L'interpretazione degli incubi

di Herit
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I, my, me ***
Capitolo 2: *** Ripetizioni ***
Capitolo 3: *** Caduta ***
Capitolo 4: *** Ritorno ***



Capitolo 1
*** I, my, me ***


Prologo: I, my, me.


Like a moth I'm drawn into your flame
(Come una falena brucio nelle tue fiamme)
Not strong enough
Apocalyptica


Venezia è strana, quando la vivi.

Venezia è strana quando hai diciotto anni e una sigaretta in bocca. E' strana quando la guardi dal basso, sentendoti piccolo sotto quelle tonnellate di storia, che sì, trovi un po' ovunque in tutta Italia, ma che lì senti fremere in ogni capitello nascosto in un qualche campiello che non hai mai visto prima ed in ogni palazzotto che ti scruta dall'alto, con il suo aspetto fatiscente. Ed arrivi a chiederti da quanto tempo è lì a guardare flotte di gente passare.

Venezia è strana ed è magica anche quando hai diciotto anni, una sigaretta in bocca e schiatti, tramortito dall'afa che ti si appiccica addosso come una seconda -se non una terza- pelle. Anche quando la cartella pesa sulle spalle e tuo fratello si lagna di quando schifo faccia quella cazzo di città dove avete trascorso quei primi e fottutissimi diciotto anni della vostra vita.

Ma Venezia è fatta così, e la scopri piano piano. Puoi viverci da ere, ma ha sempre qualcosa di anticamente nuovo da regalarti.


Filippo Pedrotti -Phill per gli amici e a quelle due “l” ci tiene- lo sa. E' per questo si volta perplesso verso il ragazzo che gli cammina un passo dietro, con le mani infilate in tasca e la sigaretta in bocca, sbuffando dal naso. Suo fratello non parla così. Mai. Di solito è freddo e composto. Fine ed educato. E' lui quello matto estroso. E' lui quello che di lì a poco compirà diciannove anni e nell'animo sembra averne ancora dodici. E' lui quello che scivolando con lo sguardo lungo quella figura tanto familiare riesce a cogliere i frammenti di una nicchia un po' in ombra, nascosta. Un'immagine sacra gioca a nascondino con i raggi del sole. Si cela silenziosa tra il marmo che una volta doveva scintillare pallido contro la pietra rossa e viva del muro che la ospita e che ora, invece, mostra di sé solo pietra sbeccata e la tristezza della decadenza di quella città che traspira storia e passato da ogni angolo. Ciondola il capo, un po' a destra, ed il profilo quasi completamente privo di naso di una madonnina pallida come la morte si mostra con la timida compostezza degli umili. Un po' verso sinistra e quel profilo scompare, obliandosi come presto accadrà se qualcuno non interverrà.

“E che cazzo, Phill, mi stai ascoltando o sto parlando con un muro?” La voce scocciata di Lorenzo gli arriva alle orecchie e lui si limita a sollevare un sopracciglio, continuando con quel sapiente gioco di sguardi con quella statuina che ancora fiera resiste alle intemperie ed agli agenti atmosferici.

“Ma non ti fa rabbia, Lore? Tutti dicono che Venezia è una cartolina. Che va salvaguardata. Eppure, ti pare giusto?” La sua ingenuità fa ribollire il sangue nelle vene del fratello, lo sa, ma non può farci nulla per evitarlo. Eppure le sue parole hanno il potere di catturarne l'attenzione, tanto che gli occhi ghiacciati del suo gemello vanno a correre in direzione del suo sguardo, abbracciando quel capitello malconcio. E' lui a sbuffare, questa volta -un baffo di fumo grigio che sale verso l'alto- e parte alla carica, a passo spedito, agguantandolo per un braccio e trascinandoselo dietro.

“Sì, Phill, mi fa rabbia. Ma mi fa ancor più rabbia pensare di doverti accompagnare ancora a casa di quel... quel... non mi vengono definizioni più gentili di “finocchio”, di Boscardi. Possibile che tu non abbia trovato nessun altro cui rivolgerti?” Non gli vengono definizioni più gentili perché lui è omofobo. Filippo lo sa ed è una delle tante cose che non capisce del fratello. E una di quelle cose che non riesce a conciliare con l'immagine che ha di quel ragazzo con cui è cresciuto. Alla fine, anche lui è omosessuale, anche se sono davvero in pochi a saperlo: potrebbe contarli sulle dita di una sola mano. E Lorenzo non è contemplato. Si lascia trascinare verso la porta in silenzio, senza ribattere. Ancora perso in quei pensieri che nemmeno il suo adorato gemello può leggere. Non ne ha la capacità: non li capirebbe. E questi nel mentre lo rimprovera perché con lui è freddo. Perché con lui è distaccato. Con lui e solo con lui. Ed è strano, perché nonostante tutti i rimproveri, quella gli sembra ogni volta la massima esternazione del suo affetto per lui. Si blocca di scatto, Phill. I capelli mori lunghi fino alle spalle che vengono tenuti fermi in modo impudente dalle grosse cuffie nere che porta attorno al collo e gli occhi color nocciola che si piantano sul viso efebico dell'altro. Quel viso identico al suo, seppure con colori differenti. Gli occhi che grigi -argento fuso- e le sopracciglia bionde, così come i capelli che sembrano quasi bianchi, incurvate in quell'espressione seriosa che gli è tipica. Seria ed un po' altezzosa.

“Sei stato tu a proporti di accompagnarmi. Non ti capisco proprio, Lore. So che i gay non ti vanno a genio, però a mamma e papà è simpatico. E da quando vado a ripetizioni da lui, i miei voti sono migliorati. Quindi non concepisco tutto questo astio.” Considera rubandogli la sigaretta in un gesto confidenziale, sfiorandogli le labbra con le dita. Lo fa senza malizia, portandosi il filtro alla bocca poi, aspirando senza fretta. Non gli piace il gusto che gli lascia in bocca il tabacco, ma anche solo l'atto del fumare sembra tranquillizzarlo un po'. Alla fine, anche se non lo dà a vedere, è nervoso pure lui. Sette giorni ed inizieranno gli esami. Sette giorni e, se Dio lo vorrà, non vedrà altro che le mura di quel dannato liceo scientifico nel quale, dopo cinque anni, si deve ancora spiegare come diamine c'è finito. E per un attimo, gli sembra di capire come possano sentirsi le vittime di Samara, in “The Ring”. Sputa fuori il fumo, gettando in fine il mozzicone a terra, pestandolo con tutta la stizza che non emerge nel resto della sua figura sciatta, ma permeata di una calma serafica. Lorenzo l'osserva perplesso. Le parole imprigionate nella sua bocca che non sembrano essere intenzionate a scivolar fuori, ed allora scappa. Perché lui non sa, ma immagina. D'altronde il profumo familiare di Filippo cambia, quando torna da quella casa. Una fuga vera e propria da una sensazione che non gli piace. Suona il citofono di un vecchio edificio un po' malconcio, in una calletta1 un poco nascosta della zona del ghetto vecchio.

“Non è astio. E' che quel tipo non mi piace. Punto. Ne riparliamo a casa.” Decreta sbrigativo, alla fine, abbassando quegli occhi di ghiaccio che perdono la loro fierezza solo in presenza del fratello. Filippo inarca un sopracciglio senza capire. Non è stupido, lui, anche se si atteggia come tale. Non è stupido e si rende conto di quanto sia profondo l'affetto che il suo gemello prova per lui. Di quanto quelle parole siano dette per proteggerlo. Di quanto quella gelosia sia portata dalla paura di perdere un frammento di sé. Alla fine se lo sono sempre detti: loro sono come Castore e Polluce, i due gemelli del loro segno zodiacale. Loro sono legati indissolubilmente e niente potrà separarli. Ma forse il loro è un po' un complesso. E' la paura di perdere una cosa che si possiede ed è penetrata sotto la pelle.

“Va bene. Ah, Lò, ho cominciato delle tavole nuove. Non è che me le impagini, intanto?” La domanda rimane sospesa, come quella risposta che, Phill lo sa già, sarà un “no” che in realtà poi magicamente, diventerà un “sì”. Perché suo fratello adora i suoi fumetti, le sue storie ed i suoi disegni, e sa che adora divenir parte della macchina che li crea. Gli dà sicurezza, in qualche modo. La certezza di essere ancora parte viva nella vita del suo gemello. Che quel legame non si è ancora spezzato.

“Dovresti pensare allo studio, anziché ai fumetti, Filippo. Sali prima di fare le radici lì sotto.” La voce metallica e graffiata del padrone di casa esce dal citofono, facendoli sobbalzare entrambi, mentre la porta del casolare vien aperta, lasciando sbucare una cortina di ricci castani seguiti da una figuretta piccina, seppure formosa e piena.

“Sì. Sì. Arrivo.” Assicura Phill, sventolando la mano destra alla ragazza che gli si presenta davanti. Un sorriso allegro e dolcissimo a delinearle i tratti del volto che ancora si mostra bambino. Rotondo e con le guance rosate, rispetto al resto della pelle nivea. “Aria, non sapevo prendessi ripetizioni anche tu, qui.” Commenta quindi, chinandosi a baciarle una gota. E a Lorenzo, lasciato lì, in disparte, non sfugge la dolcezza di quello sguardo che la giovane dedica al suo fratellino. Così come non gli sfugge quel rossore leggero che diviene più presente sulle sue guance. Non coglie però la gelosia. Quella che aleggia, sottile tra loro. Quella che c'è, ma non si vede, simile a nebbia sottile che ovatta appena le forme, rendendone poco definiti i contorni. Quella che emerge semplicemente in quel “qui” sottolineato con poca più forza da Filippo.

“Ho il terrore, Pippo. Non mi sento preparata su nulla. Cioè. Sai come sono, no? Non ho studiato un ca... volo per tutto l'anno, ed ora mi sono trovata tra capo e collo con il programma di dieci materie da ristudiare. Cacchio. Ma si può essere più... più... omologamente omologati?” Lei è nel panico e Filippo ride. Ride con quella risata che dedica solo a lei. Con le labbra che si arcuano completamente verso l'alto ed i denti un po' messi in mostra, bianchi e perfetti a dimostrazione del fatto che anni ed anni di apparecchio fisso, sono serviti a qualcosa. Le guance incavate che si tendono e gli occhi che diventano due mezze lune vivaci e luminose. E non può fare a meno di seguirlo anche lei, in quella risata contagiosa. Perché lei lo adora, e c'è poco da fare. Lore lo sa. Lui è il suo migliore amico. Phill è il ragazzo cui lei va dietro.

“Io salgo, Aria, prima che quel demonio di Giò strippi. Ho la sensazione che oggi mi caricherà di lavoro. Mi chiedo perché l'intelligenza se la sia presa tutta quel disgraziato di mio fratello.” Lo indica senza tante cerimonie, dedicandogli un'occhiata che sa di complicità. Quel legame forte e profondo che hanno maturato con gli anni. “Però, almeno la bellezza me la sono tenuta tutta per me.” Le ammicca e scompare oltre la soglia, lasciandola lì, a ridere con quella risata che non si può non amare. Quella risata che sa tanto di scampanellii dolci di cristalli. Brillanti e vivaci. Lorenzo le si avvicina e l'abbraccia da dietro, sovrastandola come una montagna. Lui è alto. Alto e magrissimo e questo, unito alla differenza spropositata di statura tra loro, lo fa apparire enorme, quando sono uno accanto all'altra.

“Ti accompagno a casa, Arianna.” Un semplice dato di fatto. Quel pensiero nasce spontaneo, come la constatazione di quanto quel cielo sopra le loro teste sia tristemente grigio. Come tutte le chiacchiere che da lì nascono, e che li accompagnano lungo il tragitto.

1Le strade, a Venezia, possono essere chiamate tanto “vie” quanto “calli”.











Che dire? Avevo voglia di iniziare a pubblicare qualcosa di nuovo. Pubblicare i miei racconti mi manca, ma sono caduta in una sorta di coma dello scrittore - altro che blocco - e per un po' non sono riuscita a rpodurre niente di decente. Questa storia avrebbe dovuto partecipare ai contest "not strong enough - rinunciare all'amore" e "notte prima degli esami".Inoltre non sono stata molto al computer quest'estate, tardando ad un sacco di consegne come Beta. Chiedo scusa a tutti >_< Ho rinunciato ad entrambi, comunque, perché non riuscivo più a scrivere. Capita. Proprio perché ho rinunciato a partecipare a questi contest, molte delle idee che mi erano venute in testa per la storia sono sfumate e da 30 cartelle massimo che mi erano state date come limite, probabilmente lieviteranno allegramente XD Ho tanto da dire su Filippo, Lorenzo, Arianna e Giovanni. Probabilmente ne dirò, aggiungendo altri personaggi. Spero apprezzerete il prologo. 
Ringrazio __Dì che ha provveduto alla correzione dei capitoli fino ad ora, facendomi da betO. Grazie, tesoro, anche per i complimenti del tutto infondati XD

Herit

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Capitolo 2
*** Ripetizioni ***


Cap. I Ripetizioni.


