Six Feet Under The Stars - A Cancer Story -

di Aine Walsh
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I Saw Her Standing There ***
Capitolo 2: *** It’s In The Rain ***
Capitolo 3: *** Hey Jude ***
Capitolo 4: *** Bliss ***
Capitolo 5: *** Mamma Mia! ***
Capitolo 6: *** Starman ***



Capitolo 1
*** I Saw Her Standing There ***


1° Capitolo
I Saw Her Standing There



Noiosa. Ecco come si svolgeva la festa di Sara sotto il mio punto di vista.
Sì, Sara, la mia biondissima quanto simpatica compagna di banco nelle ore del corso di fotografia che frequentavo una volta a settimana dopo scuola, il pomeriggio. Era una ragazza in gamba, ma la sua festa di compleanno si stava dimostrando un clamoroso fallimento… Almeno per me, l’asociale a vita.
Mi sentivo come un pesce fuor d’acqua, lì, circondata da una marea di perfetti sconosciuti fighettini che abbordavano gli uni con le altre, alcuni anche in modo pesante.
Avrei dovuto dare retta alla nonna e restare a casa. Non ero ancora pronta a mischiarmi con i ventenni, anche se io di anni ne avevo diciassette.
Non mi piaceva proprio l’aria che si respirava e non avevo neppure provato a scambiare parola con qualcuno - merito anche della mia timidezza - perciò, dopo qualche minuto passato a cercare di gironzolare senza una precisa meta e senza nulla di preciso da fare nel locale stracolmo di gente, quando riuscii a prendere un attimo di respiro, mi sedetti su di uno sgabello accanto al bancone e presi a sorseggiare un bicchiere di Coca che mi ero appena versata, giusto per fare qualcosa.
Ogni tanto Sara si voltava nella mia direzione e, con un sorriso e un gesto della mano, mi invitava a ballare; invito che io gentilmente declinavo fingendo un attacco di mal di pancia. Mi piace ballare, ma solo quando sono a casa da sola, oppure quando c’è anche la nonna, lei non entra mai in camera mia se non dopo aver bussato. Il fatto è che ho la grazia di un tricheco in una cristalleria, io.
Mi misi a osservare la sala e tutti gli invitati, nel tentativo di dare l’impressione di essere anche abbastanza interessata all’ambiente.
Solo allora mi accorsi che tutto il locale era stato prenotato per Sara e per i suoi strani e più grandi amici.
C’erano ancora i palloncini per terra, sul pavimento di grosse e quadrate mattonelle marrone opaco, anche se mi sembrarono di meno in confronto a quelli che vidi entrando. Notai che erano tutti rossi (il mio colore preferito, nemmeno a farlo di proposito!), come i jeans che indossavo e che mi erano sembrati tanto inadeguati non appena avevo visto tutti gli altri sconosciuti invitati con indosso abiti neri lunghi fino alle ginocchia, giacche e cravatte, tacchi alti e una marea di paillettes e lustrini dappertutto; ma, in fin dei conti, con la mia lunga maglietta a righe bianche e nere, i miei jeans rossi e le mie Converse nero lucido, ero stranamente chic. Sorrisi al pensiero di essermi appena definita elegante, io, la persona che indossa sempre la prima cosa che trova dentro l’armadio!
Ma lasciai perdere il mio abbigliamento e tornai a concentrarmi sul momento.
Gli invitati erano parecchi, non c’erano finestre - questo perché eravamo di un piano sottoterra - e i riscaldamenti erano a palla, come la musica, che sembrava volesse spaccare le casse con la sua furia di parole e sinfonie elettroniche e metalliche per scappare altrove - cosa che avrei volentieri fatto anche io, preferendo di trovarmi da qualsiasi altra parte del pianeta in quei momenti. Il risultato di tutto ciò era un caldo soffocante, e io odio il caldo.
Come se non bastasse, guardandomi intorno, mi accorsi con un pizzico di stupore di essere l’unica ragazza rimasta sola. Erano tutti accoppiati, perfino Sara sembrava aver trovato un nuovo ragazzo con cui rimpiazzare il precedente lasciato un mese prima. Beata lei.
Non che stare da sola mi dispiacesse, del resto il detto recita meglio soli che male accompagnati - proverbio di cui io sono l’esempio vivente - ma mi dava fastidio l’idea di essere vista in compagnia di Mr. Invisibile e di essere, conseguentemente, derisa. Se l’avessi saputo avrei portato Seth, il cane dei vicini. Quel Cavalier King di undici mesi passa più tempo con me che con i suoi reali padroni.
Alla fine decisi di abbandonare quelle riflessioni sui vestiti, sul caldo e sulla solitudine alla quale mi ero improvvisamente ritrovata legata per dare un’occhiata più attenta al locale, scelta che avevo preso anche per il forte imbarazzo di essere stata scoperta da due coppie mentre le osservavo...
La sala, illuminata ora da una luce blu, ora da una verde, ora da una rossa, era grande, non la ricordavo così l’ultima volta in cui c’ero stata. Forse erano i tavoli spostati contro la parete laterale che me la fecero apparire tale.
Le pareti erano tappezzate di poster di tutti i tipi: locandine di vecchi film, foto di luoghi da dover visitare almeno una volta nella vita - frase riportata sotto un poster raffigurante l’Ayers Rock in Australia -, immagini di gruppi e cantanti famosi… In particolare, c’era una foto di Paul McCartney che mi piaceva tanto, anche se dovevo ammettere che non ne sapevo niente dei Beatles, allora. Conoscevo solamente alcune delle canzoni più famose, roba del tipo Yesterday, She Loves You e All You Need Is Love - quest’ultima, perché era la sigla del programma Stranamore -, ero a conoscenza del fatto che fossero quattro e che due si chiamassero John Lennon e Paul McCartney, mentre sconoscevo i due restanti - poveri Ringo e George!
Il Beatle era in piedi, ritratto in bianco e nero, con la sua solita divisa e il suo perfetto caschetto in stile Fab Four, e suonava il basso tutto sorridente, con il capo un po’ sollevato mentre guardava tutta quella folla di fans urlanti e adoranti.
La mia mente cominciò a divagare, approdando con la sua navicella nel mio universo parallelo, sul quale spesso mi capitava di perdermi risucchiata da un buco nero.
So che fisicamente ero lì e che stavo osservando senza battere ciglio un vecchio poster bianco e nero, ma mentalmente ero altrove, in un passato lontano, bianco e nero anch’esso. Dentro di me continuavo a chiedermi come si fosse sentito il cantante in quel momento. Credo che quella sia una delle sensazioni più belle che si possano mai provare; sapere che tutta quella gente è lì, per te, perché a loro piaci, perché loro ti vogliono bene, anche se tu non sai nemmeno che esistano, deve riempirti di una felicità immensa.
Vagavo ancora nella grande prateria dei miei pensieri, quando una voce alle mie spalle mi riportò alla realtà, obbligando la mia astronave a fare ritorno sul pianeta Terra.
«Nonostante gli anni, vedo che il Macca riesce ancora a fare conquiste. Di’ un po’, lo conosci?».
La musica era ancora sparata ad alto volume eppure io avevo sentito bene, quindi immaginai che l’estraneo mi fosse abbastanza vicino, anche troppo vicino dato che, quando mi voltai, mi ritrovai il suo orecchio ad un centimetro di distanza dalle mie labbra.
Era un ragazzo, questo l’avevo capito, e si era curvato accanto a me per sentire la mia risposta.
«Se non sbaglio, è Paul McCartney» risposi, ma non ero sicura che mi avesse sentita. David Guetta copriva le mie parole ed io non volevo urlargli contro, perciò, sebbene magari avessi avuto un tono di voce alto, la mia risposta suonò come un sussurro.
Il ragazzo annuì col capo e si rizzò, prendendo poi posto sullo sgabello alla mia destra.
Istintivamente lo guardai e lui fece lo stesso con me. Non riuscivo a vederlo bene a causa delle luci, ma il mio cervello, quasi fosse un essere pensante a sé stante, fuori da me, che dice, pensa e agisce per conto proprio, decretò subito che non fosse affatto male.
Parlò di nuovo.
«No, non sbagli, è lui. Sei una fan?» domandò ancora, e mi sembrò di cogliere una tonalità speranzosa.
«Mi dispiace deluderti, ma non lo sono. Non conosco bene né lui né gli altri Beatles. Sono più orientata verso altri generi».
Scrollò le spalle. «Figurati, non mi deludi affatto: ognuno fa ciò che gli pare. Se posso, verso quali altri generi sei orientata?».
La sua curiosità mi sorprese. Non pensavo che qualcuno avrebbe avuto voglia di perdere tempo con me, quella sera. Invece era arrivato lui e in una manciata di minuti mi aveva già rivolto tre domande.
«Muse. - risposi - Sono per il rock alternativo dei Muse, ma non disdegno le altre produzioni».
Restò un attimo in silenzio, come se stesse pensando, prima di dire: «Il trio capitanato da Matt Bellamy?».
«Sì, esatto. Proprio Matt Bellamy, l’unico uomo che sposerei se mai decidessi di fare una cosa simile».
Mi resi conto di aver detto quella frase solo dopo averla terminata.
Si poteva dire una cosa più stupida e insensata ad uno sconosciuto qualunque?
No.
Riuscivo già ad immaginare la scena successiva: lui sarebbe scoppiato a ridere, si sarebbe alzato e avrebbe riferito a tutti il mio imbarazzante sogno, che per anni avevo accuratamente tenuto nascosto nell’angolo più buio e profondo del cassetto dei desideri sotto l’etichetta Pura Fantasia e che, a parte me, conosceva solo Irene, la mia migliore amica (che, dal canto suo, si sarebbe accontentata di sposare Dom, visto e considerato che il suo amato Chris era felicemente accasato e con ben cinque bei bimbi che scorrazzavano a destra e a sinistra).
Risultato finale: sarei stata derisa da una sessantina di ventenni figli di papà.
Un brivido di terrore mi percorse tutta la schiena non appena lo vidi dispiegare le labbra sottili in un sorriso.
Lanciai uno sguardo veloce all’orologio: erano le ventitré in punto.
Mamma sarebbe venuta a prendermi tra più o meno mezz’ora, non avrei sofferto molto. Sarei sparita nel nulla e nel giro di due giorni tutti si sarebbero dimenticati di me e di quella mia orrenda figura ed io non li avrei mai più rivisti (eccetto Sara, ma di lei mi sarei occupata dopo).
Lui si passò una mano fra i capelli, ancora con il sorriso impresso sul volto.
In un fremito d’impazienza, mi chiesi cosa aspettasse prima di prendermi in giro.
«Beh, io mi chiamo Matteo, sono di origine inglese per parte di madre, ho gli occhi chiari e suono la chitarra. Direi che sto già un pezzo avanti» sentenziò con una nota allegra.
Dio solo sa come non caddi dalla sedia preda di qualche strano spasmo o di qualche crisi.
Mi sentii le guance avvampare e benedissi quelle luci colorate che gli impedivano di notarlo.
Sul serio aveva detto una cosa simile?
«E tu?», proseguì amichevolmente.
Mi afferrai il braccio sinistro con la mano destra, a disagio. Speravo solo che la voce non mi ingannasse, uscendo con il solito tremolio che mi prende nei momenti di imbarazzo.
Maledissi la mia timidezza.
«Mi chiamo Adriana, sono al cento per cento italiana, i miei occhi sono color nocciola e ho preso lezioni di pianoforte quando avevo sette anni».
Mi sorpresi non poco udendo la mia voce: era regolare, limpida e ‘senza intoppi’.
Mi porse la destra e gliela strinsi. La sua mano era più calda della mia, che in inverno aveva l’abitudine di essere sempre particolarmente fredda.
«E non hai soprannomi? Devo sempre chiamarti Adriana?».
«Per la mia famiglia sono Adri, ma per il resto del mondo sono Ria».
«Ria, - sembrò ripetere più a se stesso che a me - Ria. Mi piace».
Dopo aver mollato la stretta, ripresi a guardare i ragazzi e le ragazze che ballavano al centro della pista, impacciata, senza sapere che fare e credo che anche Matteo abbia fatto lo stesso.
Sapevo di dover fare qualcosa, ma non avevo la minima idea sul comportamento da dover assumere. Cercavo con foga dentro il mio cervello, nella speranza di dire qualcosa di carino o di aprire una conversazione sensata. Avevo avuto che l’impressione che fosse un appassionato di musica, tale e quale la sottoscritta, ma non ne ero sicura e poi avrei rischiato di cadere nel ripetitivo aprendo l’argomento, giusto?
Accantonai la Musica.
Di cosa parla la gente di solito?
Di tante cose.
E perché non me ne veniva in mente nemmeno una?
Ero così impegnata nel tentativo di venire a capo di quel problema, che non mi accorsi del fatto che si stesse nuovamente avvicinando a me.
«Non vorrei sembrarti un maniaco, ma mi stavo domando se ti andrebbe di uscire fuori per prendere una boccata d’aria. Qui si soffoca».
Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio, lo so, però, spinta da chissà quali forze gravitazionali alzai e lo seguii verso le scale senza nemmeno rifletterci sopra .
Il piano superiore era colmo di gente quasi quanto quello inferiore, se Matteo avesse tentato di aggredirmi, lo avrebbero visto tutti, ed io non ero ancora così stupida da allontanarmi da sola con lui.
Aprì la porta d’ingresso e mi fece uscire, come un vero gentleman inglese. Lo ringraziai con un mormorio appena udibile nello sforzo immane di evitare di guardarlo in viso. Nello stesso istante in cui il mio volto sporse verso l’esterno, una ventata d’aria gelida lo colpì e solo allora ricordai di aver dimenticato di prendere il cappotto dall’attaccapanni.
L’inverno vero e proprio era ormai passato, essendo arrivati ai primi giorni di Marzo, ma il freddo non ne voleva ancora sapere di andarsene. Per quanto mi riguardava, andava benissimo così.
L’esterno del locale si articolava all’incrocio tra una piccola stradina ed una strada più grande, trafficata da abbastanza auto. Mi sedetti sulla prima sedia nera di plastica che vidi, affianco al tavolo, e Matteo fece la stessa cosa. Lassù le luci non mancavano affatto, e quelle che c’erano non erano fioche o colorate e consentivano una perfetta visuale.
Per non sembrare scortese, mi costrinsi ad alzare il capo. Era ovvio che prima o poi ai miei occhi sarebbe capitato di scontrarsi bene con i suoi.
Diedi in parte ragione al mio cervello, non aveva sbagliato del tutto.
Non è che Matteo non fosse male, anzi; era quello che Ire, nel suo linguaggio fatto di iperboli che si accozzavano l’un l’altro, avrebbe sicuramente definito un tremendo figo da paura.
I capelli scompigliati erano a metà strada tra il biondo cenere e il castano chiaro, in una tonalità che nemmeno Franck Provost, Paul Mitchell, i parrucchieri della pubblicità Sunsilk e tutti gli altri parrucchieri del mondo avrebbero saputo definire. Notai che tre ciocche gli ricadevano sulla fronte e che non gli stavano per nulla male. Il naso era dritto, anche se minutamente largo, come la bocca dalle sottili labbra rosa pallido che pochi minuti prima mi erano state molto vicine. I lineamenti del viso erano perfetti. Non erano da bambino, ma nemmeno da uomo, e costituivano una molto attraente combinazione. Il suo fisico, alto e snello, era fasciato da un paio di jeans, una camicia bianca e una sciarpa a scacchi bianchi e neri che lasciava un po’ intravedere il pomo d’Adamo.
Ma se c’era una parte di lui che mi colpì più del naso, della bocca, della fronte o dei bei capelli su cui non vedevo l’ora di affondare le mie dita, erano i suoi occhi e il suo sguardo. Uno sguardo verdissimo, intenso, degno di quello di Johnny Depp. Gli occhi da cerbiatto erano grandi e le iridi di smeraldo andavano scurendosi fino alla pupilla, diventando di un colore simile al mio nocciola. Sarebbe riuscito a suscitare persino l’invidia del mare con i suoi occhi.
Quando mi accorsi di star correndo troppo con l’immaginazione, scossi il capo e cercai di impegnarmi ad avviare una conversazione decente.
«Quanti anni hai?», domanda banale, ma poteva essere un inizio.
«Diciannove, e so che a voi ragazze l’età non si chiede, e spero che tu non me ne voglia male, ma rigiro».
«Diciassette. A Dicembre diventerò maggiorenne».
«Sei piccolina...» commentò.
Probabilmente lo fulminai involontariamente con lo sguardo quando sentii di essere stata definita ‘piccolina’, perché si affrettò ad aggiungere, ridendo: «Vista e considerata l’età media degli invitati. Cosa ti ha portata qui?».
«A parte l’invito di Sara? Non ne ho idea» confessai reprimendo un sospiro.
Accavallò le gambe. «Io sono un imbucato» dichiarò a sua volta.
«Un imbucato?» ripetei sorpresa.
«Già. Hai qui davanti a te il cugino del migliore amico dell’ex della festeggiata, mandato in missione per ‘sondare’ - parafrasò con un gesto delle dita - il campo. Mi sento una specie di ECHELON». Sorrise, e dovetti sforzarmi di restare lucida e di non imbambolarmi.
Mi divertiva, era interessante e volevo stare al gioco.
«E come procede? Cosa hai scoperto?».
«Che questa festa è veramente annoiante, che Sara ha trovato un rimpiazzo, che nessuno, a parte te, si è ancora accorto della mia presenza e che il migliore amico di mio cugino è un emerito idiota».
Emerito idiota, non tutti i ragazzi che conoscevo avrebbero usato un’espressione simile.
«Forse sbaglio, - proseguì - ma non mi è parso di vedere che tu ti stessi divertendo molto, vero?».
I miei tentativi di apparire interessata erano risultati del tutto vani, alla fine.
La prossima volta mi sarei impegnata maggiormente.
«Sinceramente non pensavo che la festa potesse avere il solo scopo di rimorchiare. In pratica, è una serata riservata alle coppie».
«E tu sei sola» concluse.
Annuii.
Lo vidi trafficare con la tasca sinistra dei pantaloni.
«Fumi?», mi chiese porgendomi un pacchetto di Merit.
«Oh, no» rifiutai.
Sorrise. «Dal tuo tono sdegnato, capisco che non ne hai intenzione. Meglio così, io sono felice di aver smesso».
Mi chiesi il motivo per cui teneva del fumo con sé, dato che diceva di aver smesso e, quasi come mi avesse letto nel pensiero, disse: «Mio cugino me le ha regalate in segno di… Che so? Forse come ‘ricompensa’. E’ sicuro del fatto che io tornerò a fumare, presto o tardi».
Un’auto si accostò al marciapiede e abbagliò nella nostra direzione: era mia madre.
«Devo andare, - dissi alzandomi - è arrivata la mia ora».
«Cenerentola deve tornare a casa» replicò alzandosi.
«Grazie per la compagnia».
«Grazie a te per avermi creduto quando ti ho detto di non essere un maniaco. - mi tese la mano - E’ stato un piacere parlare con te, Ria».
Arrossii. «Anche per me», ed era vero.
Mi voltai e salii in macchina. L’aria calda che vi trovai all’interno mi fece sentire subito meglio.
«Ciao Mamish» salutai mentre allacciavo la cintura. Mamish era un soprannome che le avevo dato quando avevo quattro anni, non ricordo bene come accadde, ma da allora continuai a chiamarla con quel buffo nomignolo.
«Ciao festaiola. E’ andato tutto bene?».
«Sono sopravvissuta».
Mamma mise in moto.
Fuori dal finestrino, vidi Matteo rientrare dentro il locale.
Peccato.


