A story about...

di Less_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** A girl, a boy, a man, a woman ***
Capitolo 2: *** A story about... my son - This winter ***
Capitolo 3: *** A story about... my disease - This spring ***
Capitolo 4: *** A story about... my life - This summer ***
Capitolo 5: *** A story about... my end - This autumn ***



Capitolo 1
*** A girl, a boy, a man, a woman ***


A 15 year old girl holds hands with her 1 year old son. People call her a slut, no one knows she was raped at 13. People call another Guy fat. No one knows he has a serious disease causing him to be overweight. People call an old man ugly. No one knew he had a serious injury to his face while fighting for our country in the war. People call a women bald but they don't know she has cancer.

{4226sniper on Youtube, Save you, Simple Plan VEVO}

 

Una quindicenne stringe la mano di suo figlio di un anno.
La gente la chiama "puttana", nessuno sa che è stata stuprata a 13 anni.
La gente chiama un altro ragazzo "grasso". Nessuno sa che ha un serio problema che lo rende sovrappeso.
La gente chiama un vecchio "brutto". Nessuno sa che ha avuto una profonda ferita al viso combattendo per il nostro paese in guerra.
La gente chiama una donna "calva", ma non sa che ha il cancro.

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Capitolo 2
*** A story about... my son - This winter ***


A story about... my son - This winter

Mentre cammino per strada stringo la mano del mio piccolo. Cerco sempre di stare vicino alle donne mature, quelle sulla trentina, quelle che nessuno ha difficoltà nel credere madri. In questo modo, forse, qualche sguardo si poserà su noi due e qualcuno crederà che io sono solo la sorella di questo bimbo che sgambetta al mio fianco. Forse crederà che facciamo parte di una famiglia perbene.
Ma che cos'è, poi, una famiglia perbene? E poi perché nessuno capisce che io la vorrei una famiglia? Una famiglia vera.
Vorrei qualcuno al mio fianco affinché mi protegga dagli sguardi indiscreti e dai "puttana" mormorati a mezza bocca.
Ma non ce l'ho, non ce l'ho.
Ciò che ho è un figlio a quindici anni, il figlio dell'uomo che mi ha stuprato quasi due anni fa; il figlio che vive per strada assieme a me, nei cartoni, e che beve latte dal mio seno da più tempo di quanto ritenga tollerabile, perché non ho nient'altro per sfamarlo.
Ciò che ho è la felicità di essere madre, di non aver spento una vita. La felicità di avere un lavoro che basta a malapena a mantenerci in vita.
E lo stesso gli sguardi scottano sulla mia pelle scoperta, bruciano come pece bollente. E' il calore che mi serve, quello che vorrei avere per superare il lungo inverno che ci si prospetta; ma purtroppo fa solo male e anche se non fosse così sparisce il più in fretta possibile dalla mia pelle, lasciando solo il gelo. Anche se non facesse male, dubito che potrei trattenerlo; quel calore è quello che vedi negli occhi delle persone che non hanno mai conosciuto il padre di mio figlio, lo scippatore che attenta mensilmente alla pensione di Mrs Mallory. Quel calore appartiene a chi non conosce la mia verità.
Tutto questo mi fa piangere, ma spesso cerco di cacciare indietro le lacrime, perché non posso più permettermele. Me lo dice il mio istinto. Mi dice che, come madre, devo fare di tutto per proteggere il mio bambino. Devo fare tutto ciò che è in mio potere per salvarlo dalle mie ustioni. Non c'è nessun libro per questo. Non ho i soldi per comprarne uno.
Un fiocco di neve si posa sul mio naso, poco sopra il bordo della mia sciarpa sporca, e il mio bimbo lo toglie con un piccolo bacio umido. Allora tiro fuori la bocca e faccio del mio meglio perché veda il mio sorriso e si concentri solo su quello; e non sulle lacrime che si affollano nei miei occhi.

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Capitolo 3
*** A story about... my disease - This spring ***


