizzarla nuovamente e contemporaneamente alzò la testa. Anghel era a pochi passi da lui ormai, riusciva a vederlo.
«Anghel!» una terza voce, da dentro la cava.
Alam si volse rapido, i muscoli tesi a bloccare la femmina. Cosa fare? Liberare la vampira e prendere Anghel o fermarsi un secondo a capire cosa stava succedendo? Aveva già visto questa donna, ma non era quella che li aveva aggrediti a Padova. Dove allora? Dalla grotta uscì un giovane umano, dai capelli castani quasi biondi. Non era un vampiro, era il ragazzo che aveva visto al suo risveglio a Venezia... allora questa doveva essere la vampira della famiglia. Tornò a guardarla, sempre chino su di lei, bloccandole tutti gli arti e la gola. La bocca rossa della donna, lievemente aperta, mostrava i canini appuntiti, ma non vi era minaccia nel suo sguardo. Qualcos’altro, qualcosa di familiare.
Occhi di ghiaccio, rivestiti di lacrime...” si trovò improvvisamente a pensare, senza motivo, e lasciò istintivamente la presa.
«Bruno!» sentì Anghel dire alle sue spalle, mentre era intento a rialzarsi. «Cosa fai qui?» la voce del suo tamer, lievemente tremula.
Accanto a lui, la vampira si rialzò e si risistemò i vestiti stropicciati. Quasi come rispondendo a un segnale, tutti rientrarono nella cava. I due umani si sedettero per terra, Alam notò che per prima cosa Anghel si accertò della presenza del gatto e, per un qualche strano motivo, anche lui si sentì rassicurato dal notare che era ancora lì e che stava bene. Quindi pensò bene di andare a sedersi accanto a lei, il braccio a contatto con quello del suo tamer, per sentirne la presenza, il flusso del sangue nelle vene sotto la pelle, per controllare che stesse bene e per esser pronto a caricarsela sulle spalle e a correre lontano. Vide che la vampira, dal canto suo, si appoggiava contro la parete della cava, rimanendo in piedi, dietro al giovane. “Vuole bloccarmi la via di fuga?” pensò. Sarebbe riuscito a esser più veloce di lei? Pensava di sì; la muscolatura della femmina era ben sviluppata ma non sufficiente. E sì, lui avrebbe dovuto alzarsi, caricarsi un peso addosso e correre, mentre lei doveva solo preoccuparsi di andare verso l’ingresso della grotta. Ma in quel caso l’avrebbe facilmente spinta via...
«Jahèl... mi spiace per quel che è successo. Alam stava solo cercando di proteggermi.» disse Anghel.
Perché si scusava? Lei si scusava per molte cose e ancora non riusciva a comprenderne il motivo. Ora meno che mai. Loro due erano braccati, chiunque avrebbe agito come aveva fatto lui vedendo un vampiro di fronte alla propria tana. Non aveva senso... le premette il braccio contro il suo.
La vampira tolse per un brevissimo istante lo sguardo da Alam, per rivolgerlo a lei.
«Ha agito con cognizione.» fu tutto ciò che disse e poi tornò a fissarsi su di lui, insistentemente.
«Come siete arrivati sin qui?» fu la seconda domanda di Anghel.
Altrettanto inutile, quasi come le scuse. Era più che ovvio! Erano scappati da Venezia, li dovevano aver seguiti a Padova e, non trovandoli lì, si erano sicuramente diretti nel secondo luogo dov’era più probabile trovarli. Anche per questo lui non era stato sin dall’inizio favorevole per quella meta! Il giovane uomo di nome Bruno, infatti, le spiegò fin nei minimi dettagli la loro ricerca, la preoccupazione del signor Leonardi per la loro scomparsa, il fatto che lo avesse inviato a cercarli scortato da Jahèl.
«Dovete tornare a Venezia. Lì sarete al sicuro!» fu la fine del discorso del giovane.
Al sicuro?” pensò Alam. “Ci hanno già attaccato, lì, sotto la protezione di Leonardi... e poi ha lasciato andare via Jahèl con questa fresca preda? Non hanno un effettivo legame, non ancora almeno. Jahèl non è tenuta a proteggerlo...” guardò la vampira, non fidandosi né di lei né del ragazzo. Iniziò a fremere, impercettibilmente. Ma Anghel doveva essersene accorta, perché spostò improvvisamente il braccio e lo infilò sotto il suo, cercando poi un contatto con la sua mano. Appena sentì le dita del tamer stringere le sue si calmò e riprese il controllo, mantenendo la tonicità sufficiente per scattare via, se necessario. Lo sguardo di Bruno saettò per un secondo appena sulle loro mani intrecciate, un lampo che colse solo lui. “Strano... l’espressione sul suo viso, non la riconosco...”
«Non intendo andare a Venezia.» fu la risposta secca di Anghel.
Finalmente qualcosa di sensato!” pensò il vampiro.
«Bruno, hanno ucciso la mia famiglia. Mio padre e mia madre... e sospetto possano esser stati loro a eliminare anche Alex, mio fratello! Ora rimango solo io. Non ho intenzione di vivere imprigionata a Venezia! Perché quel che è certo è che difficilmente potrò vivere liberamente se rimango stabile in un posto...»
«Ho saputo della tua famiglia... mi spiace...» cercò di dire il ragazzo, il sangue che defluiva sul viso ne scolorava deliziosamente i lineamenti.
Per fortuna che si era già precedentemente nutrito.
«Non dovete preoccuparvi.» disse Anghel, includendo evidentemente anche Jahèl nel suo discorso.
Come se alla vampira importasse qualcosa! Stranamente, invece, la femmina volse ancora una volta gli occhi verso il suo tamer: nessuna minaccia, nessuna fame riflessa in quelle iridi impenetrabili... ancora l’espressione che a lui risultava così familiare.
«E dove pensavate di andare, ora, se non a Venezia?» chiese Bruno, con uno sbuffo.
«Forse è meglio per voi non saperlo...» cercò di dire Anghel.
«Abbiamo preciso ordine di badare alla vostra incolumità. Quindi, ovunque andrete, noi vi seguiremo. E, v’assicuro, sarà difficile seminarmi...» sentenziò Jahèl.
Una sfida?” pensò Alam, convinto che le ultime parole si rivolgessero particolarmente a lui.
«Non intendo mettere altre vite in pericolo!» disse Anghel, fredda.
«Mio zio è convinto che chiunque stia attentando alla tua vita abbia intenzione di prendere il patrocinio di Alam, di diventarne tamer... per dominarlo, testualmente... Alam è ancora facilmente suggestionabile, come vampiro, è giovane e il tamer potrebbe benissimo muoverne le azioni a suo vantaggio.» spiegò Bruno.
«So benissimo perché vogliono Alam: il potere sul fuoco. Mi è già stato spiegato.» mentre diceva questo, strinse ancora più forte la mano del vampiro e anche l’altra, di scatto, andò a serrarsi sul braccio di Alam.
Il vampiro sentì un lieve calore partire da quella stretta e diffondersi poi lungo tutto il braccio. Ma quel che più gli procurò piacere fu la reazione del giovane umano, che si divincolò agitato e, corrugando le sopracciglia e la fronte, diventava sempre più rosso. “Arrabbiato...” pensò Alam, felice per quella reazione.
«Sì, quel che forse ancora non sai è che con un potere come quello di Alam dalla propria parte, difficilmente si perdono le battaglie, o le guerre...» continuò Bruno, dopo aver ripreso il controllo.
«Stai forse cercando di dirmi che...» balbettò lei.
«Che chiunque desideri così tanto Alam al proprio fianco, probabilmente non ha in mente niente di meno che un controllo dell’intero pianeta, sì... capirai che la questione non riguarda affatto solo te.» le parole del giovane caddero sulla cava come pietre.
Alam poteva sentire la tensione di Anghel, ne vedeva persino i muscoli muoversi, tremare, le mani perdere la loro ferma stretta... non avrebbe retto molto altro, non per quella notte. Stava crollando.
«Non possiamo più rimanere in questo luogo. È tempo di andare.» disse allora, categorico.
 
