Silver tears

di Oscar_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Introduction ***
Capitolo 2: *** Darkness changes everything ***



Capitolo 1
*** Introduction ***


Silver tears

 
 
 
 
 
 
 
0. Introduction
 
 
 
 
 
 
 
 
L’odore amaro e penetrante del fumo si avvertiva sin da remoti luoghi lontani da esso; nessuno vi prestava attenzione perché in quella zona era cosa comune che si fumasse spesso e quasi con dipendenza. Ma vi era una particolarità in chi reggeva tra le dita congelate e immobili la sigaretta; i suoi occhi brillavano celati dal colletto di un giaccone scuro e di un cappello calato sin oltre la fronte. Un sorriso increspava le sue sottili labbra, intento a osservare da una calcolata distanza un conflitto coniugale in un appartamento al piano terra d’uno dei tanti comuni palazzi della grande capitale d’Italia.
- Hai osato tradirmi ancora! Quando la smetterai? Ecco! Forse non smetterai! Già, credo che stavolta sia la buona volta che chiedo la separazione! – Urlò una voce femminile da dentro la dimora.
- No, no amore, ti prego! Sono mortificato per l’accaduto, ti giuro, ti giuro che ero ubriaco! Non accadrà più, per favore... – Si scusò una voce maschile, il coniuge probabilmente della donna che aveva parlato in precedenza. Un rumore di vetri infranti indicò che la figura femminile del litigio aveva scagliato qualcosa alla finestra da cui lo sconosciuto con la sigaretta osservava, frantumandola e rivelando il suo profilo nascosto dalla penombra notturna. Nessuno dei due litiganti però parve farci caso, infatti ripresero l’animato litigio.
D’improvviso però, dai meandri dell’appartamento scaturì una piccola figura, in silenzio, che si appostò alla porta socchiusa osservando i coniugi litigare: un bambino dai grandi occhi neri e i capelli del medesimo colore, con la pelle così bianca da risaltare terribilmente con l’intonaco che avrebbe dovuto essere di quel colore ma che quasi pareva giallo a confronto. Fissava i genitori con sguardo timoroso, quasi indeciso se intervenire o meno nella lite. Probabilmente non era la prima volta che i due discutevano così animatamente. L’uomo fuori dalla dimora, nel frattempo, continuava silenziosamente, come il bambino, a sorvegliare la discussione, fumando lentamente la sigaretta ed assaporandone l’inteso aroma.
- Ora basta! Me ne vado! – Esclamò ad un tratto la donna, prendendo giacca e borsa e dirigendosi alla porta; nell’incrociare il bambino sussultò, immobilizzandosi all’istante. E così fece pure l’uomo, osservando sconcertato il figlio.
- P-piccolo... Che ci fai qui in piedi a quest’ora? È tardi, su, torna al letto... – Tentò di tranquillizzarlo la madre, sorridendo nervosamente.
- Dove vai, mamma? – Domandò con voce estremamente flebile il ragazzino, puntando i grandi occhi neri in quelli della figura materna.
- Oh! Mamma sta uscendo per qualche ora, poi torna, va bene? – Rispose la donna, carezzando con movimenti delicati la piccola testa del figlio, con fare affettuoso. Il piccolo annuì poco convinto, facendo per tornare nella propria camera.
Proprio allora dalla finestra provennero dei proiettili mirati, che distrussero ogni fonte di luce nel salone dell’appartamento. Dalla finestra fece la sua apparizione lo sconosciuto, che dopo aver comodamente spento il mozzicone della sigaretta, si apprestò ad avvicinarsi ai tre, ora riuniti in un angolo della dimora.
- Vi pare questa la maniera di continuare? Con un bambino d’appena quattro anni da accudire? – Domandò una voce suadente e profonda, con una punta d’ironia nel tono serio e controllato. Il sorriso non smetteva di possedere le sue labbra, profumanti ancora di tabacco. – Questo bambino necessiterebbe d’affetto e cure. E voi? Voi vi vivete la vostra vita in tranquillità, mentendo a voi stessi su come le cose continuino il loro corso. Lei, signor Silvestri, non fa altro che tradire sua moglie mentendole sulla sua meta ogni notte, dopo il lavoro. Sempre che vi vada al lavoro! Solitamente spende il proprio tempo ed il proprio denaro, che non è nemmeno così tanto, giocando nel casinò qui all’angolo.  E lei, signora D’Orlandi! Lei che mente a sé stessa e alla sua famiglia, senza rivelargli che tutte le notti che può si dirige nei pub più malfamati di questa città per scolarsi intere bottiglie di liquori e vini d’ogni genere. Così facendo, vostro figlio è costantemente solo a casa. A quattro anni, signori, un bambino non può stare da solo in casa. E non può tornare da solo da scuola a casa. Come vi permettete di credere di poter andare avanti a questa maniera? Non nego che voi gli siate affezionati, essendo comunque i loro genitori. Ma sarò costretto a sequestrarvelo. Per le suddette ragioni. In seguito, forse chissà, nemmeno fra troppo tempo, vi sarà restituito. – Il discorso rapido e diretto dello sconosciuto liberò lo sgomento generale nella famiglia. Il signor Silvestri, senza indugiare oltre, si diresse dinnanzi al caminetto, tirandone giù il fucile da caccia, sempre carico per evenienze come quella.