A story about... my disease - This spring

Guardo fuori dalla mia finestra, oltre i cartoni dei clochard che affollano la stretta via sulla quale si affaccia la mia camera. Non c'è quasi nessuno, perché a quest'ora della sera, quando le ombre lunghe gettano nell'oscurità gli ultimi ritagli di luce dei tramonti sempre più lunghi, i barboni preferiscono ambire gli ultimi brandelli luminosi nei parchi della città.
C'è solo la ragazzina col figlio piccolo, quella a cui qualche volta tiro una moneta mentre non guarda, come per dirle "sono con te".
Lo faccio quasi sempre perché ha solo quindici anni e trovo spaventoso che viva per strada con un figlio piccolo. E poi lo faccio anche perché lei non mi guarda come tutti gli altri, non lo ha mai fatto.
Quando i suoi occhi si posano sul mio corpo martoriato e deforme lei non mi fa sentire come se volessi contorcermi fino a ripiegarmi in un angolo. Mi sento a posto, magari un po' segnato da un combattimento sfiancante contro la vita, ma comunque
giusto. Lei è forse l'unica a cui non abbia mai raccontato della mia malattia, ma lo stesso sembra comprendere molto più della gente a cui lo ripeto anche dieci, quindici volte al giorno.
Lei mi guarda. Ricambio il suo sorriso. So che il mio assomiglia a quello sul suo volto. Tirato. Teso. Amaro. Triste. Ma comunque un sorriso. Comunque il massimo che sia disposto a concedere a chiunque.
Quando suona il campanello infilo venti dollari nella buca delle lettere perché il fattorino li prenda. Forse ci sarebbe del resto, ma non mi importa. Voglio che lo tenga, e sono disposto anche a rimetterci, purché se ne vada e non sia costretto a vedere la recriminazione sul suo volto.
Passo davanti ai corpi molli e pallidi dei miei, seduti sul divano, afflosciati come sacchi, e reprimo la sensazione di essere in gabbia. Perché qui sono al sicuro. Almeno molto più di quanto non lo sia là fuori.
Apro la finestra e lancio una ciambella alla ragazza madre.
Le pillole che costituiscono il resto del contenuto del sacchetto sono per me. Ne mando giù qualcuna a caso mentre il sole morente della primavera sparisce oltre l'orizzonte, sprofondando le nostre miserabili vite nel buio.

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Capitolo 4
*** A story about... my life - This summer ***


A story about... my life - This summer

Chiudo gli occhi per l'ennesima volta. Quando sono fuori non posso mai farlo per più di venti secondi. E' l'intervallo di tempo necessario alle persone per scoccarmi i loro sguardi, il loro disgusto, il loro giudizio. Vorrei che vedessero. Vorrei che sapessero.
Ma non vedono, non sanno, e allora a volte chiudo gli occhi perché anche se so che loro guarderanno, si accorgeranno, forse io potrò non farlo. Potrò fingere di essere solo, magari, o non visto. Potrei fingere di non trovare ad accogliermi le mie cicatrici ogni mattina, più fedeli di qualsiasi compagna.
Più fedeli di Lizbeth lo sono di sicuro.
Apro le palpebre. Ho mosso ventidue passi avanti e sono arrivato al primo incrocio. Esattamente nel tempo che avevo previsto: sono diventato in gamba; ho dovuto.
A volte quest'assurda pantomima mi ricorda la precisione militare del mio esercito, ed ogni volta che esco, per me, è un po' come rivivere le sortite a cui mi mettevano a capo per proteggere il mio paese. Ma sapete cosa? Il mio dovere l'ho già fatto, e l'ho fatto molte volte. Perché dovrei rimanere intrappolato in questa rete? Fingere la cecità per il resto dei miei giorni? Il punto è che non devo.
Ma forse la guerra mi ha reso inetto, debole, pusillanime, perché non sopporto questi occhi che mi girano attorno, mi rivoltano come un guanto, come se fossi estraneo, come se stessero valutando il modo più opportuno per togliermi di mezzo.
Mi sento spesso una macchia; un'incrostazione di sporco, mio malgrado resistente, in attesa che il nuovo detergente venga provato. Qualche volta penso addirittura che il nuovo prodotto per il pulito sia già in funzione. Un senso di disagio che mangia le cose e le persone come l'acido.
Quindi la legittima domanda è: perché mi concedo di espormi allo smacchiatore? Perché esco allo scoperto quando potrei negare e negare e negare la mia realtà di tutti i giorni?
Perché casa non è più casa, per me. Perché ovunque vada, chiunque veda, non sono mai nel posto giusto. Così esco e vengo sempre qui, all'incrocio dove sto fermo da dieci minuti, a guardare la ragazza madre e il ragazzo della finestra; ad aspettare che Giselle stacchi dal suo lavoro come lavapiatti e mi regali un sorriso anche dopo che la socia con la quale gestiva il bar l'ha spedita in cucina perché c'era bisogno d'aiuto. In realtà lei sa, e io so, che il motivo era un altro. Giselle spaventava i clienti, quasi temessero d'essere infettati, attirava troppi sguardi curiosi, terrificati, scandalizzati, compassionevoli. Però Giselle tiene duro. A volte penso che sia la migliore di tutti noi. L'unica che sorride di un sorriso davvero vero.
Ma lei non viene. Non sempre viene. Comunque, con meno frequenza di prima. Perché per quanti angoli possa illuminare con la sua forza, le ombre incombono ai margini. Quando me l'ha detto mi sono sentito inerme. Cos'è il mio problema, a confronto del suo? Ma il mio problema è il suo. In fondo l'unico vero problema di noi quattro disadattati sono gli sguardi degli altri.