***
 
Anghel si girò a guardarlo.
Non gli aveva mai visto quello sguardo, così serio. Alam non era un vampiro giovane, era qualcosa di ancora più potente di quel che Bruno e il signor Leonardi sospettavano. Non era solo per il potere del fuoco! Un vampiro con oltre mille anni di vita alle spalle, così tanti da poter uscire alla luce del giorno. Inoltre, se i suoi sospetti erano fondati, era rimasto privo di tamer per oltre duecento anni e questo non l’aveva ridotto a una bestia priva d'intelletto. Un vampiro che in sole due settimane aveva imparato quante più cose possibili, troppe... e che si mostrava infastidito con una bravura tale da far sospettare la veridicità di tale emozione. E che, in quel momento, aveva negli occhi una fermezza così forte da far morire in gola qualsiasi forma di protesta che potesse venirle alla mente. Appoggiò remissiva la testa alla sua spalla, improvvisamente felice di poter far affidamento su una creatura come lui.
«D’accordo, allora. Andremo tutti assieme.» disse alzandosi, stanca.
«Noi abbiamo una macchina; i vetri dei sedili posteriori sono oscurati ed è possibile isolare l’ambiente in modo che non filtri la luce. Tu e Alam potrete star lì, dormirete. Noi vi condurremo ovunque vogliate andare.» disse Bruno, la sua voce era gelida, tagliente.
Forse stanco per il viaggio.
«Permetterai, invece, che io mi segga davanti, col guidatore. In modo da esser certa di non finire a Venezia contro la mia volontà.»
«Non ti fidi?» chiese il ragazzo con un sogghigno.
«No.» disse lei, senza scherzare.
Non aveva intenzione di fidarsi di nessuno all’infuori di Alam.
«Come vuoi. Allora, dove andiamo?»
«Parigi.» decretò sicura.
Bruno la guardò a lungo e poi, per un breve istante, guardò Alam. Anghel se ne accorse. Del resto era con lui che aveva parlato dell’unica data di cui il vampiro aveva memoria: la presa della Bastiglia, la rivoluzione francese, Parigi. Il punto d’inizio. Aveva intenzione di andar lì già da qualche giorno, quando erano scappati da Venezia. Bruno doveva aver facilmente capito il collegamento, ma per fortuna non accennò nulla.
In fretta, così in fretta da lasciarla stordita, si ritrovò su una macchina anonima, scura, seduta al fianco di Bruno, una coperta calda vicino alla testa per impedire che la luce del sole arrivasse ai due passeggeri collocati dietro di lei, e il peso di Alex sulle gambe, il respiro scuro e lento del gatto a riportarla alla realtà del mondo.
«Pensavi di fare strade particolari o soste?» chiese Bruno, non appena la macchina imboccò l’autostrada per Firenze.
«Non pensavo niente, Bruno... solo di arrivare a Parigi... se non ci foste stati voi, saremmo andati in treno, o in aereo...»
«Più facilmente rintracciabili.»
«Senza altre alternative!» rispose lei secca, irritata dal tono saccente del ragazzo.
Non avrebbe dovuto essere così acida, però. In effetti Bruno era forse l’unico essere umano, al momento, con cui poteva condividere qualcosa... del resto, presto o tardi anche lui sarebbe stato un tamer. Nonostante questo, ancora non se la sentiva di spartire con lui proprio tutto. Infatti, aveva taciuto sull’età di Alam: nemmeno il vampiro si era scomposto all’idea di viaggiare al buio. Anzi, probabilmente ne era pure contento!
«Scusami... sono impossibile....» sbottò subito dopo, massaggiandosi le tempie con le mani.
«Non importa...» rispose freddo lui.
In quel momento si ricordò che anche Bruno era orfano. E ora lo era anche lei....
Tutto troppo veloce. Due settimane prima era intenta a scrivere la sua tesi e tutto quel che la preoccupava erano i documenti e la burocrazia universitaria. Ora stava andando a Parigi, in compagnia di due vampiri, e non vi era più nessuno al mondo con cui avesse un legame di parentela.
«Bruno... io non ho altri parenti... chi mai...?» provò a chiedere.
«Non hai parenti stretti, ma chissà quante e quali ramificazioni ha preso la tua famiglia in un solo secolo. I tuoi genitori erano figli unici, giusto? E i tuoi nonni sono morti. Ma questi ultimi avranno avuto fratelli? O cugini? E questi, a loro volta, alle spalle hanno un intreccio ancora più complesso. Chissà a che ramo della famiglia sarà destinato Alam, se tu non ti riprodurrai.»
«E’ possibile sapere a priori a chi passerà il ruolo di tamer, anche se il legame parentale non è più così diretto?»
«Certamente. È avvenuto per secoli. Non è facile, questo no, ma non impossibile. Per alcuni vampiri è stato stilato ogni anno l’albero genealogico della famiglia di tamer, in modo da poter facilmente ripercorrerne la storia e collegare direttamente la successione. Un tempo, questo veniva fatto per ogni vampiro conosciuto.» spiegò Bruno.
«E dove sono custoditi? Forse sarà possibile trovare anche quelli di Alam.» pensò lei, già immaginandosi immersa in una biblioteca dalle dimensioni inimmaginabili, intenta a vagliare una montagna di cartigli sperando in un colpo di fortuna.
«Andarono perduti tutti, in un incendio. Solo di recente alcune famiglie di tamer hanno ripreso a stilarli dettagliatamente. Ma non vengono più raccolti assieme, proprio per evitare che ancora una volta vadano distrutti.»
«Quando successe?» domandò ancora, mai sazia di informazioni.
Tutto poteva essere vitale, al momento, fosse anche per distrarla dalla realtà che si era lasciata alle spalle a casa sua.
«Successe esattamente durante la presa della Bastiglia.» il giovane sembrava titubante nel darle quest’informazione, come se una parte di lui non desiderasse altro che cambiar discorso.
«Cosa successe?» non aveva la benché minima intenzione di rimaner esclusa da tali notizie.
Faceva parte del mondo dei tamer, ora! Non vedeva il motivo per cui avrebbe dovuto rimanere all’oscuro di alcuni segreti. Bruno sospirò, quasi rassegnato, Anghel vide la fronte corrucciarsi ed ebbe la sensazione che non le avrebbe rivelato tutto. Ma una parte almeno sì... stava a lei verificarla successivamente.
«Per riuscire a farti capire bisogna partire molto prima. Come mio zio ti ha spiegato, i vampiri vennero usati dai propri tamer come mezzo per raggiungere il potere. Molto presto, però, gli stessi tamer s’accorsero che quel che stavano mettendo in pratica avrebbe presto portato alla completa distruzione non solo della razza umana, ma di tutto il pianeta: vampiri mossi l’uno contro l’altro, nascosti tra gli eserciti. Esseri capaci di distruggere le più numerose armate... senza un adeguato controllo, presto sarebbe stato il caos. Fu così che, appena qualche anno dopo la caduta dell’impero romano d’occidente, alcune tra le più potenti famiglie di tamer, ossia quelle con i vampiri più temibili, si unirono e crearono il concilio dei tamer. Questo funzionava esattamente come una setta segreta, estesa su tutto il globo. Avevano raduni annuali o semestrali, a seconda del periodo storico, e come fondamento base vi era la legge secondo la quale nessun tamer avrebbe mai cercato di prevalere su di un altro; al tamer era impedito di ricoprire alte cariche politiche nel proprio paese, né, di conseguenza, poteva aspirare a governare; compito dei tamer, inoltre, era quello d’impedire che un'unica persona salisse a controllare l’intero mondo.»
«Insomma, rimanevano nell’ombra controllando gli equilibri politici dei vari stati.» concluse Anghel.
«Esattamente. Non vi sono, nella storia dell’uomo, molte famiglie famose di tamer. Ricche sì, senza dubbio. Ma non famose. Come potrai benissimo immaginare, non è stato facile e non son mancati i tamer dissidenti. Ma tutto sommato il concilio, interferendo il minimo con la storia dell’uomo, riusciva a controllare la potenza dei vampiri e a impedirne l’eccesso. Fu dopo l’anno mille che iniziarono a stilare i primi alberi genealogici, per poter controllare meglio le varie famiglie, nessuna esclusa. Non erano rapporti pacifici, ma di pari osservazione: nessuno si fidava ciecamente dell’altro, ma tutti prestavano attenzione affinché l’equilibrio non venisse spezzato.»
«Fino al 1789...»
«Sì. Quel che avvenne durante la rivoluzione francese non è molto chiaro. Si sa per certo che quello fu l’anno dell’ultimo concilio di tamer. Venne letteralmente spazzato via. Si ipotizza che alla base della rivoluzione vi fosse qualche famiglia ribelle di tamer, la quale avrebbe sobillato la folla per spodestare il monarca e salire al potere al suo posto. Per far questo, ovviamente, uno dei primi ostacoli era proprio il concilio. Quante famiglie fossero coinvolte non è chiaro, né se successivamente queste siano state bloccate, né come. Non si sa per certo nemmeno quali vampiri fossero implicati. Tutto quel che è arrivato sino a noi è che quello fu l’ultimo anno del concilio. In una villa, poco fuori Parigi, erano conservati tutti i documenti relativi alle varie famiglie, ai trattati, ai rapporti. Tutta la storia del concilio, per farla breve. Sempre la notte della presa della Bastiglia, quando vennero uccisi molti vampiri, la villa venne rasa al suolo da un incendio, sprigionato proprio in seno alla camera di consiglio che a fece collassare su se stessa. I vampiri sopravvissuti e le loro famiglie, di fronte alla rivoluzione e al disastro in cui essa si stava trasformando, dal momento che pareva ormai priva di guida, furono prostrati per la disfatta del concilio e non si riunirono mai più. Da allora sono riprese le sopraffazioni, non tanto per avere più territorio o per conquistare un dominio mondiale, quanto per eliminare più vampiri possibili. Una sorta di “ti uccido prima che tu tenti di ammazzare me”. Per questo, ora come ora, di vampiri ne son rimasti molto pochi. Durante le due guerre, specialmente nell’ultima, molti tra i più anziani sono stati eliminati e i giovani spesso rimanevano senza tamer e impazzivano in breve. Dopo la seconda guerra mondiale, visto il disastro che si stava profilando davanti, alcune famiglie si sono nuovamente unite, ricreando un nuovo concilio.»
«Mi stai dicendo che al mondo, dopo duecento anni, c’è un nuovo concilio di tamer e nessuno ne sa niente?»
«Bè... per tutta la storia nessuno ha mai saputo niente dei vampiri, perché ora dovrebbe essere diverso? Comunque sì, è da pochi anni che è stato ristabilito, una quarantina circa. Più o meno mantiene le stesse funzioni che aveva il concilio precedente, in più si occupa dei vampiri senza tamer, eliminandoli o cercando di ricostruire, dove possibile, la linea di successione. La maggior parte vengono eliminati.» spiegò Bruno, agitandosi sul sedile, la fronte corrucciata.
Era visibilmente infastidito.
«Tuo zio fa parte del concilio, vero?»
Bruno annuì stanco.
«Jahèl era sulle tracce di Alam, quando lui ti trovò. Solo per questo non venne catturato dal concilio, perché aveva ritrovato un tamer. Inoltre, pare che il tuo vampiro sia molto abile nel far perdere le proprie tracce. In undici anni, nessuno è mai riuscito a prenderlo, pur sapendo perfettamente dove trovarlo... Abbiamo il sospetto che chiunque voglia Alam abbia in mente progetti contrari al codice del concilio. Quindi è nostro compito proteggervi.»
«In pratica sei qui su ordine del concilio...»
«In pratica son qui su ordine di mio zio... sì...» disse, lapidario.
Anghel guardò di sbieco il giovane. Qualcosa non la convinceva molto nel discorso di Bruno. La presa della Bastiglia... il concilio caduto durante il 1789, l’unico anno impresso nella memoria di Alam... doveva sicuramente esserci altro, ma ora era troppo stanca e, non avendo la benché minima intenzione di addormentarsi, si concentrò sulla strada per rilassare la mente, in modo da averla il più possibile lucida.
Passò qualche ora, quasi in silenzio. Si scambiarono poche parole, il necessario. Hai fame, hai sete, vuoi fermarti, ti do il cambio alla guida... cose del genere. Fecero solo una sosta, in tutta la mattinata, per recuperare qualcosa per il pranzo e per sgranchirsi le gambe, oltre ad un ovvia tappa al bagno dell’autogrill. Poi ripresero il viaggio. I loro due compagni silenziosi non fecero mai notare la propria presenza. Per non tradire l’età di Alam, Anghel non scostò mai la tenda, nemmeno una volta. Così ogni tanto si dimenticava di loro e a volte si chiedeva cosa potessero mai fare. “Che razza di pensiero! Dormono, questo è certo... del resto, Alam è abituato da secoli a dormir di giorno. Anche se ha scoperto di poter girare liberamente alla luce del sole, rimane sempre una creatura notturna.”
«Allora, cosa fa il concilio dei tamer, nel dettaglio.» chiese ad un certo punto, sperando che l'umore del giovane fosse più sereno e aperto.
Erano ormai arrivati alla frontiera francese, mancava poco ed era il primo pomeriggio. Bruno stava mangiandosi tranquillamente il panino e quasi gli andò di traverso il boccone, preso alla sprovvista.
«Cosa vuoi sapere, di preciso?» chiese, una volta ripreso il controllo delle sue vie respiratorie.
«Tutto. In fondo, se non ho capito male, Alam era ricercato dal concilio fino a undici anni fa.»
«Non mi sembra che ci sia molto altro da aggiungere a quel che ti ho già detto. Il concilio moderno è ancora molto giovane. Inoltre è fragile. Le famiglie di tamer son rimaste molto poche e di queste, ancora meno sono quelle disposte a mettere nuovamente a repentaglio se stesse e il proprio vampiro. Se consideri che, pochi secoli fa, è bastata una notte per far crollare una delle organizzazioni più estese e solide del mondo... per di più negli anni successivi queste stesse famiglie, che ora cercano di collaborare, si davano battaglia. Diciamo che riguadagnare fiducia nell’istituzione del concilio non è facile. Quindi, uno dei fronti in cui si sta muovendo è questo: ottenere quanti più consensi possibili e l’adesione di tutte le grandi famiglie rimaste. Poi c’è la questione dei vampiri senza tamer, come lo era Alam. Non ne sappiamo il numero esatto, ma ogni tanto ci giunge notizia di un vampiro solo. E questo viene braccato, tenuto sotto controllo e, se possibile, catturato. Si cerca la sua famiglia di tamer, ma per molti è difficile ricollegarli a qualcuno.»
«Così li eliminate...» disse, fredda, lei.
«Non ci sono molte alternative. Tu non hai mai visto un vampiro senza tamer. Un vampiro che non sta a contatto con gli uomini da più di due secoli... non sai cosa diventano...» si difese lui.
«Non fare l’uomo vissuto con me!» sbottò, improvvisamente irritata dal suo tono saccente.
Non che avesse torto, affatto. Bruno era immerso nel mondo dei vampiri da chissà quanto tempo, di cose doveva per forza saperne e averne viste, ma c’era qualcosa nel suo tono, una specie di rimprovero che non poteva tollerare. Per cosa la riprendeva? Per aver detto la verità senza cercare d’abbellirla o di mitigarla? I vampiri senza tamer venivano eliminati, distrutti, uccisi.
«Non è questione di fare l’uomo vissuto o meno. La questione è che sono irrecuperabili, non è umano rimetterli in libertà. Sarebbero capaci di distruggere intere città, se lasciati liberi di agire secondo il proprio istinto. E mantenerli in vita equivale comunque a dar loro del sangue con cui nutrirsi. Da dove pensi che possa essere ricavato il sangue necessario? La fame di un vampiro solo è esponenzialmente più alta di quella di un vampiro con tamer. Non siamo ancora riusciti a capire perché, ma la questione è questa: sfamare un vampiro solo diventa un onere eccessivo. Quindi non rimane che eliminarli.»
«E Alam? Avreste ucciso anche lui?»
«L’ordine era quello di tenerlo sotto controllo. Era evidente che non era ancora ad uno stato irreparabile. Avremmo dovuto anche catturarlo, ma non ci siamo mai riusciti. È stato sempre più furbo di noi...» disse con un sorriso truce.
Anghel rimase immobile, fissando la strada, ma dentro di sé sentì di essere stranamente orgogliosa di lui.
«Poi, quando lui ti trovò, continuammo a mantenere un contatto. Questo perché lui non t’aveva ancora, per ragioni sue, contattata. Inoltre ci accorgemmo di non essere i soli a tenerlo d’occhio. Non abbiamo mai capito chi altri fosse sulle tracce di Alam, anche se, visto quale elemento lui controlla, non ci sfuggiva il motivo.»
«Parli sempre del concilio come se tu ne fossi in mezzo, te ne sei accorto, vero?» gli disse lei a quel punto, sogghignando.
Bruno si volse di scatto a guardarla, ma Anghel non avrebbe potuto dire quale fosse la sua espressione, in ogni caso la inquietò.
«Nel bene e nel male, diventerò il tamer di Jahèl. È una delle vampire più antiche conosciute, sai? La famiglia Leonardi gode di un’ottima posizione nel concilio per questo.» le rispose glaciale.
Stranamente non v’era traccia d’orgoglio nelle sue parole. Più rassegnazione... e tristezza.
«I tuoi genitori... sono stati uccisi per via della successione di Jahèl?» domandò, titubante.
Il silenzio che lasciò la sua domanda la fece arrossire, ma non riuscì nemmeno una volta a distogliere lo sguardo dalla strada per vedere l’espressione del suo compagno di viaggio.
«Scusa... non volevo...» la sua voce le suonò come il rumore inascoltabile delle unghie sulla lavagna.
Ma il silenzio divenne più intollerabile.
«Sono morti... in un incidente d’auto. Ero molto piccolo allora, ho ricordi vaghi e confusi. Zio Samuele mi prese con sé, nella sua casa a Venezia, e da allora io sono a conoscenza dell’esistenza dei vampiri. Non so se mio padre sapesse chi viveva con mio zio, forse sì. Non me ne parlò mai. Ma non credo li abbiano uccisi per la successione: avrebbero dovuto eliminare anche me, ma non sono mai stato vittima di attentati.» la voce fredda, come se elencasse una serie di numeri priva di senso.
«Scusa, veramente...»
«Il fatto che tu sia così indifferente per la sorte della tua famiglia non deve indurti a pensare che per tutti affrontare la morte sia così facile!» le sue parole colpirono lo stomaco di Anghel come una raffica di pugni.
Non che fosse mai stata picchiata, ma la sensazione non doveva esser tanto diversa: il respiro le venne a mancare e sentì le guance bruciare per l’afflusso di sangue.
«Evidentemente star così a stretto contatto con un vampiro ti ha resa più simile a lui.» l’ultimo colpo, in piena faccia.
Anghel rimase in silenzio, immobile, pensando solo a guidare, cercando di concentrarsi su qualsiasi altra cosa, cercando di far svanire l’eco di quelle parole e di non riflettere affatto su di esse.
Ma lui non ebbe pietà:
«Giudichi. Ti permetti di criticare l’operato del concilio senza conoscere le circostanze, senza sapere la verità su come funziona questo mondo. T’intrometti in cose che non ti riguardano minimamente e non sai nemmeno guardare a te stessa. Da meno di ventiquattro ore hai scoperto che la tua famiglia è stata uccisa e sei qui, fresca e tranquilla, a pormi domande del genere come se mi stessi chiedendo quale gusto di gelato preferisco! Così concentrata su quel... mostro! Andiamo a Parigi per lui, non è vero? Non t’importa di tua madre e tuo padre, immagino. Non te ne frega un cazzo! Lo sai che son morti per quel vampiro, vero? E te ne stai qui, tranquilla, a intrometterti in faccende che non ti riguardano! Non provarci mai più! Non ho la minima intenzione di far entrare la tua merda dentro la mia vita! Già son obbligato a farti da balia, contro la mia volontà!»
Anghel era sconvolta: le aveva parlato con tranquillità, come se stesse descrivendo il paesaggio. E l’aveva annientata.
«Se non volevi...» provò a dire.
«Non essere stupida! Ti ho detto che son obbligato! Ho dei doveri, verso il concilio. E se mi vien detto di seguire e proteggere una ragazzina, la seguo e la proteggo. Ma non farmi più domande sulla mia vita!» sibilò alla fine.
Anghel rimase in silenzio, annichilita. Bruno era sempre stato gentile con lei, strano ma gentile. Lo era stato solo per ordine del concilio? Sempre una farsa? Non osò ribattere. Se anche avesse osato aprir bocca e dire qualcosa, sarebbe subito scoppiata in lacrime. E questo proprio non voleva farlo...
 
***
 
Alam passò gran parte del tempo a fingere di dormire. Non c’era un motivo effettivo, non temeva la vampira che gli sedeva accanto. Solo voleva ascoltare quel che veniva detto e non dover intrattenere una conversazione. Si sentiva strano... E lo stomaco continuava a stringersi e a dargli fastidio. Avrebbe tanto voluto prendere quel dannato ragazzino per il collo, sbattergli la testa contro il vetro della macchina e stare a guardare i disegni che il suo sangue avrebbe formato sul cofano. La voce di Anghel tremava sempre di più, la sentiva vicina al pianto, sentiva che si stava facendo del male al suo tamer. Se non ci fosse stata la vampira di nome Jahèl al suo fianco, a controllarlo, non avrebbe esitato nemmeno un istante.
Il concilio dei tamer. Gli avevano dato la caccia... e i loro intenti non erano dei migliori, il suo istinto gliel’aveva suggerito, intimandogli la fuga costante.
Non mosse un muscolo per tutta la giornata, ben attento a non far intendere a Jahèl che fosse sveglio. La vampira aveva eluso la sua presenza, usava il vento a suo vantaggio impedendo che il proprio odore venisse scoperto. Ma anche lui era capace di fingere e celare. Del resto, se aveva ben inteso, anche lei lo aveva braccato in quegli anni. E lui era sempre fuggito.
Il giorno passò relativamente in fretta, nel dormiveglia cullato dal moto della macchina. Anghel non sembrava in imminente pericolo di vita e lui poteva permettersi di abbassare la guarda per pochi istanti.
La macchina si fermò e la coperta davanti a loro venne tolta.
«Bene. Possiamo fare una breve sosta qui. Per rifocillarci un po’!» disse il ragazzo.
Aveva fame... sì... lo trovava decisamente più appetitoso della notte precedente e questo voleva dire che aveva molta fame. Jahèl era accanto a lui. Lo stava forse controllando? Con la coda dell’occhio, però, vide che anche lei doveva essere terribilmente affamata: dell’azzurro del suo sguardo, ormai, non era rimasto più nulla.
«Tu e Jahèl, potete andare...» sentenziò il giovane.
Non aveva intenzione di lasciar decidere a lui. E se doveva proprio mangiare in presenza di qualcuno, non era certo quella vampira la compagnia che avrebbe scelto! Di scatto prese il braccio di Anghel e se la strinse al petto.
«Io mangio col mio tamer. Tu col tuo!» disse rivolto a Jahèl.
«Mi pare giusto...» rispose lei.
«Non essere ridicolo! Dobbiamo rimanere tutti uniti!» disse Bruno, rivolto però solo a lui nonostante anche Jahèl fosse a favore della sua scelta.
«Non andremo da nessuna parte. La macchina ci è molto utile e quindi la sfrutteremo. Se ci tieni tanto a rimaner tutti uniti, vieni a vedermi mangiare anche tu!» sibilò Alam, stringendosi sempre più Anghel, la quale non sapeva cosa dire e rimaneva a bocca aperta guardando prima uno e poi l’altro.
Che sensazione fantastica, la faccia di quel giovane rossa e la bocca storta a mostrare i denti. Voleva intimorirlo con quell’apparato che aveva ormai perso quasi tutto il potenziale pericoloso di un predatore? Era veramente bello! Senza dargli tempo di dire altro, né a lui né tanto meno ad Anghel, si caricò la ragazza sulle spalle come facevano a Venezia e sparì nella notte.