Good Day, Sunshine! :D
(ovvero, il mio NdA)

Hola!
Allora... Da dove cominciamo?
Forse dal fatto che, dopo ere, ho trovato l'ispirazione per una nuova long *_*
Sì, lo so che come primo capitolo è orrendo, ma la storia è già tutta nella mia mente e, fidatevi (se volete), quando vi dico che migliorerà. Io ce la metterò tutta u.u

Avrei dovuto fare una lista delle cose da scrivere... Come sempre, dimentico tutto -.-'
Beh, mi auguro che a qualcuno possa piacere 'sta cosina qui e spero anche che non ci siano errori di nessuna natura (avrò letto questo capitolo una trentina di volte...).
Questo era solo un assaggino, una prova se vogliamo, il secondo capitolo è in fase di lavorazione ma non so quando lo posterò; prima devo finire alcune storie per dei contest.

Credo davvero sia tutto, non mi viene in mente altro.
Ringrazio tutti coloro che leggeranno, recensiranno, preferiranno, seguiranno, ricorderanno e apriranno (anche per sbaglio) la pagina. Grazie! :D

Alan

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Capitolo 2
*** It’s In The Rain ***


2° Capitolo
It’s In The Rain


L’indomani mattina mi rifiutai di andare a scuola; non riuscivo proprio ad aprire gli occhi. Di solito, il sabato non era una grande giornata di studio e un’assenza non mi avrebbe di certo procurato una sospensione.
La prima cosa che feci, una volta sveglia, fu dare un’occhiata all’orologio: erano le 10.04.
Sapevo di essere sola a casa e non avevo nessuna fretta, quindi mi sistemai in posizione supina e presi ad osservare il soffitto.
Vivevo al sesto ed ultimo piano di un palazzo poco distante dal centro, in un attico piccolo, abbastanza tranquillo e pieno di finestre. Una di queste era posta proprio sopra il mio letto e mi consentiva, ogni giorno, di sapere le condizioni del cielo ancora prima di aver guardato le previsioni meteo. Potrebbe sembrare abbastanza fastidioso, visto che nei giorni di sole la luce mi batteva sugli occhi, eppure non lo era. Avevo fatto l’abitudine.
Quella mattina il cielo era grigio piombo, scurissimo, coperto da grossi nuvoloni e dava proprio l’impressione che ne sarebbe venuto fuori un bell’acquazzone, uno di quelli che può tenerti sveglio tutta la notte con i suoi tuoni e il suo continuo rumore di acqua scrosciante.
Restai sdraiata per cinque minuti a riordinare le idee, prima di alzarmi e andare a fare colazione.
La pioggia non tardò ad arrivare; mentre lavavo la tazza, prese a battere contro i vetri. Solo allora mi ricordai di Irene: quella sera saremmo dovute uscire, ma non ne avevo poi così voglia.
Afferrai il cellulare e le scrissi un messaggio.
 
Stasera. Tu. Io. Pizza, Dvd e poi a nanna. Ci stai?
 
Dopo circa un’ora, il telefono squillò con il suo solito blop che mi avverte dell’arrivo di un sms.
 
Perfetto :)
 
Tornata in cucina per guardare un po’ di televisione, notai un biglietto lasciato sopra il tavolo. Era della mamma.
Mi battei forte una mano sulla coscia dopo averlo letto. Possibile che non ci avessi proprio pensato?
Quando ero uscita fuori con Matteo, la sera prima, avevo dimenticato il cappotto nella sala dove si svolgeva la festa e non mi ero neppure ricordata di prenderlo, lasciandolo lì. Mi grattai la fronte pensando che nel pomeriggio avrei chiamato Sara e le avrei chiesto se l’avesse preso lei, sperando in un sì.
Accesi la tivù, ma, dopo mezz’ora passata a fare zapping in giro per i vari canali, decisi che non ci fosse nulla che mi interessasse particolarmente e tornai in camera a studiare.
Non feci che studiare e poi cucinare, o meglio, provare a cucinare qualcosa di commestibile e poi tornare a studiare per tutto il resto della mattinata, anche dopo aver pranzato. Approfittai di un giorno d’assenza per ripassare più approfonditamente tutto ciò che c’era da rivedere in vista dei compiti in classe di fine Trimestre.
D’un tratto qualcuno bussò alla mia porta. Non mi sorpresi affatto quando il faccino bianco di mia nonna ne fece capolino.
«Hai ancora intenzione di studiare?» chiese.
«Purtroppo sì».
«Peccato, - sospirò - ho appena sentito che avremo ospite Irene stasera e mi sarebbe piaciuto preparare delle frittelle. Ma se non puoi…».
«Piano, nonna! Chi ha detto che non posso?» esclamai in fretta.
Ridemmo.
«Dammi solo dieci minuti, finisco di studiare Storia e arrivo».
Cucinare frittelle quando avevamo ospiti era diventata una tradizione. Peccato solo che casa mia fosse abitata solo da mia madre, mia nonna e me, e che non sempre qualcuno ci venisse a trovare.
Io un padre ce l’ho, anche se non vive più con me e mamma da qualche tempo. I miei genitori hanno divorziato quando avevo undici anni e da allora lui vive a Roma dove io vado regolarmente a trovarlo ogni estate, per un mese intero.
Nel momento in cui il mio telefono squillò, avevo le mani impegnate a mescolare l’impasto. Mi ripulii in fretta e risposi.
«Dimmi tutto, Ire».
«Shining o Sette Anime?».
«Nessuno dei due. Li abbiamo già visti, non ricordi?».
«Mi sa che hai ragione. Suggeriscimi tu, allora. Sto in una videoteca e c’è solo l’imbarazzo della scelta».
Ci pensai sopra per qualche istante, ma non mi veniva in mente nulla.
«Cosa c’è di fronte a te?».
«Dipende, potrebbe esserci Kung Fu Panda, I Mercenari o Il Cigno Nero…» disse.
«Stop. Per me va bene questo».
«Anche per me. Ci vediamo dopo, Tonta!», e riattaccò.
La mia vita è fatta di soprannomi. Tutto e tutti hanno soprannomi: la mamma, la nonna, i miei peluche, l’auto della mamma, il signore calvo del quinto piano… Io vanto almeno una ventina di nomignoli più o meno usati - dipende dal periodo - e Tonta è uno di quelli che va per la maggiore.
Irene non ci mise molto ad arrivare. Aprii la porta e me la ritrovai di fronte tutta bagnata, insieme a mia madre, asciutta.
«Ma che...?».
«Non chiedere. - mi interruppe accompagnata da un gesto della mano - Ha preso a piovere mentre venivo qui».
Mamma mi stampò un bacio sulla guancia. «Le stavo giusto dicendo che sarei passata a prenderla io, se avessi saputo che i suoi genitori non potevano accompagnarla. Comunque sia, vado a prenderti dei vestiti». Si allontanò per fermarsi, pochi passi dopo, nel bel mezzo della cucina, annusare l’aria e dare uno sguardo ai fornelli.
«E’ odore di frittelle, questo?», domandò con un sorriso tra le labbra carnose, uguali alle mie.
«Abbiamo ospiti» risposi semplicemente.
Cenammo con pizza e frittelle e, dopo esserci lavate ed aver messo i nostri pigiami, io ed Ire ci chiudemmo in camera mia per vedere il film.
Il finale ci lasciò alquanto stupite, silenziose per qualche attimo.
«A te è piaciuto?» chiese poi la mia migliore amica voltandosi a guardarmi.
«Non lo so... E’ strano, in un certo senso, ma non si può negare che non sia interessante» dissi con un tono lento e monotono.
Colse al volo l’imitazione.
«No! - strepitò - La Fornero, no! Lasciala stare!».
La Fornero, la nostra insegnante di Scienze, una vecchia donna arcigna, così acida che in suo onore è stato aggiunto il grado infinito negativo nella scala del pH.
Risi.
«Certo, ridi. Quella donna infesta ogni notte i miei sogni e tu riesci a riderci sopra» borbottò offesa.
«Devo regalarti uno Scacciasogni, assolutamente. Comunque, che mi sono persa oggi a scuola?».
«Per quanto riguarda lo studio, hai fatto veramente bene a non venire. Oggi l’ora di Arte è stata parecchio... Turbolenta, sì. A parte questo, niente di veramente importante».
Annuii. Era quello che avevo immaginato.
«Ma per quanto riguarda il resto...» aggiunse con un sorrisetto all’angolo della bocca, atto a volermi provocare.
Roteai gli occhi. «Sai che queste cose non mi interessano», le ricordai.
«Sì, so che tu sei una persona del genere vivi e lascia vivere, ma questa devi sentirla».
Ecco un difetto di Irene: riusciva sempre a sapere tutto di tutti. Lei diceva di non farlo per curiosità, ma solamente per aver qualcosa di cui parlare e da cui prendere esempio per comportamenti da evitare o da assumere, tanto che ero l’unica alla quale rivelava queste cose.
«E’ obbligatorio starti ad ascoltare, oppure posso fingere coinvolgimento annuendo e continuando a farmi gli affari miei?».
Fece una smorfia ed cominciò: «Lo prendo come un sì. Ti ricordi quando...?».
Notai che i suoi occhi neri iniziarono appena a brillare e che la sua voce salì di un tono, entrambe manifestazioni che mi avvertivano della sua eccitazione.
Per un po’ stetti davvero ad ascoltare, ma ad un certo punto non riuscii più a seguirla e andai in stand-by, e penso che lei non se ne accorse nemmeno, troppo presa da ciò che raccontava.
La storia narrava di ragazze che si rubavano i fidanzati tra di loro, di ragazzi improvvisamente troppo gelosi, di scontri, litigi, armistizi, alleanze, il tutto governato dalla Regina Suprema con l’aiuto del Consigliere Regale: Sua Maestà l’Invidia e Sir Stupidità.
Mi venne da ridere a pensare che quella situazione mi ricordasse in qualche modo l’Orlando Furioso.
A volte, mi sentivo diversa da tutto il resto del mondo. Io non mi preoccupavo di star dietro a problemi simili, cosa che invece tutti gli altri sembravano fare. Vivevo la mia vita, punto. Ed era già abbastanza difficile così. Inoltre, ero fermamente convinta del fatto che la nuova generazione fosse un completo disastro e, onestamente, non mi importava sapere le eroiche gesta dei miei coetanei.
Totalmente distaccata da ciò che Irene raccontava con tanto trasporto, risalii a bordo di quella famosa navicella spaziale e volai tra i miei pensieri.
«E tu invece?».
La domanda mi risvegliò di colpo.
«Io invece, cosa?».
«La festa com’è andata?» disse, appoggiandosi alla spalliera del letto.
 Mi sistemai una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «E’ andata» risposi con tono di indifferenza.
«E’ andata? Tutto qui?».
«Sì. Perché, che ti aspettavi?».
«Non so. Sicura che non sia successo niente?» riattaccò.
«Sicurissima. Non è stata di certo una delle serate più belle della mia vita».
Sbadigliò rumorosamente, stirando le braccia in aria. «Ovvio, - proseguì - ti mancavo io».
Mi nascosi dietro un sorriso.
Avrei dovuto raccontarle dell’incontro con Matteo, giusto?
Ma perché? Non era accaduto nulla. Avevo incontrato un ragazzo e avevamo scambiato qualche parola, fine della storia. Se glielo avessi riferito, mi avrebbe tormentato con le domande. E a quell’ora le domande erano l’ultima cosa che desideravo.
Continuammo a chiacchierare fino a quando i suoi sbadigli non si fecero più frequenti e prendemmo all’unisono la decisione di dormire per qualche ora. Si tirò le lenzuola fino al mento, chiuse gli occhi e mormorò: «Ria, per favore, non russare stanotte».
Abbozzai un sorriso mentre mi stendevo accanto a lei. «Solo se anche tu eviti di farlo».
Come ebbi previsto, Irene si addormentò subito. Io, ancora una volta, ero vittima dell’insonnia. In più temevo di svegliarla se mi fossi mossa, ragion per cui rimasi ferma su un fianco con gli occhi sbarrati che scrutavano nel buio della camera.
Eravamo solo io e la pioggia scrosciante che s’infrangeva contro la finestra. Mi è sempre piaciuta la pioggia, anche più del sole, certe volte.
Restai immobile per un arco di tempo che mi parve infinito, cullata dal cadere delle gocce d’acqua, fino a quando non mi sollevai e accesi l’abat-jour sul comodino. Il poster del Bellamy, che avevo appeso accanto al letto, apparve magicamente in tutta la sua bellezza. Mi fermai a contemplarlo per uno o due minuti, sognando, ancora una volta, di incontrarlo un giorno - questo desiderio era leggermente più realizzabile rispetto agli altri che serbavo.
Riuscita a staccarmi da quegli occhi color zaffiro, scesi piano dal letto e andai a prendere il portatile dalla scrivania, sepolta sotto uno spesso strato di fotografie, libri e fogli vari.
C’è sempre qualcuno connesso sui social network, a qualsiasi ora del giorno e della notte. Sarà stata colpa dell’acquazzone, dell’orario o di qualche altro motivo che sconosco, ma il popolo della notte, quella volta, era più vivo e presente che mai.
Controllai la schermata principale: avevo circa una dozzina di notifiche ed una mail. Iniziai a cliccare su ognuna di queste, una per una: del resto era per questo motivo che mi ero aggregata ai nottambuli, no?
Lasciata per ultima, quando aprii la mail, riuscii a fatica a trattenere la mia mascella dal cadere giù sul pavimento.
 