I don’t wanna work today

Maybe I just wanna stay
Just take it easy cause there is no stress.
I know it’s not an awful crime
Something special in my mind
Nothing’s gonna cause me distress.

(No Stress, Laurent Wolf)


Sale gli scalini a due a due. Scale scoscese e ripide, come quelle di qualunque buon palazzotto veneziano. Scalini rovinati che un po' franano sotto i piedi, così come le pareti che si sgretolano quando ci posi le mani sopra. Braccia che si allungano ad avvolgere un collo lungo e forte, così come le spalle larghe e solide. E labbra che si incontrano. Calde. Morbide. Affannate. Umide.

“Ho voglia di darmi ad attività più ricreative dello studio.” Glielo comunica subito, Phill, quando Giovanni si stacca dalla sua bocca che profuma ancora di tabacco. Lo fa con un sorriso che sa di malizia, che però trova una morte discretamente dolorosa in un viso imbronciato e serioso.

“Tu devi studiare. Alle 'attività più ricreative' penseremo poi, se questo 'demonio' ne ha voglia.” Lo rimprovera l'uomo, sciogliendo quell'intreccio di braccia che ancora li tiene legati e facendogli strada verso lo studiolo. Si morde la lingua, il liceale, perché l'ha sentito e sa che metterà in atto quello che lui ha previsto. Perché la persona che gli fa ripetizioni, nonché il suo ragazzo, sa essere terribilmente permaloso.

“Dai. Dai. Dai. Non ho proprio voglia di studiare. E poi ci pensa già mio fratello a stressarmi abbastanza. Come se non bastasse la scuola. E come se non bastasse quello stronzo di Gottardo che vuol rifilarmi il debito in storia ed in filosofia.” Con Giò i capricci non funzionano, Filippo lo sa. Ma sembra provare un divertimento masochista nel farlo arrabbiare. Quello poi è anche il suo modo di sfogarsi. Un nervosismo che viene a galla tutto d'un tratto. Di scatto. Pericoloso come una reazione atomica della quale è stato perso il controllo. “E poi lo sai che questa è l'unica scusa valida che ho per vederti. Potrei farmi bocciare, non dovrei impegnarmi nemmeno tanto, così il prossimo anno potremmo restare ancora assieme.” Battute fatte senza reale convinzione. Ma lui è un bravo attore e sembra davvero farci un pensierino, quando si picchietta l'indice contro il mento sporcato dal pizzetto. E' la reazione di Giovanni che lo fa trasalire. Sussulta quando lo vede girarsi di scatto dedicandogli un'occhiata sbieca.

“Gottardo. Di solito ne parlano bene. Quando escono i voti?” Gli domanda inizialmente, ostentando nella voce quella freddezza che però quegli occhi di ossidiana non possono mostrare. Troppo dolci, in realtà. Troppo preoccupati per quello che è il loro tesoro più prezioso. Tesoro che però probabilmente lui non appellerà mai così. “E non pensarci nemmeno. Non mi sono smazzato tanto per vederti bocciare, alla fine. Tra l'altro il prossimo anno devo presentare la tesi, non avrei tempo da dedicarti.” Glielo ricorda con franca freddezza, lasciandolo bloccato sulla porta dello studio. Phill si concede qualche istante per osservare le librerie che ingombrano tre delle quattro pareti che formano lo stanzino, creando un ponte sopra la scrivania ingombra di fogli ed occupata in parte da un notebook sapientemente lasciato chiuso. Ed un altro sopra la sua testa, sopra la porta. Mobili chiari, che la prima volta che aveva messo piede in quel luogo, gli avevano dato l'impressione di venir fagocitato da quel quantitativo impressionante di conoscenza. Camera sua, per contro, è ricolma di fumetti e libri sull'anatomia e sul disegno dal vivo. E' sempre stato bravo a disegnare e progettare ambienti. Questo chiunque glielo riconosce. Così come il suo 9 tondo tondo in disegno tecnico. Non gli piace studiare, è vero, ma se qualcuno glielo chiedesse, risponderebbe sinceramente che gli piacerebbe diventare architetto. O per lo meno lavorare in quell'ambiente. A divenire fumettista, ha già rinunciato da un po'. Ma non ha il coraggio di dirlo, lui. Non ha il coraggio di sentirsi ripetere che quella strada non fa per lui. Che deve rinunciare senza nemmeno averci provato. Sospira, abbassando per qualche istante il capo, prendendo posto non sulla sedia che Giovanni gli ha preparato, ma direttamente sulle sue gambe. Capriccioso.

“Domani. Ho una scaga pazzesca di vedere filosofia in rosso... Hai qualcun altro dopo di me?” Gli chiede lasciandosi passare un ciuffo di quei capelli lunghi e corvini dietro l'orecchio. Quella coccola Giò gliela concede volentieri. Sa che con un po' di rassicurazioni, Phill diventerà un più accondiscendente e disposto a collaborare.

“Lo sai che quando vieni tu, poi mi tengo il resto del pomeriggio e della sera liberi. Oggi tocca matematica, quindi scendi subito da qui e cominciamo.” L'invita con calma, attento a quel suo essere particolarmente lunatico, soprattutto sotto stress. Scende con la mano lungo il suo capo, passandogli dietro la schiena e percorrendogli con calma la colonna vertebrale, facendolo tremare un poco, tanto che Phill sembra sul punto di far le fusa. Un preludio di quanto avverrà dopo. Sembra prometterglielo, quando si ferma sulle sue natiche, sfiorandole appena. Prima il dovere e poi il piacere: è così che lo mette in chiaro.

“Ma abbiamo tempo. Solo un po', restiamo così.” Ancora capricci, ed allora, gli arriva un pizzicotto sulla gamba. Pizzicotto che lo fa sobbalzare e lo costringe ad alzarsi. La lingua che vien portata oltre le labbra, messa in mostra in uno sberleffo, che gli fa guadagnare una smorfia in risposta.

“Prima finisci di studiare, prima ci rilassiamo. Ho preso un bel film.” Giovanni non lo guarda, ma almeno spera di aver chiuso così la faccenda. Tanto sa che il film non lo guarderanno nemmeno. Ma spera di allettare così il suo ragazzo. Afferra qualche libro dallo scaffale, facendo scivolare all'indietro la poltroncina con le rotelle, ed inizia a sfogliarlo velocemente, cercando gli esercizi con lo sguardo. Quei volumi, tanto, lui li conosce a memoria.

“Ma... matematica! Perché non mi fai fare ripasso pratico di biologia?” Ci prova ancora a sviare il discorso Phill. Lo fa con insistenza, ma in realtà ha già tirato fuori i libri ed ha iniziato a scarabocchiare qualcosa su di una pagina bianca del quaderno a quadretti.

“E' una battuta vecchia, Filippo. E poi, il ripasso dell'apparato riproduttore maschile, puoi farla anche da solo.” Risuona seccata la voce di Giò che chiude di scatto il tomo che stava consultando, incrociando indispettito le braccia contro il torace. Il piede destro che tamburella a terra, nervoso.

“Ma perché dovrei masturbarmi, se ho te?” Stacca gli occhi dal quaderno, Filippo, portandoli lentamente sull'uomo. L'espressione pregna di una tragica ingenuità che sa simulare perfettamente, tanto che l'altro sente già prudere le mani, tentato di rifilargli uno scappellotto.

“La smetti? Se la poniamo in questi termini, sappi che oggi andrai definitivamente in bianco.” L'ultima parola è la sua, lo sa. E si gode la reazione di Phill che rizza completamente il capo, osservandolo con gli occhi sgranati ed un'espressione degna di un cucciolo. Ed il nervosismo viene sostituito da una vaga dolcezza che aleggia nell'aria, rendendola ovattata. Carezzevole per pochi attimi. Giusto il tempo di tornare alla scrivania. Quell'ultima minaccia, lo sa già, non la metterà in pratica, ma almeno così è riuscito ad ottenere la sua piena collaborazione. Nonché qualche preghiera che per il momento preferisce non ascoltare. Lui osserva quel quaderno aperto e quella pagina scribacchiata. Riesce a riconoscere il delinearsi del suo profilo, tra quelle righe, e non può non ammettere che quel ragazzo che ancora sbuffa come una pentola di fagioli, ha talento. Che ci mette davvero affetto in ogni tratto che delinea con la matita. E non riesce a fare a meno di sorridere, perdendo quella patina fredda mantenuta fino a quel momento. Sogghigna di nascosto, avvicinando le labbra alla guancia di Filippo e vi deposita sopra un bacio leggero. Breve, perché la barba in fase di crescita del ragazzo pizzica sulla pelle sensibile delle labbra. Fugace, perché subito dopo gli piazza il libro con gli esercizi davanti al naso, ritornando inflessibile e deciso. Lui lo sa da tempo, che c'è un momento per il lavoro ed uno per il divertimento. Ed in qualche modo deve insegnarlo anche a quel “ragazzino”. Almeno prima che gli esami siano iniziati.

***

“Io mi chiedo come fate ad andare a ripetizioni da un finocchio, tu e mio fratello.” Commenta aspro Lorenzo, guardando Arianna solo di sfuggita. Sono a casa di lei, due coppe di gelato sotto il naso e le scene di “Kung Fu Panda” che passano lentamente davanti ai loro occhi. Si ferma per qualche istante, la ragazza: il cucchiaino ancora in bocca ed uno sguardo perplesso che regala al ragazzo.

“Ma che hai, Lollo? Non è da te parlare così.” Ci mette un po' a reagire, lei, aggrottando le sopracciglia ed arricciando il nasino in un modo adorabilmente buffo che la fa sembrare ancora un po' una bambina.

“Nah, lo so, Aria. Sarà il nervoso per 'sti cavolo di esami. E poi non lo so... Phill mi sembra troppo preso da 'sta cosa.” Ammette, accennando un sorriso quando “Bo” cerca di piantare gli shuriken contro la parete, senza il minimo successo. Lui non la guarda in viso. Non lo fa mai perché ogni volta si sente le guance andare in fiamme, nonostante sappia che il loro colorito niveo rimane tale. Anche lei distoglie lo sguardo dal ragazzo, tornando a guardare il dvd come se non fosse affar suo. Ci mette qualche attimo ad abbassare lo sguardo. Lei sa. Sa del fatto che Filippo e Giovanni stanno assieme. E sa anche cosa spinge il ragazzo a non dirlo al suo gemello. Come biasimarlo, infondo? Scuote un po' il suo gelato al melone pensierosa, per poi sospirare. Lei sa eppure questo non le ha impedito di innamorarsi di quel ragazzo un po' strano. Diverso. Speciale. Fin troppo.

“Credo che non voglia deludere i vostri genitori. E che non voglia deludere te, soprattutto. Infondo se il suo preziosissimo fratello gemello, credo ci tenga a diplomarsi con te.” Ammette -mente-, tornando a mangiucchiare il cucchiaino, pensierosa. Le gambe raccolte contro il petto e quei piedini piccoli, dalle unghie laccate di blu che si muovono nervosi. Un vezzo il suo. Un nervosismo che si esprime tramite il corpo. Lei lo fa anche quando ha le scarpe addosso. Quando è agitata si alza sulle punte come una ballerina. Le pianta a terra come le più solide radici quando è seduta, come se il sostegno dovesse mancarle da sotto i piedi da un momento all'altro. Lorenzo conosce a memoria quei piccoli tic. Ma non ne parla. Sono quei particolari che la rendono sua, seppure sua lei non lo sia.

“Non credo. Non ha mai dimostrato un particolare interesse nel venir promosso. Ogni anno ne esce con qualche debito. Forse quest'anno è riuscito a passare per il rotto della cuffia, con tutte le sufficienze. Credo che il merito sia anche di quel tipo, anche se non mi piace ammetterlo. Quando studiavamo assieme io e Phill, lui era sempre con la testa tra le nuvole. Mi dava fastidio, perché mi sembrava di spiegare le cose ad un muro... anzi, forse un muro starebbe più attento. Ascolterebbe in silenzio. Ed in quei momenti, pensavo che a quel punto sarebbe stato meglio si arrangiasse da solo e che avrei avuto caro se fosse stato bocciato, quell'anno. Che gli sarebbe stato bene. Sono davvero pessimo.” Lo confessa abbandonando le braccia sulle gambe. Il barattolino di gelato ormai concluso, sospeso pericolosamente a mezz'aria ed il capo portato all'indietro, posato sui cuscini del divano. Arianna l'osserva attentamente. Lo fa a lungo, senza dire una parola, ma non sembra essere particolarmente spiazzata da quelle parole. Sembra solo alla ricerca di qualcosa da dire. Di un modo per rassicurarlo. E poi sorride senza un motivo apparente, posandogli la coppetta di gelato mezza piena su una guancia, attirandone l'attenzione. Non è da lui parlar tanto, e in qualche modo sembra farle tenerezza. Sa che quegli sproloqui sono causati dallo stress da esami. Sa tante cose di lui, che forse nemmeno lui stesso sa di sé. Sa di un amore che non potrà mai sbocciare e che gli fa paura. Che fa paura anche a lei. Ed allora si allontana un poco, mettendosi in piedi e raccogliendo la sua ciotola ormai vuota. Vuota come lo spazio che c'è tra loro. Un vuoto invisibile ed incolmabile.