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Capitolo 13
*** Verso Parigi ***


 12. Verso Parigi

 
Bruno rimase immobile a fissare il punto in cui, appena pochi istanti prima, si trovavano Anghel e Alam. Ora non vi era più nulla e la notte aveva già provveduto a inghiottirli. Non appena il sole aveva deciso di andarsene si erano fermati in una cittadina francese di cui non ricordava nemmeno il nome. Per tutto il viaggio, dopo la sua poco intelligente sfuriata, lui e Anghel non avevano parlato molto. Anzi, quasi per niente.
Era uno stupido. Un vero idiota!
Sentì una mano posarsi lieve sulla sua spalla e di scatto si girò verso la vampira, che ancora lo stava aspettando.
«Vai a mangiare anche tu, Jahèl. Sei troppo affamata!» sussurrò, distogliendo immediatamente lo sguardo da quegli occhi completamente neri, privi di bianco, inumani... disgustosi...
«Sei attratto da quell’umana, non è vero?» fu la risposta di lei. «Già a Venezia ne eri attratto, me ne sono accorta, il tuo odore cambia intensamente quando le stai accanto.»
«Cosa stai dicendo? Vai a mangiare, che mi pare tu sia accecata dalla fame e non ragioni bene!» disse sprezzante.
«E sei geloso di quel vampiro, di Alam...» continuò incurante la vampira, sempre continuando a tener fissi i suoi occhi famelici su di lui.
La gola esposta, Bruno se la coprì istintivamente con la mano, ben consapevole dell’inutilità del gesto: Jahèl non si sarebbe mai nutrita di lui e, anche se così non fosse stato, quel tentativo di proteggersi era completamente futile. Ma non riusciva a sopportarla, non poteva capire come Anghel riuscisse a sostenere quello sguardo. Ti mangio! Ti sbrano e scortico e lecco tutto il tuo sangue fino a farti morire, lentamente... questo dicevano gli occhi di quelle bestie! E per quanti anni lui fosse stato a contatto con loro, ancora li temeva profondamente. Jahèl continuò, spietata:
«Sei geloso che lei scelga sempre di andar via con lui. Che tutto quel che fa sia legato a lui, che si lasci toccare... prendere... curare...»
«Adesso basta, Jahèl! Stai esagerando!»
«Non è trattandola in quel modo, che otterrai i suoi favori.» sbottò la vampira.
Aveva chiaramente ascoltato tutta la loro conversazione.
«Non sarai mai come lui, per lei. Nessuno lo sarà! Rassegnati... chiunque lei scelga, dovrà tollerare la presenza costante di Alam, il fatto che quel che lega lei a lui non potrà mai essere eguagliato. È una cosa che, a suo tempo, forse capirai anche tu!»
«Perché forse? Non sarò io il tuo prossimo tamer?» disse sprezzante, rifiutandosi di guardarla.
«Sì. Ma con ogni tamer è diverso.»
E lo lasciò fermo nella notte, solo, accanto alla macchina, mentre s’avviava verso il suo prossimo pasto. Lo lasciò lì, a seguirla con lo sguardo, disgustato...
Mi tocca ascoltare lezioni sulle relazioni umane da un mostro!”
Ma aveva ragione. Anghel... ne era attratto, immensamente. E vederla abbracciata a quell’insignificante mostro disumano, così preoccupata per una creatura che non dovrebbe nemmeno esistere! Lo faceva infuriare, perché quella spalla su cui lei si appoggiava sempre avrebbe potuto essere la sua.
 
***
 
«Alam! Alam ti spiacerebbe rallentare?» gridò la ragazza all’orecchio del vampiro.
Ma cosa gli era preso? Non si era mai comportato in quel modo! La memoria di Alam stava forse riaffiorando e questo lo portava a essere così incomprensibile? Guardò la nuca scoperta di Alam, i capelli scossi dall’aria che si muoveva attorno ai lobi delle orecchie. Era certa di volergli far recuperare i ricordi? Cosa avrebbe comportato questo? Quanto l’avrebbero cambiato?
Ma cosa vai a pensare? Conosci Alam da meno di un mese!” si disse, sconcertata da quanto la prospettiva di un cambiamento nel vampiro la spaventasse più dell’idea stessa dell’esistenza di creature come lui. Non si era mai soffermata a pensare razionalmente a quel che il legame che la stringeva ad Alam comportava. Lui non era pericoloso per lei, era accettabile il suo desiderio di nutrirsi di sangue, era... normale. In meno di due settimane era diventata la normalità e l’aspetto, le movenze, la pericolosità che oggettivamente quella creatura avrebbe dovuto incutere, per lei non esisteva più. Contemporaneamente, nel giro di poco tempo, Alam era lentamente mutato rimanendole accanto. Che fosse sufficiente per lui il contatto con un tamer per recuperare quel che aveva perso? Quando l’avevo incontrato, lui aveva parlato di qualcosa che doveva ritrovare. E lei aveva pensato fossero i ricordi che non aveva più. Ma questi ricordi quanto avrebbero cambiato l’Alam che le rimaneva accanto, che la proteggeva indipendentemente dalla situazione?
La corsa del vampiro si bloccò in un vicolo scuro. “Molto banale...” pensò Anghel. La fece scendere lentamente e, senza voltarsi a guardarla, si acquattò proprio all’angolo della strada. Lei si sistemò poco più in là, seduta sul pianerottolo di una casa in disuso, pregando silenziosamente che non vi fossero topi o ratti nelle vicinanze attratti da quella porta marcia alle sue spalle. Alam fu rapido, come sempre. La mano scattò veloce non appena vi fu un accenno di movimento lungo la strada traversa rispetto al loro vicolo e il povero malcapitato non ebbe nemmeno il tempo d’accorgersi di quel che stava avvenendo che si trovò due canini piantati saldi nel collo e una mano che forte gli bloccava la bocca e le grida. Doveva essere particolarmente affamato, perché il vampiro succhiò avidamente dalla vena del giovane fino a quando, con un vistoso sospiro di soddisfazione, non lasciò andare la preda sollevando la testa verso l’alto. Anghel chinò il capo, cercando di mantenere la concentrazione sui disegni scuri dell’asfalto sotto i suoi piedi. Sentiva i fruscii di Alam, i suoi piccoli spostamenti insieme al corpo della sua preda. L’aveva ucciso? Si domandò lei, ma in realtà non le interessava minimamente della vita di quella persona. Non le importava affatto...
«Ora ci spostiamo.»
L’ombra di Alam coprì quel poco di luminosità che il lampione della strada accanto le aveva fin’ora consentito. Di scatto lei alzò la testa.
«Non ti sei nemmeno pulito.» sussurrò, notando il contorno rosso delle labbra del vampiro e le gocce scure che gli scendevano fin sul collo.
Non vide lo sguardo che lui le rivolse, né se ne curò. Gli montò nuovamente sulle spalle, percependo a mala pena l’odore di sangue fresco, e non degnò nemmeno di un’occhiata il corpo accasciato a terra. Non protestò quando Alam, sostenendola con una mano, fece scaturire dal palmo dell’altra una fiamma rossa che incenerì i resti della sua vittima. Non pianse. Non provò nulla.
Alam scattò verso i tetti, i suoi muscoli tesi erano molto più attivi rispetto a pochi istanti prima. L’afflusso di sangue fresco nel corpo di quella creatura le conferiva una forza immediata. Si spostarono per qualche minuto, in silenzio. Anghel teneva gli occhi chiusi e lasciava che la sua mente vagasse, immaginando i vicoli che sfrecciavano sotto di loro rapidi, una cartolina del prototipo di mille città medioevali. Il vento le scorreva sul corpo, solo in parte protetto dalla massa agile di quello di Alam. Solo quando si fermarono e lui la fece scendere riaprì gli occhi.
«Alam!» bisbigliò, aggrappandosi immediatamente al braccio del vampiro. «Ma dove mi hai portata?!» gli ringhiò contro, puntellandosi con i piedi per non scivolare.
Il vampiro la sostenne gentilmente per le braccia e le intimò con lo sguardo di sedersi sul tetto della guglia. Erano in cima ad una chiesa gotica, sopra la guglia più alta. Lei non gli permise di allontanarsi, arpionandogli le braccia e spingendo anche lui contro il tetto puntuto.
«Si può sapere che ti succede?» sibilò lei, cercando di ripararsi dalla brezza che si era improvvisamente alzata.
«Potrei farti la stessa domanda, Anghel. Non hai nulla da dirmi?» la voce del vampiro era fredda, distante... la stava forse rimproverando?
Anghel volse lo sguardo stupito su di lui, ma fu subito costretta a distoglierlo inorridita.
«Pulisciti.» sussurrò, così debolmente che nemmeno lei fu certa di aver pronunciato quella parola.
Con un gesto della mano libera, Alam si terse il sangue dalla faccia e dal collo e lo leccò via, togliendo ogni minima traccia ma non l’odore, ancora pungente.
«L’ho ucciso, avevo fame questa notte e così mi sono nutrito in una volta sola. Non hai nulla da dirmi?» continuò lui.
Anghel non capì dove lui volesse condurla, con quel discorso. Ma improvvisamente provò un’incredibile paura e iniziò a piangere. Pianse tutte le lacrime che non credeva di avere: pianse per i suoi genitori, per Bruno, per Alex, ma soprattutto pianse per se stessa. Per quella lei che era sparita a undici anni e poi nuovamente scomparsa in quei giorni. Pianse perché era sola e si affidava ciecamente a qualcosa di mutevole e instabile qual’era Alam. Pianse perché non sapeva più con certezza se fosse veramente giusto andare a Parigi. Pianse perché nessuno più le avrebbe detto cosa fare e cosa non fare, di chi poteva fidarsi o meno... la mano di Alam, ancora una volta, le carezzava i capelli. Era una presenza concreta, un contatto fisico che realmente esisteva.
«Questa sera ti sei comportato così con Bruno perché oggi hai sentito tutti i nostri discorsi in macchina, vero?» biascicò, quando i singhiozzi si calmarono e la voce tornò a esser strumento disponibile della sua gola.
«Ti ha fatto male, giusto?» fu la risposta che ottenne.
Anghel annuì, in silenzio.
«Tu non vuoi andare a Parigi, non è vero? Non sei d’accordo con la mia decisione.» disse nuovamente, le parole già più sicure nella sua bocca, il suono più deciso.
Alam non rispose, ma lei percepì la sua mano, che ancora le carezzava i capelli, irrigidirsi per un breve istante.
«Devo capire chi sei, cosa ti è successo. Magari riesco a trovare qualcosa che mi possa indicare chi sta cercando di uccidermi, chi ci da la caccia. Parigi è l’unico indizio da cui mi sembra di poter partire.» spiegò lei. «E tu hai perso qualcosa, ricordi? Me l’hai detto la prima volta che ci siamo incontrati... forse così riusciremo a scoprire cos’è e come recuperarlo...»
Alam rimase ancora in silenzio. Aveva smesso di carezzarla ma non si era sottratto a lei, continuava a sostenerla col suo corpo, impedendole di scivolare lungo la guglia.
«Capisci, Alam? Parigi è l’unico dato certo che ho... e non mi sembra di avere altro. E se non mi attacco a qualcosa di concreto, se non trovo qualcosa di effettivo su cui focalizzarmi, non so cosa potrei fare, come potrei camminare...» sussurrò, nascondendo il volto sulla spalla del vampiro, ancora intrisa dell’odore di sangue e colonia economica della sua ultima vittima.
Alam alzò lo sguardo al cielo, sopra di loro una nuvola aveva appena liberato dalle sue spire buie la luna. E ora loro ne erano illuminati, completamente. Chissà che cosa dovevano sembrare da sotto, due figure buie, forse due gargoyles fuori posto in cima alla guglia. Anghel non se ne curò, era tardi, nella piazza sottostante nessuno stava rimirando quella luna eccetto loro: vampiro e tamer, umano e mostro, stretti, un legame di sangue che li univa, un legame inspiegabile e insondabile. E lei, stanca di porsi domande di cui non era certa di voler conoscere le risposte, tutto quel che desiderava era rimanere lì per sempre.
«Andiamo, ci staranno aspettando.» disse Alam, prendendola di peso e sollevandola nuovamente.
Si lasciò cullare sui tetti del villaggio, senza fiatare, contenta del profumo di sangue che Alam emanava, contenta del silenzio della notte, del mondo che non esisteva fuori dal loro abbraccio.
 
***
 
Nessuna domanda, nessuna risposta.
Alam in realtà non aveva niente da dirle. Anghel non era stata bene durante quel giorno, separata da lui da una tenda. Lo sapeva che non doveva lasciarla sola nemmeno un istante! Lui doveva proteggerla! Non importava che quel contenitore deambulante di sangue venisse a conoscenza della sua possibile età. Anghel doveva rimanere il più possibile accanto a lui. Lo sapeva, sapeva che era necessario portarla con sé ovunque, persino durante la caccia, sapeva che lei aveva bisogno della luna e del silenzio quella notte. E del suo braccio per reggersi in piedi.
Sapeva anche che ormai il suo braccio non gli apparteneva più, come tutto il corpo del resto. Ora era diventato qualcosa di più, qualcosa di unito ad Anghel, qualcosa di unico. Se lei aveva fame, l’avvertiva anche lui, se lei era stanca, lo era anche lui, se era arrabbiata o triste, persino lui lo diventava.
Anghel ora era preoccupata. Per Parigi, per quel che là avrebbero trovato. Lui lo era? Sì, ma solo perché lo era anche lei. In realtà, per quel che strettamente lo riguardava, trovava più che altro fastidioso l’andare a Parigi. Gli umani avrebbero usato il termine “fastidioso”: era come quando stava appostato per ore da qualche parte ad attendere una preda che si rifiutava di passare o non si avvicinava perché esattamente a pochissimi passi da lui si era piazzato un cane enorme che non la finiva più di abbaiare. Questo era “fastidioso”...
Arrivarono in fretta alla macchina. Jahèl era appena ritornata, Alam notò che si leccava le labbra cercando quasi di non farsi notare. Bruno invece lasciava che a sostenerlo fosse il peso dell’auto, lo sguardo abbassato verso l’asfalto e le sopracciglia corrucciate. Doveva essere ancora arrabbiato. Bene.
Alam si lasciò cadere dal tetto più vicino, scivolando sull’asfalto con quanta più delicatezza possibile, considerando che doveva trasportare Anghel. Solo in quel momento il giovane alzò lo sguardo e, con tono scontroso, disse:
«Bene. Ora penso che anche io e Anghel potremo nutrirci! Questo ovviamente ci farà perdere altro tempo, ma, visto che non si poteva proprio fare altrimenti...» borbottò.
Cosa voleva fare? Tentare di provocarlo? Stava scherzando?
Lui era solo cibo, un cibo in scatola che adesso non avrebbe mangiato. E solo per due semplici motivi: primo era già sazio e a lui non era mai piaciuto mangiare più di quel che gli occorreva, anzi, gli veniva la nausea quando mangiava troppo; secondo, non era così pazzo da mettersi contro la vampira femmina. Non che la temesse, ma di certo non la sottovalutava. Le era sfuggito per undici anni ed era anche riuscito a prenderla alla sprovvista una volta e ad atterrala. Questo non voleva dire che sarebbe stato facile batterla. In conclusione, lui non si sarebbe nutrito di quel giovane, ma rimaneva il fatto che il ragazzo era semplicemente una cella frigorifera di buon fresco sangue e il suo tentativo di provocarlo era semplicemente ridicolo.
«Ho preso qualcosa per noi, nell’attesa. Possiamo mangiare in macchina.» disse poi.
Un ordine, più che un’idea da condividere e vagliare.
«Ottima idea!» rispose lui.
Bruno si girò a guardarlo. Che sguardo sublime... gli venne l’improvviso impulso di gettarlo a terra e mostrargli le fauci, così, solo per fargli intendere la sua condizione. Gli occhi di Bruno brillavano carichi d’odio. L’odio, gli aveva detto Anghel, è quando senti di voler ferire una persona, far del male, farla star male. Gli aveva detto così. E poi aveva dovuto spiegarle cosa voleva dire far star male e poi via discorrendo, una catena infinita di termini da ricordare ora totalmente inutili! Però era bello vederlo su quel volto, sì, riusciva quasi a capire cosa Anghel intendesse per odio. Bruno sembrava pronto a balzare e a tentare di graffiarlo. Forse erano rimasugli della vita primordiale animale di un essere umano... forse... chissà... in realtà non gli importava. Quel che veramente gli interessava era vedere quanto si sentisse sicuro con la vampira accanto a proteggerlo. Avrebbe voluto affrontarlo senza di lei. Chissà se si sarebbe permesso la stessa sfrontatezza. Era proprio curioso di sapere cosa sarebbe potuto accadere.
Si accorse anche di voleva alimentare quello sguardo. Era abituato a vedere paura e incomprensione negli occhi degli umani che aveva incontrato. Di cosa mai sarebbero capaci quelle fragili creature di fronte a lui? Le loro emozioni le rendevano forti o deboli? Fin’ora aveva vinto sempre, ma alimentando una passione così forte avrebbe forse potuto sconvolgere l’equilibrio preda-predatore, forse avrebbe potuto assistere a qualcosa di... nuovo...
«Potremmo anche sederci davanti io ed Anghel, fino al sorgere del sole. Così tu riposerai insieme a Jahèl e poi darai il cambio a lei.» propose Alam.
Esatto! Era questo quello che voleva da lui, esattamente questo intensificarsi. Sentiva il sangue dell’umano scorrere più veloce, il cuore batteva più forte sotto quella maglia che non avrebbe potuto proteggerlo nemmeno da un moscerino. Vedeva le nocche delle mani diventare bianche, perché stringeva i pugni più forte.
Si era accorto che, in presenza di Anghel, quel giovane umano cambiava, il suo odore si modificava e i suoi atteggiamenti erano da un lato incerti e insicuri, dall’altro parevano tutti protesi nei confronti del suo tamer. In aggiunta a ciò, era altrettanto evidente quanto la sua presenza, la presenza di Alam, fosse considerata da Bruno una minaccia. Una minaccia diversa dalla morte! Voleva vedere se poteva sfruttare tale potere, voleva conoscerlo, manipolarlo se possibile per poi usarlo anche con altre prede. Ma prima, ovviamente, doveva capirlo.
Bruno sbuffò e, seppur con riluttanza, accettò la sua proposta. Era ragionevole, del resto. Così sia lui che Anghel sarebbero giunti a Parigi riposati. All’alba non mancavano che un paio d’ore e poi altre due scarse forse per giungere in città.
«Va bene...» fu la laconica risposta del giovane, e, senza aggiungere altro, entrò nella macchina e si sistemò dietro sbattendo la portiera.
Guardò indifferente la vampira che saliva accanto al giovane umano, annusando solo l’aria ancora intrisa di sangue che emanava. Aveva ancora fame... ma non così tanta da doversi nutrire, quindi poteva ignorarla. Cercò di non guardare l’occhiata storta che gli inviava Anghel. Il suo volto poteva benissimo essere rappresentato come un punto di domanda gigantesco e lui non aveva nessuna voglia di risponderle ovviamente, non con quell’aroma di sangue intorno che avrebbe invaso l’abitacolo del veicolo e lo avrebbe in ogni caso distratto da qualsiasi cosa.
Così si limitò a salire sulla macchina dal lato passeggero, attendendola.
«Prima o poi dovrai spiegarmi molte cose...» sussurrò Anghel, una volta sedutasi accanto a lui.
Per tutta risposta, Alam girò il capo verso il finestrino, lasciando che le immagini della cittadina prima e della campagna francese poi lo distraessero sufficientemente da non pensare a quel piccolo buco che sentiva nello stomaco.
 