- Chi diavolo è lei? Come si permette d’entrare in casa mia a quest’ora e senza nemmeno bussare?! – Gridò adirato, puntando l’arma contro l’uomo, che non si smosse d’un passo.
- Questo non è un discorso che desidero approfondire. Se vorrà opporre resistenza sarò lieto di reprimerla. Ed ora mi consegni suo figlio, per favore. –
- Lei è pazzo! Non le lascerò portar via mio figlio, sporco figlio di puttana! – E sparò tre colpi di seguito. La donna si gettò sul figlio, celando i suoi bei occhi ad uno spettacolo tanto cruento.
Gli spari attraversarono il corpo dello sconosciuto, facendolo sussultare e poi stramazzare al suolo. Il signor Silvestri scoppiò in una sonora risata.
- Ma chi si credeva di essere, eh? Il nuovo paladino della giustizia? – E sputò sopra il corpo dell’uomo. – Non è altro che un verme. – E ripose il fucile sopra il camino, senza accorgersi che lo sconosciuto cui aveva appena sputato, si stava lentamente rialzando; nemmeno la donna vi prestò attenzione, troppo impegnata a scostarsi dal figlio, che invece notò i movimenti lenti dell’uomo, intento ad alzarsi. Egli posò un dito sulle labbra nascoste dal giaccone, in segno di silenzio; il costante sorriso continuava ad accompagnarlo. Il piccolo fece come richiesto, annuendo in cenno d’assenso.
Lo sconosciuto, una volta in piedi, assestò un colpo alla nuca del signor Silvestri e lo stesso alla signora D’Orlando, facendoli cadere a terra come bambole in pochi secondi. In seguito si avvicinò al bambino, chinandosi dinnanzi a lui, il cappotto ancora fumante, reduce dei proiettili ricevuti.
- Sei pronto ad andare, William? – Sussurrò lo sconosciuto, porgendogli una mano guantata.
- Mi chiamo Guglielmo... – Ribadì il piccolo, tentando di scorgere il viso dell’uomo nascosto dalla penombra notturna che tutto avvolgeva tranne il proprio viso, protetto dal chiarore lunare.
- Il tuo vero nome è William. Ti piace? – Domandò divertito l’uomo, mantenendo la mano tesa, in attesa della stretta del bambino.
- Che ha fatto a mamma e papà? – Rispose il piccolo, voltando lo sguardo verso i due corpi svenuti dei genitori. Lo sconosciuto si decise a ritrarre la mano, sospirando appena e creando una voluta biancastra di fumo per via del freddo penetrato dalla finestra nell’abitazione.
- Così poco che entro qualche minuto si sveglieranno. Dunque, sei pronto, William? – Ripeté, divertito.
- Non so per cosa, signore. – Confessò il piccolo, stringendosi nelle esili spalle. L’uomo scoppiò a ridere e prese il bambino in braccio, avvolgendogli attorno un’enorme sciarpa tirata fuori dal proprio cappotto.
- Vedrai... Sono sicuro che ti piacerà divenire il mio successore. – Sussurrò misteriosamente, facendo un occhiolino che il piccolo non notò per via del suo viso coperto e in costante penombra; si domandò come mai tutte quelle precauzioni, intrigato dagli sconosciuti tratti fisionomici dell’uomo. Egli si diresse alla finestra infranta e ne saltò fuori, rivelando per un istante alla luce del lampione la parte inferiore del viso, di un pallore innaturale, con le sottili labbra incurvate in un ghigno.
Il bambino si tenne stretto al colletto della giacca di quello sconosciuto salvatore, sì, salvatore; mesi erano oramai che sopportava in silenzio conflitti ed avversità in famiglia, patendone sempre e solo lui le estreme conseguenze. Aveva ben prestato attenzione alle parole dell’uomo, e vi aveva finalmente scoperto la cruda verità. Ma lo aveva sempre saputo.
Si domandò che altro potesse accadere in quella notte così oscura eppure ai suoi occhi, infantili e in quel momento gioiosi, così brillante. Il suo futuro, celato come il volto di quell’uomo dalla lingua affilata e il corpo indistruttibile, ancora non si delineava oltre i confini notturni; perciò nulla, il piccolo William, poteva aspettarsi. Nulla che conoscesse.
 