Ehi, ciao :)
Sono Matteo, il tizio dell’altra sera (che poi, era ieri sera)…
Non vorrei affatto disturbarti, ma hai dimenticato il tuo cappotto e mi sento in dovere di restituirtelo. Te lo porterei io stesso, se non fosse per il motivo che sono parecchio impegnato ultimamente.
Posso mandarti un pacco postale, o possiamo sempre vederci, se per te è lo stesso.
Let me know
MJA
 
Avvampai. Che stupida, era solo una mail!
Aveva preso lui il mio cappotto ed ero felice di sapere che non era andato del tutto perduto. Avevo telefonato a Sara, quello stesso pomeriggio, ma lei non l’aveva proprio visto.
E Matteo adesso voleva vedermi.
Cattiva idea, anzi no, pessima. Pessima idea, sì.
Però il cappotto mi serviva.
Aveva scritto di essere disposto a mandarmi un pacco postale… No, quest’idea era peggiore della precedente.
Quindi, dovevo incontrarlo.
Mi massaggiai le tempie e risposi.
 
Sì che mi ricordo :)
Ti ringrazio tantissimo per averlo preso, credevo di averlo perduto per sempre…
Non penso ci siano problemi; fammi sapere quando e dove, però!
Grazie ancora, sei veramente gentile
Ria
 
Non ho la minima idea di quante volte scrissi, cancellai e riscrissi quelle poche parole; alla fine, però, riuscii a farcela e inviai il messaggio.
Mi sentii un po’ stalker nel momento in cui visualizzai la foto che aveva sul suo profilo.
Era catturato di profilo, con gli occhi rivolti altrove, e sembrava che la foto fosse stata scattata all’alba, a giudicare dal colore indaco-azzurrino che riempiva il cielo.
Il mio animo da fotografa disse subito che quella fosse una gran bella fotografia, e non solo per il soggetto - che oltretutto non si distingueva bene ed era ridotto ad una figura nerastra - ma anche per la qualità e per i colori soprattutto.
Mentre studiavo attentamente l’immagine che mi stava di fronte, all’icona dei messaggi si affiancò un piccolo uno rosso.
Vi cliccai sopra.
Panico.
Aveva già risposto.
 
Sabato prossimo intorno alle 16 al Poco Loco potrebbe andarti bene? Prima devo lavorare... Sai dov’è il Poco Loco, vero? xD
 
P.S.: Vittima dell'insonnia?
 
Mi bloccai davanti al monitor, riflettendo.
Non ricordavo di avere impegni, però mamma lavorava e non potevo di certo chiedere un passaggio alla nonna che non aveva nemmeno la patente - lei riusciva ancora a percorrere chilometri e chilometri a piedi. In confronto, io ero un bradipo... Mi rassegnai all’idea di dover prendere l’autobus. Se fossi stata una diciassettenne nella norma con una famiglia nella norma, avrei probabilmente posseduto almeno una bicicletta, perché il motorino era decisamente fuori discussione.
Tirai un sospiro; dopotutto, l’autobus non era così male, vi si trovava spesso gente interessante.
 
Sì, so dov'è e sì, va benissimo, non preoccuparti.
 
P.S.: L'insonnia è una mia carissima amica, viene spesso a trovarmi. La conosci anche tu?
 
Che Post Scriptum idiota.
 
Perfetto! Ci si vede lì, allora ;)
Io vado, inizio ad avere un po’ di sonno... E consiglio vivamente anche a te di fare una bella dormita, cara Cenerentola. 'notte.
 
P.S.: Purtroppo la conosco...
 
L’avermi apostrofata come Cenerentola, in un primo momento, mi lasciò perplessa. Sarà stata colpa del sonno che incominciava a farsi sentire, fatto sta che impiegai un po’ a capire. Alla fine ricordai che anche la sera precedente mi aveva chiamata allo stesso modo prima che me ne andassi e che avevo per di più dimenticato il cappotto, allo stesso modo della nota principessa che perdeva la scarpetta. Mi lasciai sfuggire un sorriso pensando alla coincidenza.
 
Mmm, credo veramente che seguirò il tuo consiglio. Detto fra noi, non vorrei ritrovarmi le occhiaie di un panda...
A sabato! :)
 
Sbadigliai. Doveva essere molto tardi.
Appoggiai il laptop sul comodino, spensi l’abat-jour e tornai a stendermi al lato di Irene.
Fuori pioveva ancora, ma il rombo dei tuoni si stava via via allontanando.
Guardai le gocce di pioggia che scivolavano lungo il vetro della finestra con una strana sensazione in corpo; ero contenta, ma di una contentezza insolita, non euforica, più tranquilla, calma.
E poi il sonno rapì anche me.
 

I turn the music up, I got my records on...

Salve salvino, gente! Come la va?
Puff, oggi ho rimesso piede dentro la mia scuola dopo tre mesi di beato relax e credo possiate immaginare un po' quale sia il mio stato d'animo.
Affari miei a parte, ecco il secondo capitolo.
La volta scorsa ho dimenticato di scrivervi che ogni capitolo è ispirato alla canzone da cui prende il titolo, anche se capitolo e canzone non sempre sono collegate.
E adesso credo davvero di aver detto tutto xD
Vi auguro una buona serata :D