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Capitolo 5
*** A story about... my end - This autumn ***


A story about... my end - This autumn

Slaccio il grembiule, riponendolo con gesti automatici e giusto un filino bruschi. Non ci posso pensare; non posso pensare a quanto sia comune ciò che ho fra le mani, non quando un peso si adagia ogni sera sopra le mie tempie. E' piuttosto buffo, in realtà, come quanto più il peso del mondo mi opprima e sfondi i miei muri, la mia testa diventi più leggera. Sono secoli che non ho più neanche un capello. Ancora non mi abituo alla sensazione. Ancora la rifiuto. E' stata dura, quest'estate, non poter più indossare neanche un cappello o un fazzoletto per colpa del calore. E' stata dura sentire direttamente sulla nuda pelle i pensieri che gli sconosciuti marchiano a fuoco su di me. Vorrei avere qualcuno da cui tornare. In realtà ce l'ho. Ho degli amici. Ma non li definirei così. C'è Joanne, che ha un figlio di un anno e cinque mesi. C'è Rupert, il veterano di guerra che ricorda con dolore quanto meglio potesse essere la fratellanza di persone che non si appartengono per legami di sangue. E poi c'è Lewis, sempre chiuso dietro la finestra che non ha il coraggio di aprire. A volte parla. A volte scrive sui sacchetti di carta che strapaga al fattorino, i sacchetti dal quale prende sempre una ciambella per la dolce Joanne. Ma tutti noi non siamo davvero amici. Siamo stranieri capitati per caso a navigare sulla stessa barca. Quando sorrido c'è sempre qualcuno che non mi ricambia, e anche gli altri, so che lo fanno senza convinzione. Rupert potrebbe essere mio padre, Lewis mio fratello, Joanne mia figlia. Ma la triste verità è che non lo siamo.
Non siamo una famiglia, per quanto amiamo l'un l'altro e il senso di accoglienza e di sollievo che spira fra di noi come una benefica brezza.
Noi non siamo fatti per essere felici. Il mio cancro mi mangerà le ossa, alla fine; di Lewis non resterà che una palla di grasso pallido e lobotomizzato; Rupert morirà solo e Joanne perderà suo figlio durante il prossimo inverno e finirà a prostituirsi.
Nessuno di loro sa quello che penso. Glielo nascondo perché so che se non lo facessi la bolla in cui ci concediamo di vivere scoppierebbe in un lampo. Glielo nascondo perché loro credono che sia la più luminosa fra noi, quella in grado di portare un po' di gioia. E lo farei, lo farei davvero se ne fossi capace - se solo potessi.
Per ora mi limito a sorridere più che posso, come posso. Mi limito a tirare avanti nei giorni affollati di foglie e di pioggia di novembre. Mi limito a sperare segretamente che, dopotutto, vedrò il bambino senza nome di Jeanne crescere, Rupert trovare la donna che accompagnerà i suoi giorni, rivelandogli che lo specchio sul comodino ci sta da schifo e andrebbe proprio tolto, e Lewis scoprire quanto dannatamente sia bravo con i computer. Mi limito a sperarlo perché se ci credessi so che verrei disillusa.
Ed è anche per questo che sto già tentando di abituarmi all'idea che morirò, che non ci sarò, che forse potrò comunque guardarli, osservare i fili delle loro vite intrecciarsi alla meno peggio. Così sorrido al pensiero che, dopotutto, mi stanno ancora aspettando. Per quanto possono, mi stanno aspettando. E io andrò da loro.


Le coin des annonces

Bonsoir, mes chers. Spero abbiate gradito. Dopo aver letto il trafiletto del prologo, invece di continuare Beasts ho preferito raccontarvi la storia di questi quattro. Non so in che modo potrà esservi utile o cara, ma questa storia è pensata per chi di voi si sente gelare e bruciare nel sentirsi osservato e giudicato, o che comunque lo preferirebbe alla compagnia della gente che non sa capire.
A presto, Less

ps.: mi lasciate un parere? Se non qui, spero almeno in una one-shot a cui tengo molto. Si chiama Quel gioco che vale la candela.

 

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