 ***
 
Oh, premetto che questa storia non era prevista. Ho aperto Word tanto per ed ho iniziato a scrivere. Ed è uscito ‘sto personaggio misterioso ed intrigante, del quale nemmeno io ho ancora perfettamente concordato il ruolo e la funzione, ma che certamente diverrà il mio miglior compagno in questi monotoni giorni di novembre se a voi lettori piacerà la storiella.
Mi auguro che lasciate numerose recensioni, anche per commenti negativi o di correzione e... A presto~

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Capitolo 2
*** Darkness changes everything ***


Silver tears

 
 
 
 






1. Darkness changes everything
 
 
 
 
 
 
 
 
 

I giorni erano scivolati lenti lungo il mese di settembre. Nulla si era smosso tranne le faccende politiche; e nemmeno più di tanto. Il mondo girava lento attorno ad un ciclo infinito e nulla pareva desiderare interromperlo.
Una settimana era trascorsa da quando William si trovava nell’alloggio del suo sconosciuto salvatore. Ed ancora non era riuscito a catalogarlo nelle tipologie di persona incrociate sino a quel momento nel suo breve cammino. Quant’era snervante; lui, un bambino intelligente e sveglio, che non riusciva a decidere se classificare quel giovane, sempre che fosse un giovane perché ancora in faccia non l’aveva mai visto, fra i buoni o i cattivi. Certo, l’aveva salvato dalle grinfie di quegli individui che avrebbe dovuto considerare genitori. Eppure non riusciva a fidarsi. In fondo nei film e nei cartoni animati i supereroi irrompevano sempre di giorno e vestivano colorati; eccetto Batman. E vivevano tutti in America.
Effettivamente nei nomi d’inizio e coda dei cartoni che vedeva nei piovosi pomeriggi d’inverno non vi trovava mai parole o riconoscimenti italiani. Tranne quelli alla voce ‘traduzione’, sempre che vi fosse inserita.
Rammentava una lontana mattina di chissà quando in cui sua madre gli aveva proposto di andare al cinema; le aveva chiesto cosa il cinema fosse. La sua risposta era stata ‘un salone con tanta gente dentro che guarda fisso un grandissimo schermo su cui si proiettano delle immagini bellissime. A lui era parsa una bella idea, così c’erano andati.
Mai l’avesse deciso! Quel film era stato il più tremendo della sua vita, non l’avrebbe rivisto mai, per nulla al mondo. Shelter* gli pare si chiamasse.
Un rumore lo destò dal ricordare quella buia serata, in quel momento rammentò, di gennaio, e gli fece voltare lo sguardo alla finestra. Il misterioso benefattore ne era appena entrato, anche in fretta. Non aveva idea del motivo, ma quando tornava di sera non entrava mai dalla porta. Era un tipo parecchio strano.
- Buona sera, mio caro William. Visto? Sono stato via solo mezz’ora, il tempo prestabilito. – Articolò fra gli ansimi provocati da una probabile corsa appena compiuta. Il bambino osservò un cronometro affianco a sé. 00:31:01:03, segnava.
- Mezz’ora significa trentuno minuti, un secondo e tre millesimi, signore? – Continuava a chiamarlo a quella maniera, benché egli gli avesse intimato più volte che lo faceva sentir vecchio, così. Il giovane, il viso costantemente mascherato dall’impermeabile e dal cappello, scoppiò a ridere. Quant’era innocente quell’angioletto di bambino!
- No, sono trenta minuti esatti. Ed io sono in ritardo. Desideri punirmi? – Domandò il ragazzo, inginocchiandosi ai piedi del divano dove il bambino sostava. Il piccolo assunse un’espressione perplessa e incuriosita.
- Che vuol dire ‘punire’, signore? – Chiese William, portandosi un ditino alle labbra socchiuse.
- Vuol dire fare del male o ordinare a un determinato individuo di fare qualcosa perché ha errato in un’azione o in un compito. Hai capito? – Rispose paziente il giovane, nascondendo il solito sorriso dietro le pieghe del giaccone. Il bambino annuì.
- Io però non voglio farle del male, signore... – Confessò il piccolo, sviando lo sguardo, appena imbarazzato.
- Come mai? – Domandò il ragazzo, improvvisamente ansioso.
- Perché lei mi ha salvato, non devo punirla. – Pronunciò la nuova parola con una lieve incertezza, incespicando, cosa che divertì non poco il giovane, che portò una mano sul capo del ragazzino, accarezzandolo fugacemente.
- Cosa vuoi per cena, William? – Disse l’uomo tornando in piedi, scuotendo il cappotto e i pantaloni da una polvere inesistente. Il piccolo parve pensarci su, prima di rispondere gioiosamente:
- Pizza! – Il giovane annuì, avviandosi nuovamente alla finestra da cui in precedenza era entrato e continuava a far via vai al calar delle tenebre. – Dove va? – Chiese William, scendendo dal divano per avvicinarsi al ragazzo, sul punto d’uscire.
- A comprare la pizza! Dieci minuti e ti porto la pizza migliore del mondo, quella con la mozzarella bollente tutta filante e il pomodoro più saporito della Terra! – Esclamò teatralmente, con un tono estremamente contento. – Sistema il cronometro, stavolta sarò puntuale. – Affermò con convinzione, annuendo per dar più credito all’esclamazione.
- Quando torna mi dice il suo nome, signore? – Sussurrò flebilmente William, portando una mano a stringere la giacca del ragazzo, che già aveva aperto la finestra senz’attendere la risposta del piccolo. Si voltò sorpreso, scrutando il visetto speranzoso del bambino appena ai suoi piedi. Sorrise anche se egli non poteva scorgerlo ed annuì, sparendo poi nei meandri della notte uscendo con uno scatto, richiudendosi la finestra alle spalle.
 