“Non sei pessimo. Ma non gli hai nemmeno mai perdonato il fatto che lui non abbia seguito te al classico. O che non sia andato all'istituto d'arte. Ma conoscendoti, se fosse andato al tecnico, l'avresti assillato a vita perché non ti dedicava abbastanza tempo. Tu non hai “caro che venga bocciato”. E' che ti dà fastidio che stia con Giò, perché lo sta portando via da te. Ma soprattutto, è sempre stato il nervosismo che precede la fine della scuola a farti parlare così. Sai che Filippo ha scelto una strada sbagliata. Lo sa anche lui. E lui stesso sta male nell'esserti lontano, ma affronta la realtà: state crescendo. Non avete più tre anni, quando dormivate assieme. Né i sette in cui vi siete iscritti assieme a karate. O ancor meno i tredici dell'esame di terza media che avete fatto passandovi i bigliettini. Ed è stata una sua scelta. Con il senno di poi sbagliata. Ma sempre sua.” Sorride lei, sedendosi nuovamente sul divano ed incrociando le gambe pulite -depilate-, macchiate qui e là da qualche neo. E da qualche cicatrice pallida sulla pelle già abbronzata. E' bella Arianna, quando parla così. Gli parla con il cuore aperto. Con il suo cuore aperto. Perché lei lo sa leggere come un libro. “Filippo l'ha già capito. Per questo ha scelto una scuola diversa dalla tua. Che poi non sappia nemmeno lui capire il perché l'abbia fatto, questo è un altro paio di maniche. Ma ti adora. Ti lascia toccare i suoi disegni ed i suoi fumetti. Ti lascia correggere le sue bozze e le sue storie. Tu sei parte di lui e lui lo è di te, quindi non farti strane paranoie che manca una settimana a quello stronzo di un esame e di paranoie dovresti averne per quello, non per tuo fratello.” E ride. Ride con la spensieratezza di una bambina e con con la risata di una donna. Perché Aria, un po' bambina, infondo lo è ancora. Si rannicchia maggiormente sul divano che l'accoglie in un abbraccio candido, bianco come la neve, e Peppa non vede l'ora, perché compare dal nulla. Una gatta nera. Nera come la notte. Un neo scuro sul candore della pelle che fodera il sofà. Balza sulle gambe di Arianna leggera e pesante assieme. Perché il suo peso, la ragazza l'avverte bene, quando le atterra sulle cosce. Il pancione gravido che non riesce a sconfiggere la gravità ciondola e ballonzola verso il basso e sfiora la pelle glabra della giovane. Lorenzo le osserva entrambe. La sua amica e la gatta. E la micia si volta verso di lui, allungando il musetto a richiedere coccole. A fare coccole. Lo guarda sorniona, con quegli occhi che dicono che lei sa già tutto. Anche cose che lui non può conoscere, perché lei fa avanti e indietro da casa loro, a quella di Arianna, per poi seguire Filippo a casa di Giovanni. Scivola sulle sue, di gambe, leccandogli la mano con quella linguetta ruvida che fa il solletico, a contatto con la pelle delicata e sottile delle mani.

“Forse hai ragione, Aria. Ma... Bah. Non importa. Vuoi ripassare o finiamo di guardare un film che non abbiamo nemmeno seguito?” Le domanda e lo fa indicando lo schermo. Il protagonista in fase di agopuntura che discorre con un serpente. Non gli sono mai piaciuti i cartoni animati con gli animali parlanti. Poco credibili. Non gli sono proprio mai piaciuti i cartoni animati, a quel che ricorda. Preferisce i libri lui. Tutto al più i racconti che scrive suo fratello.

“Mi sento come Vladimir di 'waiting for Godot'.” Commenta dal nulla Arianna, dissentendo con la testolina di ricci folti e pieni. Non risponde, ma questo significa che non ha la minima intenzione di rimettersi a studiare. Allunga le braccia oltre il capo, stiracchiandosi e Lorenzo l'osserva perplesso. Interrogativo. Senza capire.

“Spero che tu non voglia farmi intendere che io sono Estragon e devo darti una mano ad impiccarti, perché hai scelto la persona sbagliata, Aria.” Ribatte pronto, imponendosi tuttavia di restare serio, dissentendo con veemenza mentre parla. Tanto più che nessuno dei due porta la cintura. Considera mentalmente, allungando una mano per tastarle il fianco, pensieroso. Però non parla, lui. E lei grida. Un urlo acuto perché soffre il solletico. Ed è velocissima Peppa a saltar giù dal divano, con il ventre gravido che penzola raso terra. Veloce quanto la sua pseudo padrona ad afferrare la mano del ragazzo.

“Non lo fare di nuovo o ti trancio le dita.” Una minaccia giocosa e lei ricambia quel gesto, pizzicandogli delicata un fianco, incontrando solamente la pelle e le ossa del bacino, perché lui di ciccia non ne ha. E lei sbuffa. “Comunque non mi hai capita. Vedi?” Protesta ed allunga le mani per richiamare a sé Peppa, che accoglie al volo l'invito, accoccolandosi nuovamente sulle sue gambe. Il condizionatore che con il suo ronzio uccide il caldo soffocante ed quell'afa tutta veneziana che fuori strema, lasciandole solo la sensazione piacevole di quel corpo tiepido e peloso sulle gambe lasciate parzialmente nude. E si accoccola contro il braccio di Lorenzo, lei. Un gesto amichevole e fraterno. Sanno entrambi che non c'è nulla di più in quel gesto. “Quei due poveri pazzi aspettano l'arrivo di Godot. Ma non si sa se lo incontreranno mai. Lui arriverà 'domani', perché oggi non può. Io mi sento come loro. Io attendo gli esami e quella maturità che con essi dovrà arrivare. Però... però non lo so, Lore. Diventerò mai davvero matura? Sono davvero pronta? E poi... e poi questi esami mi sembrano irraggiungibili. E invece sono lì. Basta allungare la mano per afferrarli. E poi cosa ci sarà? Perché in realtà ho paura di quello che sarà dopo. Fuori dalle mura protettive della scuola. L'università. Il lavoro. Io aspetto, ma non so se sono pronta ad affrontarlo.” Mugugna e la voce si spezza in quel nervosismo che la fa tremare un poco. Sospira. Respira a fondo, Arianna, e carezza Peppa che per ricambiare fa le fusa, allungando il musetto verso il volto della ragazza, strusciando la testolina contro la sua guancia piena. Morbida. E Lore ascolta in silenzio. Il capo reclinato all'indietro, di nuovo contro i cuscini. E gli occhi che si perdono nel crema pallido del soffitto.

“Sei paranoica. Non pensare a quello che ancora non c'è. Dovresti dedicarti al presente. E' questo quello che non va in 'waiting for Godot'. A parte che parliamo di teatro dell'assurdo, e a me sinceramente non piace. Ma quei due poveracci finiscono ogni volta a parlare del passato e del futuro. Non pensano mai al presente. E questo li mette ulteriormente in difficoltà. Tu ora pensa che sei qui, seduta accanto al tuo migliore amico. Anzi... spalmata contro il tuo migliore amico. E che gli stai facendo un caldo d'inferno perché sei peggio di un termosifone. E che gli esami li passerai... sicuramente.” Non è mai stato bravo a rassicurare le persone, lui. Piuttosto, di solito passa per quello che ha bisogno di rassicurazioni. Perché lui, dietro quella sottile corazza di ghiaccio, è fragile. Vetro foderato di ghiaccio che può incrinarsi o infrangersi ad ogni mossa sbagliata. Avvolge tuttavia le spalle di Arianna con un braccio, stringendola a sé nonostante il caldo. Gesti dolci. Intimi. Noti, perché abituali. E che non vanno mai al di là di quello, ma che portano ogni volta una fitta al cuore.

“Lollo, ti rendi conto che stiamo parlando di scuola anche ora, sì? Questi esami che friggeranno il cervello. Lo so, io. Non ne uscirò viva..!” Mormora Aria, sospirando e sollevando il musetto di Peppa, posandole un bacetto sul naso. Bacio che la gatta ricambia con un morso scorbutico prima di saltare a terra con un balzo agile e ballonzolante per via della panciotta gravida.

“Non è che ci sia molto da friggere, in realtà.” La canzona, punzecchiandola, ma stringendola nel mentre di più a sé, con quel braccio, lasciandola accomodare meglio contro il suo fianco. Fianco che lei però pizzica indispettita, con un broncio infastidito che le sporca il viso.

“Come sei gentile, mio caro.”

“Tutto amore, mia cara.” Ed era vero. Era una maldestra manifestazione del suo affetto, quella. Quell'affetto un po' strano e non ricambiato che gli stringeva ogni volta dolorosamente la bocca dello stomaco. Quell'affetto noto ad entrambi, ma che non aveva ancora trovato voce.

***

Suona un telefono. Lo fa con insistenza. Una voce maschile ed un poco graffiata si espande per la stanza, fastidiosa in quel ritmo martellante. Fastidiosa per lui che non è ancora riuscito a chiudere occhio nonostante sia notte fonda. Volta gli occhi verso il comodino intercettano le lancette fluorescenti del suo orologio da polso. La vista annebbiata visto che non ha gli occhiali o le lenti a contatto addosso. Forse sono le quattro e venticinque. Forse le cinque e venti. Fatto sta che è terribilmente tardi -o presto, a seconda di come la si vuol vedere- e lui non ha dormito affatto. Sospira ed ancora si chiede perché diavolo non ha ancora cambiato quella cazzo di suoneria. Allunga mollemente un braccio ad afferrare quell'arnese malefico, adocchiando lo schermo. Chi diavolo è quel coglione che lo chiama a quell'ora? Sussulta mettendosi a sedere di scatto, Giovanni. Gli occhi sgranati e le labbra strette tra loro. Terrore. Tutti ma non lui. Lo schermo continua a lampeggiare con insistenza. Quella voce gli martella i timpani arrogante. Trattiene il respiro almeno fino a quando questa non finisce. Il cellulare tra le mani che lo stringono tanto che potrebbero romperlo, ma il resto del mondo attorno a lui non sembra esistere. Cessa quel tentativo di chiamarlo, ma puntuale arriva il messaggio. E' sempre stato così. Sempre. Così come quel cuore che gli martella nel petto, imbizzarrito.

Vieni da me.

Mai. Si stringe in se stesso, tornando a stendersi e chiudendo completamente il telefono. Da quanto va avanti quella storia? Una settimana? Un mese? Da quanto è tornato? Sbuffa esasperato, Giò, ma quel muscolo maledetto non sembra volerne sapere di cessare di pulsare così forte. Ha quasi paura che Filippo possa sentirlo, in quel momento. Filippo che lo abbraccia. L'ha svegliato, lo sa. Fa male, perché lui è quello preso sul serio da quella relazione. Da loro. Fa male, perché non vuol farlo soffrire. Si stringe le tempie tra le dita, massaggiandole lentamente, mentre il ragazzo dietro di lui gli lascia un bacio sul collo. Alla fine lui stesso è coinvolto. Lo adora, ma è ben diverso dall'amore.

“Sono appena le quattro. Chi era?” Domanda con la voce che però non sa affatto di sonno. L'ha sentito rigirarsi fino a quel momento, Giovanni. Nervoso. Esagitato a dispetto della calma con cui solitamente riposa. Probabilmente nemmeno il suo amante ha dormito poi molto.

“Mi dava numero sconosciuto. Probabilmente hanno sbagliato.” Mente chiudendo gli occhi. Mente rigirandosi verso di lui e baciandolo con trasporto, una volta che ne trova la bocca. Vuole tenerlo buono. Mansueto. Non vuole che gli faccia domande. Non ora che si sente così sporco.

“Voglio farlo di nuovo.” Un mormorio basso e Giò non può far altro che dargli via libera.