***
 
«Bene... e ora cosa pensate di fare, voi due là dietro?» la voce di Bruno le arrivò ovattata da oltre la tenda, lievemente irritata.
Aprì gli occhi lentamente, cercando di scacciare le ultime immagini del sonno. Era stato un bel sogno bellissimo. Così bello da farle rimpiangere il buio della notte e l’incosciente stato in cui era stata fino a pochi istanti prima. Non ricordava i particolari. Solo c’era Alam, nel suo sogno... e anche Alex ed era vivo e la teneva stretta, come quando era una bambina. E Alam era davanti a loro e... sorrideva. Non aveva mai visto Alam sorridere, ma era certa che, se ne fosse stato veramente capace, avrebbe avuto quel sorriso... aperto... luminoso come la luna... sereno ed eterno... e poi c’erano anche i suoi genitori e... Sofia, sì. C’era anche lei che rideva accanto ad Alam, scuotendo lievemente i suoi riccioli rossi. E tutto era come avrebbe dovuto essere.
La luce non filtrava, c’era solo un lieve chiarore dietro la tenda che oscurava l’abitacolo a dimostrare la presenza del sole nel mondo. Dov’era lei era buio. Sentì un fruscio sulle gambe e un piccolo peso poi sul ventre a dirle che Alex era saltato su di lei, per svegliarla. Un miagolio soffocato. Era estremamente offeso perché in quei giorni non l’aveva coccolato nemmeno un istante e si era quasi sempre dimenticata di lui! Povera bestia, sballottata nella sua gabbietta prima in treno poi in una grotta poi in macchina. Quando Bruno, pochi istanti prima del sorgere del sole, le aveva dato il cambio, lei aveva aperto la gabbia del gatto, lasciandolo libero di girare sui sedili posteriori tra lei e Alam. Subito l’animale si era messo tra di loro, come per rimarcare una sua proprietà allontanando il più possibile l’intruso. Alam aveva rivolto solo un laconico sguardo inespressivo alla bestia acciambellata accanto a lui che gli sbatteva la coda sulle gambe e si era subito messo a dormire. Anghel ebbe l’impressione che fosse quasi sofferente, il vampiro, come se qualcosa lo importunasse. Ma non capiva cosa. Pochi istanti dopo era crollata addormentata e si era risvegliata solo al richiamo di Bruno, trovandosi ancora una volta abbracciata al vampiro e da lui in qualche modo protetta.
«Dobbiamo trovare un luogo buio in cui poter sostare durante il giorno.» biascicò lei in risposta.
«E girar di notte per un museo di Parigi? Vuoi forse fare infrazione confidando nell’utopica speranza che qui non si conosca l’esistenza di sistemi di sicurezza?» sbottò in risposta la voce di Bruno, acida nonostante il panno pesante che li separava.
«Museo?» sussurrò lei, ancora intontita.
«L’Hôtel des Invalides è il museo dell’esercito, oltre che un ricovero per soldati e reduci.» borbottò il giovane.
L’irritazione che Anghel aveva iniziato a sentire ogni volta che Bruno le rivolgeva la parola stava crescendo sempre di più, ma fortunatamente questo comportò anche un suo repentino risveglio cerebrale.
«Perfetto! Allora vorrà dire che andrò io da sola! Trova un posto dove lasciare la macchina con Alam e poi si vedrà.»
«Cosa pensi di trovare lì dentro?» fu Jahèl a parlare, questa volta.
La voce stanca, laconica, la prima voce che aveva udito al suo risveglio a Venezia. Solo ora notò che il tono della vampira mutava tra la notte e il giorno. Faceva fatica, come Alam, a restare alla luce.
«Non saprei... quando l’avrò trovato saprò cosa stavo cercando...» sussurrò.
Alam sembrava dormire, un respiro ogni venti dei suoi, così lento il battito del suo cuore. I vampiri possiedono un cuore, come sia fatto e in che modo funzioni erano cose assolutamente irrilevanti per lei.
«Se quel che cerchi risale al 1789 allora penso proprio che vagherai in eterno all’Hôtel des Invalides.» borbottò Bruno, ancora al volante.
La macchina era ancora in moto, chissà dove stavano andando. Forse Bruno stava guidando a caso tra le vie di Parigi... forse non erano veramente arrivati a Parigi dopotutto. E questo non era che il suo secondo problema della mattinata! Il primo era la saccenza irritante di quel giovane storico che sembrava deciso a rovinarle la giornata! Va bene, lo aveva capito perfettamente! Non la sopportava, non sopportava Alam, i vampiri, i tamer, il concilio, quella macchina, Parigi, Venezia, qualsiasi cosa! Tutto... le avrebbe criticato tutto senza nessuna possibilità d’appello! Ma non era stata lei a chiedergli di venire. Poteva benissimo dire al concilio che gli erano sfuggiti. In fondo Alam era scappato da Jahèl per un sacco di tempo.
«Perché, se non è troppo disturbo, sarebbe inutile?» rispose, sbuffando.
«Anche ammettendo che tu riesca a girarlo sufficientemente, dal momento che è un complesso enorme che comprende molti edifici, cosa credi di poter trovare? Dal 1789 ha subito molteplici modifiche, è stato utilizzato da Napoleone e rimesso a nuovo sia per ospitare il museo sia per poter accogliere i reduci! Sul serio credi che, dopo tutto questo tempo, sia rimasto qualcosa che possa farti esser collegato ad Alam?»
«Magari nel museo...» provò a balbettare lei.
«Nel museo dell’artiglieria? Cosa? Una baionetta particolare? Pensi che un qualsiasi vampiro abbia mai avuto bisogno d’impugnare armi? Credi che macchine per uccidere ben congeniate come loro temano anche solo una lama?»
Aveva ragione, lei stessa aveva ferito Alam due volte con un coltello, colpendolo ai polmoni di sicuro, e lui era sopravvissuto.
«E’ assurdo che tu voglia girare per il museo! Di giorno poi? Senza Alam? Con lui avrebbe forse più senso. Ma vorresti davvero fare un’effrazione?»
E sta un po’ zitto!” pensò Anghel, incapace però di dirlo a voce alta. Così come si sentiva impossibilitata a controbattere e a far valere le sue ragioni contro quelle del giovane.
Perfetto!
Davvero perfetto... e ora? La sua unica traccia era quel nome, quel palazzo, e quella data, che avrebbe fatto ora? Tornare in Italia era fuori discussione... cosa mai avrebbe potuto risolvere così facendo? Sarebbero rimasti nascosti fino a quando lei non sarebbe morta? Parigi era tutto ciò che rimaneva dei pochissimi indizi che la mente di Alam le aveva concesso.
«Va bene...» disse sollevandosi finalmente a sedere composta sul sedile.
La macchina era ferma. Doveva aver parcheggiato.
«Ho bisogno di riflettere un attimo, con calma. Qualcuno di voi conosce un posto sicuro? Non ci hanno più attaccati da Venezia e dubito che possano trovarci qui ma...»
«Ci sarebbe un posto. È in effetti l’unico che conosco qui, a Parigi.»
Allora erano veramente a Parigi.
«Ma non son sicuro che al tuo cavaliere farebbe piacere andarci...»

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Capitolo 14
*** Il capo del concilio ***