William non saprebbe dire con esattezza quanto tempo passò dall’uscita del benefattore; ormai era solito pensarlo con tale soprannome. Forse un’ora, forse due. Ma in fondo non aveva chiara la divisione del tempo, a malapena sapeva che un minuto era composto di sessanta secondi e cosa fossero i millesimi.
Comunque un rumore lo svegliò verso le dieci, facendolo sussultare. L’enorme salone era immerso nella penombra notturna tranne che per una striscia di muro, malamente rischiarata dal chiarore lunare penetrante dalla grande finestra da cui il benefattore usciva sempre. Il bambino tese l’orecchio, forse in attesa di altri rumori che confermassero la chiara funzionalità del suo infantile udito; ed infatti la ragione del suo risvegliò si fece nuovamente avvertire. Era uno scatto secco, che si ripeteva a intermittenza, come lo schiaccianoci che frantuma il guscio di quei piccoli frutti. William si alzò tentando di comprendere la provenienza di quel rumore così continuo e forte; si perdeva nei meandri della grande casa, echeggiando fra i lunghi corridoi e le vuote stanze che il bambino aveva appena scorto la prima volta che era stato condotto lì dal benefattore. Anche perché in seguito egli stesso gli aveva, anche se delicatamente, proibito di visitarle o curiosare in esse. E gli aveva rivelato di non averle chiuse a chiave, poiché di lui si fidava. Peccato che il piccolo stesse per tradire la sua fiducia.
Si avvicinò alla porta di legno del salone e rimase a percepire il rumore qualche secondo, riuscendo a intuire che più o meno doveva provenire dalla stanza affianco o quella davanti. Mettendosi in punta di piedi alzò un braccio e pigiò con una mano sulla maniglia, lasciandola inclinarsi verso il basso, rivelando una palpabile oscurità appena oltre la porta. William deglutì, terrorizzato all’idea di doversi addentrare in quel buio così invalicabile. Si prese però coraggio, deciso più che mai a dar prova della sua spavalderia, quella di cui così tante volte e così tanto al lungo s’era vantato con il suo papà, nei pomeriggi d’estate, con un mantello blu che in realtà era uno strofinaccio, legato sulle spalle, ad imitare Superman, ma che gli faceva avvertire ancora più caldo e più afa e gli faceva ricevere solamente rimproveri dal genitore per via della sua ‘stupidità nel continuare imperterrito con atteggiamenti infantili persino in momenti nel quale era così ovvia la cosa giusta da compiere’.
Mosse timoroso il primo passo nel buio, mentre i suoi occhietti scuri si abituavano lenti all’oscurità nella quale si addentrava sempre di più. L’unico rumore oltre allo scatto continuo, che ora aveva compreso, proveniva proprio dalla stanza affianco, distante un metro e qualcosa dal grande salone, era il proprio affannoso respiro. Si disse che se un mostro fosse stato in agguato l’avrebbe subito sgamato e fatto a pezzi coi lunghi artigli quindi si posò una mano a celare le labbra e tentò di fare il meno rumore possibile, continuando a muovere piccoli passetti uno vicino all’altro, avvicinandosi lento alla sua mèta.