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Capitolo 3
*** Caduta ***


Cap. II Caduta

I'm not strong enough to stay away
Can't run from you
I'd just run back to you

C'è la calca. Un ammucchiarsi disumano di ragazzi e ragazze frementi. Elettrizzati come appesi tutti a un unico cavo dell'alta tensione. Il vociare e lo schiamazzare delle sue compagne di classe gli perforano i timpani, nonostante lui continui a tenere le cuffie in testa. Testa che tra l'altro gli fa un male d'inferno, visto che Giovanni l'ha sgraziatamente buttato giù dal letto alle sette, quella mattina. Ha dormito da lui, alla fine, infischiandosene delle sue minacce -anche se “dormire” non è un termine adatto, visto che non ha chiuso occhio per tutta la notte. Aveva bisogno di distendere i nervi e stare con qualcuno al di fuori della sua famiglia, quella sera. Senza contare che poi Giò era stato particolarmente accondiscendente, alla fine, dopo che lui aveva chiamato a casa per avvertire che avrebbe passato la notte da un amico, senza ovviamente specificare che amico. Puntuale era arrivato il messaggio di Lorenzo, a cui lui però non aveva risposto, affaccendato in altre e ben più piacevoli faccende. E' seduto nel cortile interno del “Benedetti-Sarpi”. Addosso i vestiti di Giovanni che gli stanno spropositatamente grandi, nonostante il suo insegnante privato non sembri così enorme, quando ce l'ha davanti. Probabilmente, così come suo fratello, sono la sua ossatura e la sua costituzione ad essere fin troppo esili. Però sta bene, vestito così. La camicia senza maniche chiara ed i Jeans leggermente sbiaditi non stonano con il suo aspetto un po' trasandato di natura a causa dei capelli lunghi tenuti solitamente sciolti. Non ha ancora visto i voti, lui. Ha promesso a Lorenzo ed Arianna di aspettarli per guardarli assieme. Ma sa già che sarà un'attesa inutile. Lo vede negli sguardi degli altri maturandi che gli passano accanto. Lo legge nelle occhiate dei suoi compagni di classe, che sembrano faticare ad avvicinarsi a lui. Quegli stessi compagni che per cinque anni l'hanno fatto sentire a casa con quegli scherzi e quelle risate condivisi tutti assieme. Una classe di pochi elementi ed unita. Un bell'ambiente. Questo se lo ricorderà per tutta la vita. Ma non riesce a sopportare quegli sguardi di commiserazione: non è mica morto nessuno, insomma.
Ed ecco il trio delle oche della sezione A che gli sfila davanti come se nemmeno lo vedesse. Giulia, Stella e Marine. Insopportabili nel loro cicaleccio e nella loro ipocrisia. Ha sempre ringraziato di non averle avute in classe con sé. In disparte si trova Vanessa, invece. Un po' asociale e sempre discreta, seppure con quel sorriso dolce pronto ad affiorare ogni volta che qualcuno le rivolge la parola.
“Quella stronza. Dovevano bocciarla, ed invece vogliono solo togliersela dalle palle e l'hanno mandata avanti. Cazzo, ci rosico troppo se le fanno passare l'esame.” E' Marine a parlare, con quella bocca gonfia imbrattata di rossetto e quei capelli biondi e cotonati da bambola.
“Hai ragione. Ha fatto del lecchinaggio per cinque anni. Sono curiosa di sapere se si è fatta anche scopare da qualche prof, per passare con una media così alta.” Male lingue. Che affoghino nel loro veleno. E Filippo intanto sembra passare inosservato mentre fa il suo intervento pure Stella, vestita come se dovesse andare in Via Piave, piuttosto che a scuola.
“Quello di italiano, sicuramente se l'è scopata. Se no da dove le tiravano fuori quelle battute maliziose, in classe?” Il cervello collegato alla bocca mai, eh?
“Beh, ma da quello gnocco una ripassatina me la sarei fatta dare pure io.” Ecco di nuovo Stella. A dimostrare che il cavalcavia sarebbe la sua casa ideale. Continuano a blaterare a sproposito, loro, almeno fino a quando non sembrano rendersi conto che, nell'angolino dove hanno deciso di fumare c'è pure lui. L'osservano tutte e tre per qualche istante ammutolite. Spiazzate. Ma lui pare ignorarle, preso da ben altro. Vanessa, poco distante, sembra sull'orlo delle lacrime. Le ha sentite, non ci sono dubbi. Com'era indubbio che parlassero di lei. Sospira. Abbassa gli occhi. Piange muta, spostandosi piano, silenziosa come una creatura indifesa.
“Sentite, ragazze, la tangenziale potete raggiungerla in vaporetto. Prego, è da quella parte.” Si alza di pessimo umore dal muretto che aveva scelto come suo trespolo, squadrando con indifferenza quelle tre arpie, per poi regalare loro un sorriso ingenuo. Addirittura arrogante, nella sua falsità. Lasciandole lì, basite sul posto.
“Che vuoi? Hai la luna storta perché non sei nemmeno stato ammesso agli esami?” Giusto. Il coglione per antonomasia. Gli sembrava strano non averlo visto in giro fino a quel momento. Thomas, il paladino delle oche, giunge prontamente a proteggerle, sollevando il loro starnazzare. E Filippo di nuovo le ignora, limitandosi a squadrare il maschio alfa che va a marcare il territorio.
“A te hanno fatto un favore ad ammetterti, invece. Gli scocciava tenerti qui per l'ottavoo anno di fila. O forse sarebbe stato il nono?” Lo sillaba con calma scanzonata, sorridendo serafico. Beota. Il capo che si inclina verso una spalla, posandosi sulle cuffie che si è adagiato attorno al collo poco prima. La rabbia che monta sempre più velocemente, ribollendo. La può sentire nell'aria. Palpabile. Fetida come un miasma velenoso.
“Vai a farti fottere, checca.” Arrogante, Thomas. Phill sente solo lui. Alle altre tre galline non dà nemmeno più retta. Sono cinque anni che vuol dare una lezione a quel dannato, e ora può togliersi lo sfizio.
“Oh, beh. Io almeno ho qualcuno che può farlo.” E pure bene, aggiunge mentalmente, sogghignando sornione verso l'altro ragazzo.
“Caxo, eora ti xe davero un reciòn! Vate far riempir ea boca con un bel per de peri, va!” Bene. Dopo gli insulti di solito si viene alle mani. O almeno, è sicuro che Tom cercherà di mettergli le mani addosso. E' una certezza matematica e lui è già pronto all'evenienza, tanto che stringe già le mani in due pugni stretti. Strettissimi. Tanto che fanno male.
“Offerta allettante. Mi presti il tuo? Sono sicuro che ti piacerebbe.” Ironico si passa la lingua sulle labbra come un gatto che ha appena finito il pasto. Malizioso. Non gli serve altro che in automatica parte il pugno di Thomas. Pugno che lui incassa in pieno. Sul viso. Indietreggia quel poco che basta per salvare il naso e beccarsi il colpo sullo zigomo. Qualcosa si rompe perché sente il sapore dolciastro del sangue sulla lingua. Ne avverto l'odore nel naso. Lo sente scivolare giù per la guancia. Un secondo colpo, quello che incassa alla bocca dello stomaco, sbuffando quando si infrange la resistenza degli addominali. Ed è lì che parte il suo contrattacco. Un solo pugno dal basso e l'altro è a terra, intontito. Fare karate per anni gli è servito a qualcosa. E così s'è sfogato un poco, almeno. Carica anche un mancino, lui, ma Vanessa sembra materializzarsi dal nulla lì accanto, e con la carezza di un petalo gli posa la mano sul braccio, conducendolo con sé in una corsa veloce ed apparentemente senza meta. Giù per la “barbaria dee toe” per poi arrivare davanti a Santi Giovanni e Paolo, l'ospedale civile. E poi ancora più in là, prendendo una calletta laterale del quale non conosceva nemmeno l'esistenza, lui, fino a fermarsi sotto ad un portico. Solo una volta giunti lì, lei gli concede di riprendere respiro. Ripiegati entrambi in avanti, con il fiato corto.
Lei ancora con le lacrime agli occhi.
Lui ancora con lo zigomo che sanguina.
Entrambi che ridono come dei bambini.
***