Alan

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Capitolo 3
*** Hey Jude ***


3° Capitolo
Hey Jude

La settimana passò normalmente, fra scuola, libri e chiacchierate al telefono, con la mamma che continuava occasionalmente a pranzare fuori e la nonna che rientrava per l’ora di pranzo, dopo aver passato la mattinata nell’asilo in cui aveva sempre lavorato e in cui avrebbe lavorato per un altro paio d’anni prima del pensionamento. Una settimana come tante altre, con i suoi alti ed i suoi bassi. Forse, per quanto mi riguarda, più bassi che alti data la surreale quantità di test e compiti in classe vari a cui ero sottoposta alla fine di ogni Trimestre.
Fino a quando non arrivò il sabato. L’atteso sabato.
Una volta terminato il pranzo, mi precipitai in camera mia, posizionandomi esattamente al centro tra l’armadio e lo specchio; quella volta non avrei potuto indossare la prima cosa che mi fosse capitata sotto gli occhi.
Dopo una lunga e ponderata riflessione, optai per un paio di jeans non troppo scoloriti e la camiciola in tessuto, quella a scacchi neri e verde muschio che, stretta sotto il seno, scende più larga fino al sedere.
Sarà stato pure un comportamento da inguaribili scettici o semplicemente da inguaribili imbecilli, ma possedevo un paio di scarpe portafortuna e, anche se stonavano completamente con ciò che avevo scelto di indossare, non mi feci problemi di nessun tipo ad allacciarle ai piedi. Erano le mie Converse a stelle e strisce, le scarpe più fortunate del mondo. Irene sosteneva che fosse pura e semplice coincidenza ma, casualità o meno, ogni volta che le indossavo accadeva sempre qualcosa di piacevole.
Una volta pronta, mi sforzai ad ammirare il mio riflesso allo specchio. Complessivamente ero passabile. La camicia mi faceva apparire un po’ più magra del solito e persino i miei capelli castano scuro perennemente scompigliati, per chissà quale forza, sembravano più ordinati.
Mi sistemai il colletto, tirai un sospiro e raggiunsi la porta d’ingresso, afferrando al volo la shopper nera che pendeva dall’attaccapanni.
Non dissi nulla alle due donne con cui vivevo, accennai solo che sarei andata in libreria dove avrei aspettato l’arrivo di Sara che mi avrebbe riconsegnato il famigerato cappotto.
Uscii di casa piuttosto in anticipo e mi diressi verso la fermata degli autobus più vicina; se i miei calcoli non mi ingannavano, avrei dovuto prendere tre corrispondenze.
La strada era poco trafficata, ogni tanto si vedeva anche qualche passante passeggiare tranquillamente per la via.
Alzai il capo a scrutare il cielo durante l’attesa. Era venuta fuori una bella giornata di sole e c’era un filino di caldo in più. Il maltempo arrivato improvvisamente la settimana precedente si era trattenuto ad incombere sulla città anche per i sei giorni seguenti, ma adesso la gente poteva tornare a respirare.
Marzo pazzo.
Sul terzo autobus, finalmente, riuscii a trovare un benedetto posto a sedere e non esitai ad occuparlo. Vista l’ora, sarei arrivata in ritardo di quindici o venti minuti, che rabbia. Fortuna almeno che fossi andata via prima. Nell’attesa infilai gli auricolari dell’mp3 nelle orecchie e appoggiai la testa contro il finestrino, mentre il veicolo iniziava a muoversi.
Ancora una volta a bordo di un autobus, incrociai i visi di gente curiosa. Sing for Absolution mi attraversava il capo da parte a parte ed io, intanto, osservavo sonnacchiosamente i movimenti di chi mi stava intorno.
C’erano una coppia di gemelle assolutamente identiche sedute nella terza fila che parlottavano fra loro e gesticolavano concitatamente, motivo per cui dedussi che, quello che avevano tra le mani, doveva essere un grosso affare; una donna nella quinta fila a destra che chiacchierava allegramente al telefono con qualcuno, non smettendo neppure un attimo di sbattere le sue lunghe ciglia nere mentre continuava a spostarsi senza sosta i capelli prima da un lato e poi dall’altro, lanciando occhiatine ad un uomo poco distante dal suo posto, troppo impegnato a leggere il suo giornale per accorgersi dell’interesse della passeggera; un ragazzino sui dieci anni chino sul suo Nintendo DS, estraniato dal resto del mondo, che...
Il mezzo si arrestò di colpo, ridestandomi. Sollevai il capo e lanciai uno sguardo fuori dal finestrino: potei scorgere il Poco Loco pochi metri più avanti, scesi e mi diressi da quella parte. Conoscevo il locale per sentito dire, ma non vi ero mai entrata e non avevo idea dell’ambiente che mi sarei trovata di fronte.
Ferma davanti all’ingresso, mi dondolai prima su un piede e poi sull’altro, indecisa se dover aspettare là fuori o meno, prima di risolvermi a spingere la porta di vetro scuro. Sapevo che era strano entrare in un ristorante alle quattro e mezza del pomeriggio e mi mossi piano, timidamente.
Era un bel posto, mi piaceva. Come si poteva intuire dal nome, il proprietario si era ispirato alla penisola Iberica e all’America Latina nell’allestimento del locale. Mi saltarono subito agli occhi i colori caldi delle pareti, delle tovaglie stese sui tavoli e perfino delle candele sopra ognuno di essi. Le mura erano adornate da sombreros che si alternavano a maracas verdi, nere o marroni. L’aria era riempita da un profumo di spezie misto ad un lieve odore di frittura. La sala era completamente vuota; mi avvicinai verso la cucina mentre dagli altoparlanti situati in ogni angolo qualcuno cantava che non valeva la pena d’innamorarsi  - in spagnolo, ovviamente.
«Ma salve!» esclamò una voce alle mie spalle.
Sobbalzai vistosamente. «S-sei tu» dissi a fatica, portandomi una mano al cuore per lo spavento.
Durante il mio tentativo di calmarmi e riportare i battiti al solito ritmo di sempre, il bel faccino di Matteo rideva divertito. «Scusami, non volevo spaventarti».
«Non è niente, non c’è problema».
Che idiota sono.
«Deve essere stato terrificante, ci sei solamente tu qui. Starò più attento, la prossima volta».
Mi morsi un labbro. «Va bene, forse - evidenziai bene la parola - mi sono un pochino spaventata».
Calò un imbarazzante silenzio che accennava a volersi protrarre per tanti, troppi secondi.
Abbassai lo sguardo ad ammirare le mie scarpe; percepivo il calore inondarmi le guance. Aveva puntato gli occhi su di me, lo sapevo.
«Vado a prenderti il cappotto» esordì infine.
Con mio grande e momentaneo sollievo, annuii e restai ferma sul posto mentre lo guardavo sparire dietro una porta. Pensai che stesse impiegando più tempo del dovuto, quando invece, una volta tornato nella sala principale, notai che si era anche cambiato: aveva sostituito la camicia blu della divisa con una felpa grigio perla che gli stava tremendamente bene e che, in qualche strana maniera, s’intonava anche al verde dei suoi occhi, che ebbi l’impressione - non so se a torto o a ragione - cercassero i miei.
«Eccolo qua» me lo porse.
Sorrisi grata intanto che prendevo il cappotto tra le mie braccia, pensando che, almeno per quel giorno, sarei stata risparmiata dalla furia di mia madre che riusciva a cambiare radicalmente atteggiamento e ad arrabbiarsi in un attimo nelle giornate no.
Donne quarantenni divorziate che scelgono improvvisamente di dedicarsi quasi esclusivamente al lavoro: valle a capire.
Matteo era lì, ritto, il suo sguardo che mi percorreva dall’alto in basso e viceversa. Ma il suo non era sguardo losco, stralunato o addirittura perverso - che mi era capitato di incontrare in altra gente - ma era piuttosto amichevole e curioso.
A rischiare, non avrei perso nulla. Se mi avesse risposto di no, beh, non lo conoscevo neppure, la mia vita avrebbe continuato il suo percorso. Se avesse risposto di sì, sarei stata a vedere cosa ne sarebbe derivato.
Mi schiarii impercettibilmente la voce, raccolsi tutta la sicurezza che avevo in corpo e domandai: «Ti andrebbe di... Fare un giro?».
Sia chiaro, sono timida con le persone che non conosco, ma una volta presa confidenza mi mostro per quello che sono realmente, con pregi e difetti - soprattutto difetti. Non riesco proprio a fare l’estroversa con gli sconosciuti, ma con lui dovevo provare. E dovevo farlo perché mi ispirava fiducia, perché sentivo che non mi avrebbe fatto del male, il che è anche parecchio strano se consideriamo il fatto che non lo conoscessi nemmeno. Era come se la forza di gravità mi attirasse verso di lui ed io non riuscissi a porre una forza maggiore per potermi ritirare. Una piccola graffetta che lotta con una maxi calamita, insomma.
«Stavo per chiedertelo anche io» rispose cordiale.
Buona educazione o meno, sincerità o meno, aveva accettato.
E a quel punto dovetti prestare attenzione a non far scomparire dal mio viso quell’espressione tutto sommato sveglia che ero riuscita a far venir fuori in favore di una da ebete.
Uscimmo in strada e passeggiamo così, senza sapere dove fossimo diretti, costeggiando il lungomare.
Il mare alla mia destra era blu intenso e non particolarmente mosso, tanto che c’erano tre barche a vela non molto distanti tra di loro, poco più sotto della linea dell’orizzonte.
«Ti chiedo scusa per il ritardo di prima, purtroppo il secondo autobus ha avuto problemi nel partire e sono stata costretta ad aspettare il successivo».
«Nessun problema, - gesticolò come ad enfatizzare quelle due parole - sei arrivata lo stesso».
Dato che eravamo insieme e stavamo tranquillamente passeggiando, decisi che sarebbe stata la giusta occasione per cercare di conoscerlo meglio. E poi, dovevo a tutti i costi cercare di sopraffare, in qualche modo, la timidezza che cercava di fare breccia per manifestarsi.
«E’ da molto che lavori al Poco Loco?».
«All’incirca da un anno. Una volta preso il diploma avrei dovuto subito iniziare l’Università, ma mi è stato impedito, in un certo senso… E allora ho incominciato a lavorare».
Possibile che avessi colto una minima, microscopica, minuscola nota d’agitazione nella sua voce? Perché mai? Non mi sembrava di avergli chiesto qualcosa di strano.
Rabbrividii al pensiero di aver già sbagliato una mossa e credo sia abbastanza inutile dire che iniziai a provare una voglia matta di sprofondare.
Prima figuraccia: riuscita.
«Tu vai ancora a scuola, invece».
«Sì, frequento un liceo Linguistico».
Si lisciò il mento e disse, interessato: «Cosa vorresti diventare?».
«Se me l’avessi domandato un anno fa, ti avrei risposto l’hostess».
«E adesso no?».
«Non più. Credo che mi piacerebbe diventare una giornalista».
«Uhm, figo. - giudicò - Io mi sono diplomato in un Istituto d’Arte e nei miei piani futuri c’era l’intenzione di prendere una laurea in Architettura. Immaginavo già l’insegna accanto alla porta del mio ufficio: “Dottor Matteo Jude Ardenne, Architetto”», recitò.
Mi unii alle sue risa, per poi chiedere: «Aspetta un attimo. Jude? E’ il tuo secondo nome?».
«Sì. Mia nonna si chiama Judith, ma i miei genitori decisero che non fosse un nome adatto a me e sto ancora a chiedermi il perché… Comunque sia, Jude. Chissà, forse è anche per questo motivo che ascolto i Beatles» concluse allegro.
Una manciata di secondi in silenzio.
«Suppongo che ti piaccia disegnare» osservai.
«Me la cavo. Di solito le nature morte ed i paesaggi mi riescono bene».
«Hai proprio l’animo dell’artista» sorrisi voltandomi a guardare la strada di fronte a noi. Avevamo camminato parecchio, potevo già scorgere un’altra fermata degli autobus in lontananza. A pensarci bene, salendovi, sarei arrivata proprio sotto casa. Magari me ne fossi ricordata prima!
«Perché?» domandò con semplicità, le sopracciglia poco inarcate.
«Perché suoni la chitarra e hai un diploma in Arte» spiegai.
«Beh, tu suoni il pianoforte».
«Suonavo. Sinceramente, l’idea di prendere lezioni di piano non mi ha mai entusiasmata molto e per questo ho abbandonato, quattro mesi dopo. Avrei preferito saper suonare la chitarra, come te».
«Non è mai troppo tardi» sentenziò, agitando scherzosamente il dito sotto il mio naso.
«Per cosa?».
«Per tutto e, in questo caso, per imparare a suonare la chitarra».
«Non posso permettermi di pagare un insegnante» sbuffai.
Fece spallucce. «Io non sono ancora un insegnante, quindi tu non devi pagarmi».
Lo guardai con gli occhi sgranati, stupita.
Si stava proponendo per darmi lezioni? Gratis, poi?
Diedi voce ai miei pensieri e glielo domandai.
«Sarei felice di farlo, sì» fu la risposta.
Mi sorpresi nel sentire ancora la mascella attaccata al resto della faccia, quando invece pensavo fosse caduta giù sull’asfalto.
In quel momento, l’autobus arancione ci passò accanto. Lo seguii con lo sguardo e lo vidi fermarsi qualche metro più avanti.
«Wow, sono senza parole, non so davvero come ringraziarti. Però scusami, è appena arrivato l’autobus e devo proprio tornare a casa. Mi mandi una mail?» dissi tutto d’un fiato, riuscendo a prendere coscienza in un attimo.
«Se vuoi, possiamo anche decidere adesso. Che ne dici di giovedì prossimo?».
Giovedì, giovedì. Me lo ripetei più e più volte in mente.
«Non ho nulla di particolare da fare» ricordai infine.
«Bene, giovedì. Credo che ti serva il mio numero, nel caso ti perda».
Ci scambiammo velocemente i numeri, mi segnai il suo indirizzo sul cellulare, ci salutammo e corsi verso l’autobus che accennava a ripartire.
«Ria! - lo sentii esclamare mentre stavo per salire sul mezzo - Non dimenticartene» aggiunse, una volta più vicino.
«Hey Jude, don't be afraid» canticchiai, con impresso sul mio volto un sorriso a trentadue denti che avrebbe potuto certamente fare concorrenza a Garfield.

 
Crazy Little Thing Called Love...

Boinsor, gente :) Come state? Vi chiedevate dove fossi finita? *Credo proprio di no*
A scuola, ecco dov'ero. Cioè, non è che abbia passato tutti i giorni tutto il giorno a scuola, ma anche quando sono a casa i compiti mi impegnano parecchio, e per questo ho ritardato un po'.
Voi che ne dite di questo capitolo? Io non so che pensare xD
Ho qualcosina da comunicare, quindi ricorro ad una bella lista...
1. Mi ero assolutamente ripromessa di non cercare immagini che potessero in qualche modo rappresentare i personaggi, per lasciarvi libere di pensarli come volevate... Ma ecco, ho visto la foto di una ragazza... Ok, prendetemi pure una pazza, vi autorizzo, ma quando l'ho vista ho subito pensato: "Ecco, questa è Ria".
Se qualcuna volesse vederla, la lascio qui... (Vi chiedo solo di cercare di non fare troppo caso alle ciocche bionde che non sono riuscita ad eliminare T.T)
2 A questo punto, credo ci sia bisogno di cercare anche un Matteo... Giusto?
Sareste disposte ad aiutarmi? Perchè, in tutta sincerità, non ho la minima idea di chi possa essere...
Vi riporto la sua descrizione fisica, giusto per ricordarvi com'è :)


I capelli scompigliati erano a metà strada tra il biondo cenere e il castano chiaro, in una tonalità che nemmeno Franck Provost, Paul Mitchell, i parrucchieri della pubblicità Sunsilk e tutti gli altri parrucchieri del mondo avrebbero saputo definire. Notai che tre ciocche gli ricadevano sulla fronte e che non gli stavano per nulla male.
Il naso era dritto, anche se minutamente largo, come la bocca dalle sottili labbra rosa pallido che pochi minuti prima mi erano state molto vicine.
I lineamenti del viso erano perfetti. Non erano da bambino, ma nemmeno da uomo, e costituivano un’attraente combinazione.
Il suo fisico, alto e snello, era coperto da un paio di jeans, una camicia bianca e una sciarpa a scacchi bianchi e neri che lasciava un po’ intravedere il pomo d’Adamo.
Ma se c’era una parte di lui che mi colpì più del naso, della bocca, della fronte o dei bei capelli su cui non vedevo l’ora di affondare le mie dita, erano i suoi occhi e il suo sguardo. Uno sguardo verdissimo, intenso, degno di quello di Johnny Depp.
Gli occhi da cerbiatto erano grandi e le iridi di smeraldo andavano scurendosi fino alla pupilla, diventando di un colore simile al mio nocciola. Sarebbe riuscito a suscitare persino l’invidia del mare con i suoi occhi.


Caspita, l'NdA è diventato quasi più lungo del capitolo stesso... O.o
Ragion per cui evaporo...
Grazie a tutti quanti abbiano la pazienza di seguirmi <3
Un bacio,

Alan

*Ta Ta Ta Ta, Pubblicità*

Amate Johnny Depp? Bene, ho la fic che fa al caso vostro!
Una bellissima storia non a due, non a tre, ma a ben venti mani che, sono sicura, vi piacerà tanto :D
Se avete voglia di leggerla, dovete solamente cliccare qui ---> Hey, Soul Sisters!