Una volta dinnanzi la porta, quella del salone gli parve più distante che mai. Tentò di farsi forza, concentrando l’attenzione sul rumore che imperterrito perseverava nel turbare la quiete notturna, e sfiorò con le tremanti dita di una mano la gelida maniglia della porta; l’indecisione lo divorava. Aprire la porta ed affrontare qualunque cosa si trovasse dall’altro lato? O tornarsene in salone, nascondersi sotto un mucchio di coperte e stringere gli occhi sperando nell’arrivo immediato del benefattore?
 
Era da quaranta minuti bloccato da due poliziotti proprio dinnanzi a sé. Non poteva fare un passo più avanti che l’avrebbero notato e certamente bloccato. Chi osava a quell’ora occupare le viuzze più nascoste di Roma se non i mendicanti, gli ubriachi e le prostitute? E siccome lui non rientrava in nessuna di queste tre categorie, l’avrebbero certamente inserito nella quarta: individuo sospetto. Quindi trattenuto e interrogato a dovere, quasi fino allo sfinimento totale.
Non avendo intenzione di ricevere un trattamento del genere, e non potendo fare dietrofront, se ne stava lì, a congelare nell’oscurità di un vicolo che puzzava di piscio e alcool, maledicendosi per aver scelto quella strada; che peraltro non imboccava mai.
Una scaletta di ferro che saliva incerta lungo il muro affianco a sé pareva la via per il Cielo. Ma se vi fosse salito, data la probabile avanzata età dell’appiglio in questione, esso si sarebbe staccato facendolo precipitare al suolo, attirando certamente l’attenzione di quei maledetti poliziotti proprio davanti a lui.
Sbuffò contrito, rilasciando dalle sottili labbra, vittime del gelo e perciò screpolate, del bianco fumo simile a quello che solitamente fuoriusciva dopo che aveva esalato il prezioso tabacco da una sigaretta. Ah che avrebbe dato in quel momento per una sigaretta!
Si decise a ficcare la pizza per William in una tasca interna del giaccone, dove venendo a contatto col proprio petto gelido si raffreddò all’istante rendendo vana la promessa della pizza con la mozzarella bollente, e mordendosi il labbro inferiore per evitare di gemere nel caso si fosse ferito, afferrò il primo piolo della scala con una mano, saltando lungo il muro per potervisi aggrappare. Una volta compiuto il primo passo, il secondo avrebbe dovuto essere più semplice; e quando mai?
Nel posare il piede sul piolo dal quale aveva appena tolto la mano scivolò, sbattendo il mento sul piolo dove stava per adagiare la mano guantata. Strinse gli occhi evitando per un soffio di gemere e continuò la sua salita, pensando al piccolo William e a come l’avrebbe trovato deluso nel constatare che anche lui, al pari dei suoi genitori, lo lasciava da solo ore intere. La prossima volta, per quanto disgustosa sarebbe venuta fuori, l’avrebbe fatta lui, con le sue mani, la pizza.
 