Giovanni è seduto ad uno dei tavolini del “tappa obbligatoria” con uno spritz davanti al naso ed una patatina al ketchup in mano. Ha appuntamento lì con Filippo e di quando in quando controlla l'orologio appeso ad una delle pareti del piccolo locale, mentre con la mano destra fa danzare pigramente il liquido rossastro contenuto nel bicchiere a calice. E' lì da un po' ormai, tanto che le patatine che gli hanno portato assieme all'aperitivo sono state pericolosamente decimate e lui ne sta mangiucchiando pigramente un'altra. I campanili poco distanti -ma anche quello di san Marco, relativamente lontano dalla strada nova- fanno sentire le loro voci, annunciando il mezzogiorno con il loro scampanellare cupo.
“E' in ritardo di un quarto d'ora. Strano.” Commenta, ripulendo le dita su una salvietta di carta e sfogliando stancamente il quaderno con gli appunti di veterinaria. Strano perché di solito è Phill quello che arriva puntuale ai loro appuntamenti, per quanto sporadici essi siano. Perché di solito è lui quello che vien rimproverato, alla faccia della differenza di età tra loro, quando arriva tardi. Sospira, nervoso, controllando il cellulare. Ha bloccato le chiamate ed i messaggi del numero che da circa due settimane ha cominciato ad infestargli il telefono, quella mattina. L'ultimo messaggio di testo che ha letto, con occhi e mani tremanti, recava poche semplicissime parole:
Ti rivoglio per me.
E' lui a non volerlo di nuovo accanto a sé. Forse.
Fissa l'apparecchio nervoso, come a volersi assicurare per la millesima volta che quel numero non compaia ancora sul display e la voce di Filippo lo coglie di sorpresa, facendolo sussultare. Ma cerca di dissimulare, posando il mento sulla mano libera, mentre quella che sorregge il telefono si tuffa nella tasca dei pantaloni, celando quel piccolo peccato al mondo.
“Sei in ritardo, ragazzino.” Una mano gli si posa sul capo con il calore di un vulcano e la delicatezza di una foglia d'autunno, abbronzata. Rassicurante.
“Ho avuto un problema.” Spiega, prendendo posto davanti all'uomo. Un sorriso un poco sfrontato in volto, nonostante allunghi già una mano a richiedergli silenzio, quando ne coglie lo sguardo perplesso fisso sui cerotti che gli nascondono lo zigomo fino all'occhio sinistro, quasi.
“Che hai combinato?” Giovanni sbuffa scuotendo il capo, esasperato, in risposta. Porta indietro la schiena, poggiandosi meglio alla sedia ed incrociando le braccia contro il torace. Seccato, ma pronto ad ascoltare. Più come un fratello, ora, che come amante.
“Un simpaticone della mia scuola non ha gradito le mie avances.” Ironizza il liceale, intrecciando le braccia sopra il tavolino malfermo, facendolo oscillare sotto il suo peso, lasciando danzare pericolosamente il bicchiere di Giò. Gli occhi ossidiana del suo insegnante privato viaggiano sul suo volto attenti. Imbronciati, perché il suo viso gli piace, lo sa. Imbronciati perché quel cerotto troppo chiaro, sta male sulla sua pelle troppo scura. Perché lo stesso cerotto è ancora sporco di sangue, così come la sua guancia. Il collo e... e la sua camicia preferita che vanta una scia rossa che scende dal colletto, fino a terminare sui suoi vecchi pantaloni. Per quelli può soffrire un po' meno, visto che erano da buttare, infondo.
“Che gli hai detto per farti tirare un pugno in faccia?” Gli domanda passandosi una mano sul volto, sfinito dal caldo -visto che né fuori, né dentro il locale si muove una foglia- e dal nervosismo. Vuole sapere com'è andata al ragazzo, visto che il suo viso tranquillo ed a tratti divertito dalla sua agitazione, non fa trapelare alcuna emozione particolare. Probabilmente gli è andata bene e di lì a una settimana lo sentirà lamentarsi del fatto che è terrorizzato dalla prima prova, nonostante lui nei temi sia sempre stato ferrato.
“Mi ha invitato a fare un paio di pompini e io gli ho chiesto se voleva favorire.” Rabbrividisce, restando gelato sul posto, Giovanni. Gli occhi sgranati in una muta sorpresa a quelle parole che Filippo pronuncia con tanta calma. L'espressione seriosa che non aiuta la cosa e le labbra che si schiudono a pronunciar parole che invece se ne restano lì. Scuote la testa indispettito, poi: la bocca di Filippo è sua. Come tutto di quel ragazzino distratto e dispettoso. Imprevedibile ed inafferrabile. E rimane scosso, perché non si aspetta che certe parole possano uscire proprio da quell'anima tanto libera, così aspre. Canzonatorie.
“Tu te le cerchi, però. E conoscendoti sono sicuro che ti sei fatto colpire di proposito, vero?” Retorica, la domanda dell'uomo che stringe con stizza le dita attorno al calice con dentro lo spritz ormai completamente annacquato. E il sorriso di Phill gliela dice lunga. Ironico. Sbarazzino anche con quel cerotto che ne accentua quasi l'aria dispettosa e trasognata.
“Sai che non sono mai il primo ad attaccare. Preferisco usare le parole. Ma Stori è un coglione e non cercava altro che un pretesto per attaccar briga. Io gliel'ho semplicemente fornito. Tra l'altro la sua corte di oche da guardia stava parlando male di una mia amica, quindi ho avuto una soddisfazione in più nel metterle a tacere.” Scrolla le spalle e parla con gli occhi distanti, puntati fuori dalla finestra, verso il cielo grigio. Non minaccia pioggia, semplicemente le nuvole si divertono a nascondere il sole ed a creare, in compenso, una bolla di afa soffocante. C'è un uomo dall'altra parte della strada. Capelli corti, quasi a spazzola, un po' mossi e piantati su un viso squadrato come rada erba riarsa. Un tipo attraente, tutto sommato. Un paio di ray-ban si sorreggono tramite l'astina sul collo della maglia nera che ha addosso. E non può sbagliare: sta guardando il loro direzione. Sta guardando lui, e lo fa con occhi cattivi. Quelli di una belva che è pronta a saltare al collo di chiunque entri nel suo territorio. E lui ha quella sensazione: quella di aver messo piede in una zona proibita. Ma è solo una sensazione che scompare quando Giò schiocca le dita sotto il suo naso, attirandone l'attenzione.
“Mi hai sentito?” Gli domanda seccato, accogliendo con una smorfia il suo dissentire. “Filippo, ascolta, ho capito che l'hai fatto per la tua amica, ma devi stare attento, per la miseria. Comunque sia, spero che tu le abbia suonate a quel tipo.” Ammette in fine, concedendogli una carezza sulla guancia, sopra il cerotto. Fuggevole. Discreta perché lui è sempre un po' impacciato nelle sue dimostrazioni di affetto.
“E' bastato un pugno per mandarlo a tappeto. Volevo rifilargliene un altro, ma Vane mi ha fermato perché temeva potessi fargli peggio. Poi il mio taglio sanguinava troppo, a detta sua. E forse aveva anche ragione. E non avevo voglia di affrontare il preside. Tanto ha visto tutta la scena, c'era anche lui. Stori però viene da una famiglia facoltosa, quindi figurati se danno ragione a me. Poco male, la mia soddisfazione me la sono tolta.” Spiega, tornando a guardare fuori dalla finestra, evitandone lo sguardo non per vigliaccheria vera e propria. Semplicemente per lui il discorso è chiuso lì. E poi vuol trovare una spiegazione a quella brutta -pessima- sensazione, ma davanti al McDonald's quell'uomo non c'è più. Probabilmente è stata solo una sua impressione. Magari non ce l'aveva con lui. Ma allora perché quel sentore fastidioso di trovarsi in un posto sbagliato continua a premergli la bocca dello stomaco? Guarda Giovanni, pensieroso, afferrando il bicchiere di spritz dalle sue mani e rubandone un sorso annacquato.
“E' profondo?” Gli domanda e l'osserva a lungo. C'è altro che vuol chiedergli, Filippo lo sa, glielo legge negli occhi, ma sa anche che non aprirà bocca fin quando non sarà lui a tirar fuori il discorso. E allora tergiversa. Tergiversano entrambi.
“No. E sto bene. Davvero. Senti, andiamo a casa tua? Ho anche sporcato la camicia ed i pantaloni che mi hai prestato. Riprendo i miei vestiti e mettiamo a lavare questa roba, vuoi?” Quello sguardo se lo sente di nuovo addosso, Phill. Astioso. Carico di rabbia. E non capisce perché. Tommaso non può essere. Non l'ha visto passare di lì. Non ne ha sentito la voce. E sa che quello non è il giro che fa solitamente per tornare a casa. Tanto più che l'altro abita a Cavallino. No. E' un'incognita spaventosa che gli piomba pesante sulla testa. Sul cuore. Ed osserva Giovanni, improvvisamente nervoso. Improvvisamente pallido, come se avesse visto un fantasma. Ma dissimula lui. Giò è bravo in quelle cose. Non fa trasparire nulla. Non paura, né affetto, né qualunque forma di sentimento più profondo. Restano tutti lì, annegati in acque profonde, con la paura di vedere la luce perché -fragili come cristalli- potrebbero infrangersi. Annuisce l'uomo. Lo fa con forza, sollevandosi in piedi e portandosi verso la cassa, mentre Filippo si sistema le cuffie attorno al collo, legandosi i capelli lunghi in una coda bassa ed arruffata.
Sono stato bocciato. Come può dirglielo?
Ho la sensazione che qualcuno ci stia osservando. Se solo accennasse a questo, lo prenderebbe per scemo. Sospira ed esce in strada, salutando con un sorriso un conoscente che gli passa davanti tenendo per mano una ragazza piccola e minuta e all'aperto quella sensazione di disagio sembra dileguarsi. Forse era quello. Solo disagio.
***

Arianna trattiene il respiro e poi lo rilascia di colpo, come chi non aria attorno, ma è appena stato gettato in un lago gelido che cerca di lambirlo e soffocarlo. I suoi voti sono lì. Ottimi. Una media che non avrebbe mai sperato e quasi il massimo dei crediti a disposizione. Ci può ancora sperare nel 100 e se fosse per lei, in quel momento saltellerebbe in giro per l'androne del Foscarini. Ma si trattiene, almeno fin quando non riesce ad uscire dalla calca. Solo in quel momento comincia a spiccare piccoli balzi, uniti a gridolini eccitati. I capelli ricci trattenuti i una coda piena e gonfia volano un po' ovunque e lei si volta di scatto verso Lorenzo che resta in disparte. Silenzioso e discreto come una statua di marmo. E' bello, il suo migliore amico. Una bellezza caucasica ed eterea. Quasi inafferrabile in quelle espressioni dure e distaccate che si incrinano solo per lei e per Filippo. E' bello, rinchiuso in quella maglia bianca con macchie di colore che sembrano distendersi anche sulla sua pelle, come un quadro impressionista. Spesso se l'è chiesto. Come può essersi innamorato di lei uno così e come può lei non ricambiarlo. Ma si sa: l'Amore è cieco. E quando la paura si mette in mezzo, sembra proprio che Amore abbia lasciato gli occhi sul comodino in camera da letto.
“Ventitré?” Le domanda atono, limitandosi ad arcuare un sopracciglio per dimostrare almeno un minimo di curiosità. Arianna annuisce concitata, allacciandogli le braccia attorno al collo. Lo fa spesso, quando è fuori di sé dalla gioia. Non ci pensa. Non ci bada e nelle sue esternazioni d'affetto regna sovrana la fisicità e a lui tutto sommato non dispiace, anche se a volte il cuore gli si stringe tanto da fare male.
“Tu non hai idea di quanto sono felice. Anche se tu ne hai venticinque, maledetto.” Scivolano leggere le dita della ragazza, andandosi a posare sulle guance incavate dell'amico, pizzicandole e tirandole indispettita. Un broncio sulle labbra, ma gli occhi sono grandi e ridenti. Gioiosi.
“Questo perché io sono un genio e tu ti metti a studiare seriamente solo nel secondo quadrimestre.” La rimprovera, stringendosi nelle spalle e pungolandole un fianco con l'indice, così che gli lasci le guance. Un'aria di superiorità che permea tutta la sua figura. Simula, perché nonostante l'aria altezzosa le fa l'occhiolino, contagiato dalla sua allegria, stando al gioco.
“Quanta modestia. Non va mica bene, mio caro. Dovresti avere un po' più di compassione per quelli che non sono dei geni come te.” Continua la farsa come un gioco, in quella smorfia che gli dedica, mostrandogli la lingua.
“Non sono modesto. Sono realista.” Schiocca la lingua sul palato, facendo spallucce ed incamminandosi verso il portone d'uscita dell'edificio. “Phill mi ha chiamato dicendo che non serve che andiamo da lui. Sta fuori con Vane e forse ci raggiunge poi per bere qualcosa assieme.” Asciutto in quella spiegazione, l'odore dell'acqua salmastra un po' stagnante del canale gli arriva penetrante al naso, quando escono. Le barche più piccole viaggiano lente attraverso la via d'acqua, cariche di ragazzi con le rispettive fidanzate o amici. Urla, ragazzini che si buttano in acqua, felici di aver superato indenni il primo anno. Volano gavettoni, ed un palloncino -ma non è sicuro che sia davvero un palloncino- gli sfiora il torace, rimbalzando a terra, troppo grande e troppo resistente per essere un gavettone. Scuote il capo rassegnato, osservando il profilattico rigonfio d'acqua rimbalzare verso delle ragazzine di quarta ginnasio che gridano schifate, appellando come “porsei1” gli autori dello scherzo che per contro ridono a crepapelle.
“Ehi, ragazzini! Ma lo sapete a che servono quelli? Sono sicura di no, visto l'uso che ne fate. Ma avete un minimo di cervello in testa?” Arianna che si infervora è uno spettacolo che fa sorridere. E' una ballerina sul filo della follia quando il suo visetto rotondo si tinge completamente di rosso e lei comincia a gesticolare, formando ricami in aria con le mani piccole e le dita sottili. Ed a Lorenzo vien da sorridere, ma tutto ciò che riesce a fare è incurvare appena le labbra in un sottile divertimento.
“Aria, lasciali perdere. Non sanno nemmeno dove va messo: ecco perché l'hanno scambiato per un palloncino.” Parla posandole una mano sul capo e scompigliandole un poco quei capelli ricci e morbidi come scuri fili di seta.
“Certo, Perché lui lo sa dove va messo.” Sputa un ragazzino di quarta ginnasio. Lorenzo lo fissa con distacco. Come chi guarda la più bassa delle creature. Ed in quel momento ad Arianna fa un po' paura, perché lui non è così. Quella faccia da angelo e quegli occhi di fumo cambiano, rendendolo più simile ad un etereo demone dei ghiacci. Freddo nella sua inespressività. Gelidi quegli occhi che rasentano un cielo plumbeo e senza vita.
“Visto che non ho ancora messo incinta nessuna, direi proprio di sì. Ce la sappiamo raccontare tra un paio di anni, ragazzino.” La risposta scivola via come il peggiore dei veleni, sputato lontano. Ma lei gli tocca un braccio ed il demone sparisce, tornando a mostrare il cherubo biondo che l'osserva curioso.
“Lollo, andiamocene.” Egoista, lei. Lui si è messo in quella posizione per proteggerla, altrimenti non si sarebbe mai fatto coinvolgere. Le prende la mano con calma, portandola via, iniziando già ad infilarsi in Calle Racchetta, lasciandosi le grida astiose dei compagni di scuola alle spalle. Li ignora bellamente, lui. E lei lo segue docile come un cucciolo. Ha una carattere difficile, Lorenzo. E' lunatico e nonostante quella freddezza ostentata, ci mette poco a perdere la pazienza. Eppure è dolce il rapporto che c'è tra loro, perché la fa sentire protetta. Tanto dolce da rasentare un'ambiguità che lei non può accettare -ammettere- perché farebbe male ad entrambi più di quanto non faccia già.
“Certo che hai un bel coraggio. Prima attacchi tu e poi te ne vuoi andare quando comincio a divertirmi.” Palese l'ironia nel tono con cui le parla. Un sorrisetto sarcastico a sporcare quelle labbra chiare e sottili. Spesso Arianna si domanda come quella creatura di fiaba possa essere legata a qualcosa che sembra essere ricavato da un mito antico come Filippo. Se non sapesse che il signor Pedrotti è di origini meridionali e che Phill ha ereditato da lui le tonalità scure tipiche delle regioni del sud, probabilmente resterebbe sorpresa anche lei ogni volta che agli estranei loro si presentano come gemelli. Le lascia libera la mano, Lorenzo, e quella vola via come una rondine spaventata, leggera nel frullare d'ali di piccioni ed passerotti.
“Io volevo solo sgridarli. Sei tu che ti sei messo in mezzo.” Solleva il nasino altezzosa passando in rassegna la calle con gli occhi, per poi soffermarsi sul sottoportico che c'è alla sua destra. C'è qualcuno che parla -normale in una strada. Qualcosa di familiare vibra nell'aria, però. Nelle voci. Ed inevitabilmente lo sguardo scivola verso l'interno del piccolo portico e qualcosa s'infrange. Perché la curiosità è donna. Ma anche uomo a giudicare dallo sguardo stralunato e sconvolto di Lorenzo. Ed è il rumore dei cristalli che si frantumano in una musica priva di suoni mentre gli occhi si spalancano di gelida sorpresa -o consapevolezza? Pochi passi e lei sbatte contro Lore, imbambolato a fissare i due ragazzi che si scambiano un bacio discreto -intimo- un poco in ombra. Al riparo dal sole che è riuscito a forare le nuvole d'afa e che in quel momento abbatte i propri raggi su lei ed il suo migliore amico come la peggiore delle lame. Come un inquisitore che condanna alla peggiore delle torture, quel sole sembra additarli per essersi intromessi in qualcosa in cui non avrebbero dovuto metter naso. La condanna è chiara e due cuori si spezzano provocando un suono sordo, come al culmine di una caduta apparentemente eterna e che invece termina di colpo.
****
Trema Lorenzo, altalenando tra la voglia di urlare il nome di suo fratello per farlo staccare da quel maledetto di Giovanni e quella di scappare pregando di aver avuto le allucinazioni. Probabilmente ha le traveggole dal caldo. Magari sta ancora dormendo e tra un po' la sveglia suonerà per interrompere quell'incubo. Sì? No.
Cazzo, suo fratello sta baciando un uomo!
Suo fratello. Quello che in quel preciso momento dovrebbe trovarsi dall'altra parte di Venezia in compagnia di Vanessa e di chissà quante altre ragazze della loro classe, non abbracciato ad un altro uomo a scambiarsi... Dio... un bacio!
“Fanculo, Filippo!” Lo ringhia con rabbia, scandendo ogni sillaba che muore contro i denti stretti quando la lingua ci picchia contro. Stringe i pugni trattenendosi dalla voglia di tirarne uno a quello stronzo di Giovanni, cogliendo solo per sbaglio -ed ignorando bellamente- quel cerotto che nasconde lo zigomo del suo gemello, così come il sangue che gli macchia i vestiti. Vestiti che non gli appartengono, tra l'altro. Stronzo. Stronzo anche lui. Phill e Giò si voltano di scatto, giusto il tempo di vedere Lore ed Arianna al limitare del sottoportico fissarli una attonita e l'altro su tutte le furie. Ma poi Lorenzo sembra dare di matto ed afferra con foga la ragazza, trascinandosela via.
Fanculo.
Ecco perché suo fratello non si è mai portato a casa una ragazza, al contrario di lui.
Fanculo.
Gli piacciono gli uomini, Cristo santo!
Fanculo! Fanculo! Fanculo!
Cammina. Cammina veloce, Lorenzo. Quasi corre, portandosi dietro Aria che sembra quasi una bambola. Priva di vita per qualche istante. Ma poi sembra rinascere. Sboccia con l'entusiasmo di una rosa a maggio.
“Lorenzo, fermati.” E' il richiamo di una sirena. Un'ancora di salvezza in un mare che sembra improvvisamente impazzito. Si volge verso di lei con gli occhi sgranati di terrore. Quell'argento liquido che riempie quelle pozze, improvvisamente gelato. Cristallizzato e cupo. E lei l'osserva un po' colpevole, un po' vittima. Le spine di quella rosa strette attorno al cuore. Al suo come a quello di lui, seppure con due pesi differenti.
“Ah... Phill stava baciando quel tipo. Phill... Phill è gay?!”