*Adesso sparisco davvero*

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Capitolo 4
*** Bliss ***


4° Capitolo
Bliss

Camminavo ormai da un buon quarto d’ora su e giù per la via, con il cellulare in mano mentre cercavo di trovare la strada giusta.
Via della Quiete 48, leggevo sul dispositivo. Peccato che non avessi idea di dove fosse; motivo per cui decisi di fermarmi e dare un’occhiata intorno.
Ero nella zona ‘chic’ della città, quella piena di negozi esclusivi e con le vetrine più ammaliatrici che conoscessi, quel genere di negozi che permettono solo di osservare e, se si è talmente masochisti, di provare a immaginarsi con indosso quei mirabili, cari e striminziti capi d’abbigliamento… A meno che non si abbia lo stesso conto in banca di Paris Hilton e il fisico di Kate Moss, certo.
Una sbirciatina non mi avrebbe di certo procurato la morte, giusto? Una cosina veloce, solo perché mi trovavo lì.
Tuttavia, una volta riuscita a eliminare dalla mente lo shopping, passeggiare lungo il viale alberato mi piaceva. L’avevo sempre paragonato ad uno di quei boulevards hollywoodiani dei film, con tutte le sue luci, i suoi colori e tutta quella gente che, sin da piccola, mi affascinavano. In tempi passati la mamma era costretta a strattonarmi per un braccio spingendomi a camminare, imbambolata com’ero da tutta quell’atmosfera, specie nel periodo natalizio.
Anche quel pomeriggio, la strada era affollata da cloni di Rebecca Bloomwood, o aspiranti cloni della protagonista di I Love Shopping, che entravano e uscivano da una bottega per entrare subito in quella accanto, senza sosta.
Una di queste, una donna sulla trentina dai lunghi capelli mori, mi passò accanto e mi affrettai a chiederle indicazioni. Dopo avermi ascoltata, mi rivolse un’espressione cordiale e, afferrandomi per una spalla, mi fece fare una mezza piroetta su me stessa mentre con l’altra mano mi indicava una via seminascosta.
«E’ quella lì» spiegò con semplicità.
Annuii, la ringraziai e mi avviai a passo svelto verso la direzione indicatami.
Premetti il piccolo bottoncino argentato accanto ai nomi Ardenne-Sutcliffe e quasi subito una voce disse meccanicamente: «Terzo piano». Spinsi il pesante portone, entrai e salii le scale di marmo bianco. Ovviamente, data la zona, anche il palazzo era raffinato e questo lo si poteva subito notare dalla grande portineria - momentaneamente vuota -, dal tappeto rosso carminio che conduceva fino alle scale e dalle varie placche dorate affisse alle mura che vidi salendo, ognuna con incisa il nome di un dottore o di un notaio. Accanto alla porta di casa Ardenne non era scritto nulla.
Sebbene non avessi davanti a me uno specchio, mi sistemai con le mani i capelli che mi arrivavano fino sotto le scapole in modo da farli apparire ordinati.
Suonai il campanello ed attesi, sperando vivamente che fosse Matteo ad aprirmi la porta.
E invece, pochi attimi dopo, mi ritrovai di fronte un ragazzone alto, biondo e rigorosamente a torso nudo che mi guardava perplesso con i suoi occhi color dell’ambra, aspettando probabilmente che dicessi qualcosa.
«Ehm... Casa Ardenne?» domandai, visibilmente spiazzata.
«A meno che non ci sia un’altra famiglia Ardenne nei paraggi e che tu non stessi cercando quella, direi di sì: siamo noi. - rispose con la sua voce profonda e appena roca - E tu sei?».
In quel momento le parole di Matteo ci giunsero da dentro casa. «Lascia Sam, è per me. Non vorrei che la sconvolgessi troppo» diceva, spostando il fratello per farsi spazio e sistemarsi davanti a me.
«Ciao Ria» aggiunse poi, invitandomi ad entrare con un sorriso.
Gli sorrisi a mia volta in segno di saluto mentre entravo nel grande salotto. Mi saltò subito agli occhi l’ampia libreria di legno chiaro dentro cui stavano riposti tanti e tanti libri di tutte le dimensioni e dalle copertine di diversi colori. Al centro della stanza stava un tavolo rotondo circondato da sei sedie, tutte dello stesso colore della libreria. Alle pareti erano appese delle foto che si alternavano a dei quadri, tra cui riconobbi anche la Notte Stellata di Van Gogh. Complessivamente, era un bell’ambiente, ben arredato. I colori, tutti chiari, spaziavano tra il beige e il panna dei due divani e dei cuscini sopra di essi al color sabbia dorata che si intravedeva dallo spazio fra le cornici.
«Comunque, - riprese Jude - Federico Anna, Anna Federico, e direi che è tutto».
Federico mi rivolse un sorriso sornione, diverso da quelli a cui suo fratello mi stava abituando.
«Federico Samuel Ardenne al tuo servizio» dichiarò, tendendomi la mano che mi premurai a stringere.
«Adriana Liontecchi, felice di averti dalla mia parte».
«Non ci siamo già conosciuti io e te?» domandò mentre indicava prima il suo e poi il mio petto.
«Ma per favore!», sentii Matteo sussurrare più infastidito che divertito accanto a me.
«Credo di no, visto e considerato che pochi minuti fa mi ha chiesto chi fossi».
Sorrise nuovamente, allegro stavolta. A quanto pareva, il sorriso era una caratteristica di famiglia.
«Ok, adesso lasciamo il ventitreenne parassita ai suoi importantissimi affari - era ironico - e andiamo a strimpellare qualche nota sulla chitarra, che ne dici?» chiese il ragazzo dagli occhi verdi, apparendomi ancora indispettito.
«Sarebbe meglio» appoggiai.
Ci lasciammo Federico alle spalle e lo seguii fino alla porta di camera sua, dove si fermò.
«Dopo essere entrata, potresti benissimo renderti conto di quanto sia alto il mio livello di pazzia», disse con un finto dispiacere.
«Fidati, non potrai mai essere più matto di me» ammiccai. Il che era anche vero.
Se il salotto era in perfetto ordine con i suoi bei colori chiari, camera sua era un’esplosione di blu oltremare mista ad oggetti sparsi qua e là e a poster e fotografie appese dappertutto, al cui centro regnava sovrano il letto da una piazza e mezza con le lenzuola verde prato.
Si passò una mano fra i capelli, visibilmente imbarazzato mentre si scusava. «Sono un disordinato cronico. E’ proprio nel mio Dna».
«Non hai ancora visto camera mia».
Lo vidi sbuffare più sollevato, dopodiché si mosse a formare un cerchio su stesso, con il braccio sollevato.
«Benvenuta nel mio regno» esordì, una risata allegra nella sua voce.
Quant’era carino da uno a cento? Mille, e anche di più. Mille volte più bello di mille.
«La ringrazio, Sir, ne sono molto onorata», feci un piccolo inchino.
«Siediti, su, abbiamo una lezione da cominciare».
Obbedii, o meglio, l’avrei fatto se avessi trovato una sedia libera, visto che all’altra era poggiata una pila di magliette stirate e pulite.
«Sul letto» aggiunse, anticipandomi mentre davo voce alla mia domanda muta.
Si sedette accanto a me, voltato di tre quarti nella mia direzione, la chitarra che gli poggiava sul petto.
«Osserva i movimenti delle mia dita» disse.
Accennai un sì col capo e spostai lo sguardo dai suoi occhi alle sue mani mentre lui iniziava a suonare le prime note. Le sue dita scorrevano veloci, abili, come fossero perfettamente consce di ciò che dovessero fare. Non mi sembrò di riconoscere la canzone che stava intonando, e infatti non la conoscevo, ma il ritmo era allegro e molto carino, tanto che presi involontariamente a battere il piede a tempo sul parquet.
Tuttavia non riuscii ad evitare di osservarlo in viso, perciò ogni tanto, per alcuni veloci istanti, lo guardavo furtivamente nella sua espressione concentrata, sentendomi le guance in fiamme.
«E allora? Pensi di potercela fare?» chiese una volta che ebbe finito.
Scossi la testa. «Forse in un lontano futuro, oggi no di certo. Ma tu sei molto bravo, sul serio».
Si girò completamente verso di me rispondendo: «Può darsi, ma c’è tanta altra gente più brava, te lo posso assicurare. Comunque sia, grazie, sei gentile… Il che potrei benissimo aspettarmi da una ragazza che ascolta musica melodica e sentimentale, non da una che ascolta musica alternativa...». Lasciò cadere lì il discorso mentre si picchiettava il mento con l’indice, fingendo palesemente di essere assorto nei suoi pensieri.
Per quel poco che conoscevo sul suo conto, capii che aveva voglia di scherzare.
«Punto primo, io non ascolto solo rock alternativo. Punto secondo, non puoi giudicarmi in base alla musica che mi piace». Più che una protesta, le mie parole suonarono come quei Nota Bene che si trovano in fondo ai menù di un ristorante o di una pizzeria che quasi nessuno legge mai.
Adagiò piano la chitarra sul parquet, legno su legno, e stette a fissare un poster affisso alla parete dietro di me, a mo’ di capezzale sopra il letto. Non mi sorprese molto accorgermi che i soggetti della foto fossero i Beatles.
«Io, invece, dico che posso e sono pronto a dimostrartelo, anche subito, adesso, proprio ora» replicò.
La mia curiosità si accese tutta in una volta. «E come?».
«In modo facile facile. Hai con te il tuo iPod per caso?».
«Mp3, - risposi - va bene lo stesso?».
Si sfregò le mani. «Benissimo. Potresti darmelo per qualche minuto?».
Com’era ovvio che fosse, estrassi l’aggeggio dalla borsa e glielo porsi, notando un luccichio contento ed eccitato, quasi da bambino, nei suoi occhi da cerbiatto incuriosito.
«Se avessi avuto un iPod, avrei potuto collegarlo alla cassa. Spero non ti dispiaccia troppo il fatto che debba inficcarmi un auricolare nell’orecchio».
«Ma no, nient’affatto» risposi non senza un minimo di sorpresa.
Non l’avevo ancora sentito dire una sola parolaccia e spesso mi chiedeva il permesso prima poter agire o di potermi porre un domanda. Sembrava proprio diverso da tutto il resto dei ragazzi che conoscevo. Diverso in senso buono, però.
Sorrise a labbra chiuse e mi passò un auricolare, intanto che infilava l’altro nel suo orecchio.
«Qualcuno, non ricordo chi, ha detto che sapere che musica ascolta un essere umano è come fargli l’esame del Dna, - spiegò - ed io voglio provare a fare il tuo, Ria».
«Wow che frase, perfettamente veritiera» commentai. Pensai subito che avrei dovuto appuntarla da qualche parte, sul diario di scuola, magari.
Tuttavia un dubbio mi assalì. Se avessimo fatto questo ‘esperimento’ o chissà come lui lo intendeva, avremmo avuto tempo per suonare?
La risposta fu semplice.
«Dobbiamo prima capire che generi ti piacciono, così potrai anche suonare pezzi tuoi, non credi?».
«Ha un senso» accordai dopo essermi morsa il labbro inferiore per qualche istante, riflettendo.
Matteo accese l’mp3 e fece partire la prima canzone: Smells Like Teen Spirits, Nirvana.
«Ma guarda un po’» mormorò.
«Sorpreso?», avrei giurato di sì.
«No, immaginavo che avrei dovuto aspettarmelo» rispose con voce da maestrino.
Soffocai a stento una risata: era divertente quando si comportava in quel modo.
Solo allora mi accorsi di quanto fossimo vicini, anche più del dovuto, come lo eravamo stati la sera in cui ci eravamo incontrati. Le nostre ginocchia riuscivano già a toccarsi le une con le altre e le nostre fronti si sfioravano appena. Eravamo chinati in avanti e riuscivo a percepire il suo respiro infrangersi contro il mio petto, all’altezza del cuore, così come l’odore del suo profumo che, dalle narici, arrivava diretto al mio cervello, inebriandolo. Sapeva di buono, sapeva di lui, in un certo senso.
Un improvviso e feroce calore mi avvolse.
E andava bene cercare di essere estroversa, ma a tutto c’era un limite!
Ascoltammo la canzone per intero, fino alla fine, per poi passare ad un’altra.
«Michael Buble?!» esclamò a gran voce.
«Adesso sei sorpreso» risi.
«Come hai fatto a notarlo?» rise anche lui.
«Intuito femminile. Comunque, che male c’è? E’ bravo, mi piace e penso che Sway sia proprio carina».
«Sì, effettivamente è un bravo cantante, - concordò - anche se penso che la versione originale di Can't Buy Me Love sia migliore della sua».
«Can't Buy Me Love?».
«Te le farò ascoltare, tranquilla».
Restammo in quel modo per almeno una buon’ora, commentando questa e quell’altra canzone, questo e quel cantante, scherzando e facendo battute anche, mentre ogni tanto rispondevo alle domande che mi poneva sui Muse, delle cui canzoni il mio mp3 era carico.
«E qual è il loro pezzo che preferisci?».
Mi presi un attimo per pensarci prima di rispondere: «Ce ne sono tante, dipende dal periodo. Per esempio, quando ho bisogno di svegliarmi un po’ metto suHysteria, se sono giù di morale attacco Butterflies And Hurricanes, o se ho voglia di cantare faccio partire Starlight... A volte sento la necessità di isolarmi dal resto del mondo, e allora lascio partire Origin Of Symmetry o The Resistance fino a che non finisca l’album».
«Adesso la tua preferita qual’è?».
«Unintended. - risposi decisa – E’ una sorta di ballata romantica molto ‘soft’, molto carina secondo me. E tu invece?».
«Ed io invece cosa?».
«Parlo sempre e solo io e capisco che sia veramente noiosa come cosa, perciò, di’ qualcosa tu», sorrisi per far sembrare la proposta più convincente.
Si passò una mano dietro il collo bianco e cominciò.
«Che sono un fan dei Beatles lo sai già e, anche se non l’avessi saputo, l’avresti certamente capito entrando qua dentro. Mi piacciono perché sono stati l’inizio di tutto, non so se capisci. Cioè, prendiamo Lady Gaga: lei si è ispirata a qualcuno che si è ispirato a qualcun’altro che a sua volta, se abbastanza vecchio, ha preso spunto dai Beatles... O dai Rolling Stones, certo. Ma soprattutto, mi piacciono perché sono loro, punto. I testi e gli arrangiamenti delle loro canzoni sono semplicemente stupendi e anche la canzone apparentemente più insensata ha invece un bel significato se riesci a leggere tra le righe. - si fermò - Credimi, potrei parlarne per ore intere e, alla fine, quello noioso sarei io».
«Figurati, è interessante. Hai proprio ragione, hanno contribuito tantissimo al panorama musicale di oggi; una volta ho sentito dire che sono così radicati in noi che spesso ormai nemmeno ci accorgiamo più della loro presenza».
Gli vidi piegare gli angoli della bocca in un sorriso e mi sentii felice di ciò.
Non avevamo fatto altro che parlare di Musica, ma non mi importava. Avevamo la stessa passione che ci scorreva nelle vene ed era bello poterla condividere con qualcuno, specie se quel qualcuno fosse lui, che non solo era un piacere per gli occhi  - citazione: mamma - ma era anche sveglio e intelligente, di gran lunga in più rispetto a me. 
Nonostante tutto, io non ne sapevo quasi niente degli anni Sessanta e restai la maggior parte del tempo in silenzio a sentirlo discutere.
D’un tratto, senza nemmeno farci caso, guardai l’ora nell’orologio che portavo al polso. Ritornai a fissare il quadrante subito dopo aver alzato lo sguardo, come presa d’assalto.
«Che ore sono?» esclamai interrompendolo.
«Eh... Le... Le sette meno un quarto, sì» rispose spiazzato.
«Dei dell’Olimpo, è tardissimo! - continuai il mio sclerato delirio - Sarei dovuta restare qui solo per un’ora, non per quasi due ore e mezza! Mamma mi ucciderà, sì che lo farà, questa è la volta buona!».
Un velo nero mi aveva offuscato gli occhi e la mente, era come se fossi improvvisamente sola, fuori dal tempo e dallo spazio. Mamma non sapeva che fossi a casa di Matteo, le avevo detto che sarei andata a fare un giro veloce in centro nel tentativo di trovare un regalo ad Irene per il suo ormai vicino compleanno.
Ora, a me non è mai affatto piaciuto dire le bugie, ma a volte mi trovavo proprio costretta a farlo. Del resto, erano bugie innocenti, a fin di bene, bugie bianche come vengono chiamate.
Se avessi detto la verità, mamma mi avrebbe categoricamente vietato di uscire, sostenendo - non del tutto a torto - che non mi sarei mai e poi mai dovuta fidare di un ragazzo che conoscevo appena e che non sarei mai e poi mai dovuta andare a casa sua.
Ma Matteo era diverso e lei non lo sapeva.
Non volevo che si preoccupasse, tutto qui.
«Ria… Ria… Ria, calmati su… Non è niente, sono sicuro che… Adriana, ascoltami!» esclamò.
Mi zittii all’istante, riuscivo a percepire il sangue che mi si ghiacciava nelle vene mentre le guance mi prendevano in fiamme, come, non lo seppi neppure io.
Quante brutte figure avevo fatto? Avevo perso anche il conto.
Mi sentii un po’ più rilassata vedendolo ridere come un matto, ma giusto un pochino. L’ennesima prova della mia pazzia e della mia scarsa intelligenza aveva fatto mostra di sé, scegliendo il momento meno opportuno, come sempre.
A poco a poco, la sua risata si trasformò in un sorriso bonario per poi aprirsi e dire: «Posso riaccompagnarti io, se vuoi. Fuori si sta facendo buio e con gli autobus impiegheresti solo più tempo».
Accettare o non accettare, questo è il dilemma, diceva sempre Ire quando c’era una decisione da prendere.
Lo guardai tra il circospetto e lo stupito. «Davvero lo faresti?».
«Diciamo che non vorrei averti sulla coscienza, ecco», scrollò le spalle.
Meno di dieci minuti dopo ero già a bordo della sua auto, una normalissima Mini Cooper bianca con le due strisce nere, ad osservare la città che mi sfilava davanti quando mi ricordai di una cosa.
«Te ne sei dimenticato» dissi.
«Di che?».
«Di stilare il mio profilo musicale. Hai detto tu che sapere che musica ascolta un essere umano è come fargli l’esame del Dna, ed hai detto pure che dobbiamo capire quale sia il mio genere, giusto?».
«Dove vuoi arrivare?» chiese in tono allegro.
«Al risultato delle analisi, Dottore» risposi con altrettanta allegria.
«Non garantisco l’assoluta certezza, ma sono sicuro di poter puntare ad un buon sessanta percento di questa».
«Sono tutta orecchi», mimai portandomi una mano all’orecchio sinistro.
«Sei una rocker, questo l’avevo già capito. Ti piacciono i suoni duri, forti, quelli su cui ci si può scatenare cantando e questo significa che hai un bel caratterino. Però le ballate romantiche ti conquistano ed ogni tanto senti il bisogno di qualcosa di più calmo. Sei pacifica e riflessiva, ma credo di aver capito che non convenga a nessuno farti arrabbiare sul serio… O sbaglio?».
Risi appena pensando che il suo ‘risultato’ fosse di molto più veritiero di quelli che leggevo ogni tanto nelle riviste per ragazze dopo aver completato un test.
«No, hai ragione. In linea di massima, ci sei».
Lanciai uno sguardo fuori dal finestrino e riconobbi il supermercato vicino di casa.
«Dimmi cosa non so, allora».
«Tante cose ancora, ma la più importante al momento è che devi girare a sinistra e devi fermarti alla seconda palazzina: sono arrivata».
Girò a sinistra, si fermò davanti alla seconda palazzina e, una volta spento il motore, mi guardò.
«Quand’è che mi dirai tutto?» domandò serio.
Possibile che avesse una così straordinaria capacità di farmi andare sempre a fuoco? Godeva proprio nel vedermi soffrire, il ragazzo.
«Non c’è fretta» replicai.
«Facciamo sabato prossimo?».
Dovevo ammetterlo, Matteo sapeva veramente bene come chiedere un appuntamento. Peccato solo che quel sabato sarebbe stato il compleanno di Irene.
«Ho già un impegno… Ma possiamo fare qualcosa domenica, se per te è lo stesso».
Sì, l’avevo detto.
«Non cambia nulla, va bene. Ti manderò un sms o una mail», e capii che voleva chiudere così il discorso.
Silenzio, imbarazzo e panico. Mi immobilizzai sul posto cercando qualcosa da dire, un modo carino per salutarlo senza sembrare troppo indifferente o troppo interessata.
«Ci si sente». Sorrisi, feci ‘ciao-ciao’ con la mano e sgusciai fuori dall’auto verso il portone, senza più voltarmi a guardare in direzione di lui e della sua auto, ancora troppo vergognata ed esaltata al tempo stesso.
Quello che sarebbe accaduto in casa con la mamma era un’altra storia.

