Fuck them and fuck you too

di Nezu
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** The way you look at me, I can tell that you’re a freak ***
Capitolo 2: *** The smell of you in every single dream I dream ***
Capitolo 3: *** Those things I'll never say ***
Capitolo 4: *** The world stops turning when we burn it to the ground ***



Capitolo 1
*** The way you look at me, I can tell that you’re a freak ***


Titolo: Fuck Them And Fuck You Too
Beta: [info]dylan_mx
Fandom: Originale
Rating: 16+
Avvertimenti: Language, criminalità, accenni temi forti (prostituzione, droghe, abuso di alcol)
Note: Nata a causa di troppa musica hip-hop alle tre del mattino :look: Il titolo della storia è un verso (leggermente modificato) della canzone The Real Slim Shady - Eminem, mentre il titolo del capitolo è preso da Bottle And A Gun - Hollywood Undead.

Questa fanfiction ha partecipato alla terza edizione del Big Bang Italia.

Gifter: [info]m_bfly
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1. The way you look at me, I can tell that you're a freak

Jay era convinto di non aver bevuto troppo – oh andiamo, nessuno sarebbe già spolpo dopo un paio di whiskey e tre coca e rum – eppure era più che certo di non aver mai avuto l’intenzione di ficcarsi in quel casino.

Ma c’era dentro e, whiskey o no, doveva farci i conti.

< Senti un po’, fottuto stronzetto!>

“No, vecchio, non ho proprio voglia di sentirti!” pensò prima di mollare un gancio di destro dritto dritto sulla mandibola dell’idiota che aveva di fronte, un vecchio ubriacone irrecuperabile, un’ormai ex-stella della mafia, un pezzo grosso finito in miseria che passava le sue ultime ore a tracannare qualsiasi cosa avesse a tiro.

Il rumore delle ossa che si rompevano nell’impatto aveva un suono nostalgico e il ragazzo si trovò a ricordare i pop-corn che suo zio preparava la domenica, pronti da mangiare seduti sul divano, davanti allo schermo con la partita.

Il corpo del vecchiardo cadde al suolo con un tonfo sordo, sfracellando nel percorso un paio di tavolini.

< Allora, qualcuno ha qualcos’altro da dire?> domandò ad alta voce alla folla che lo osservava ammutolita.

Non udendo alcuna risposta tornò al banco e si lasciò cadere pesantemente sullo sgabello.

< Uno Screwdriver.> ordinò accendendosi una sigaretta con qualche difficoltà – ok, forse in fondo in fondo aveva alzato un po’ troppo il gomito.

Fred lo squadrò da dietro il banco con aria seccata, ma gli allungò il cocktail lo stesso.

Dopo un attimo di esitazione però si sporse verso di lui, approfittandone per pulire un poco la superficie in legno.

< Vedi di non causarmi troppi casini, ragazzo. Non tira buon’aria e gli sbirri sono ovunque: se attiri l’attenzione su di me e il mio locale avrai di che pentirtene.>

Jay lo guardò scettico prima di bere un lungo sorso del drink.

< Cos’è, mi lasci a secco, Fred?> borbottò reprimendo a forza un sorrisetto che, lo sapeva, gli sarebbe costato caro.

< Sei in debito con me per almeno trenta dollari, Jay. Soldi che attualmente non hai, quindi vedi di comportarti bene.> replicò a bassa voce il barista, le sopracciglia aggrottato e la bocca come un’unica, dura linea.

Il ragazzo non si azzardò a fiatare, ma attese che il barman recuperasse le distanze e gli desse le spalle per sbuffare seccato e alzargli il dito medio.

Non c’era bisogno di ricordargli che era in debito, pareva che ogni dannatissimo abitante di quello stramaledetto quartiere avanzasse soldi da parte sua… e comunque non aveva certo intenzione di danneggiare il locale, aveva appena sedato una rissa!