13. Il capo del Concilio

 
«Alam, ti prego...» sussurrò Anghel, tenendo stretto il vampiro.
Sentiva che persino i muscoli del braccio fremevano, scattavano e vibravano a ritmo del suono gutturale che usciva dalla sua gola, del suo ringhio.
Il salottino era arredato in maniera disgustosa, con poltrone piene di pizzi e merletti e con zampe di leone al posto dei piedi; tavoli esageratamente elaborati di legno scuro aiutavano gli imponenti scaffali di ebano colmi di tomi rivestiti di cuoio a incupire ancora di più l’ambiente. Anghel si trovò a pensare che persino in una stanza spoglia dipinta di bianco l’atmosfera non le sarebbe risultata più luminosa, ma forse avrebbe aiutato.
«Bene... a quanto pare, dopo tutti questi sforzi, bastava semplicemente aspettare che fossi tu a venir da noi, vampiro.»
A parlare era stato un uomo sull’ottantina, vestito in un abito gessato che lo faceva sembrare simile a Nosferatus nella sua forma peggiore: la pelle scarna delle guance e del collo, i radi capelli bianchi sulle tempie e le lunghe dita affusolate che si sfregava in continuazione. Stava godendo... sì, esattamente così. Si stava crogiolando della presenza di Alam al suo cospetto e soprattutto, secondo Anghel, del fatto che vi fosse stato costretto contro la sua volontà.
Bruno li aveva condotti nella sede del concilio dei tamer che si trovava a Parigi, in periferia. E aveva avuto ragione: Alam non era per nulla contento di trovarsi in quel posto! Non che avesse effettivamente protestato, non le aveva nemmeno rivolto la parola da quando l’aveva svegliato per farlo scendere dalla macchina.
L’enorme palazzo nella periferia sud della città aveva un parco sufficientemente grande tutt’attorno perché potessero crescere alberi così alti da nascondere la vista della città da qualunque angolazione si cercasse. Inoltre, i garage erano sotterranei e nemmeno il più piccolo raggio di sole avrebbe trovato un passaggio per illuminare gli ambienti umidi che li ospitavano. Un luogo perfetto, per i passaggi di vari tamer accompagnati dai loro vampiri. Dai garage si accedeva direttamente all’enorme casa. Anghel non l’aveva vista dall’esterno, ma non le sarebbe stato difficile immaginarla. Purtroppo era stata troppo occupata a controllare Alam per prestare attenzione ai vari corridoi dai vetri offuscati e alle pareti intarsiate e riccamente affrescate.
Aveva scosso Alam dal suo torpore diurno dicendogli dove Bruno li aveva condotti e gli occhi del vampiro erano subito diventati neri, completamente neri, senza nemmeno la più piccola traccia di bianco, esattamente come quando era eccessivamente affamato. E aveva iniziato a digrignare i denti e a ringhiare sommessamente.
«Ti prego Alam. Non c’è altro posto!» aveva sussurrato lei, spaventata dalla possibile reazione di Alam.
Era scappato dal concilio per chissà quanti anni, sicuro non meno di undici. E lei lo aveva consegnato a loro senza nemmeno interpellarlo. Era stata una sciocca ma ormai era tardi per qualsiasi ripensamento. Erano lì, scortati da Bruno e Jahèl. Come potevano scappare ora? La sua unica speranza era che, forse, avrebbero ottenuto alcune informazioni utili.
Poi erano stati condotti da due individui, umani secondo la giovane, nello studio di questo strano individuo. Era il più anziano membro del concilio, il capo. Si chiamava Pierre-Auguste Lacroix e, da quando erano entrati, il ringhio di Alam era stato un sibilo costante che aveva accompagnato il risolino del capo del concilio. Parlava correttamente l’italiano, con un accento chiaramente francese. Anghel aveva sempre pensato che il modo di arrotondare le consonanti fosse molto elegante, a volte a livelli insopportabili certo, ma sempre affascinante. Non vi era nulla di attraente in quella voce, solo superbia. Non le piacque per niente! In quell'istante percepì forte la sensazione di esser stata imprigionata.
Bruno e Jahèl si trovavano alle loro spalle e, ai lati della porta, c’erano i due uomini che li aveva accompagnati sin lì dal parcheggio, silenziosi fino alla nausea.
«Monsieur Lacroix...» iniziò Bruno a parlare, ma subito un cenno del capo di Lacroix lo fece tacere.
«L’ordine del concilio non era forse chiaro, monsieur Leonardi? Quale parte del comunicato non vi è pervenuta? Quella in cui si ordinava loro di tenere nella sede di Venezia i due soggetti ora davanti a me?» tagliente, Anghel si sentì fendere da quel suono.
Capì improvvisamente il perché dell’atteggiamento di Alam. Istinto. Puro e semplice istinto. Quella persona non poteva portare nulla di buono.
Gli occhi scuri e piccoli del capo del concilio tornarono su di loro, lasciandosi dietro un povero Bruno spaurito.
«E’ stata una mia scelta. Non hanno potuto opporvisi.» rispose Anghel, sempre stringendo il braccio ad Alam.
«Forse voi non capite, mademoiselle, la gravità della vostra condizione e la rarità dell’esemplare che portate con così poca grazia al vostro braccio!»
«Alam non è un “esemplare”!» sbottò lei, incapace di trattenersi.
Sentì che Alam si voltava di scatto a guardarla ma non osò alzare lo sguardo su di lui. Persino lei si era spaventata udendo il suono della sua voce, perché per un solo secondo le parve che non le appartenesse completamente. Non era stato un urlo, la sua voce aveva semplicemente riempito la stanza: ferma e chiara, imponente... non se l’aspettava e come lei nessun altro. Il silenzio calò pesante su tutti loro.
Lentamente, il volto di Lacroix sembrò tornare la maschera severa di sempre. Con una piccola luce di dubbio nello sguardo, pensò Anghel. Una maschera che tremava...
«Capisco benissimo la situazione, signore! La mia vita nel giro di un mese è cambiata in modo così drastico che fatico a ricordare come fosse prima. Io stessa son mutata irrimediabilmente. La mia famiglia è stata sterminata e sono braccata. Crede che non comprenda bene la situazione? Son quasi morta, non lo dimentico...» disse, cercando di mantenere un tono calmo. «E mi è stato detto che il controllo del fuoco che ha Alam è una dote rara e ricercata. So bene anche questo! Ma se lei si aspetta che io stia ferma ad aspettare in una prigione quale una delle vostre sedi, è un illuso!»
Lacroix rimase in silenzio per diversi istanti, continuando a guardarla immobile. Poteva quasi battere Alam per inespressività. Tutto quel che lei doveva fare era non cedere e non abbassare lo sguardo.
«Non posso certo appoggiare la sua decisione, modemoiselle... questo almeno deve capirlo. Un vampiro come Alam potrebbe essere molto pericoloso se desse il suo appoggio alle persone sbagliate!»
«Gradirei che si spiegasse.» sussurrò lei.
Lacroix sospirò, impercettibilmente.
«Sia. Ma noi due... soli!»
Anghel deglutì. Sola con quel Nosferatus del ventunesimo secolo? Non era esattamente quel che si aspettava... soli voleva dire completamente soli. E questo comportava che anche Alam sarebbe dovuto uscire. Alle sue spalle sentì le altre quattro presenze aprire la porta e lentamente uscire. Strinse lievemente il braccio del vampiro.
«Vai Alam... vai con loro...»
«No.» ringhiò, inarcando la schiena e stringendole i polsi, come quando la caricava sulle proprie spalle.
«Ti porteranno in un luogo dove potrai riposare. E ti verrà fornito un adeguato nutrimento. Al tuo tamer non verrà fatto alcun male.» disse Lacroix, perentorio.
«Alam, non mi succederà nulla. E poi verrò subito da te, te lo prometto!» disse lei, girandosi a guardarlo.
Aveva ancora le iridi dilatate e nessuna traccia di bianco o di verde nello sguardo. I denti erano ben in vista, chiari e affilati, brillavano nella luce artificiale. Poi un altro ringhio alle sue spalle. Anghel si voltò. Un vampiro maschio, dall’aspetto simile a un ragazzo di quindici o sedici anni, si era profilato sulla porta dello studio, anch’esso pronto all’attacco, rivolto verso Alam. Alam si girò, lento. Anghel guardò il nuovo vampiro. Occhi rossi... rossi su capelli rossi e lentiggini sulle guance. E odore di terra e fiori e campi. E sangue. Non ne ebbe paura. Non come si aspettava almeno. Forse era la presenza di Alam, la certezza della sua protezione, a rendere il vampiro meno pericoloso. Ma ne dubitava fortemente. Jahèl era più inquietante di certo.
Alam ringhiò ancora più forte.
«Maintenant ça suffit Claude! Il accompagne le vampire dans la pièce à l'étage supérieur et nourris-le. c'est un ordre! Vogliate perdonare Claude, s’innervosisce molto se un vampiro mi ringhia contro incessantemente. E, dal momento che è ancora mattina, è ancora più irritabile. Claude... veloce!» la voce di Lacroix era stata, se possibile, ancora più insopportabile e dura mentre parlava a quello che doveva essere il suo vampiro.
Ma Claude non sembrò badare al duro trattamento che gli venne riservato. Subito cercò di recuperare una posizione eretta e trattenne il ringhio.
«Alam, per favore! Non mi capiterà nulla.» sussurrò allora lei al vampiro.
Alam la guardò a lungo, impenetrabile come sempre. Almeno abbandonò la posizione d’attacco: con uno scatto liberò il braccio dalla stretta di lei e si allontanò assieme a Claude.
«Non gli succederà nulla, puoi star tranquilla. E ora siediti pure, Anghel Weeder, e parliamo un po’ con calma.»
Anghel girò la testa di scatto. Aveva sentito bene? Dottor Jakiel e Mister Hide si erano trasferiti in Francia? Dov’era finito il tono brusco e altezzoso di pochi istanti prima? Come mai ora sembrava solo un vecchietto stanco e buono? Si sedette, con l’impressione di aver stampata sul volto l’espressione più stupida del mondo.
«Dovrai scusare il mio modo di poco prima. È necessario. Mia cara, sai forse quanti anni ho? Ottantaquattro. Appena compiuti, tra l’altro.»
Anghel fece un lieve cenno del capo, non capendo dove diavolo voleva condurre quel discorso.
«Immagino che, molto superficialmente, ti sia stato detto cosa mai è il concilio dei tamer e di cosa si occupa. Bene. E saprai anche che questo non è il primo tentativo di mettere in piedi il concilio. Dopo il primo, decaduto nel corso della rivoluzione francese, ci son stati molti sforzi di ricreare tale organizzazione. Pressoché inutili. Capi senza polso fermo, senza idee, senza... i giusti mezzi per prender decisioni di fondamentale importanza, anche scomode se si vuole. Cosa fare dei vampiri rimasti senza tamer? Come spartire i compiti? Come soddisfare le famiglie più antiche? Questo è il quinto tentativo... e spero ardentemente funzioni. Gradisci del tè? Un caffè?»
«No grazie, prosegua...»
«Non si sa come mai nessuno dei tentativi sia mai andato in porto. Solo supposizioni, ipotesi senza prove.»
«Qualcuno sta cercando di distruggere anche questo concilio, non è vero?»
«Molto sveglia... sì, provano da anni a disintegrarlo; e penso che i tuoi problemi e i miei si riconducano alla medesima causa. Non scherzavo dicendo che Alam, nelle mani sbagliate, può risultare la più temibile arma che si conosca.»
«Capisco. E mi vuole qui, vuole qui me e Alam per... proteggere noi e se stesso, dunque?»
«Qui, a Venezia o in qualsiasi altra città ci sia una sede del concilio, sì. Mi permetterai di essere egoista, mademoiselle, ma ho faticato anni per creare un’ombra di equilibrio tra le famiglie più potenti ancora ancorate a vampiri. Quando abbiamo saputo dell’esistenza di Alam ci siamo... spaventati, sì. I vampiri che manipolano il fuoco...»
«Sono estremamente rari... lo so...»
«Ma non solo! Possono avere capacità inimmaginabili! Il tuo Alam, pensa solo che da ben trent’anni sta eludendo le nostre spie! Sì, son trent’anni che io personalmente sono a conoscenza dell’esistenza di Alam e gli do la caccia. Ho spesso mandato Claude a cercarlo, a braccarlo. Senza risultato ovviamente. Claude è molto antico, nonostante il suo giovane aspetto. Ha all’incirca millesettecentosette anni. È nato intorno al 302 dopo cristo. Ha vissuto... una vita impossibile da immaginare per un semplice essere umano come me!» sorrise, gli angoli della bocca sembravano punti di cucitura pronti a saltare e a scoperchiare la maschera di cera che era quel volto spigoloso. Ma al contempo, mentre parlava del vampiro dai capelli rossi, sembrò addolcirsi in modo insondabile.
Lacroix si alzò e si avvicinò agli scaffali dei suoi libri, passando le lunghe dita scarne su quelle copertine antiche.
«Sono il tamer di Claude da quando ho trentacinque anni. Ormai direi che mi conosce in maniera spaventosa. Per questo non è un problema per lui che io sia duro a volte. Sa che devo mantenere un polso fermo di fronte ai sottoposti del concilio se non voglio esser considerato fragile... o troppo vecchio. Il concilio non è ancora abbastanza saldo da potersi permettere elezioni per nuovi capi... ma tornando a noi!»
Anghel era frastornata da quei cambiamenti d’umore. Un istante prima autoritario, poi dolce e poi triste e malinconico... forse era veramente troppo vecchio.
«Capisci che Alam può costituire un pericolo immenso per noi. Non per te, certo. Ma per noi sì. È bene che sia sempre sotto sorveglianza e te con lui! Non credo affatto che tu sia una minaccia per noi. La tua famiglia non è sicuramente discendente di casate maggiori e non sapeva nulla dell’esistenza di vampiri, come tu hai detto poco prima.»
«Non credo che rinchiuderci sia la soluzione.»
«Certo. Posso comprendere il tuo punto di vista. Ma fino a quando non troviamo i responsabili di quel che è accaduto alla tua famiglia e a te, credo sia la soluzione ideale per la sicurezza di tutti!»
Anghel si alzò a sua volta, camminando lentamente per la stanza, cercando di decifrare i titoli dei grandi manoscritti, alcuni in latino, altri in greco, altri in francese, altri ancora in caratteri che non riusciva a riconoscere. Pensava velocemente.
«Questa non è la sede dell’ultimo effettivo concilio, quello crollato nel 1789, vero?» disse, senza guardarlo in faccia.
«No. La sede antica non si trovava a Parigi. Noi, per quanto in periferia, siamo ancora all’interno del comune, la sede del 1789 era situata sempre qui, nell’Ile de France. Si trovava in una casa di campagna, un’ampia tenuta a pochi chilometri da Pontoise, a Nord di Parigi. Venne distrutta, in quell’anno, e ora di essa non restano che le rovine. Appare come una cascina disabitata, da quel che so nei paesi d’intorno girano molti racconti di fantasmi, storie per tener lontani i bambini. È pericolante, instabile. Restaurarla sarebbe stato uno spreco di soldi inutile. Non penso che tornarvi potesse essere una soluzione intelligente: essa rappresenta il fallimento del concilio. Noi dobbiamo creare qualcosa di nuovo!»
Una fenicie... poteva essere una scelta, invece.” pensò Anghel, ma prima di girarsi a guardarlo, cercò di stamparsi un sorriso gentile sul volto.
«Devo prima discuterne con Alam. Già l’ho condotto qui senza nemmeno consultarlo. Io e Alam siamo in due... non son da sola. Ho sbagliato a lasciarmi portare qui senza domandare la sua opinione, se permettete ora vorrei andare a parlargli.»
«Certamente. Lo troverete al piano superiore. Fuori dovrete prendere il corridoio a destra e salire le scale che vi troverete sul fondo. La stanza sarà la prima del piano, alla vostra sinistra. Mi vorrete scusare, se non v’accompagno, ma al momento ho alcune faccende da sbrigare che richiedono la mia attenzione. Mademoiselle...»
Anghel fu più che lieta di uscire dallo studio e allontanarsi. Qualcosa non la convinceva in quel posto, a iniziare proprio dal vecchio Lacroix.
«Allora... è riuscito a convincerti almeno lui che è più sensato rimaner con noi?»
«Bruno! Mi hai spaventata!» la giovane si girò di scatto.
Bruno era appoggiato ad una colonna levigata vicino a un’enorme vetrata nera. Sembrava sparire in mezzo ai disegni che coloravano il corridoio. Gli era passato accanto senza nemmeno accorgersi della sua presenza.
«Dove stai andando così di fretta? Non hai esattamente l’aspetto di una rassegnata che si dirige a riposare.»
«Sto andando da Alam. Ho bisogno di parlargli.»
«Da Alam?!» Anghel rimase immobile e si voltò a guardare il giovane.
Eppure sì, era proprio Bruno senza alcun dubbio! E allora perché? Perché improvvisamente si sentiva minacciata più dalla presenza di quell’uomo che dal vampiro millenario che le aveva ringhiato contro meno di un’ora prima?
«Sempre da Alam... cosa ti fa quel mostro per meritarsi tutta la tua dannata attenzione? Ti fai succhiare il sangue da lui e questo ti eccita immensamente?» la voce di Bruno era bassa, un sibilo cupo.
«Bruno, non capisco dove tu voglia andare a parare ma non mi piace per niente il tuo tono! Quindi è meglio che me ne vada!» cercò di dare alla propria voce la nota decisa e sicura che era riuscita a creare poco prima nello studio di Lacroix.
Inutilmente.
Bruno esplose in una risata che le fece venire i brividi.
«Sono anni che non faccio altro che lavorare per e con i vampiri! Mi hai chiesto come sono morti i miei genitori? Sì, sono stati uccisi da vampiri! Vuoi sapere come, non è vero?» mentre ringhiava queste parole la spinse lentamente contro la parete, incastrandola tra una piccola colonna e una statua raffigurante il giovane Bacco.
«Non lo voglio sapere! Voglio andare da Alam e basta!» balbettò.
Le parole sbagliata. Bruno sbatté una mano contro il muro, accanto alla sua testa. Era forte. Non si aspettava che potesse essere tanto forte. Dov’era il ragazzo gentile e timido che le aveva fatto compagnia a Venezia durante il giorno?
«Sì che lo vuoi sapere! Avevo dieci anni ed ero in vacanza a Venezia, da mio zio. I miei genitori dovevano raggiungerci in fretta di prima mattina, un viaggio notturno dalle Marche. Un incidente d’auto è stato detto... ma nei loro corpi non era rimasta quasi una goccia di sangue! Mi hai chiesto se odio i vampiri, secondo te quale potrebbe essere la risposta?» sibilava, Anghel poteva vedere la tensione che gli faceva esplodere i muscoli del collo, la mano accanto alla sua spalla era bianca talmente forte il giovane la stava stringendo.
«Ma... ma non tutti...»
«Cosa? Non tutti cosa? Apri gli occhi, persino il tuo adorato Alam ha ucciso molte persone, infinite! Sono solo bestie che pensano unicamente a nutrirsi! E noi non siamo che il loro gregge! È stupido pensare di avere un qualche controllo su di loro! Andrebbero rinchiusi tutti... e uccisi!»
Anghel non sapeva più cosa dire, aveva paura. Il corpo di Bruno era troppo vicino al suo, le bloccava la vista del corridoio. La colonna, fredda sulla sua spalla, era troppo solida. Avrebbe voluto Alam accanto a sé.
Lo sentì sbuffare, come una risata amara che non era riuscito a trattenere:
«Sei veramente una stupida, Anghel Weeder. Una vera stupida!» sibilò.
Mi mangerà...” pensò immediatamente lei, vedendo per un istante i denti di Bruno serrarsi e irrigidirsi. Invece il giovane, con uno scatto, si allontanò da lei, lasciandole lo spazio per andarsene e per respirare. Ad Anghel parve di trattenere il respiro da troppo tempo, così tanto che i polmoni le fecero quasi male al primo fiotto d’aria che vi entrò.
«Vai dal tuo mostro personale, Anghel, finché puoi.» concluse allontanandosi nella direzione opposta a quella che monsieur Lacroix le aveva indicato.
 