 
Live and Let Die... u.u
(in onore al Macca e al suo terzo matrimonio! :D)

Bonsoir a toute le monde! :D
State bene? Me lo auguro.
Niente di particolare su questo capitolo, spero solo vi sia piaciuto.
Devo darvi un'altra notizia, eeeh già.
Mercoledì prossimo inizio il trasloco *ecchisenefrega?* e quindi dovrò fare a meno del computer e di Internet per un po', fino a quando non mi riatteccheranno la nuova linea... Cosa che non so quando avverrà...
Dove voglio andare a parare?
Non sopporterete per qualche settimana e i miei scleri, contente?

Bien, credo sia tutto...
Spero di risentirvi presto <3
Grazie a tutte,

Alan

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Capitolo 5
*** Mamma Mia! ***


5° Capitolo
Mamma Mia!


Il lunedì mattina secondo me dovrebbe essere abolito, cancellato dai calendari, eliminato dalla faccia della Terra. Salviamo almeno le generazioni future.
E’ un dato di fatto: quasi tutti odiano il lunedì. Ed io non ho mai fatto eccezione.
A scuola, stavo seduta dietro il mio banco verde scolorito mentre cercavo con tutte le energie che avevo in corpo di non cedere alla forza prepotente del sonno durante la spiegazione della Prof., la carissima Prof. Fornero che scribacchiava formule chimiche alla lavagna, concentrandomi a seguire la lezione e ad assumere un’espressione un tantino sveglia. Accanto a me, Irene sembrava pronta a compiere il trapasso: la testa pesantemente appoggiata al pugno chiuso della mano, lo sguardo perso nel vuoto, non batteva ciglio e sembrava quasi che nemmeno respirasse. Al bel quadretto mancava solamente un filino di saliva che sarebbe dovuto scendere da un lato della bocca dischiusa.
Sorrisi fra me e me prima di darle una gomitata nelle costole. Fece una faccia del tipo ‘Chi-va-là?’ per poi rendersi conto di ciò che era accaduto ed esclamare sottovoce: «Ahi, mi hai fatto male! Che vuoi? Stavo facendo un sogno fantastico».
Come sempre. Stare attenta per Ire era un’impresa troppo difficile da portare a compimento, ma nonostante ciò riusciva ad avere ugualmente buoni voti.
«E sentiamo, cosa fantasticavi?» ridacchiai.
«James Franco ti basta?».
«Direi che è più che sufficiente, anche se sai che io sono più attratta da…».
«...Matthew James Bellamy, - completò con una punta di monotonia - lo so».
Ripresi a seguire la lezione, ma invano. Poco dopo la Chimica svanì nel nulla lasciando il posto a Matteo, contro cui avevo già più volte lottato nel tentativo di non farlo totalmente penetrare nei miei pensieri, battaglia che avevo miseramente perso.
Ad Irene non avevo ancora detto niente, ma sentivo proprio il bisogno di farlo. C’eravamo già visti tre volte e qualcosa, anche di molto piccolo, stava accadendo, no?
Che amica ero? Che amica sarei stata se non le avessi raccontato niente?
Decisi all’istante che fosse arrivato il momento giusto per rimediare.
«Andiamo a prendere un panino al McDonald’s dopo scuola? Muoio dalla voglia di mangiare un CBO fregandomene altamente delle calorie» proposi.
Mi guardò accondiscendente. «D’accordo».
«E questo, in sintesi, è il concetto di elettrochimica» gracchiò la Fornero, concludendo la spiegazione.
Chimica alla prima ora del lunedì: Ethan Hunt ha faticato meno durante i tentativi di portare a compimento quella famosa Mission Impossible e le altre che seguirono, ci scommetto.
Tuttavia, anche quella giornata passò come tutte altre e alle tredici in punto infilai tutto nello zaino, lo chiusi e lo caricai in spalla, pronta per uscire da quel mio Alcatraz personale.
Aprile dolce dormire, recita il detto, anche se ancora Aprile non era proprio arrivato. Per quanto mi riguarda, il periodo compreso fra Marzo e Aprile coincide ogni anno con la solita noia di dover ancora andare a scuola, prima di giungere alla follia di Maggio e allo sclero allegro, isterico e ansioso degli ultimi giorni di Giugno.
Quel nuovo fast food a pochissimi chilometri dalla scuola era una vera e propria fortuna, un luogo di ritrovo eccezionale.
Quando io e la mia amica entrammo era già abbastanza affollato, ma riuscimmo senza problemi a trovare un tavolo in un punto più appartato incastrato tra la parete di fondo e una finestra; quel giorno toccava a Irene pagare, perciò mi sedetti e l’aspettai. Il cellulare nella tasca mi vibrò ed ebbi la sensazione di aver perso un battito del cuore nel momento in cui finii di leggere il nome sul display: Matteo. Chi altro?
Si chiedeva se stesse disturbando.Disturbare? Aveva voglia di scherzare? Gli scrissi di no e poco dopo ricevetti un altro messaggio in cui mi domandava se fossi ancora libera domenica. Inutile dire che la risposta era sì.
Stavo per rispondere, ma vidi Irene che si stava avvicinando tenendo tra le braccia un vassoio carico di schifezze di ogni genere e quindi preferii salutarlo scrivendogli che l’avrei contattato quella sera stessa per metterci d’accordo sul da farsi; avevo il cellulare quasi scarico, per di più.
«Con chi messaggiavi?» domandò occhi-di-falco-Irene.
«Con mia madre; - risposi pronta - avevo dimenticato di dirle che siamo qui».
Annuì, mi si sedette di fronte ed iniziammo a mangiare tra una chiacchierata e l’altra. Per la sua salute, avrei aspettato la fine del pranzo prima di raccontarle di Matteo. Intanto le nostre conversazioni comprendevano la Fornero - come da copione -, l’ultima brutta figura di Carmen - una nostra compagna di classe, un po’ oca se vogliamo dirla tutta - e, per ultimo, il tizio del tavolo accanto al nostro che, dal momento in cui aveva preso posto, non mi aveva tolto gli occhi di dosso.
«Secondo me gli piaci», tirò le somme Ire sventolandomi sotto il naso il cucchiaio sporco di gelato.
Succhiai del milk-shake dalla cannuccia. «Sai, non l’avevo capito» risposi sarcastica.
Ci voltammo insieme a lanciare un’altra occhiata furtiva al tizio.
Occhi castani, capelli castani e poco mossi lunghi fin sotto le orecchie, sorridente. Non era una bellezza rara e neppure un ragazzo particolarmente carino; diciamo più che era un tipo comune. O forse ero io che non riuscivo a vedere altra bellezza se non quella di Jude.
«Mmm, però è carino. Perché non gli parli?».
«Io? Ma sei impazzita? Fallo tu, piuttosto!» esclamai esagerando un po’ più del dovuto, forse.
«Lo farei, solo che guarda te».
Silenzio. Era arrivato il momento di dirglielo. Pensai di star drammatizzando troppo, dopotutto il mio comportamento sembrava assomigliare a quello di Brooke Logan nei momenti in cui doveva confessare qualcosa di scandaloso al suo amato Ridge, il che era assolutamente ridicolo. In più non era successo niente di niente, stavo ingigantendo la questione senza saperne nemmeno il motivo.
Mandai giù un altro sorso del milk-shake e iniziai timidamente. «Ire, devo dirti una cosa. Ho conosciuto un ragazzo qualche sera fa... Matteo...».
Un scintilla attraversò fulminea le sue pupille. «Matteo chi?».
Modalità parliamone: on.
E così presi a raccontare della festa di Sara, dell’incontro al Poco Loco e di quando ero stata a casa sua pochi giorni prima, cercando di non dimenticare nulla intanto che stavo ben attenta alle espressioni della ragazza di fronte a me.
«Mi dispiace di non avertene detto niente prima, non ho idea del perché l’abbia fatto. Beh, all’inizio non pensavo potesse essere qualcosa di importante, tutto qui... Non che adesso abbia qualche urgenza particolare, è solo che... - tirai un sospiro - Insomma, hai capito» conclusi.
Il locale si era ormai svuotato, eravamo rimaste solo noi due e il tavolo accanto con i tre ragazzi. Anzi no, poco dopo la fine del mio monologo il trio si alzò e il ragazzo che non mi staccava gli occhi di dosso mi passò accanto deluso, un viso da cucciolo bastonato: dedussi che aveva ascoltato parola per parola tutto il mio discorso.
Irene se ne stava ancora zitta con il viso voltato in direzione della finestra. Evitava di parlarmi, il che poteva solo farmi comprendere quanto l’avessi combinata grossa quella volta. Mi sentivo terribilmente in colpa.
Lanciai uno sguardo all’orologio che portavo al polso e vidi che non era così tardi come avevo pensato; indagai la strada fuori dalla finestra e notai che era abbastanza trafficata per quell’ora; ispezionai lo spazio intorno a noi e mi accorsi che i commessi avevano già iniziato le pulizie ed Irene ancora non parlava.
Se voleva tenermi sulle spine, lo stava facendo veramente bene.
Nell’attesa presi a picchiettare compulsivamente le dita sul tavolo, seguendo una melodia immaginaria, fino a quando non mi spazientii e mi alzai sollevando lo zaino.
«Lo porterai alla mia festa sabato, vero?» domandò mezza divertita.
«Non aspettavi altro che chiedermelo, eh?».
«Sì, lo ammetto. Ma dovevo pur punirti in qualche modo. E quale tattica migliore dell’attesa snervante?».
Aveva ragione: mi conosceva così bene da essere l’unica in grado di poter mettere a dura prova la mia pazienza ferrea.
«Glielo chiederò» risposi alla domanda precedente.
Io e la mia migliore amica ci salutammo pochi minuti dopo davanti alla scuola, per poi avviarci in due direzioni opposte. Per fortuna la scuola distava da casa mia venti minuti circa e potevo benissimo andare a piedi, favorita anche dalla bella giornata soleggiata. Solo in quel momento mi venne alla mente il pensiero dell’arrivo della primavera, quel giorno. Ventuno Marzo, un motivo in più per essere felici. Gli altri motivi riguardavano la mia famiglia, l’otto preso nell’interrogazione di Italiano qualche ora prima, il McDonald’s, Irene e ultimo, ma non certo per importanza, Matteo.
Le mie gambe camminavano verso casa ma la mia mente vagava in un mare di cose belle, e mi accorsi di aver sorriso troppo quando incominciai ad avvertire dolore alle guance. Sorriso a chi, poi? Forse a nessuno. Forse a me stessa. Forse alla vita che mi aveva presa di sorpresa e che stava facendo filare tutto a meraviglia - non che fossi una poveraccia sfigata ovvio, ma gli ultimi tempi non erano stati molto facili -, anche troppo a meraviglia. O forse, ridevo semplicemente alla primavera.
Insomma, non avevo proprio i requisiti per essere giù di corda.
Voltai l’angolo e scorsi una macchina ferma davanti al portone del mio palazzo; avvicinandomi, mi accorsi che due figure erano in piedi, appoggiate all’auto, strette in un abbraccio. Pensai che fosse una scena carina e mi lasciai sfuggire ad un sorriso volontario: espressione che mi si cristallizzò in viso non appena mi resi conto di chi fossero i due soggetti avvinghiati amorosamente.
Non era la figlia nullafacente della coppia del secondo piano - i padroni di Seth, il cane che avrei dovuto portare con me alla festa di Sara; magari a Matteo sarebbe piaciuto -, ma peggio.
Era mia madre.
Mia madre che abbracciava - non amichevolmente - un altro.
Un altro uomo.
E il mondo mi crollò addosso in un istante, schiacciandomi tutto in un colpo.
Da quando in qua mia madre aveva un... Fidanzato? E perché non me ne aveva ancora parlato?
Desiderai immensamente di essere già a casa in quel momento, ma purtroppo mi trovai costretta a restare lì sotto e a non farmi vedere fino a quando lo sconosciuto non se ne sarebbe andato e mamma avrebbe spinto il portone per salire; perciò mi nascosi nell’incavo creato dai muri dei due palazzi vicini, aspettando.
Al momento, non sapevo che pensare.
Mamma era single da sei anni e per di più era una bella donna: prima o poi avrebbe trovato qualcun’altro, era naturale. Tuttavia, era strano vederla così con uomo che non fosse papà ed ero anche delusa dal suo comportamento; ma in fondo in fondo ero un po’ felice per lei.
I miei genitori erano stati insieme per più di vent’anni e quando avevano scelto di divorziare lo avevano fatto di comune accordo. Niente litigi o tradimenti: era solamente terminato l’effetto delle frecce di Cupido, tutto qui.
Aspettai e aspettai, o forse mi sembrò di farlo a lungo, non saprei, fatto sta i due stavano ancora continuando a parlare ed io mi sentivo sempre più a disagio.
Chissà per quanto altro tempo sarei rimasta lì nascosta se il mio cellulare non fosse squillato. Mi scappò un sorrisino nervoso leggendo il nome sul display: mamma. Che coincidenza, eh?
Non risposi perché non sapevo cosa avrei dovuto dirle, e non ce ne fu bisogno: aveva sentito anche lei la mia suoneria troppo rumorosa, come l’aveva sempre definita la nonna, e aveva preso a girare la testa da una parte all’altra, cercandomi agitatamente. Non poco confusa, mi passai una mano sul viso, tirai un sospiro ed uscii allo scoperto.
«Adri, tesoro! Non dovresti essere a casa a studiare a quest’ora?» chiese fingendo rimprovero. In realtà, sia io che lei sapevamo che fosse in balia di uno strano miscuglio di imbarazzo, confusione e nervosismo assoluto, miscuglio che stringeva come in una morsa anche me.
«Ho pranzato fuori con Irene... Te l’avevo detto...» mormorai appena.
E come spesso accade nei momenti meno opportuni della vita, calò un pesantissimo silenzio. Sentivo i loro sguardi addosso, mentre il mio, di sguardo, era piantato a terra, incapace di alzarsi.
Quando riuscì a trovare le parole, mamma continuò indicando l’uomo al suo fianco - che, una volta guardatolo, riconobbi come quel suo famoso collega di lavoro che tutti dicevano somigliare a niente poco di meno che Ben Affleck, somiglianza che io però non riuscii a trovare così straordinaria come si vociferava - :«Adriana, lui è Lorenzo, un mio collega che si è gentilmente offerto di accompagnarmi visto che la macchina mi ha simpaticamente lasciata a piedi».
Rivolsi un’occhiata più o meno inespressiva e stordita all’uomo che mi sorrideva, anche lui non riuscendo bene a celare la sua voglia di scappare miglia e miglia lontano da quel punto.
Sentivo il peso del silenzio, delle bugie e di tutte quelle cose non dette che mi gravava sulle spalle e ritenni la situazione insostenibile a quel punto e strana all’inverosimile.
«Io dovrei andare a studiare, quindi... Arrivederci. - a Lorenzo - Ci vediamo sopra» a mia madre.
Le ginocchia mi tremavano violentemente, come avessi uno spasmo, o magari era solo una mia impressione, ma preferii arrancare verso l’ascensore piuttosto che salire tutte quelle scale a piedi, dato che avevo già trovato difficoltoso attraversare quei cinque gradini prima di arrivare al sopraelevato.
Trovai la nonna stranamente seduta accanto al tavolo intenta a fare un cruciverba. Non appena mi sentì arrivare, alzò il capo, si sfilò gli occhiali e sorrise come suo solito.
«Com’è andata oggi?».
Scrollai le spalle. «Non lo so» risposi mentre andavo a chiudermi in camera. Non avevo voglia di parlare e se ne accorse, perciò mi venne dietro chiedendomi: «E’ successo qualcosa di brutto?».
Esitai un attimo.
«No, di brutto niente, piuttosto di... - cercai la parola più adatta - Inaspettato». Lessi una nota di apprensione sul suo viso, per cui mi affrettai ad aggiungere: «Tranquilla, non è niente. Classici problemi adolescenziali che capitano almeno una volta nella vita», ironizzai stirando le labbra in un sorriso, al che spinsi la porta e sparii dietro di essa.
Per quanto mi concentrassi, riuscire a studiare mi risultava alquanto difficile quel pomeriggio; ogni tentativo di cercare di capire Filosofia era abbastanza vano perché tutti i miei pensieri si ricollegavano automaticamente a mia madre e a quel Lorenzo.
Improvvisamente qualcuno bussò alla porta. In altri casi, sapevo che avrei dovuto aspettarmi il faccino della nonna comparire seminascosto, ma stavolta capii subito che si trattava della mamma. Non la guardai direttamente e la lasciai sedere accanto a me sul letto, come accadeva quando litigavamo e situazioni simili.
«Adri, mi dispiace. - sospirò dopo qualche minuto - Non sai quanto, non lo immagini nemmeno...»
«Avresti dovuto parlarmene» la interruppi, fredda.
«Lo so».
Evitavo ancora di guardarla, spostando il mio sguardo lungo le pareti della stanza. Ovviamente, gli occhi mi caddero sul poster del Bellamy. Anche i suoi genitori avevano divorziato quando lui era piccolo, e pure quella volta, come tante altre precedenti, mi chiesi come si fosse sentito. Come aveva reagito lui davanti alla nuova compagnia di sua madre o di suo padre? Lo invocai mentalmente affinché mi aiutasse a gestire quella situazione.
«Sei arrabbiata?» mormorò indirizzando i suoi grandi occhi castani alla ricerca dei miei.
«No. Non sono arrabbiata. Sono delusa, è diverso. È lecito rifarsi una vita dopo un divorzio e sinceramente ero già preparata a vederti accanto a qualcun’altro, ma mi aspettavo che tu me ne parlassi, capisci? Non pensavo che l’avrei scoperto tornando a casa, un pomeriggio qualunque, per caso».
Forse tutte quelle puntate di Una Mamma per Amica che avevo seguito qualche anno prima mi avevano parecchio allontanata dalla realtà effettiva, aggiunsi senza parole.
Prestai attenzione alla mia voce mentre parlavo e notai che uscì insolita, in un certo senso. Non era triste o rabbiosa o particolarmente dispiaciuta, ma era più piatta e lenta, quasi svuotata di ogni cosa.
Ero veramente felice per lei, ma di una felicità strana, diversa, che si sentiva tradita. Ma adesso mamma era lì e si stava scusando, e nonostante tutto la mia contentezza era di poco più superiore rispetto al resto.
«Ho sbagliato, ne sono consapevole e mi dispiace veramente tanto, tesoro. Non volevo che tu avessi un’altra delusione, volevo stare a guardare come si sarebbe evoluta la vicenda prima di dirtelo».
«E come si sta svolgendo?».
Attimo di pausa in cui si massaggiò le tempie mentre io stirai le gambe lungo il letto, poggiando il libro che avevo in grembo nel comodino affianco.
«Lui è ben disposto. È intelligente, comprensivo e paziente e sa che, nel caso in cui...».
«Nel caso in cui? Se non dovesse piacermi? Pensi davvero che potrei essere così egoista da impedirti di vederlo?», accompagnai le parole mostrando appena i denti.
Nel nostro linguaggio fatto di sottintesi significava che aveva il mio ‘permesso’.
Un bagliore le attraversò il volto, illuminandolo, nello stesso istante in cui finii di parlare. Chiunque l’avesse vista non sarebbe stato sorpreso nel sapere che aveva trovato un compagno, ma sarebbe stato più stupito nello scoprire che era rimasta - ed era riuscita a rimanere - sola per sei anni.
Sorrise in risposta e poi mi abbracciò forte, sussurrando felicemente un «Grazie» che mi strinse il cuore.
Mentre ricambiavo l’abbraccio, vidi la figura di mia nonna dietro la porta socchiusa: lei sapeva tutto.
Aveva sempre saputo e sapeva sempre tutto di tutti, ma non perché lo volesse lei. Semplicemente, la sua voce, il suo aspetto e i suoi modi di fare invitavano spontaneamente e quasi come fosse naturale la gente a fidarsi di lei e a confidarle tutti i propri segreti o gioie o paure. E mai fiducia fu affidata a persona migliore, secondo me.
Le feci un gesto con la mano, lei entrò e si unì a noi.
E tutto è bene quel che finisce bene, mi diceva papà quando ero piccola. 