Il buio che avvolgeva la stanza da cui il rumore proveniva era ancora più impenetrabile di quello in corridoio e nel salone. Là, almeno, lievi spiragli di chiarore lunare aiutavano a non inciampare. Invece in quella camera dal fine sconosciuto nulla si poteva distinguere, tranne la provenienza del rumore, che arrivava certamente da un punto alla sinistra di William. Non appena però il piccolo aprì la porta, il rumore cessò qualche istante, per poi riprendere più forte e più vicino di poco prima. Due barlumi scarlatti rischiararono la stanza. Due occhi. William si sentì immobilizzare dal terrore. Quella creatura infernale, qualsiasi cosa fosse, stava per farlo fuori senza esitazioni. Era sul punto d’inghiottirlo tra le sue fauci ricolme di fiumi di sangue e denti aguzzi, che chissà quanti altri poveri innocenti bambini avevano distrutto.
Istintivamente si portò le mani al viso, chiudendo gli occhi ed indietreggiando. Peccato, non aveva avuto il tempo di sapere il nome del benefattore. Succede. Ecco, avvertiva chiaramente gli artigli della creatura incombere sul suo collo e la sua cupa risata di scherno riecheggiare tutt’intorno; doveva essere una stanza parecchio grande, quella. Rimbombava tutto come in chiesa. Il respiro dell’essere si poteva percepire da metri di distanza, mentre il piccolo William aveva la sfortuna di sentirlo proprio sulle proprie mani, che sostavano a coprire il terrorizzato visetto. Che tristezza morire così. Il suo coraggio era svanito come il benefattore. Il rumore secco continuava a risuonare all’orecchio del bambino, che non poteva far nulla per permettergli di cessare. Tlick-tlack-tlick-tlack.
Ed ecco ad un tratto un lampo illuminare la stanza, un lampo che però rimase a rischiarare la tenebra tutt’intorno. William scostò lentamente le mani dal viso, notando che qualcuno aveva acceso la luce nella stanza ed ora gli stava di fianco. Un giovane dai capelli neri e la pelle così bianca da parer composta di neve; gli occhi scuri di un colore poco definito vagavano sulla creatura, ora inerme, che tanto aveva spaventato William ma che in realtà si rivelò essere un macabro burattino, con dipinto un ghigno in faccia e gli occhi scarlatti, ora immobili, a fissare il vuoto eternamente aperti.
- Non ti sei fatto male, vero? – Sussurrò il ragazzo affiancò a William, voltando gli occhi, che si rivelarono marrone scuro, sulla sua piccola figura, con un lieve sorriso a rasserenare l’espressione mite. Aveva una voce dolce e rassicurante.
- No... Cos’era quello, signore? – Non c’era niente da fare, oramai la sua pessima abitudine di chiamare tutti gli individui di sesso maschile ‘signore’ l’aveva ipnotizzato. Il giovane rise; possedeva una risata limpida e leggera, come un arpeggio suonato da dita angeliche.
- Una marionetta. Lo sai chi l’ha costruita? – Domandò in tono malizioso, chinandosi affianco al bambino. Egli scosse il piccolo capo. – Il mio fratello gemello. È molto bella, vero? – Sussurrò, assorto in un altro mondo troppo lontano perché il piccolo potesse coglierlo; infatti si limitò ad annuire, osservando l’espressione improvvisamente malinconica che s’era impadronita del visetto tanto dolce e bello del giovane che l’aveva salvato dal baratro del terrore. Gli posò una manina su una guancia, facendolo sussultare e poi arrossire appena.
- Perché è triste, signore? – Mormorò William, sporgendo il labbro inferiore con fare infantile, forse offeso dal repentino cambiamento d’umore del nuovo benefattore.