***
 
Non gli piaceva.
Non gli piaceva per nulla!
Guardò il boccale di vetro colmo di sangue che quel vampiro dai capelli rossi gli aveva dato poco prima di andarsene e sentì la salivazione aumentargli considerevolmente. Aveva fame, troppa, ma Anghel non era con lui! Chissà dove si trovava ora, sentiva chiaro allo stomaco qualcosa che gli torceva le interiora, e le braccia e le gambe come pervase da formiche che si divertivano a correre avanti e indietro. Doveva fare qualcosa, assolutamente! E doveva nutrirsi.
Guardò nuovamente il boccale. Rosso. Scuro. Odore di umano... rabbrividì, leccandosi le labbra secche e sentendo i canini appuntiti reclamare carne.
Di scatto si alzò dal letto su cui si era appena seduto e riprese a misurare a grandi falcate il perimetro della stanza, non riuscendo a fissare altro che il sangue immobile e ancora caldo che riposava sul tavolo. Ma di Anghel nessuna traccia.
Doveva bere ma non si fidava, non voleva mangiare quel che altri avevano preparato per lui, nel sangue poteva esserci qualsiasi cosa. Eppure aveva così tanta sete...
Prese il boccale e guardò attento il liquido che conteneva, muovendolo lentamente, osservando il cupo variare del rosso, quasi nero nell’oscurità della stanza. Lo guardò a lungo, striare le pareti di vetro del bicchiere, cercando una traccia, un segno per vedere se conteneva o meno sostanze aggiunte, sostanze inodore persino per lui...
Buon profumo, buono... il sapore...” pensò distratto, incantato da quelle sfumature vermiglie. Si portò il bordo del bicchiere alla bocca.
E poi la sentì.
Sentì il suo cuore, il cuore del suo tamer, battere furiosamente da qualche parte nella grande casa, lo sentì palpitare impazzito, incapace di resistere e desideroso di scappare. “Pericolo!” pensò. E bastò questo. In un solo fluido movimento, gettò il calice sulla parete opposta, fracassandolo, e scattò verso la porta, ben deciso a scardinarla o bruciarla se si fosse dimostrato necessario.
Ma non ce ne fu bisogno.
Appena la mano si chiuse sulla maniglia d’ottone, subito la porta venne aperta e il volto di Anghel si stagliò davanti al suo.
«Alam!» esclamò sorpresa.
Un ringhio basso, appena percettibile, gli uscì incontrollato dalla gola alla vista dei capelli scarmigliati di lei e del vano tentativo di mantenere un’espressione impassibile. Con forza la prese per un braccio e la trascinò in camera, chiudendosi la porta alle spalle. Sempre tenendola stretta, la gettò contro il muro, ignorando le proteste e le domande che a raffica uscivano dalla sua bocca. Non gli avrebbe detto la verità, se gliel’avesse chiesta. Il suo inutile tentativo di apparire calma gli bastava come prova. Ora doveva controllare che stesse bene!
Così prese a spogliarla.
«Alam, smettila! Che fai? Che ti prende?» gridò lei, cercando di difendersi, di staccarsi dalla sua presa.
Non voleva sentire ragione. Non ora! Fino a pochi istanti prima era successo qualcosa che l’aveva spaventata e ora stava tentando di tenerglielo nascosto! Non fu difficile levarle la maglia e i pantaloni.
«Alam, ti prego fermati!» la voce iniziò a incrinarsi, non più sicura e decisa come aveva tentato di rimanere fino a poco prima, ora era qualcosa di più simile a vetro infranto.
Ancora il cuore di lei si mise a battere, veloce, troppo rapido, come aveva battuto fino a qualche istante fa. Non importava. Non si fidava di quel posto, né di quegli umani. Le avevano fatto qualche cosa e lui l’avrebbe scoperto e avrebbe trovato il modo di trascinarla via da lì. Non dovevano rimanere in quella casa! Ben presto, anche l’intimo si trovò accasciato sul pavimento, gettato di lato con noncuranza. Ora Anghel stava piangendo, senza ritegno. Le lacrime le inondavano il viso, finendo anche sulle mani di Alam, che ora aveva preso a controllare ogni centimetro della pelle del suo tamer con lentezza. La frenesia e la rabbia che lo avevano colto vedendola sulla porta parvero sciogliersi lentamente, man mano che faceva scorrere le proprie dita sul corpo di lei, cercando anche il più piccolo segno di una puntura recente che non avrebbe dovuto esserci. Anche Anghel sembrò calmarsi un secondo. Il pianto divenne silenzioso, le braccia abbandonate lungo il corpo, un singhiozzo ogni tanto. Alam alzò la testa per cercare i suoi occhi e la vide immobile, il capo alzato verso il soffitto, ma non lo guardava: le palpebre abbassate, le ciglia brillavano delle lacrime che vi erano rimaste intrappolate, la bocca tremava quasi impercettibilmente, la pelle fremeva sotto le sue dita. Ma a parte questo non vi era nulla sul suo corpo, non era stata aggredita. Allora si sedette per terra, poggiando la schiena contro il letto, sospirando. E la guardò. Lei non si mosse per tutto il tempo in cui rimasero così, non disse nulla né fece il più piccolo movimento. Solo il suo addome si alzava e si abbassava lento, costante, e il suono del suo respiro, lieve, quasi impercettibile. Solo questo riempiva la stanza. Non vi era altro. Rimasero così, il vampiro immobile, accasciato a terra, che osservava impassibile la ragazza nuda contro la parete. Poi Alam si alzò, lentamente per non turbare la quiete della stanza, la stasi che si era creata dopo la sua precedente frenesia. Guardò di sfuggita l’angolo in cui aveva gettato il bicchiere, il sangue ormai seccato sul pavimento e contro la parete, i cocci di vetro ancora sparsi ovunque, l’odore era diminuito considerevolmente, ma ancora gli produceva un certo languore. Decise d’ignorarlo. Prese invece la coperta dal letto e, con delicatezza, l’avvolse attorno alle spalle di lei. Anghel sembrava una bambola di plastica nelle sue mani. Si lasciò coprire, sempre con gli occhi chiusi e il respiro regolare, come stesse dormendo, le lacrime avevano lasciato scie di sale sulle sue guance e non rimanevano che poche tracce del pianto. La condusse verso il letto e si sdraiò, tenendola in braccio, avvolgendola nella coperta di lana e con le proprie braccia. Il suo tamer. La sua Anghel...
«Non finger più, con me.» sussurrò ad un certo punto.
Solo allora lei aprì gli occhi e si mosse, alzando piano la testa, i capelli ancora scompigliati che le vorticavano attorno alla fronte, strani disegni come arazzi scuri sulla pelle bianca.
«Va bene... non cercherò di nasconderti più nulla...» sussurrò lei, scostando lievemente il capo per mettersi più comoda.
«Cos’è successo?» chiese allora, dal momento che nessuno l’aveva ferita in alcun modo ma che, senz’ombra di dubbio, si era spaventata immensamente.
«Bruno...» sussurrò lei, senza aggiungere altro.
Non era necessario. I muscoli di Alam iniziarono a vibrare, avrebbe staccato la testa a quell’umano, voleva vedere il suo sangue imbrattargli le mani e il corpo e osservarne i riflessi alla luce, voleva saperne il sapore e inebriarsi della sensazione di essersi nutrito di lui. Ricordava lo sguardo che gli aveva lanciato la notte precedente, nel villaggio francese in cui si erano fermati, ricordava perfettamente l’odio che quel misero uomo provava per lui. E si chiese quanto fosse compiaciuto di averlo condotto lì, utilizzando Anghel e approfittandosi del suo momento di debolezza... ringhiò al pensiero di quel volto che sorrideva.
«Alam, non mi ha fatto male...»
«Lo so.» ringhiò lui in risposta.
«Alam... possiamo rimanere nella stessa stanza, secondo te? Tu dormi di giorno, io di notte... non ci lasceranno uscire, ci nutriranno loro...» balbettò lei, nascondendo sempre più il volto nella sua spalla.
La sentì tremare, come se quel che stava per dire le costasse un’immensa fatica.
«Alam, dobbiamo rimanere qui...» disse ancora, dopo un attimo.
Alam s’irrigidì. Se l’aspettava, certo, ma non gli piaceva. Non si fidava del vecchio dal sangue rinsecchito, non del vampiro con i capelli rossi che l’aveva scortato fino a quella camera, tenendosi sempre pronto a saltargli addosso. Non si fidava del giovane umano che voleva sembrare aggressivo nei suoi confronti, né di Jahèl, che lo guardava in modo indecifrabile e che lo aveva braccato per molti anni.
«Per quanto dobbiamo star qui!» ringhiò, stringendola di più.
«Per il tempo necessario, Alam... per il tempo necessario...»
E lui capì quel che lei stava cercando di dirgli.
«Sia...»

 

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Capitolo 15
*** Terra e fuoco ***


14. Terra e fuoco

 
«Mademoiselle Weeder, come procede la vostra permanenza?» la voce del signor Lacroix le arrivò flebile, lontana.
Si era addormentata nella poltrona del salotto al primo piano, con un libro aperto tra le mani, di cui ormai aveva perso il segno, e Alex acciambellato tra i piedi.
Era passata un’intera settimana dal loro arrivo alla sede parigina del concilio dei tamer e non era successo nulla di eclatante. Non aveva effettivamente visto nessuno, a eccezion fatta di Alam e di due o tre persone che portavano cibo per lei e per lui. Per fortuna questo voleva anche dire che non si era più imbattuta nemmeno in Bruno. Forse il ragazzo era tornato a Venezia e non l’avrebbe più rivisto!
«Procede, signor Lacroix. Alam non è tranquillo, in ogni caso. Non sopporta l’immobilità.» sussurrò.
Dire che il vampiro non fosse tranquillo era veramente un eufemismo. Aveva avuto il permesso di rimanere nella stessa stanza con lui, ma Alam non ne usciva mai: non poteva andare a cacciare e questo lo rendeva irrequieto, irritabile... pericoloso. Lei doveva sempre esser presente, ogni volta che portavano loro da mangiare. Chiunque entrasse veniva percepito da Alam come una minaccia o, peggio, una preda. Era da due giorni che non veniva più nessun umano, ma apparivano solo vampiri. Non era certamente stata una soluzione felice.
I vampiri, vedendola, impallidivano improvvisamente e i loro occhi subito si dilatavano e diventavano neri, come quelli di Alam. Alam aveva sempre gli occhi neri, sempre, anche dopo cinque bicchieri di sangue. Non gli bastava mai, non era che un palliativo quel sangue, ed era sempre più aggressivo. Così, ogni vampiro che entrava per lui rappresentava una minaccia e Anghel faceva fatica a trattenerlo dal reagire, dallo scagliarsi contro l’intruso. Aveva come l’impressione che i vampiri che incontrava, così come i rari esseri umani che aveva incocciato, non aspettassero altro che una reazione violenta da parte loro, un pretesto per aggredirli a loro volta e finirli. In un certo senso sapeva che la soluzione ideale a tutto quel problema stava nell’eliminazione di Alam. Se il vampiro fosse morto, nessuno più le avrebbe dato la caccia, non vi sarebbe stato più un motivo di pericolo. Sarebbe potuta tornare a casa e cercare di ricostruire qualcosa, anche solo una parvenza di vita.
Ma questo era un pensiero per lei inammissibile! Non avrebbe mai osato far del male ad Alam, non poteva; sarebbe stato come ferire se stessa, uccidersi a sua volta.
Quel che non capiva ancora era perché nessuno gliel’avesse proposto! Alam era un “esemplare raro”, così le era stato detto, raro e pericoloso per la sopravvivenza del concilio, allora perché nessuno mai le aveva prospettato l’ipotesi di eliminare il problema base? Si aspettavano certo un suo rifiuto... ma perché non tentare effettivamente di ucciderlo? Attendevano veramente l’occasione in cui la morte di Alam sarebbe risultata necessaria per legittima difesa? E perché mai poi? Nessuno sarebbe andato a denunciare la scomparsa di un vampiro. A tutto questo aveva pensato in quei giorni, mentre era intenta a portare avanti alcuni lavori che si era prefissata per mantenersi occupata.
Il secondo giorno aveva saputo, dal signor Lacroix, che in Italia lei era stata data per scomparsa. Il giorno dopo il suo arrivo a casa, i suoi vicini erano andati dalla polizia per chiedere sue notizie, dal momento che non l’avevano vista rientrare. Una volta saputo che non si era nemmeno recata alla stazione e che nessuno l’aveva più vista, erano partite le ricerche e ancora adesso si stavano svolgendo.
«Povera polizia italiana, l’hai lasciata con un pesante problema da affrontare! Chissà quante e quali congetture sono state proposte, tutte ovviamente collegate all’assassinio dei tuoi genitori.»
Il tono con cui il capo dei tamer le aveva comunicato la notizia l’indispettì immensamente. In realtà, pensandoci bene, a darle fastidio fu la consapevolezza di non aver minimamente pensato a cosa sarebbe accaduto dopo la sua fuga: sì certo, i genitori non c'erano più ma non per questo non esistevano altre persone a lei legate. Eppure non aveva dato il minimo peso a queste nella scelta delle sue azioni, non aveva preso seriamente in considerazione le conseguenze della sua sparizione. Si diede della stupida per aver ingenuamente creduto che decider di sparire avrebbe automaticamente comportato l'annullamento della sua identità e del suo passaggio.
«Ci siamo presi la libertà, già quando Bruno e Jahèl sono stati inviati in Toscana per recuperarti, di prelevare tutti i soldi del conto corrente tuo e dei tuoi genitori e di riversarli su questo conto, così potrai muoverti indisturbata senza dover rientrare in Italia e fornire spiegazioni inutili.» disse poi, passandole un foglio intestato di una banca di cui Anghel ignorava l’esistenza.
Erano tutti i dati necessari del suo nuovo conto, compreso un calcolo veloce del totale a cui ammontava il patrimonio lasciatole in eredità dai genitori. Anghel strinse quel pezzo di carta pieno di lettere e cifre, pensando a quanto fosse stupida tutta quella situazione, a quanto poco contavano ora quei soldi in confronto a tutto quel che era accaduto... a quanto sembra vano quel che prima aveva avuto valore...
«Certo, se ritieni necessario modificare, o spostare il denaro in una banca a tua scelta, sei libera di farlo. Abbiamo preferito agire noi, avendo i mezzi per eludere i controlli delle forze dell’ordine. Anche volendo, ora, non sei rintracciabile se vorrai prelevare qualche cosa.» disse sorridendo il signora Lacroix.
Sarò rintracciabile da voi, però.” pensò irritata. Iniziò ad andarsene, ringraziando e cercando di mantenere un tono freddo e distaccato. Con risultati molto scarsi tra l’altro.
Fu l’unica volta che lo vide in quella settimana. Era riuscita a evitarlo nei giorni a venire, ma ora che se lo trovava davanti si accorse di non avere nessuna voglia di parlare con lui.
«Se vorrete scusarmi, ora devo salire da Alam, tra poco è il tramonto.» disse, guardando stancamente il capo del concilio.
«Certo! Se permette un consiglio riguardo Alam...» iniziò.
Anghel si era già avviata verso l’uscita del salotto, con Alex che le trottava accanto placido e silenzioso. Si voltò di scatto. Non le piaceva il tono di Lacroix, per niente. Specialmente quando parlava di Alam: la sua voce sembrava diventar velenosa e al contempo titubante, come se sentimenti contrastanti girassero nell'animo di quell'uomo ogni volta che pensava al vampiro.
«Dovrebbe legarlo al letto, durante il giorno almeno. E la sera portarlo nel giardino della casa. Ci sono molti animali che girano liberi e il vampiro avrebbe la possibilità di cacciarli, così da soddisfare il suo istinto. A renderlo inquieto, come ha detto lei, è l’immobilità e l’assenza di quell’azione che più gli è congeniale.»
«Il sangue di animali non basterà. È solo un palliativo e sarà utile per una notte, forse due.» sussurrò lei, trattenendo la rabbia.
Le parole di lui sembravano sollevarsi tutte verso la fine, come se Lacroix stesse ridendo, immaginandosi Alam steso sul letto, legato, a strattonare le catene e poi accucciato la notte, tra gli alberi, col corpo di qualche piccolo animale tra i denti. E ancora, come sempre, una punta di malinconia, in contrasto con le parole, si leggeva nello sguardo del vecchio: sembrava sempre combattuto, ma anche deciso a mostrare apertamente l'odio verso Alam e non la tristezza che questo comportamento sembrava comportare. Anghel decise che era stanca di cercar di cogliere le motivazioni e le intenzioni di quell'uomo: aveva altro da pensare e di lui poco le importava.
«Potrebbe sempre offrirgli il suo, di sangue... son certo che lui lo brama moltissimo.»
Anghel uscì, trattenendo a fatica l’impulso di sbattere la porta.
Ancora poco, ancora poco...”
 