“Caxo, eora ti xe davero un reciòn! Vate far riempir ea boca con un bel per de peri, va!” (Dizionario veneziano-Italiano XD) "Cazzo, allora sei veramente gay! Vatti a far riempire la bocca da un paio di "peri" (lascio a voi intendere. Anzi, poi Phill lo spiega o_ò)"
"Porsei." "Maliali"
Se c'è altro che non si capisce, vi chiedo di segnalarmelo XD

Herit

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Capitolo 4
*** Ritorno ***


Cap. III Ritorno

 

A Giovanni Filippo non è mai sembrato piccolo come in quel momento. Più che piccolo, gli sembra fragile, seduto sull'angolo del divano con la testa ripiegata in avanti e le mani immerse tra i capelli. C'è qualcosa che si sgretola ogni istante di più. Cede pezzo dopo pezzo, staccandosi da lui e scivolando lontano, alla deriva, senza guida. La sua anima si divide in piccoli frammenti, spaccata tra il desiderio di correre dietro a Lorenzo e quello di restare lì con lui, in un'oasi protetta. Giò può leggerle, quelle sensazioni, nel lieve tremore che scuote le spalle del liceale, coinvolgendo poi tutta la sua figura. Così come nel muoversi nervoso dei piedi del ragazzo, che sembrano pronti a scattare e lasciarlo indietro. E' alla deriva anche lui, perché sa di aver combinato un casino. E per assurdo, a Giovanni non sembra di aver mai sentito la loro differenza di età così profonda come in quel momento.

Cosa ci si sarebbe aspettati da un adulto?

Cosa da un amante?

Cosa si aspettava Filippo, da lui?

Sbuffa, deglutendo un grumo di saliva ed incertezza. Quell'incertezza che deve sparire, perché lui deve essere il suo appoggio. Il suo punto di riferimento. Come adulto, almeno, in quei cinque o sei anni di età che li separano.

“Non lo sapeva. Di te e me, intendo... mi avevi detto che ne era al corrente.” Commenta, prendendo posto accanto a quella roccia che poco a poco si sta consumando sotto il moto incessante dell'acqua e degli agenti atmosferici che la corrodono sempre più velocemente, mano a mano che cresce la consapevolezza. Non può capire a pieno quel dolore, lui, però: lui non ha mani avuto un legame tanto profondo con qualcuno.

Bugiardo. Qualcuno c'è stato, ma ha deciso di cancellarlo. Come un disegno sulla sabbia che si sbiadisce ad ogni nuovo refolo di vento.

Sospira dal naso, chinandosi in avanti, così da trovare in uno spiraglio tra le sue mani, il visto di Filippo. E' rigido come quello di una statua di bronzo, ma ancora non sa di lacrime. Probabilmente non sentirà nemmeno il loro sapore, quando lo bacerà fugacemente, prima che questi si richiuda nuovamente a riccio. Scappando in un impeto di codardia. Ne sfiora la guancia pruriginosa di barba incolta, raccogliendo il profumo della sua pelle. Non lo sta sgridando, ma Phill si ritrae, scuotendo il capo.

“Sono sicuro che ora mi odia, Giò... non gliel'ho detto perché non volevo accadesse questo. Perché senza di lui mi manca un pezzo. Un pezzo importante. Rischio di frantumarmi. Temevo mi avrebbe disprezzato. Che mi avrebbe guardato come mi guardavano i miei compagni di scuola. Con lo stesso schifo. Con la stessa fottuta aria schifata. Ma di loro me ne frego. Lo sai che me ne frego.” C'è una nota nervosa nella sua voce. Aspra. Quella di chi se ne frega solo in superficie, perché dentro sta male. “Non sapevo come dirglielo, poi. A lui fanno schifo i gay. Me l'ha sempre detto. Cioè... Aria lo sa perché non volevo darle false speranze. Mi si è dichiarata qualche mese fa, lo sai. Ma a lui come lo dicevo? 'Sai, al tuo adorato gemellino piace prenderselo in culo. Scusa se non sono il tuo ideale di fratello maggiore, ma così è la cruda realtà'...” Parla in modo sconclusionato, Filippo, gettando la testa all'indietro e passandosi le mani tra i capelli per scostarseli dal volto. Un naufrago che riemerge dall'acqua per riprendere respiro, prima di cadere nuovamente preda dei flutti. Sbuffa nervoso, come gli mancasse aria, mentre l'osserva.

“Avresti potuto, sì.” La schiettezza di Giovanni è dura. Pesante. Un pugno che attraversa la pelle e le ossa, colpendo diritto al cuore. Un po' arrabbiato, alla fine, lo è anche lui. Più che arrabbiato, sarebbe meglio dire deluso. La giovane età di Filippo in parte lo giustifica, anche se avrebbe preferito che fosse stato sincero con lui. “Magari scegliendo altri termini avresti potuto dirgli che ti piacciono gli uomini, ma che in fondo in te non è cambiato nulla. Che sei la stessa persona con cui è cresciuto e che non smetterai di essere tu solo perché sei attratto da qualcuno del tuo stesso sesso. Se la sarebbe presa, probabilmente, Avreste litigato, ma siete fratelli, quindi presumo sia normale litigare: a volte discutere è anche un modo per dimostrare il proprio affetto nei confronti di quella persona. Credo che affrontare la questione apertamente sia comunque l'unica cosa che tu possa fare.” Considera, poggiando i gomiti sulle gambe e lasciando ciondolare le braccia verso il basso, ancora piegato in avanti. Guarda il ragazzo con espressione assorta, come alla ricerca di qualcosa. Ma Filippo si limita ad osservarlo già stanco - non dei suoi discorsi, certo – ma di quella giornata che l'ha provato più di un intero anno scolastico. “Magari non subito. Aspetta un attimo che si calmi. Aspetta di calmarti anche tu. Di solito sei impetuoso, quando ti metti in testa qualcosa, ma ora è bene che ti rilassi un attimo. Se vuoi restare qui, puoi farlo. Fatti una doccia e distendi i nervi. E poi pensa con un po' più di calma e lucidità. Vuoi?” La dolcezza di Giovanni scende a piccole gocce su di lui. Quella dolcezza che di solito cela dietro alla sua maschera un po' burbera. Sembra pioggia leggera che si posa sul corpo, morbida e sottile e poi scivola via, delicata, penetrando un po' più sotto la pelle. Il tono abitualmente quieto dell'uomo che non cambia mai sfuma e si tinge di tanti colori diversi, ma non si alza, mantenendo quella compostezza matura che Phill ama. E si abbandona, il ragazzo, scivolando con il capo verso la spalla del suo insegnante privato, poggiandovela sopra, alla ricerca di quell'appiglio che ha intravisto mentre l'altro parlava.

“Ho paura, Giò...” Mormora chiudendo gli occhi, sospirando. Piccolo. Piccolo e fragile. Quella sensazione si accentua sempre di più. “Mi sono costruito una bolla di cristallo attorno. Qualcosa che proteggesse il mio piccolo universo e quella mi è caduta dalle mani, struggendosi completamente in una sola mattina.” La voce di Pill è un mormorio basso, rassegnato, vibra un po'. Trema come scossa dal terremoto di emozioni che lo stravolge. Giovanni gli passa un braccio attorno alle spalle in una stretta solida che non lo faccia crollare e che va a chiudere con calma, portandosi il ragazzo più vicino.

“Di bolle di cristallo ne vendono tante nelle botteghe. Te ne regalo una di nuova io.” Azzarda quella promessa, ma si sente già uno spergiuro. E' troppo grande per lui. Per loro. Lo sa, ma ci prova.

“Sai..?” Sorride alle parole dell'uomo. Un sorriso mesto, ma che per lo meno torna a fiorire su quelle labbra piene. Belle. “In realtà avevo una paura fottuta di essere messo davanti ad una scelta. Se mi si chiedesse di rinunciare a te o a Lore, non potrei farlo. Impazzirei, piuttosto.” Si stringe un po' nelle spalle, osservando Giò dal basso, giusto in tempo per cogliere l'ombra di un ghigno. Ironico. Irrisorio.

“Che discorsi sono? Hai davvero una fantasia smodata, ragazzino. Non potrà mai essere così. Il rapporto che hai con Lorenzo e che hai con me è completamente differente. Lui è tuo fratello. Io sono quello che ti dà ripetizioni. Io te lo do. Lui no.” Cala un breve silenzio. Freddo. Pesante. Lo stesso pensiero -immagine- sfiora entrambi, lasciandoli gelati sul posto. E poi si scioglie in una nuvola leggera. Uno sbuffo di fumo.

“Maniaco e pedofilo.” Ride. Finalmente la sua risata gioiosa. Spensierata.

“Io? Chi era quello che ieri voleva a tutti i costi fare ripasso di anatomia?”

“Non mi pare ti sia dispiaciuto così tanto, poi, aiutarmi. Anche se... Giò, è stato tutto in...” Non gli lascia finire la frase, Giovanni. Non vuole che ci pensi. Alla bocciatura. All'essere stati scoperti. Basta. Non vuole sentirsi dire che è stato tutto inutile, perché altrimenti sembra che accusi anche lui di non essere servito a niente. E quel pensiero un po' gli dà fastidio.

“Ne parliamo dopo. Ora va tutto bene. Ne parliamo dopo.” Mormora con tono quieto, ma già il corpo freme mentre le mani carezzano le cosce del ragazzo. Corpo che trema e che in quel momento desidera solamente abbracciare.

“Posso dormire qui, stanotte?”

Filippo è una falena. Gira attorno alla luce, ci si avvicina. Resta scottato, ma è forte. Continua ancora a vivere.

“Sì.”