- Non sono triste, tesoro. E comunque non chiamarmi signore, mi fai sentire vecchio. – Rispose dolcemente il ragazzo, posando un dito sulla mano del giovane; era così caldo, il suo dito; e così lungo e pallido; pareva quello d’un musicista. Eppure quella frase il bambino l’aveva già udita in precedenza. Massì! Dalle labbra dell’altro benefattore! Aveva detto esattamente la stessa frase. Che fosse lui il gemello di quel ragazzo così effeminato che in quel momento gli accarezzava perso una mano?
- Come si chiama, signorino? – Gli avevano imposto così tanta educazione che alla fin fine non riusciva a mutare di molto il soprannome da dare agli sconosciuti. Il giovane alzò gli occhi al soffitto, gesto che a William rammentò la madre quando lui rompeva qualcosa; la differenza era che il ragazzo effeminato/ neo-benefattore sorrideva.
- Il mio nome è Oskar, chiamami così, intesi? – Chiese il giovane, tornando a guardarlo. William annuì, ripetendo fra sé, in sussurri, il nuovo nome imparato.
Una voce fece ad entrambi voltare il capo verso il salone:
- William? Sono a casa! Ti ho portato la pizza! – Esclamò il benefattore dalla stanza affianco. Finalmente ce l’aveva fatta a tornare! - William? Dove sei? - Domandò perplesso. Un rumore di passi lenti, poi sempre più rapidi, sino al punto in cui si trovavano William e Oskar. - Oh eccoti! Ma come mai non rispondevi? E che fai qui, tutto solo? - Il piccolo fece per indicare il secondo benefattore ma egli era svanito nel nulla, come evaporato. Sbattè più volte le palpebre, senza risultati. 
- Ho sentito un rumore e sono venuto a vedere. - Rispose flebilmente, chiedendosi che fine avesse fatto Oskar. Il giovane annuì e dopo averlo preso in braccio spense la luce tornando in salone. Posò la pizza sul tavolo innanzi il divano e poi vi si sedette, tenendo ancora in braccio il bambino. 
- Non devi andare nelle altre stanze, te lo ricordi? - Sussurrò il benefattore; d'improvviso appariva un'ombra d'inquietudine nel suo tono solitamente allegro. 
- Sì, scusi signore. - Mormorò sporgendo il labbro inferiore, mortificato d'aver 'sbagliato' nel fare qualcosa. 
- Beh, volevi sapere come mi chiamo, no? Ebbene, il mio nome è Oscar. - William credette di non aver udito correttamente. 
- Scusi, potrebbe ripetere? - Domandò voltando il capo nella sua direzione, cercando incredulo il suo sguardo, che non trovò.
- Sì: mi chiamo Oscar. - Ripeté pazientemente il ragazzo, non comprendendo l'espressione del bambino, che discese dalle sue gambe silenziosamente, andando a sedersi al tavolo per poter assaggiare la pizza, ora fredda, su cui il benefattore aveva pianificato così al lungo e così a fondo. Il suo sguardo senza fondo rimase a vagare al lungo sulle imperfezioni della mozzarella sciolta sulla pizza fra il pomodoro e l'impasto. Poi l'addentò non proferendo parola alcuna, senza essere cosciente di ciò che ancora l'ignoto futuro gli serbava. 


***


*Shelter: flm horror uscito nel gennaio 2011 (n.d.a)

Ebbene eccomi tornata col secondo capitolo! Mi rincresce che non seguiate in molti ma comprendo che il successo arriva lentamente e per chi sa pazientare; quindi mi sistemo comodamente sulla mia sedia da studio che cade a pezzi ed attendo un vostro parere, positivo, negativo o indifferente che sia. È strano che aggiorni così in fretta, solitamente le mie storie rimangono incomplete. Sarà che mi sto immedesimando. Mi auguro che recensiate, grazie per aver letto anche qui~

 

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