***
 
«Alam? Alam...»
La mano di Anghel si posò tremante sulla sua spalla. Alam alzò la testa, lentamente. Doveva muoversi con calma, prestate estrema attenzione. Non poteva rischiare di colpirla, non lei. Lo avrebbe fatto, lo avrebbe fatto se non fosso stata il suo tamer.
La guardò. Aveva le pupille dilatate e le iridi che gli riempivano tutto l’occhio, lo sapeva, era così da giorni. Qualsiasi essere vivente gli appariva come preda, le vene ancora più visibili, sotto la pelle sottile. Sentiva il lento fluire del sangue nella stanza, il suo, quello di lei, quello di tutti coloro che erano nella casa... solo il sangue nel calice non fluiva. Era morto. Lo manteneva in vita, in forze, ma non lo saziava. Peggio che il sangue di animali!
«Devi resistere ancora pochissimo, Alam. E’ quasi tutto pronto, te lo giuro! Ci ho messo più del previsto, ma dovevo stare attenta!» sussurrava lei, la preda...
Alam si passò la lingua tra i denti, perennemente allungati.
«Ho fame...» rantolò.
Ormai non parlava quasi più, ringhiava, lo sapeva bene. Ma non gl’importava. Non voleva parlare, voleva cacciare... allungò una mano verso di lei, verso il suo collo bianco nell’oscurità della stanza. Quel che diceva non aveva senso, non aveva importanza... solo il sangue... aprì la bocca di poco e si avvicinò a lei. E un senso di nausea lo pervase, colpendolo allo stomaco talmente forte da rigettarlo indietro, contro la parete, abbattuto. La guardò desiderando fortemente che lei non fosse lei e che quel sangue non profumasse invitante.
«Alam...» sussurrò.
Era accucciata ancora davanti a lui, non si era mossa nemmeno di un passo. Eppure non gli aveva dato il permesso! Lo aveva respinto! Aveva avuto paura e non lo aveva invitato!
Il sangue del tamer deve avere un sapore buono... troppo buono... così buono da dover essere protetto da me...” pensò.
Riusciva ancora a pensare con lucidità per buona parte del tempo. Era diverso, non era come anni prima o anche solo un mese addietro, in cui non c’era altro che la caccia e la ricerca di lei a occupargli la mente e solo l’istinto a guidarlo. Solo di questo si era trattato. Anche ora c’era la caccia, la caccia che gli veniva proibita e che lo chiamava con urgenza. E c’era Anghel, da proteggere... e c’era l’istinto che gli diceva di non bere dalla coppa di sangue. Ma lui beveva, beveva ogni sera, andava contro l’istinto! Perché Anghel gli aveva detto di farlo Anghel e istinto. E lui, in mezzo, aveva scelto. Ringhiò sommessamente contro nessuno.
«Alam mi dispiace! Ti prometto che tutto finirà prestissimo!» Anghel gli si fece più vicina, osando addirittura mettergli una mano sulla guancia, sollevandogli il viso.
Lo guardava.
Preda!” ringhiò vorace una parte di lui. “Tamer...” sussurrò dolcemente un’altra ancora. Chiuse gli occhi, permettendole di sedersi accanto a lui, di prenderlo tra le braccia e cullarlo. Il suo profumo di umana lo travolse, un profumo così buono, il più buono che mai avesse sentito dacché ricordava... chiuse gli occhi.
Lo cullava, dolcemente, carezzandogli i capelli in tutta la loro lunghezza. Nessuna differenza pareva sussistere tra di loro, semplicemente due creature di questa terra, abbracciate, come tante altre. Ma lui sapeva, era ben cosciente che tra loro vi era più che una diversità. E questo rendeva quell’abbraccio qualcosa di nuovo, di mai visto... di proibito... scacciò subito quei pensieri, era da tanto che voleva rimanere così, con lei. Non avrebbe rovinato tutto! Non quella notte, non adesso che l’aveva stretta a sé. Il suo odore di sangue, buono, così umano, lo inebriava; la sensazione di poterne bere anche solo una goccia lo mandava in estasi. Ma lei doveva sapere bene che, in realtà, ad eccitarlo di più era la consapevolezza di averla lì, a portata di mano, e di non poterla toccare. E quindi non gli dava il consenso a berlo, mai... e a lui, ovviamente, la situazione andava più che bene! Doveva rimanere così... sempre... per sempre...
«Alam... Alam svegliati! Devi mangiare...»
Alam aprì gli occhi. Anghel lo stava scuotendo. Era steso sul pavimento e lei era accucciata accanto a lui. Tra le mani stringeva una coppa di sangue. Si alzò, tranquillo, senza fretta. Aveva fatto un sogno, ne era certo seppur non lo ricordasse con attenzione. Ma era stato un bel sogno e ancora ne godeva gli effetti: il corpo rilassato, la mente più serena. Prese la coppa dalle mani di Anghel e la guardò, mentre bevve tutto il contenuto in un sol sorso. Avevo uno sguardo strano, Anghel, sembrava preoccupata.
«Alam... domani, quando verrò a chiamarti, tu verrai a prendermi.»
Alam lasciò cadere il calice, svuotato, la bocca ancora sporca di rosso si aprì automaticamente:
«Sì...» rantolò.
 
***
 
«A cosa devo la vostra presenza qui, monsieur Leonardi?» la voce annoiata di Lacroix arrivò flebile alle orecchie di Bruno, distratto dai numerosi libri alle pareti e dalla luce accecante che invadeva la stanza.
Era appena arrivato da Venezia e non si era ancora riposato. Suo zio non gli aveva dato tregua.
«Sono qui su richiesta di mio zio, monsieur Lacroix. È... preoccupato per la sorte di Anghel Weeder.» rispose.
Era venuto solo, Jahèl questa volta era rimasta con suo zio. Fuori era una bella giornata, il parco della villa del concilio sembrava chiamarlo da dietro le vetrate oscurate, promettendogli fresco e ombra, promettendogli un mondo reale, di luce.
«Capisco...» fu la laconica risposta che ottenne dal capo del concilio.
Quell’uomo lo innervosiva, l’aveva sempre fatto sin da quando, da ragazzino, era stato portato al suo cospetto, presentato come futuro tamer di Jahèl. Si era dimostrato necessario: in quanto vampira millenaria aveva un notevole valore per il concilio e, di conseguenza, i suoi tamer dovevano esser resi noti e sufficientemente educati.
In realtà suo zio non aveva dovuto insistere molto per inviarlo nuovamente a Parigi. Lui stesso voleva vedere Anghel. Il loro ultimo incontro... bè... non era stato diverso rispetto a quelli precedenti! La trattava male, la trattava sempre male da quando era scappata da Venezia.
E la colpa non era sua, doveva dirglielo. Lui stava bene solo a Venezia, era tranquillo solo quando poteva sentire dalla sua finestra l’odore del mare, l’odore acre e pungente di quel luogo. Era il suo rifugio. Averla avuta come compagnia nel suo piccolo tempio sul mare, quei pochi giorni, chiacchierare con lei era stato strano, piacevolmente strano. Ed era attratto da lei, Jahèl aveva ragione, troppo attratto: il vederla così vicina ad Alam gli faceva montare dentro una tale rabbia che nemmeno lui riusciva a spiegarsi completamente. Sapeva, razionalmente, che Alam e lei erano legati indissolubilmente da qualcosa che trascendeva la comprensione umana e che ben poco aveva a che fare con i sentimenti. Nonostante questo era geloso, immensamente geloso! Lui poteva averla accanto tutto il giorno, lei gli si stringeva ogni istante...
«La preoccupazione di tuo zio, per quanto comprensibile, è altamente fuori luogo. Non esiste angolo più impenetrabile di questo, i nostri due ospiti sono al sicuro da qualsiasi attacco e la casa viene sorvegliata notte e giorno!» Lacroix lo distrasse dal proprio torrente di pensieri.
«Capisco...» questa volta toccò a lui dirlo.
E si trattenne dall’aggiungere i propri timori per una possibile fuga di quelli che lui chiamava “ospiti”.
«Allora, se non le dispiace, vorrei passare a salutarli, prima di tornare a Venezia e riferire a mio zio che non vi sono pericoli di alcun genere.»
«Tuo zio si è preso molto a cuore le sorti di questa ragazza e del suo vampiro, Bruno. O sbaglio?»
Perché si sentiva sempre sotto inchiesta quando parlava con quest’uomo?
«La giovane è minacciata da due o più vampiri, i quali potrebbero facilmente raggiungerla e ucciderla. Anche volendo tralasciare le conseguenze che la sua morte potrebbe avere per tutti noi, credo che sia più che naturale il suo coinvolgimento emotivo.»
«Il suo e anche il tuo, se non intendo male il tuo comportamento.» insinuò Lacroix e, prima di lasciargli il tempo di dire alcunché, proseguì:
«Certamente, l’ombra che ricade sulla morte dei tuoi genitori, sulla morte del fratello di Samuele, deve pesare molto sulle vostre anime. Nemmeno con l’aiuto di tutti i membri del concilio si è mai riusciti a far chiarezza su quell’increscioso episodio.»
Bruno tacque, non aveva la minima intenzione di dar corda a quell’uomo su nessun argomento, men che meno sulla morte dei suoi genitori.
«La ragazza sarà da qualche parte nella casa, a quest’ora del giorno. Esce sempre quando è certa che il suo vampiro sia addormentato. Puoi andare ora.» lo liquidò.
Bruno uscì dallo studio e finalmente trasse un profondo respiro. Gli sembrava di aver trattenuto il fiato per tutto il tempo del colloquio. Cosa voleva ottenere il capo del concilio, menzionando la morte dei suoi? E cosa avranno mai veramente significato le parole riguardo a suo zio? Ma, soprattutto, e quello era un dubbio che lo tormentava da quando aveva lasciato Parigi qualche giorno prima, il concilio stava facendo sul serio delle ricerche per scoprire chi si celasse dietro gli attacchi ad Anghel? Da quando l’aveva consegnata direttamente nelle mani del concilio si era sentito costantemente un senso di colpa gravargli sulle spalle. L’aveva ingannata. Era certo che, se si fossero impegnati tutti assieme, loro quattro sarebbero potuti entrare nell’Hôtel des Invalides senza problemi e avrebbero svolto ricerche. Non era stato sincero con lei, aveva eseguito gli ordini che gli erano stati imposti: trovarli e portarli in una sede del concilio, a Venezia preferibilmente, ma alla fine una valeva l'altra.
Lavorava per loro da anni ormai, gli erano state affidate molte mansioni, nonostante lui non fosse ancora effettivamente un tamer. Era così, gli avevano detto, che si svolgeva nei tempi passati: i tamer presiedevano alle riunioni e i membri delle famiglie svolgevano le pratiche burocratiche e organizzative. Un’associazione molto privata e altamente selettiva, una società segreta. I primi anni era stato quasi emozionante lavorare lì. Si sentiva come un agente scelto, un eletto, aveva accesso a dati governativi di molti paesi, svolgere lavoro sul campo gli faceva dimenticare la sua vita passata, quella perduta. Era un po’ come una droga, un’ubriacatura ogni giorno. Una vita nuova dove nulla della vecchia era riuscito a infiltrarsi e l'unica cosa importante rimasta era trovare chi aveva ucciso i suoi. Ma era solo una facciata, un fragile pannello di carta da zucchero. Ben presto tutto era diventato routine, risultati sulle indagini sull’omicidio dei suoi genitori non arrivavano, i vampiri divennero una presenza normale nella sua vita.
Si accorse di odiare tutto quello e rimpiangere il passato. Si convinse che non si sarebbe più salvato da quella condizione, che non ne sarebbe uscito. Mai.
Era prigioniero del concilio... proprio come lo era ora Anghel.
Per questo doveva vederla, per spiegarle tutto quello che la rabbia gli aveva impedito di dirle prima. Per farle comprendere e per chiederle scusa. Lei non centrava nulla, in quella storia, non avrebbe dovuto trattarla in quel modo e lui doveva imparare a contenersi, a distinguere il ruolo che Alam avrebbe sempre avuto nella sua vita. Jahèl aveva ragione... niente e nessuno avrebbero mai potuto ambire a quel che legava quella ragazza al vampiro...
Si stava dicendo questo mentre, con passo lento, si dirigeva verso un punto non ben precisato della casa alla ricerca di lei.
«Bruno?»
Si voltò di scatto. Anghel era lì, alle sue spalle, proprio ai piedi della scala che conduceva ai dormitori riservati ai vampiri. I lunghi capelli le ricadevano sulle spalle, leggeri, le carezzavano la pelle nuda delle braccia senza che lei se ne accorgesse. Lo guardava come se avesse visto un fantasma... doveva essere spaventata da lui e di certo non poteva biasimarla.
«Sei tornato.» disse, stringendo ancora più forte il libro che teneva tra le braccia.
Era un grosso tomo, dall’aspetto antico. Per un istante si chiese cosa stesse leggendo.
«Ho saputo che tu e il tuo vampiro state bene. Mio zio era preoccupato per la vostra situazione.» disse, freddo.
Ma che gli prendeva? Non si era forse detto che doveva scusarsi con lei? Che razza di tono gli era mai uscito fuori? “Calmo, devi stare calmo!”. Che cosa possedeva Anghel in grado di alterarlo in quel modo?
«Stiamo bene, sì... certo, Alam preferirebbe di gran lunga non restare qui. Non sopporta quest’immobilità forzata... lo distrugge.» disse lei.
Bruno la guardò, sentì una scossa attraversargli la spina dorsale, un brivido. Lo aveva provato altre volte in sua presenza. Abbassò lo sguardo per poi risollevarlo su di lei, senza nemmeno accorgersi del lieve tremore nelle sue mani.
 
***
 
Aveva sceso la scalinata distrattamente, concentrata unicamente sull’immagine di se stessa che riportava il pesante volume nello studio da cui l’aveva preso il giorno precedente. Era un libro che parlava del nord della Francia, mostrava le località più interessanti della regione dell’Ile de France e le strade più veloci da percorrere. Lo aveva sfogliato con cura durante tutta la notte assieme ad Alam.
In realtà, prelevarlo così spudoratamente da quella stanza non le era parsa un’idea molto intelligente, all’inizio, ma nessuno era andato da lei a reclamarlo o a chiederle spiegazioni; il che le fece pensare che la sorveglianza a cui erano costretti non era poi così stretta. Forse non ritenevano possibile una loro fuga; forse le misure di sicurezza all’esterno erano più efficaci di quanto lei sperasse, così efficaci da non richiederne altre; forse ancora non avevano considerato quello tra le loro possibili armi...
Non le restavano molte cose da fare, al momento. Durante gli ultimi giorni era riuscita in tutto ciò che si era prefissata. Non era stato facile: aveva dovuto fingere di lavorare ad altro, di distrarsi con altro per non attirare troppo l’attenzione. A quanto pareva nessuno si era accorto di nulla.
Doveva solo riportare il libro al suo posto e poi tutto sarebbe stato pronto... anche Alam...
Per cui non si aspettava certo di veder Bruno in fondo alle scale. Aveva dato per scontato che lui e Jahèl non si sarebbero trovati nelle vicinanze. Claude poteva anche non risultare un problema, ma la presenza di due vampiri millenari era un’altra cosa, complicava un po’ la situazione e Alam non era certo in una forma smagliante! Inoltre, non aveva scordato la paura che il giovane veneziano le aveva messo durante il loro ultimo scontro.
Immancabilmente, le prime parole che il ragazzo le rivolse le fecero gelare il sangue nelle vene e lo vide scomporsi davanti a lei, irrigidirsi durante la sua risposta: le labbra tremarono impercettibilmente e strinse i pugni fino a farsi diventare le nocche pallide. Non avrebbe dovuto nominare Alam, ma lui aveva chiesto di entrambi e le era venuto spontaneo parlargli anche del vampiro.
«Dovrebbe imparare a controllare meglio i suoi impulsi. Per una settimana d’immobilità non dovrebbe agitarsi tanto!» sibilò il giovane, stringendo gli occhi.
Anghel scese gli ultimi gradini, spostandosi subito verso lo studio a cui era diretta, ben decisa a non intrattenersi più del necessario.
«Non vedo perché dovrebbe. La caccia è nella sua natura e, dal momento che è più che in grado di controllarsi durante i suoi pasti, non è assolutamente necessario che lui vi rinunci!» sbottò mentre si allontanava.
«Lo difendi sempre, non è così?»
Bruno l’aveva seguita, era a pochi passi da lei, alle sue spalle.
«Sono il suo tamer, mi preoccupo per lui.» replicò lei.
Quel discorso non avrebbe portato a nulla, ne era consapevole. Sapeva perfettamente l’opinione che Bruno aveva dei vampiri, era a conoscenza del suo odio per loro. Anghel si era chiesta quale sarebbe stata la sua reazione se le cose per lei si fossero svolte in modo differente... come si erano svolte per lui. Anche lei avrebbe disprezzato Alam? In fondo, era bastato un tassello di legno intagliato a farle credere che lui avesse ucciso suo fratello e quello era stato più che sufficiente per pensare di ucciderlo. Anzi, non aveva nemmeno sprecato un attimo: era andata a casa, aveva preso un coltello e lo aveva pugnalato due volte. Senza pensare alle conseguenze, aveva agito e basta. Avrebbe odiato anche lei i vampiri se non fosse stata il tamer di uno di loro? In fondo, erano due vampiri che le avevano tolto i genitori e forse un altro le aveva ucciso Alex. Eppure non li odiava... perché c’era Alam?
Bruno non aveva Jahèl, non era il suo tamer, era differente.
«Questo discorso non ci porterà da nessuna parte! La vedremo sempre in modo diverso, tu e io... tu difendi un mostro e io difendo la razza umana.»
«Alam non è un mostro! E io non sto proclamando lo sterminio degli uomini solo perché mi preoccupo per lui!» sbottò, girandosi di scatto, improvvisamente dimentica di quel che doveva fare.
Se lo trovò a meno di un passo da lei, il volto arcigno che la fissava, gli occhi stretti che la inchiodavano sul posto tanto era il disprezzo che emanavano.
«Sai quante persone deve aver ucciso nel corso dei secoli il tuo caro vampiro? Puoi solo immaginare quante ne ucciderà? Quante famiglie resteranno private dei loro cari solo per placare la sua fame? Quanti Alex e quante madri e padri sono stati e verranno sterminati? E quante Anghel piangeranno per loro? Alam è un mostro!» sibilò, marcando l’ultima frase con particolare enfasi. «Oh, scusa, mi sbagliavo... tu non piangi per loro. A te basta che il tuo Alam sia vivo, del resto non importa.» sussurrò infine, sogghignando.
Anghel impallidì, inorridita.
«Tu non sai niente... non hai il diritto...» balbettò.
«Diritto di dir cosa? La verità? Ti è bastato meno di un mese in contatto con lui e sei stata tu quella contagiata dal mostro.»
Anghel girò la testa, ben decisa ad andarsene. Lui aveva torto, aveva pianto, lo aveva fatto, con Alam al suo fianco che le carezzava i capelli. E ancora piangeva di notte, nella stanza sola con lui, quando non trovava più niente con cui riempirsi la testa. E lui stava sempre accanto a lei, smetteva persino di ringhiare e si calmava per poter cullare lei.
Alam non era un mostro e lei nemmeno, di questo era certa! Per cui, quel misero essere umano che non aveva trovato niente di meglio che sfogar la propria frustrazione su di lei poteva anche andarsene a passeggio col diavolo, stringendo tra le mani un mazzo di ortiche e camminando scalzo su un sentiero di cocci di vetro infetti! Non c’era altro da fare che girarsi e andarsene. Era venuto lì per conto dello zio, aveva visto che era ancora viva e il suo compito poteva dirsi concluso! Quindi non avevano più niente da dirsi.
Bruno non era d’accordo...
 