Oh babe, I think I wanna marry you...

Sono tornata! :D
Avete sentito troppo la mia mancanza?
Su questo capitolo ho solo una cosa dire: NON MI PIACE. Sì, esatto.
Ho appena finito di rileggerlo, ho corretto qualcosa, cambiata qualcun'altra, ma continua a non convicermi sotto nessun aspetto.
Quindi vi chiedo scusa per lo scempio e vi prometto che mi impegnerò a rendere il prossimo capitolo migliore. In più oggi è stata una giornataccia ç_ç
La mia più grande preoccupazione è quella di non essere caduta nel banale. I miei genitori stanno ancora insieme, nessun divorzio, separazione e quant'altro, quindi non so come vengano affrontate queste situazioni...
Ma perchè blatero ancora?
Mi dileguo u.u
Un GRAZiE gigante a tutte <3

Alan

P.S.: Ho trovato un prototipo di Matteo... Yep! :D
P.P.S.: Scusate la qualità del video xD

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Capitolo 6
*** Starman ***


NB: il capitolo è identico a quello postato in precedenza, con solo qualche piccola modifica (anche nel titolo, sì).
 

6° Capitolo
Starman

 

 «Quindi questo mitico ‘Matteo-barra-Jude’ verrà o non verrà stasera?».
A pancia in giù sul letto, continuavo a chiacchierare al telefono con la festeggiata del giorno, intanto che davo un’occhiata alle foto che avevo scattato negli ultimi giorni, specie quelle fatte al corso di fotografia.
«Te l’ho già detto, abbiamo parlato e mi ha detto di sì; perciò tranquillizzati, ci sarà e tu lo conoscerai» ripetei per la centesima volta nel giro di cinque giorni.
«Galeotta fu la casa e chi vi abitò, da quel giorno non ci separammo mai più avanti», imitò ridacchiando sulla riga di Dante.
Mi girai a pancia in su sul letto fissando il soffitto, in preda alle risate. «Tu sei pazza» commentai.
«Ti ringrazio infinitamente, darling».
«Da quando questo Inglese?».                                    
«Da quando Giak mi ha detto di trovare l’Inglese così cool».
Roteai gli occhi. Giacomo era quel tipo di ragazzo ‘sono-figo-e-lo-so-tutte-mi-cadono-ai-piedi’ per cui Irene correva dietro da quasi un anno. E cosa ne aveva ricevuto in cambio fino a quel momento? Solo delusioni. Avevo cercato di convincerla a gettare la spugna, ma era proprio irremovibile: quindi, alla fine e dopo lunghe riflessioni, decisi che sarei stata io quella a lasciar perdere. Mi dispiaceva solo vederla stare male, ma dopotutto sembrava che nella sofferenza trovasse una specie di godimento perverso e, se era contenta così, io non potevo farci più nulla.
«Sai, stasera ci sarà anche lui. Me l’ha detto personalmente» continuò, nonostante sapesse che l'informazione non mi interessasse per nulla.
«Oh» sospirai tanto per fare qualcosa.
«Oh? E’ tutto quello che hai da dire?».
«Se vuoi posso fingermi entusiasta» proposi.
«No, lascia perdere» sbuffò dall’altra parte del telefono.
«Dimmi un po’, - cambiai argomento - hai idea di cosa indossare?».
«Penso che metterò quel vestito nero, bianco e fucsia di cui ti parlavo l’altro giorno, quello monospalla. E tu?».
Lanciai uno sguardo all’armadio aperto davanti a me, sottosopra. «Non so. Forse i pantaloni neri e la camicia grigia, oppure potrei...».
«Nossignora! Vestito, come me!» reclamò.
«Vestito?» chiesi, come schifata.
«Sì, vestito. Quello blu, che ti sta benissimo».
Mi alzai dal letto e andai a sfilare l’abito dall’armadio, squadrandolo con attenzione.
Era bello, mi era sempre piaciuto: lungo quasi fino alle ginocchia, largo dalla vita in giù e con le spalle poco scoperte e le maniche a sbuffo, ma soprattutto, blu elettrico.
«Beh, se si tratta di questo allora potrei metterlo» decisi.
«Wonderful!» esclamò con la voce più alta di un tono.
«Irene?».
«Yes?».
«Smettila di parlare in Inglese, va bene?».
 