Giovanni è una falena. Gira attorno alla luce, ma poi vede quello che succede a Phill e scappa via. Scappa a sorreggerlo.

****

Una bestia in gabbia. Lorenzo sembra veramente tale, nel suo agitarsi nervoso per la stanza. Nel suo fissare con astio la porta della propria camera. Filippo è tornato dopo due notti passate fuori, da Giovanni. Aveva chiamato a casa per avvertire che non sarebbe rientrato per un po' di tempo e che un suo amico lo stava ospitando per studiare assieme. Peccato che la menzogna fosse caduta il giorno dopo, quando il preside aveva chiamato a casa loro per dire che Phill aveva preso a pugni un compagno di scuola, senza motivo apparente e che se un episodio simile fosse capitato una seconda volta, avrebbe avuto delle serie ripercussioni nell'anno successivo, visto che il ragazzo era stato bocciato ancor prima di accedere agli esami. Alla notizia i suoi genitori erano rimasti basiti, tanto da afferrare nuovamente il telefono e chiamare il figlio, costringendolo a rincasare seduta stante.

Sbuffa Lorenzo, buttandosi di peso sul proprio letto ed afferrando la tesina. La sa a memoria, ma ha bisogno di concentrarsi su altro. Di liberare un po' la testa. Possibile che sia servita la notizia della bocciatura di suo fratello, per far smuovere un po' i suoi? Quando lui era rincasato tre giorni prima, infuriato come una belva, ed aveva comunicato loro quanto visto, sua madre si era limita a sollevare le spalle ed a sorridere con accondiscendenza. Gli aveva detto che probabilmente era per via della pubertà: nel giro di qualche mese gli sarebbe passata. Ma qualche mese è passato da un bel po' diamine! La pubertà, inoltre, l'hanno superata ufficialmente al compimento dei diciotto anni. Lui, poi, è più che convinto che quella storia vada avanti da quasi un anno. Suo padre gli aveva dato già più appoggio. Da sempre conto i gay, l'aveva guardato inorridito dalla notizia. Aveva chiuso con quella calma che gli era tipica il giornale, per poi sbatterlo con forza contro il tavolo della cucina, provocando uno schiocco che l'aveva fatto sussultare visibilmente. Aveva quindi iniziato a dire che non l'avrebbe mai accettato. Che non era possibile. E che lui non aveva sbagliato niente nell'educare il proprio figlio. Letizia, sua madre, era però intervenuta, cercando di placare le ire di Franco. L'aveva addolcito con un caffé caldo, pregando Lorenzo di andare nella propria stanza. Doveva parlare con il marito con calma. Li aveva sentiti discutere animatamente per un po', poi le acque sembravano essersi calmate, segno che la discussione era giunta al termine.

Aggrotta le sopracciglia, leggendo mentalmente un passo della “critica della ragion pura” di Kant. Chi gliel'aveva fatto fare di mettere Kant in tesina? Arianna aveva ragione: gli piaceva strafare, però almeno lui ne aveva le capacità. Arianna... anche lei l'aveva tradito. Anziché dar ragione a lui, aveva difeso il suo gemello a spada tratta.

“Che rabbia. Sono tutti ciechi? Anche papà che è sempre stato contro i gay... com'è possibile?” Borbotta lanciando il plico di fogli il più lontano possibile da sé, in un impeto di stizza e quella trentina di pagine già rilegate emette due tonfi sordi, il primo più ovattato dell'altro. Alza la testa quel tanto che basta per inquadrare la direzione del rumore, inglobando così Filippo che se ne sta sulla soglia della porta. Il capo chino e lo sguardo colpevole. Trema per un istante, Lorenzo. Trema di rabbia. Trema di tristezza. Trema per trattenersi dall'alzarsi e combattere tra il desiderio di nuovo crescente di prendere a sberle suo fratello, e quello di abbracciarlo, sollevato perché nonostante tutto è tornato. Lo guarda in silenzio. Ha gli occhi bassi e lo sguardo di chi non piangerà mai, nonostante questi siano palesemente lucidi di lacrime.

“Mi hai fatto male, Lò.” Pronuncia con la voce roca di chi ha urlato tutta la notte. Non urla di piacere, però. No. Urla di dolore. Il cuore che grida muto perché nessuno lo senta. Resta sulla soglia della camera e lui lo guarda dal letto, scostando con fastidio un lembo del lenzuolo in disordine. Odia il disordine. “Mi hai fatto male”, gli dice, ma non ha idea di quanto ne ha fatto a lui. Lorenzo lo guarda distaccato. Si siede meglio sul letto, ma sembra ancora una bestia. Una di quelle che difende il suo territorio. Non gli lascerà ulteriore spazio per entrare nella sua stanza, e Filippo sembra sentirlo, perché resta lì. Si stringe nelle spalle ed abbassa lo sguardo, come un bambino che è appena stato messo in punizione.

“Anche tu me ne hai fatto. Non mi hai detto che... che ti piacciono gli uomini. Non me l'hai mai detto. E poi c'è stata la Madda. Pensavo che ti piacesse almeno un po'. Era tutta una farsa?” La voce che gli esce suona dura anche a lui. Aspra ed amara. Guarda il suo gemello abbassare il capo, per poi sollevarlo di nuovo con una forza che in realtà non ha. In quel momento sembra sopportare tutto il peso del mondo sulle sue spalle. Un minuscolo Atlante che presto si spezzerà in due, crollando. Phill abbassa le spalle, sostenendo imperterrito lo sguardo del fratello. Un orgoglioso titano davanti, non più quello che sta per finire a pezzi.

“Avevo paura di questo. Di te. Di noi. Lore, siamo fratelli. Gemelli. Diamine, mi hai sempre messo davanti a tutto. Tutto! Ed io volevo essere il tuo punto fermo. Voglio essere il tuo punto fermo. Voglio che tu sia fiero di me, come io lo sono sempre stato di te. A Madda volevo bene. Davvero, ma non nel modo in cui posso amare un uomo. Non è colpa mia se preferisco prenderlo in culo, piuttosto che infilarlo da qualche altra parte. Le donne però non mi piacciono. E tu ne stai facendo un affare di stato. E' perché non ti piace Giovanni? Se fosse stato un altro ragazzo avresti sclerato uguale? O avresti accettato? Cazzo di domande faccio. Mi avresti fanculizzato comunque, no? Odi i gay e non ho mai capito perché. Perché sono due uomini che si fottono tra di loro? Sai cos'è? E' che non importa il sesso, ma il sentimento che c'è dietro. Prova a portarti a letto una donna senza amarla ed una donna che ami, e poi dimmi se è uguale. Credi che mi farei scopare da qualcuno che non amo solo perché vado dietro agli uccelli? O che mi sbatterei qualcuna solo per dare soddisfazione a chi, come te, odia quelli come me? Mi dispiace, ma non hai davvero capito un cazzo, se è così.” Trema, Phill. Implode e poi esplode come una nana bianca. Esplode e butta fuori tutto quello che ha dentro. Tutto. Lo rigurgita assieme all'anima, come un ubriaco. Un ubriaco di emozioni. Ha gli occhi sgranati ed il respiro che per un istante si blocca in gola, per poi uscire con uno sbuffo improvviso. Un tuffo al cuore per Lorenzo che ha ascoltato in silenzio ogni parola. Ogni lacrima pronunciata e non versata. Labbra schiuse, ma occhi seri. Occhi di chi non capisce. Di chi non trova una spiegazione ed altalena lentamente, ondeggiando su un filo che sta per spezzarsi. Digrigna i denti, Lore, alzandosi in piedi di scatto. Le braccia lunghe distese verso il gemello e la sua rabbia. Mani che si poggiano sulle spalle e lui spinge. Lo spinge indietro, giusto un poco. Lo butta giù, nel baratro. Crolla. Cade. Si infrange ogni legame e quel filo si spezza. Ma lui resta lì. In piedi sull'orlo di quel precipizio che è riuscito ad attraversare a guardarlo che si frantuma. Lorenzo resta lì a guardare quegli occhi tanto noti che divengono estranei. Quelle labbra sempre tese in un sorriso scanzonato, che si dischiudono in una smorfia a metà tra una disperata richiesta di aiuto e l'accusa di un tradimento. Fa male. Fa così male che per un istante la sua mente va nel panico.

“Fuori di qui. Vattene!” Sbatte la porta Lore e lascia il mondo al di là di quella barriera di legno scuro. Sbatte la porta e lascia al di là di questa qualcosa di troppo spaventoso, per lui. Ammissioni che fanno troppo male. Sbatte la porta e ci si posa contro con la schiena, recuperando la tesina. Ritorna a leggerla con foga.

Non vuole più pensare.

***

Arianna scende dall'autobus con lo sguardo basso. Gli occhi che seguono la lunga lingua di asfalto che forma il marciapiedi fino ad uno scalino. Solleva la cesta nella quale si trova Peppa che miagola stancamente: spossata per il viaggio in quel mezzo di trasporto terribile. La gatta riapre quei due smeraldi opachi e lucidi, mostrando l'incrocio delle doppie palpebre e sbadigliando, svelando quella schiera di dentini aguzzi e candidi. Non si alza in piedi, lei. No. Il pancione è ben accomodato sul cuscino che la divide dal fondo del trasportino.

“Arianna.” Una voce la chiama e lei solleva il visetto incorniciato da quei ricci pieni. Gonfi che ballano alla poca aria bollente di quel giorno di metà giugno. Giovanni procede dall'altra parte della strada, attraversandola velocemente, quando le macchine sembrano scomparire per un istante. Quasi una magia avesse sgombrato il passaggio al ragazzo.

“Giò. Dopo ti avrei chiamato. Domani non vengo da te. Ti lascio stare almeno la domenica.” Considera, mostrandogli uno di quei sorrisi vivaci e luminosi che le fanno animare tutto il visetto rotondo. Lui annuisce silenzioso, cercando qualcosa in quei lineamenti ancora da bambina che si ritrova la ragazza. Ma non sembra identificarlo ed allora sospende la ricerca, fissando quell'unico scalino bianco che macchia il marciapiedi grigio e nero.

“Stai andando da Miche?” Le chiede e lei per contro lo osserva perplessa per qualche istante. Le labbra arricciate in una smorfietta di disappunto, assieme a quelle sopracciglia sottili che si incurvano di poco verso il basso. “Michele.” Sembra capire il suo disagio, Giovanni, quando specifica quel nome. Ed Aria annuisce con enfasi.

“Scusami, con gli esami alle porte, sto fuori dal mondo. Cioè, Lunedì prima prova, e tra una settimana ho l'orale. No. Non credo di potercela fare. Posso stare a casa tua? Mi fai ripassare fino allo sfinimento. Poi vediamo se non riesco a tirar fuori qualcosa di buono. Se faccio scena muta come facevano le mie compagne in certe interrogazioni, giuro che mi sotterro da qualche parte.” Ride nervosa, infilandosi all'interno di quella porta a vetro bendata da una tenda. Fruscia la tenda, quando lei la spinge. Un rumore leggero, simile a quello di una carezza di stoffa. Giovanni accenna un sorriso ed indugia per qualche istante fuori dall'uscio, fissando l'insegna del veterinario.

Phill quell'esame non lo darà.

Phill che con la sua mente fantasiosa e la sua follia estrosa avrebbe sicuramente preso il massimo al tema.

Phill che l'ha costretto a correre dal tabaccaio dall'altra parte della strada a farsi una ricarica per chiamarlo. Soldi spesi inutilmente, visto che il cellulare gli si è spento all'improvviso e non ha più dato segni di vita.

Abbassa lo sguardo solo per seguirla dentro.

“Tu che fai scena muta è utopico.” Cerca di scherzare, l'uomo, ma la voce gli esce bassa. Distante. “Poi non credo che Lorenzo ne sarebbe particolarmente contento.” Arianna sospira a quel commento e si accomoda su una poltroncina, carezzando la gatta che porta con sé attraverso i buchetti della portantina.

“I loro genitori hanno messo Phill agli arresti domiciliari, lo sapevi? Non ho capito se è perché hanno scoperto... ecco...” Arianna fa un gesto eloquente con la mano, indicando il ragazzo. C'è gente e non sa quanto Giò abbia voglia di svelarsi. “O se per la bocciatura. Forse per entrambi. Ma Phill è sempre stato libero. Non so per quanto riusciranno a tenerlo buono.” Cerca consiglio con lo sguardo. Uno sguardo smarrito per un istante. Uno sguardo smarrito che ne trova uno troppo stanco. Giovanni sembra stanco. Forse si sente in colpa. Forse è colpevole di un reato che è un affetto sbagliato per gli altri. Ma cosa c'è di sbagliato nell'amare qualcuno, anche se non con la medesima intensità con cui si viene amati? E forse era quella la sua vera colpa. Non amare quella persona in eguale maniera. Ingiusto.