***
 
Era appena uscita, gli aveva detto di tenersi pronto. Guardò lo zaino che c’era sul letto, contenente poche cose, un misto tra quelle che si portava dietro lui solitamente e quelle di lei.
Alex zampettava irrequieto per la stanza, tenendolo a distanza.
Non si fidava di lui.
Sinceramente, al momento, nemmeno lui si fidava molto di se stesso. Guardava l’animale esattamente come aveva guardato Anghel. Affamato. Una cosa positiva di quel dannato calice era che riusciva a dargli un briciolo di lucidità, sufficiente per comprendere che il gatto era assolutamente vietato! La bestiola, da parte sua, non era molto fiduciosa.
Lo teneva sotto controllo, mantenendosi in costante movimento e mostrandogli le piccole zanne ogni volta che i loro sguardi s’incrociavano. Alam non rispondeva alle provocazioni, non era il caso. Anghel gli aveva assicurato che presto sarebbero andati via da lì e che lui avrebbe potuto cacciare quanto gli pareva, per sfogarsi. Si fidava di lei, dello sguardo angosciato che gli rivolgeva. Lo rassicurava. Era come se in quegli occhi ci fosse un’oscurità avvolgente, pronta a proteggerlo, a cullarlo, ad addormentarlo senza doversi preoccupare di nulla.
Fu il gatto il primo ad accorgersi che qualcosa non andava. Si mise a grattare verso la porta, miagolando agitato. Alam alzò gli occhi. Aveva deciso che, per il quieto vivere, non lo avrebbe degnato della benché minima attenzione fino al segnale di Anghel. E il segnale non c’era ancora stato. Raschiava furioso contro la porta, miagolando e guardando verso di lui, come se cercasse di dire qualcosa.
Deve esserti costato parecchio...” si trovò a pensare il vampiro, osservando il piccolo corpo scuro che si dimenava come un pazzo, scattando da lui alla porta senza sapere bene dove andare.
E poi lo sentì anche lui.
Il cuore di Anghel era più forte, più veloce, impazzito. Lontano...
Sta succedendo qualcosa.” pensò, mentre persino il suo, di cuore, si metteva a correre più velocemente del normale. Sentì le mani che iniziavano a prudergli e i muscoli del corpo che si tendevano, automaticamente, come richiamati da una forza primordiale che lo spingeva, lo preparava, verso lo scontro. Di scatto si girò verso il letto, agguantando lo zaino con una mano. Nella bocca sentiva crescergli la salivazione.
Era come se da anni non fosse riuscito a cacciare niente e ora le catene che gli avevano imposto si stessero sgretolando.
Il cuore di Anghel ebbe un sussulto e così il suo. Il gatto iniziò a strillare sempre più forte, sempre più insistente. Piccole unghie feline gli arpionarono il polpaccio. Abbassò lo sguardo verso gli occhi brillanti dell’animale. Sembrava rimproverarlo. Non aveva tempo di rimaner lì a crogiolarsi in quella splendida sensazione di libertà! Sogghignò.
Questo non ti piacerà...” e, preso per la collottola, ficcò di forza Alex nello zaino aperto, permettendogli solo di uscire con la testa. Fu così rapido che l’animale non si accorse di nulla, fino a quando non fu immobilizzato completamente. Alam si stupì nell’ammirare la calma con cui la bestia rimaneva all’interno della borsa... determinata, come se avesse sempre saputo che quello era il posto riservato a lui.
ALAM!”
Sangue!
 
***
 
«Lasciami andare!» la sentì strillare, sotto di sé.
L’aveva spinta contro la parete, con tale forza da farle cadere il pesante libro dalle braccia. La testa le aveva ciondolato avanti un attimo e poi era sbattuta indietro, andando a colpire una porzione di muro. Vide una goccia di sangue colarle da una tempia. Alla sua sinistra c’era una colonna riccamente decorata e lei vi aveva picchiato contro. La vista di quella piccola ferita, normalmente, lo avrebbe fatto sentire immensamente in colpa, si sarebbe profuso in scuse, si sarebbe allontanato, l’avrebbe calmata.
Ma quella non era una situazione normale.
Lui non era normale, non con lei: la vedeva e sentiva una forza che gli montava dentro, la rabbia cresceva a dismisura ogni volta che lei nominava Alam, il desiderio di toccarla diventava qualcosa d’irrefrenabile.
Guardò la goccia di sangue che scendeva contornandole il viso, guardò i suoi occhi spalancati, sbarrati, la bocca aperta in un urlo che non le riusciva di emettere. Voleva chiamare Alam, non era così? Voleva averlo al suo fianco, correre da lui, lasciarsi abbracciare da lui?
Digrignò i denti, all’idea di loro due assieme.
«Cosa vuoi fare, Anghel? Scappare?» sibilò, avvicinandosi a lei.
La tenne ferma contro il muro, spingendola con le mani salde sulle sue spalle. Era paralizzata dal terrore, non si sarebbe mossa nemmeno se l’avesse lasciata ne era certo. Sorrise, sentendo un’ondata di piacere derivargli dalla consapevolezza del potere che esercitava su di lei. Poteva giocare con lei come meglio credeva, niente e nessuno si sarebbero frapposti! Fece scivolare la mano lungo la spalla, toccandole la pelle nuda del braccio, assaporando il panico negli occhi di lei mentre lenta la sua mano si faceva strada sotto la maglietta fino al seno.
«Ti... ti prego...» riuscì finalmente a balbettare.
Lui sogghignò e le chiuse la bocca con la sua, sentendo il sapore salato delle lacrime sulle labbra. Lei gemette, disperata, cercando di resistere al suo tocco per nulla gentile, affamato, desideroso di farla soffrire. E poi la sentì mugugnare, quando lui le morse il labbro fino a farlo sanguinare.
«E’ per questo che ti piace stare con Alam, non è vero? Per il sangue...» sibilò lui tra i denti, nella bocca il sapore dolciastro del sangue di lei.
«Come vedi, non ti occorre un vampiro per questo!» disse, premendo il suo corpo contro quello di lei, affinché potesse percepire la sua eccitazione, affinché potesse esserne spaventata.
E così fu. Quando vide che sulle sue labbra si stava per formare il nome del vampiro, le bloccò la voce baciandola ancora una volta, con rabbia, succhiandole avidamente la lingua.
Fino a quando non sentì una mano sulla spalla, stringersi con forza fino a ficcargli le unghie nella carne. Si girò, gridando.
 
***
 
Il volto di Alam si introdusse nel suo campo visivo, offuscato dalle lacrime. Quando sentì che il peso del corpo di Bruno si era tolto, si permise si accasciarsi alla parete, dando libero sfogo alle lacrime. Vide lo sguardo del vampiro squadrarla completamente. Gli occhi neri nel corridoio illuminato, due finestre sulla notte che lui rappresentava. Lo vide digrignare i denti, mentre si soffermava sulla tempia e sul labbro ferito, e stringere più forte la spalla di Bruno, da cui già usciva copioso il sangue. Non passò che un secondo e già Alam ruggiva furioso, sollevando il giovane da terra con una mano sola, la mano libera dallo zaino. Le zanne ben in vista, brillavano alla luce che proveniva dai grandi lampadari, il petto magro sembrava un intrico di muscoli e tendini che lei riusciva a scorgere sotto la maglietta. Un mostro, una macchina per uccidere e cacciare... Alam...
Bruno gridò, terrorizzato, di certo tutto si aspettava tranne che veder Alam così attivo in pieno giorno. E gridò ancora più forte, quando si trovò orizzontale rispetto al pavimento, a quasi due metri da esso, tenuto unicamente dalla mano insanguinata del vampiro. Anghel lo vide, chiaro, il volto della paura, la consapevolezza della propria fine delinearsi sui lineamenti del giovane. E vide Alam che abbassava il braccio, tenendo ben teso il corpo della sua vittima, e affondare i denti nella maglia verde scurita dal sangue, poco sotto la spalla. E vide la gola di Alam che si muoveva ogni volta che deglutiva il sangue, senti il risucchio vorace delle sue labbra assetate. La sua fame invase il silenzio della casa, inondandola di sangue.
Bruno smise di gridare, divenne pallido.
«BASTA ALAM!» gridò lei.
E Alam lasciò cadere il corpo svenuto con un tonfo. Ad Anghel bastò uno sguardo per constatare che respirava ancora e un altro per vedere gli occhi di Alam tornare finalmente verdi e di dimensioni normali, come non lo erano stati da giorni. Il sangue di Bruno gli imbrattava la mano fino al polso e tutta la bocca, colandogli un poco sul mento e sul collo pallido.
Nessuno per il momento era accorso alle grida di Bruno. Guardò l’ora.
«Presto! Arriveranno!» gridò, riprendendosi immediatamente.
Erano trascorsi due minuti, al massimo. Alam l’aveva liberata e si era nutrito in meno di due minuti! Sentì uno scalpiccio ben distinto, da ogni parte. Alam si avventò su di lei, senza nemmeno curarsi di togliersi il sangue di Bruno, l’afferrò saldamente per la vita e le permise di avvinghiarsi al suo collo. Non avevano tempo.
«Eccoli!» gridò qualcuno che lei non poteva vedere.
Alam spiccò un salto piccolo, superando la distanza che li separava dalla finestra, la spalancò in meno di un secondo e saltò sul davanzale. Anghel vide il giardino sotto di loro, il parco con alberi sempre verdi e un salto di nove metri circa. E la luce l’accecò. Si voltò, sbirciando dalla spalla di Alam, in tempo per scorgere un gruppo di due o tre uomini che li guardava, attoniti. Di certo non si aspettavano di vederli tutti e due alla luce del sole, per loro Alam doveva avere non più di trecento anni.
«Spostatevi!» un ruggito alle spalle degli uomini del concilio, nello stesso istante in cui Alam si tuffava e saltava sull’albero più vicino, afferrandosi in fretta al ramo.
Claude si affacciò alla finestra, un punto rosso poco sopra di loro, che già stavano sfrecciando verso il perimetro del giardino. Anghel non aveva trovato una mappa della casa, dovevano muoversi fidandosi solo dell’istinto del vampiro. Lui avrebbe saputo dove andare, lui che aveva passata più di un decennio in fuga. Claude saltò veloce e si mise al loro inseguimento. Anghel non riusciva a vederlo, ma lo sentiva dietro di loro.
«Tieniti stretta.» la voce di Alam le giunse distante, portata dal vento che la loro stessa corsa stava creando.
E lei obbedì. Lui se la caricò meglio sulla schiena, stringendo lo zaino in una mano, e poi lasciò libera l’altra. Anghel s’avvinghiò a lui con braccia e gambe, per non cadere.
La terra sotto di loro tremò. Un muro di roccia si innalzò con un tuono davanti a loro e un altro alla loro sinistra.
Il controllo sull’elemento terra?” si domandò lei, chiedendosi se fosse opera di Claude o di un altro vampiro. Le pareti di roccia divennero tre e il fragore insopportabile. Dovette trattenersi dal non tapparsi le orecchie, mentre la corsa di Alam si era bloccata. Il vampiro girava frenetico la testa da ogni parte, cercando appigli o possibili vie di fuga che non li costringessero a tornare indietro. Anghel sentì che Claude si faceva sempre più vicino, anche se la sua corsa era rallentata: doveva esser ormai certo di averli in pugno! E poi lo vide, sbucò alle loro spalle e Alam si girò di scatto a fronteggiarlo.
«Non costringetemi oltre, ve ne prego...» disse, mentre, con le mani in tasca, bloccava loro la via d’uscita, la voce atona e senza inflessioni.
Una richiesta formale, nessuna preghiera effettiva.
Anghel lo guardò stranita. Non riusciva a decifrarne l’espressione. Non v’era astio, né esultanza per averli messi in trappola. Sembrava... triste... era possibile?
Alam ringhiò sommessamente, ma abbastanza forte da far vibrare la sua voce in quella cella di roccia granitica che avevano attorno.
«Ve ne prego. Non è mia intenzione recarvi alcun danno.» ripeté Claude.
Per un qualche motivo, Anghel era convinta che si stesse riferendo solo ad Alam, usando con lui un tono molto referenziale. Si chiese perché.
Il sole batteva forte sopra di loro, i poteri dei due vampiri dovevano esser molto indeboliti, eppure Claude era riuscito a erigere tre pareti di roccia molto alte, Alam non si arrischiava nemmeno a saltarle e lei non ne vedeva la fine. Il silenzio si diramò nel parco, attendendo una mossa, qualsiasi cosa.
Fu Alam ad agire.
«Nemmeno io!» rispose, la sua voce era ancora bestiale, non quella profonda e bassa che aveva di solito, ma roca e gutturale.
La mano sporca di sangue si alzò di scatto, prima ancora che Claude potesse comprendere quel che stava succedendo. Dalle sue dita scaturirono cinque lingue di fuoco che si diressero rasoterra contro Claude, scintillando sopra l’erba e bruciandola. L’altro vampiro non ebbe il tempo di reagire, si portò le mani al volto ed eresse tutto attorno a sé un blocco di roccia, per proteggersi dalle fiamme. Queste si misero a vorticare tutto attorno, cinque lingue arancioni e rosse che danzavano a spirali attorno alla protezione di Claude, lambendola, andando a bruciare i rami bassi degli alberi. Alam si girò di scatto, saltando e inerpicandosi veloce e rapido lungo la parete davanti a loro. Anghel si girò per vedere che ancora le lingue di fuoco non si fossero estinte. Nel frattempo, con un suono fragoroso, simile al precedente, le pareti iniziarono a sgretolarsi sotto di loro e Alam fu costretto a balzare al suolo nuovamente. Una pioggia di massi e piccole pietre piovve su di loro, ma contemporaneamente riuscirono a vedere il muro di cinta del palazzo. Alam fece un balzo, dicendole di abbassare la testa e di proteggersi gli occhi. Saltò in mezzo alla pioggia di roccia e molte furono le pietre che colpirono entrambi. Anghel sentì il miagolio sommesso di Alex vicino a lei, ma non osò alzare lo sguardo, per paura che una qualche pietra potesse ferirle il volto. Quando sentì il corpo di Alam posarsi nuovamente a terra, con un contraccolpo che le mandò indietro la testa, si voltò di nuovo.
Erano sul muro di cinta, sotto di loro non erano rimaste che macerie e detriti, il fuoco divampava poco più avanti. Aveva intaccato gli alberi più vicini e stava muovendosi veloce. Vide sagome scure, gli uomini del concilio, che s’affrettavano ad arrestarlo. E vide il turbine di fiamme che continuava a insediare la calotta di roccia in cui stava Claude. Anche Alam si era voltato, per un istante. Protese ancora la mano libera dallo zaino e disperse le cinque lingue di fuoco in giro, per il giardino, appiccando altrettanti incendi.
«Li terrà occupati, per un po’. Si esauriranno da sole quando saremo sufficientemente lontani. Non abbiamo molto tempo però, visto che è giorno.» spiegò.
Di scatto si voltò e saltò giù dal muro. In meno di un minuto già non si vedeva più il profilo della casa alle loro spalle.

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