Quasi tre ore dopo ero già pronta, seduta sul divano in cucina a fare zapping fra i canali in televisione, in attesa che Matteo arrivasse.
Non passò molto prima che ricevetti un suo sms in cui mi diceva di poter scendere. Sorrisi fra me e me, mi alzai dal divano e andai alla finestra dove, una volta affacciatami, lo vidi dall'alto, in piedi accanto alla sua Micra. Dietro di me, mamma emise un verso inquisitorio.
«E quello chi è?» domandò incrociando le braccia al petto.
«Un amico» risposi riuscendo a nascondere il rossore che incominciava a tingermi le gote mentre mi infilavo gli stivaletti.
«Ed io lo conosco?».
«Non lo so, ma mi sembra di avertene parlato».
Non le diedi nemmeno il tempo di formulare un’altra domanda; misi il cappottino - che stavolta, diversamente dal suo predecessore, avrei cercato di non dimenticare -, presi la borsa, stampai un bacio sulla guancia della nonna prima e della mamma dopo, le salutai e mi chiusi la porta alle spalle.
Felice di non essere caduta giù per le scale rompendomi l’osso del collo, rimasi spiazzata quando non lo vidi; eppure doveva essere affianco all’auto. Mi avvicinai alla Micra, abbassandomi un po’ per vedere se fosse lì dentro.
«Bon soir» mi salutò. La sua voce veniva da dietro le mie spalle.
Mi voltai e lo trovai accanto al portone, con la schiena appoggiata al muro e il ginocchio destro in avanti, per via del piede anch’esso contro la parete. Un fotomodello, insomma.
Ancora una volta, mi chiesi d’istinto che interesse potesse avere uno come lui nello stare dietro ad una come me.
«Buenas noche. Che eleganza!» commentai riferendomi al suo abbigliamento.
«Volevo essere sicuro di non sfigurare al tuo fianco» ammiccò.
Un brivido mi corse lungo tutta la schiena, su e giù, quando mi si avvicinò e mi cinse la vita con il braccio destro, accompagnandomi fino allo sportello della sua auto. Riuscii a malapena a ringraziarlo per avermi aperto la portiera.
Decisi immediatamente di dovermi imporre un maggiore autocontrollo; non volevo affatto sembrare fredda e distaccata, desideravo solo evitare di arrossire e mormorare balbuzienti ringraziamenti troppo spesso.
Salì anche lui, mise in moto la macchina e partimmo.
«Destinazione?» domandò.
«Diciamo che è un tantino complicato arrivare a casa di Irene... Per adesso, vai dritto».
«Sissignora. - chinò appena il capo - Comunque, ti dispiacerebbe se accendessi la radio?» aggiunse poco dopo.
«Davvero me lo stai chiedendo?» replicai con un sorriso fra le labbra già pronto ad uscire fuori.
Parve rifletterci su. «No: avrei schiacciato quel tasto ugualmente» rispose con aria da furbo.
«Oh, quando si dice rispettare le volontà altrui! - scherzai - Gira a destra».
Voltò nella direzione indicata mentre le musica iniziava ad inondare l’abitacolo dell’auto.
Era una melodia dolce e lenta che dapprima - solo per pochissimi attimi - non riconobbi. La sorpresa arrivò quando le orecchie riuscirono a collegarsi al cervello per dire la loro.
«Tu! Cosa...? Lui! Cioè loro!» esclamai.
La musica dei Muse - specie se mi coglie di sorpresa come in quel caso - mi provocava stati di euforia assurdi.
Quando terminò di ridere, Jude riprese: «Beh, non sono così estraneo alla musica moderna e conoscevo qualche canzone dei Muse... Ok, in sintesi, diciamo che l’ho comprato per causa tua».
«Causa mia?» ripetei.
«Sì perché evidentemente sono bravi, visto che piacciono a te e che tu ascolti buona musica. Il secondo motivo, era per fare colpo».
Il fiume straripò e inondò la diga.
Rideva, quindi aveva fatto una battuta. E se aveva fatto una battuta, questa poteva anche essere falsa. E se era falsa, io potevo anche non interessargli.
Con le guance in fiamme - non tanto per quella specie di sillogismo che avevo tirato su in un attimo e che comprendeva troppi e se e poteva -  riuscì solo a dirgli: «Sinistra. La seconda a destra e poi di nuovo a sinistra».
Rimanemmo senza parlare, lasciando che le parole di United States Of Eurasia si facessero udire.
Evidentemente si era sentito stupido e aveva pensato che quella battuta fosse totalmente fuori luogo, data la mia risposta secca che non aveva nulla a che fare con ciò che aveva detto; e sbagliava perché, com’era naturale, l’errore era mio, che non avevo preso la cosa per il verso giusto, mandando tutto a rotoli.
«Non parli più?» domandai, fingendo che non fosse accaduto niente di male.
«Pensavo volessi ascoltare la canzone» rispose tranquillo.
«Sì, ma non voglio costringerti ad ascoltare qualcosa che non ti piace».
«Figurati. Però, visto che hai voglia di fare quattro chiacchiere, raccontami un po’ cosa hai fatto questa settimana».
Mi spostai una ciocca ribelle che negli ultimi giorni aveva preso il vizio di ricadermi sempre davanti ali occhi. «Niente di che: casa scuola, scuola casa».
«Originale» sorrise.
«Già. – sbuffai piano - E tu invece?».
«Lavoro e Playstation, tutto nella norma».
«Originale» commentai mentre voltavo il capo verso il finestrino, guardando fuori da questo, sulla strada illuminata dai pochi lampioni laterali.
«Ci siamo quasi, fermati al numero diciassette».
«Sissignora» ripeté scherzoso.
«Dai, smettila di chiamarmi così» gli spinsi leggermente il braccio.
«Sì... Signora».
La grande casa di Irene era tutta illuminata, come fosse stato giorno: chiunque avrebbe capito che ci fosse una festa in corso, lì dentro. Il vialetto davanti la villa era abbastanza affollato di macchine parcheggiate e dovemmo fare un paio di volte il giro dell’isolato prima di trovar posto.
Mentre ci avvicinavamo alla porta d’ingresso, la musica e le voci che provenivano dall’interno divenivano sempre più chiare.
«Caspita, deve esserci parecchia gente» osservò Matteo.
«Pare di sì. - mi fermai prima di suonare il campanello - Ehm... Forse potresti annoiarti... In tal caso, andremo via subito, non ci sono problemi...».
«Annoiarmi? E perché dovrei?» mi interruppe.
«Beh, perché quasi tutti gli invitati sono più piccoli e perché penso che saremo troppi». Feci attenzione a mimare le virgolette nel ‘piccoli’.
Non rispose a parole. Mi rivolse un mezzo sorriso di quelli che solo lui sapeva fare e che mi facevano sciogliere come la neve al sole, e si sporse in avanti verso di me, troppo improvvisamente e inaspettatamente.
Chiusi di scatto gli occhi e il mio cuore iniziò subito a palpitare compulsivamente, pensando cosa, credo sia chiaro.
Emisi un debole sospiro - non so se di sollievo o delusione - quando si ritrasse dopo aver schiacciato il tasto del campanello.
«Io non penso» rispose deciso.
In quel momento, come fosse stata lì ad guardarci dallo spioncino, Irene aprì la porta raggiante. Fece una strana espressione di curiosità e soddisfazione nel vedere Matteo.
«Ce l’avete fatta a venire: aspettavamo solo voi» disse rivolta a me.
«Colpa mia, - s’intromise Jude - Ria era già pronta quando sono arrivato a casa sua».
Se anche Ire avesse solo pensato di voler tentare a fare una battutina leggermente acida, l’intenzione svanì nel nulla al cospetto di un amichevole sorriso del ragazzo di fronte a lei.
«Non ci fai entrare?» domandai per sbloccarla dal suo stato di quasi ibernazione fulminea.
Annuì. «Certo» rispose facendosi da parte.
Le previsioni che io e l’Inglese avevamo fatto si erano avverate: c’erano veramente tanti invitati.
Intanto che Matteo veniva scortato dalla signora Angela, la madre di Irene, verso la grande stanza-armadio su per le scale, la mia migliore amica mi afferrò per un braccio e mi tirò a sé.
«Non mi avevi detto che era così» bisbigliò.
«Così come?».
«Così… Inglese! Così figo, insomma!». Essere Inglese, per Irene, era qualcosa di molto, molto, molto positivo, specie in quegli ultimi giorni.
«Sorpresa?» risi.
«Nemmeno un po’. Sei una bella ragazza e lui è un bel ragazzo, perciò era ovvio».
«Era ovvio cosa?».
«Che non si sarebbe lasciato sfuggire una come te, che domanda! - esclamò con fare evidente - Non so se ti sei vista, ma stasera sei stupenda».
Non approvavo, ma non volevo fare la paranoica e mi limitai a farle fare una giravolta su se stessa dicendole: «Mai quanto te. Buon compleanno, stupida».
«Ti voglio bene» sussurrò al mio orecchio mentre ci abbracciavamo.
«Anche io, lo sai».
«Ok, Matteo a ore dodici. Datti una mossa» comandò. Adesso il tono di voce la faceva apparire appena uscita da un film di guerra.
«Cosa?».
Ciò che avvenne dopo sembrò accadere a velocità duplicata; Irene si staccò dalle mie braccia con un largo sorrisone lasciando spazio al ragazzo che prese subito posto accanto a me, sfiorandomi delicatamente la mano.
«Vado a calmare quel gruppo di barbari che sta attentando alla cucina. Voi fate come se foste a casa vostra» proclamò la mora fasciata nel suo abitino aderente allontanandosi.
Rimanemmo in piedi, vicini, cercando ognuno un posto dove poterci sedere: impresa ardua dato che i due divani straboccavano gente e che non ci fossero più sedie disponibili.
L’immenso salone sembrava adesso essersi rimpicciolito nel corso di una sola notte, occupato da ragazzi e ragazze che chiacchieravano allegramente tra loro, guardando in cagnesco chiunque si avvicinasse per cercare un quadrato di stoffa contro cui potersi poggiare. Diversamente dalla festa di Sara, però, non tutti erano accoppiati e intenti a flirtare, e questo mi aiutava tantissimo nell’evitare di sentirmi quasi un’estranea - in fin dei conti, io e Matteo non ci ‘frequentavamo’, se quello voleva dire frequentarsi, da così tanto tempo.
Ad ogni modo riuscimmo a trovare più spazio fuori, nel grande terrazzo. Non era una serata particolarmente fredda, anzi, non tirava neppure un alito di vento; ma nonostante ciò gli invitati preferivano rimanere chiusi dentro. Ci accomodammo sul dondolo da giardino proprio sotto le stelle che, quella sera, si riuscivano a vedere molto meglio del solito.
Sin da bambina, ho sempre avuto una vera e propria passione per l’universo intero e per le stelle in particolar modo, tanto che ogni volta che la mamma mi trovava con il naso all’insù e lo sguardo vago degli occhi che fantasticavano l’alto della volta celeste si domandava il perché non mi avesse chiamata Stella.
Una volta, lo ricordo benissimo, espressi il desiderio di essere trasformata in uno di quegli astri lucenti mentre soffiavo sulle otto candeline della mia torta di compleanno.
«Hey Jude chiama Ragazza Stellare, rispondi Ragazza Stellare» scherzò il mio vicino.
«Cosa?» risi voltandomi nella sua direzione.
«Niente, ti vedevo parecchio assorta».
«Stavo solo pensando» mi giustificai.
«E scommetto che non puoi dirmi cosa ti passa per la testa».
«No, non è un segreto. - feci una piccola pausa - Quando ero piccola mio padre mi diceva che esiste un uomo che vive su nel cielo, fra le stelle, che vorrebbe scendere sulla Terra e venirci a trovare, ma che non lo fa perché teme di spaventarci. Pensavo che questa storia fosse tutta una sua invenzione, invece a tredici anni scoprii per caso che era una canzone di...».
«... David Bowie. - disse insieme a me - Simpatico tuo padre. E tu glielo hai detto?».
«No, ma ho diciassette anni, quindi magari già sa che ho smesso di crederci da qualche tempo. E poi, quando riesco a vederlo non parliamo molto del Duca Bianco».
Notai che mi guardò in modo interrogativo, probabilmente chiedendosi il senso di quell’ultima frase, dal momento che non avevo dato nessuna spiegazione.
«I miei genitori hanno divorziato sette anni fa, e da allora papà vive a Roma» aggiunsi.
«Oh, mi dispiace» mormorò.
La maggior parte della gente a cui lo avevo detto commentava meccanicamente, come se fosse un obbligo intristirsi per una condizione che io avevo ormai superato da anni, seppur con non poche difficoltà. Invece Matteo era sincero, realmente dispiaciuto: lo si capiva dal suo sussurro, dall’improvviso lampo che gli attraversò gli occhi, dal suo silenzio imbarazzato mentre gli dicevo che non era niente, che erano cose che capitavano e che era passata parecchia acqua sotto i ponti.
«Comunque, io e mamma riusciamo a cavarcela bene; d’altra parte, abbiamo anche la nonna con noi» provai a sviare il discorso.
«Sei figlia unica?».
«In teoria sì, in pratica no. Irene riempie quel vuoto, anche se lei ha già un fratello più piccolo».
Non lo sentii rispondere, perciò sollevai il capo dal mio vestito - di cui avevo cercato di stirare le piccole pieghe - e lo vidi con lo sguardo lontano, pensante.
«Mio fratello è un idiota, - commentò sarcastico - però penso che senza di lui sarebbe molto strano».
La mia risposta fu fermata in gola appena mi accorsi che la signora Angela ci stava facendo cenno di entrare, sorridendo dietro la grande finestra del soggiorno.
«E’ ora di cenare» sentenziò Matteo, alzatosi, tendendomi la mano.
Per un piccolissimo istante esitai, incerta se stringergliela o no: volevo evitare di fraintendere.
Ma poi sorrisi, la afferrai ed entrammo insieme, mischiandoci tra la folla per tutto il resto della serata. Serata che volò nel senso proprio del termine, tra balli, scherzi in gruppo, occhiate fugaci e involontarie, sorrisi, risate e karaoke - a proposito, Jude era tanto bello quanto stonato.
«Ammettilo» disse con aria da saccente Matteo mentre ci avvicinavamo alla sua auto.
«Ammettere… Che cosa?».
«Che ti sbagliavi».
«Riguardo la festa? - annuì e continuai - Va bene, avevi ragione. Pensavo che ti saresti annoiato un po’ di più, ma mi ha fatto piacere vedere che non è stato così e anche Irene ne è contenta».
«Siete simpatici, voi piccolini» sghignazzò.
«Ti odio quando dici così», alzai gli occhi al cielo, sorridendo.
Solo allora mi resi effettivamente conto del fatto che la mia mano fosse ancora e nuovamente stretta nella sua e una strana sensazione di benessere e felicità si impossessò di me. Era strano l’effetto che quel ragazzo riusciva a farmi: era vero, non avevo mai avuto una storia che potesse essere definita tale fino a quel momento, ma c’era stato qualcuno che mi aveva fatta sentire bene e più di una volta mi ero presa una cotta… Ma con Matteo era diverso, era tutto diverso. Ogni cosa, anche la più piccola e banale, sembrava unica e più bella se c’era lui di mezzo e la mia giornata cambiava radicalmente se ricevevo un sms da parte sua, anche solo per dirmi che quel pomeriggio non sarebbe stato a casa e che quindi avremmo dovuto posticipare la lezione di chitarra.
Come quel ragazzo riuscisse involontariamente a influenzare tanto la mia vita, fu una cosa che riuscii a spiegarmi solo abbastanza tempo dopo.
«Ria, dimmi un po’: tralasciando per un attimo la canzone e la storiella di tuo padre, secondo te esiste davvero l’Uomo delle Stelle?».
«Perché me lo chiedi?» domandai.
«Beh, perché… Vorrei sapere cosa ne pensi, ecco».
Mi sembrò un pizzico confuso e impacciato nell’affrontare quell’argomento, ma io non sapevo che cosa rispondergli e quindi, per prendere tempo, gli chiesi di espormi prima il suo punto di vista.
«Mi prenderesti per un folle» sorrise amaramente.
«Un folle non può dare del folle a un altro folle, no? Dio, che gioco di parole».
Rise, tirò un breve sospiro e cominciò. «Per me, l’Uomo delle Stelle esiste ed è qualcuno che sta lassù, ci guarda, ci sente e cerca di confortarci a modo suo quando sa che siamo tristi… E per farlo mette insieme le stelle più belle, per farci ricordare che non siamo mai soli, dopotutto».
Mentre parlava ebbi come l’impressione che si fosse in qualche modo intristito, che fosse troppo coinvolto da quel discorso, e avrei voluto chiedergli quale fosse la causa di quell’angoscia nel tono della sua voce, ma non ne ebbi il coraggio.
«Una sorta di angelo, perciò» osservai.
«Sì, potrebbe essere così. Tu credi negli angeli?».
«Sì» risposi leggermente confusa.
Non disse altro ed io, dal canto mio, preferii non continuare l’argomento.
 
Arrivammo sotto casa mia che era quasi l’una di notte e iniziavo a sentire tutta le pesantezza degli occhi che lottavano violentemente nel tentativo di chiudersi a causa della troppa stanchezza. Figurarsi che in un primo momento non avevo neppure capito che quello alla mia destra era il portone del palazzo dove abitavo.
«Non scendi?» chiese con dolcezza.
Mi girai e lo vidi sorridere a labbra chiuse. Un piccolo pensiero mi attraversò fulmineo la testa: riuscivo già a sapere che avrei sognato lui, quella notte.
Scossi la testa e il ciuffo ribelle mi ricadde sulla guancia, vicino l’occhio.
«Sì, hai ragione. - raccolsi la borsa poggiata accanto ai piedi indolenziti per via dei tacchi a cui non ero abituata - Buonanotte».
Chiusi la portiera e quasi sussultai nel vederlo magicamente materializzato al mio fianco.
«Devi sempre farmi prendere un colpo tu, eh?».
Rise. «Non posso farne a meno» sussurrò avvicinandomisi.
Pensai qualcosa del genere: “Non di nuovo”, ricordando la figuraccia davanti alla porta di casa di Irene.
Ci guardammo fissi negli occhi quanto bastò per far svanire tutta in una volta la sicurezza che ero riuscita a tirare fuori durante la festa.
«Comunque, mi sono divertito. Ho notato che mi diverto ogni volta che sono con te» mi spostò la ciocca, posandomela piano dietro l’orecchio.
Ero io che avevo iniziato a sognare ancora prima di stendermi sul letto o l’aveva detto sul serio?
«Anche io mi diverto quando sto con te; sei davvero molto simpatico e gentile, Ardenne» e irresistibilmente
bello, però non glielo dissi limitandomi solo a pensarlo.
Sorrise in un modo che non seppi definire, allontanandosi un po’ da me. «Va’ a casa adesso. Ci sentiamo domani».
Diedi ragione al mio cervello. Quella notte lo avrei sicuramente sognato… Se solo fossi riuscita a chiudere occhio.


 I'm at the payphone...

Non ho scuse, lo so. Non aggiorno da troppi mesi. E' una cosa avvilente.
Può bastare dirvi che sono stata seppellita dalla scuola e da troppi impegni in generale? Le giornate sono passate così velocemente in questi ultimi mesi che a volte mi è stato difficile pure ricordare cosa avessi fatto il giorno prima, giuro...
Comunque sia, il capitolo è in buona parte preso dall'ultimo che ho postato ("Someone like you" del 29/11/11) che ho però modificato e ho quindi dovuto cancellare...
Spero di aver fatto un buon lavoro... L'intenzione di completare la storia durante l'estate c'è e cercherò in tutti i modi di seguirla!

Ringrazio sempre tutte quelle povere anime pie che hanno la pazienza - e il coraggio - di leggere e recensire questa deprimente storia.
Un abbraccio,

A.






 

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