Lui guarda Arianna da lontano, distante. Quella distanza che in pochi hanno saputo colmare e che lui mette tra sé ed il mondo. Quella serietà che, Arianna lo sa, scompare solo con Filippo e solo in poche e rare occasioni.

“Me l'hanno detto ieri Steph. Non sapevo fosse tanto 'intimo' con Phill e Lore.”

“Ah, sì, andavamo a catechismo assieme. Siamo amici da allora.” Ha il visetto rotondo che mostra sorpresa, la ragazza. L'universitario, alla delucidazione, semplicemente sospira ed annuisce.

“Credo ce l'abbiano di più per la maturità e per il fatto che sia stato via di casa per giorni senza avvertire nessuno, che per il resto. Sua madre sembrava aver capito qualcosa. Suo padre odia quelli come me. Probabilmente lo shock c'è stato, ma non così forte. Immagino che quello che c'è stato peggio, infondo sia stato Lorenzo.” Spiega e dà due colpi alla porta che conduce al antiambulatorio. Due donne che stanno prima di lui ed Aria, lo guardano male, ma lui le ignora ritto come un albero secolare. Fiero e rigoglioso, anche se si coglie lo sforzo che fa per resistere alla tempesta.

“Phill non gliel'ha detto sotto mio consiglio.” Rivela, abbassando il capolino ricciuto. “Giò, perché sei qui comunque?” Cambia discorso. Scappa da qualcosa che le fa male, perché infondo a Filippo e Lorenzo lei è sempre stata legata ed ancora non demorde. Giovanni, poi è privo di animali con sé. Di sicuro non è una visita. La porta si apre e sulla soglia compare un ragazzo all'apparenza giovane. Anche troppo per essere un veterinario.

“Tirocinio.” Spiega semplicemente Giò, andando a guardare l'uomo davanti a lui. “Mik, mi fai entrare o mi serve una delega scritta?” Domanda con un'ironia stanca e dall'interno dello studio si coglie una risata. Il ragazzo all'ingresso gli sorride quieto, facendolo passare e lui non fa una piega, limitandosi a congedarsi da Arianna con un lento gesto di mano. La sensazione che sia in qualche modo provato anche lui, si acuisce all'improvviso, ma poi scompare. Lei gli sorride gentile, abbassando poi il visetto sulla gatta che l'osserva pigra. Tronfia per la sua futura cucciolata.

“Se solo lui non ci fosse...” Mormora la ragazza: c'è una sfumatura di rancore silenzioso, che si arrampica nella sua voce. Un ragno invisibile che tesse una tela stretta, quasi indistruttibile dentro l'animo. Una trappola ben nascosta. E Peppa l'osserva dal basso, inclinando il capo verso un lato, perplessa, perché la sua padroncina, così, non l'ha mai vista prima.

E' lo stesso ragazzo che ha accolto Giovanni a farla entrare nel piccolo ambulatorio per animali poco dopo. Il tirocinante non c'è, probabilmente intento a fare altro. E forse è meglio così.

 

***

 

Il suo telefono suona incessante. Lo fa da un po'. Lo fa da quando è uscito di casa senza dire niente a nessuno. L'ha fatto per ripicca. Per far capire che lui non è e non sarà mai il figlio perfetto. Ben diverso dal suo gemello. Ben diverso da tutti gli altri ragazzi, eppure identico a tutti loro. Non voleva deludere i suoi genitori, per questo non ha mai confidato loro la sua omosessualità. Non voleva deluderli, e per questo ha scelto una scuola “impegnativa”. Perché lui non è Lorenzo con la faccia pulita e la parvenza da cherubino. Lui non è il suo gemello, che parla in modo forbito e nonostante la freddezza, riesce a farsi benvolere da tutti. Fissa la stellata e stringe le dita attorno alla bottiglia di birra. Stefano gli ha dato appuntamento in campo Santa Margherita. Al solito posto, perché l'avrebbe portato a divertirsi. A dimenticare le stronzate che in quel momento gli stanno affollando la testa.

Steph lo capisce. Lo conosce sin da quando sono piccoli, infondo. Si sistema meglio gli occhiali “da nerd” sul naso e si guarda attorno con poca voglia. Gli universitari si sono riversati in campo e con loro anche ragazzi del liceo. Un insieme policromo di giovani di ogni età e genere. Laureandi vestiti in modo strano e ricoperti di acqua, uova e farina. Qualche scemo che fa volare bottiglie. Altri seduti a terra, perché i bar, a quell'ora sono ricolmi. C'è casino. C'è vita. Ma forse è ancora troppo poco per lui. Ha bisogno d'altro. Qualche emozione nuova, forse. Ed ecco che le sue richieste vengono esaudite. Un braccio magro e nervoso gli avvolge le spalle. Una presenza più alta di lui, al suo fianco.

“Ti avevo promesso svago, vieni. Gli altri ci aspettano davanti a Calatrava.” Phill solleva lo sguardo, soffermandolo su due labbra rese invitanti da un anellino su un lato. Gli sono sempre piaciute le labbra di Stefano. Sono grandi e quando sorride – raramente, in realtà – si allargano in modo piacevole, ripiegandosi però, discrete, verso il basso. Lo saluta dandogli un bacio sulla guancia. Un gesto abituale. Semplice.

“Terraferma?” Gli domanda, scostandosi dal pozzo che si trova nel mezzo del campo, ed avviandosi verso una calletta laterale, assieme all'altro. Stefano annuisce, infilandosi le mani in tasca. S'è rasato i capelli, constata Filippo, scorrendo con gli occhi quelle tre striscioline più rade sul lato destro del capo dell'amico. Un peccato, però. Si ricorda il bambino con i riccioli d'ebano con il quale giocava a calcio nei giardini di Sant'Elena e rimpiange un po' quei turaccioli divertenti da tirare, perché poi ritrovavano la loro posizione abituale. E' cambiato, Steph, da allora. Vestiti larghi, piercing, tatuaggi e droga. E' cambiato, quel suo primo amore infantile mai svelato. Sospira e fa spallucce.

“Così hai litigato con Lore.” Non una domanda. Sa che non c'è niente che lo può ferire di più del litigare con il gemello. Phill lo fissa in obliquo e poi annuisce, buttando giù in sorso di birra.

“E quando mai non lo faccio?” Fa spallucce, accennando un sorriso superficiale. Labile.

“Appunto. Ma questa volta è qualcosa di serio.” E per lui è un libro aperto. Non sa se amarlo od odiarlo, per questo. Non lo guarda più. Scappa da quegli occhi di cielo e da quel naso un po' aquilino.

“Mi piace il nuovo tatuaggio che ti sei fatto.” Stefano abbassa lo sguardo su di lui, passandosi una mano sopra il disegno – una chiave di violino che si arrampica lungo il suo collo – e si ferma sulla sommità del ponte che stanno attraversando. Sembra indeciso se parlare o meno, e quindi sospira.

“Rappresenta una persona.” Sbrigativo. Sembra che qualunque buon intento nel rivelargli di più sia sfumato. Steph è riservato. Un po' strano. Un compagnone cui non piace rivelare nulla di sé, e che al contempo, riesce ad essere simpatico a molti senza fare niente. Così, a pelle. Uno di quelli che non conosce il proprio posto ed ha colpi di matto dal nulla, ma alla fine Phill lo conosce da tanto. Ormai ci è abituato. Si somigliano davvero, l'ha sempre pensato. La strada la percorrono senza fretta, ma è veloce a finire. In fondo a Venezia le distanze non contano, conta solo lo sciabordio dell'acqua contro le pareti delle fondamenta che si tuffano nel nero e quello di una voce amica, che non ti fa pesare quei passi lenti e misurati. Non conta nemmeno quanto è veloce a finire quella Heiniken che ora tiene Stefano. Pensano ad altro. Le narici si riempiono dell'odore dei gas di scarico di macchine e pullman ormai prossimi. Prossimi come le figure degli scheletri addormentati dei tabaccai ormai chiusi, lungo la strada.

“Steph! Phill!” C'è un gruppetto sparuto di ragazzi poco distanti da loro, davanti ad una macchina pizzata spavaldamente lì dove parcheggiano i bus. Un ragazzo sventola un braccio per richimare la loro attenzione, assieme alla voce. Una cresta castana ed un piercin al sopracciglio che riflette un poco la luce fioca del lampione sopra di lui. Ha un sorriso da cafone in faccia e l'atteggiamento arrogante di chi si diverte ad andare contro alle regole. Filippo lo fissa, non lo conosce, ma evidentemente l'altro conosce lui. Stefano accelera l'andatura e raggiunge l'auto, incrociando le braccia sopra il tettuccio, mentre lui sta qualche passo indietro, tanto da notare una seconda persona in uno dei sedili posteriori.

“Ohi, testa di cazzo, ci fai tu da autista?” E' canzonatorio Stefano. Un'arroganza che emerge quando non parla con Phill. Perché Phill è bello così e non vuole fargli del male e questo, il moro lo sa. Una volta gli ha chiesto perché con lui cambia atteggiamento. L'amico, allora, scherzando gli aveva detto “perché relazionarsi con un frocetto come te è come relazionarsi con una ragazza: vai trattato con cura.” e nonostante tutto lui aveva riso e si era rassegnato al suo destino di essere trattato come una donna.

“Sono l'unico che ha la patente qua, lo sai. Mi sacrificherò per la causa.” Un sospiro teatrale ed un cenno verso Phill che ricambia con un gesto della mano.

“La mummia lì dentro chi è, Enrico?” Steph si china in avanti a picchiettare sul finestrino, scettico. L'altro fa spallucce.

“Un amico del fratello di Jack, a quel che ho capito. C'è anche la loro compagnia, in disco e ci siamo mossi con una macchina in meno, piazzandolo qua.”

“Ah, un cazzone universitario?”

“No, un fottuto cazzone che ha un lavoro.”

“Wow, dovemo fargli i complimenti, allora? Dici che si è scopato qualcuno per ottenerlo?” Una risata sguaiata da parte di Enrico che torna a fissare Filippo.

“Non lo so. Il ragazzino lì monta o lo lasciamo qui?” Anche Stefano si volta a guardarlo, accigliandosi.

“Che hai? Sei strano, Phill.” Di solito gli piace stare in compagnia. Di solito, appunto. Ma forse quella non è la sera giusta. E allora, ancora di più, gli afferra il braccio, Steph, e se lo tira contro, avvolgendogli le spalle. E Phill lo lascia fare, perché è una bambola senza vita, in quel momento. Il finetrino posteriore s'è abbassato e la testa del passeggero è emersa come un incubo dal nero. Occhi come lame e labbra storte in una smorfia irritata.

“Avete finito con il gossip? Alzate il culo, signorine. C'è Alvise che rompe le palle perché non siamo ancora lì.” Scuote il cellulare. Guarda Stefano solo di sfuggita e poi Filippo ed il ragazzo sente un brivido freddo e la sensazione soffocante di essere in trappola. La stessa di quel pomeriggio, un paio di giorni prima, quando lui e Giovanni stavano al Tapppa. E pensare che lui quel tipo, nemmeno lo conosce. Per questo non si spiega quella sensazione – paura? - irrazionale che per un istante gli mangia lo stomaco.

“Io...” Una protesta che sfuma, quella di Phill. Steph gli apre la porta e lo infila in macchina quasi a forza.

“Ne parliamo dopo in bagno, intanto andiamo.” E Filippo si trova rinchiuso in un incubo. L'acqua alla gola e due occhi chiari piantati sulla nuca. Stefano parla con il tizio alle sue spalle, ma lui non ne sente nemmeno la voce. Non l'ascolta perché lo raggiunge ovattata. Sprofonda lentamente e soffoca.

“Ah, io sono Riccardo.” Un sorriso ambiguo e gli occhi di Phill sfiorano i suoi dallo specchietto retrovisore.

Sì, quell'uomo gli fa paura.

Perché?






Uhm... sì, è passato un po' di tempo dall'ultimo aggiornamento. Chiedo scusa.
Mi sono fatta la patente e tra questa e l'università, non ho avuto modo di scrivere. Inoltre, questo è stato un capitolo difficile. Pesante per tanti motivi. Ho presentato un nuovo personaggio e ne è tornato un altro, anche se di sfuggita, per il momento. Ce ne sono altri che devono sbucare fuori, ancora. E, beh, visto che un mio amico mi ha dato qualche idea, assicuro che non sarà una storiella all'acqua di rose ^^"
Non so quando sarà il prossimo aggiornamento. Non mi piace nemmeno troppo il finale di questo capitolo. Lo vedo molto sbrigativo, ma un motivo c'è, quindi non poteva essere altrimenti *cerca di autoconvincersene*.
Alla prossima.

Herit.

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