Quel vecchio era in cerca di guai, era evidente, e se l’avesse lasciato fare, come aveva pensato di fare inizialmente, probabilmente avrebbe attaccato briga con qualche tipaccio intento a giocare a poker, uno di quelli dal coltello rapido: meglio svenuto sul pavimento che stecchito, no?
Fred avrebbe dovuto ringraziarlo in ginocchio per aver evitato una tale catastrofe.

Sospirò e si riconcentrò sul suo amato Screwdriver: in realtà aveva una gran voglia di menare le mani, ma tutti gli accaniti bevitori del posto erano dei babbioni con la dentiera, buoni solo a barare a carte e farsela addosso.

Jay si passò una mano sul volto: aveva bisogno di trovarsi un lavoro e ripagare i debiti, davvero.

Aspettava solo che il lavoro gli saltasse addosso.

 

Se credevano di batterlo nella cosiddetta “corsa urbana” si sbagliavano di grosso, essere di corporatura minuta aveva i suoi vantaggi e lui era il maestro delle fughe, con anni di esperienza alle spalle.

Così quando il più vicino dei gorilla si lanciò contro di lui per acciuffarlo bastò una minima rotazione per schivarlo e poi via, a schizzare più veloce della luce fuori dal capannone, in mezzo alla strada.

Cercare di seminarli per i vicoli era inutile, Cristo, poteva sentire il loro fiato sul collo; la scelta fu rapida, la folla della via principale era l’opzione migliore.

Via, un salto per superare un paio di borsoni abbandonati sul marciapiede, nelle orecchie il rumore sordo dei propri passi sull’asfalto.

< Fermati subito, brutto figlio di puttana!>

“Se hanno fiato da sprecare a parole correranno meno” fu l’unico pensiero che passò per la mente di Deuce mentre si faceva largo tra la calca a suon di spintoni; la gente lo guardava scandalizzata, lo insultava, ma appena vedevano quei bestioni che lo inseguivano, armi in pugno, si facevano subito da parte o urlavano.
Se qualcuno avesse chiamato la polizia non sarebbe stato un brutto affare, rifletté il ragazzo,

Uno sparo risuonò nell’aria rintronandogli le orecchie.

“Merda.”

Pregò che fosse solo per spaventare la folla e intimarle di spostarsi, non perché in realtà volevano mirare a lui – Dio, valeva cento volte di più da vivo, chi diamine poteva essere così scemo da cercare di ammazzarlo?

L’insegna della metropolitana catturò la sua attenzione e un attimo dopo scendeva di corsa le scale, rischiando seriamente di inciampare e rovinare a terra; dalle grida alle sue spalle sapeva di avere ancora alle calcagna quel branco di bastardi.

Superò i tornelli in volata come quando giocava alla cavallina nel cortile di casa; guadagnò qualche metro in quel modo e ne approfittò per riprendere fiato.

Sbucò sulla banchina della metro, il segnale che il mezzo stava arrivando suonava assordante nelle sue orecchie; sentì ancora spari e decise di tentare il tutto per tutto buttandosi sulle rotaie; poteva sentirle tremare man mano che quell’aggeggio infernale si avvicinava.

Riuscì a salire sull’altro lato una manciata di secondi prima che la metro gli passasse accanto; le urla di rabbia dei suoi inseguitori lo confortarono e tornò a correre fino a girare l’angolo, poi rallentò il passo mischiandosi tra la folla.

Non era certo di essersene liberato, la cosa migliore era nascondersi per un po’; si fiondò nei bagni e si chiuse a chiave dentro un cesso, pregando che non venissero a controllarli uno per uno.

Udì ancora un paio di spari, qualche imprecazione troppo vicina al suo nascondiglio per i suoi gusti e poi più nulla; restò in attesa per qualche minuto, poi azzardò a cacciare la testa sopra la porta per dare un’occhiata.

Via libera.

Sgattaiolò fuori da quel fetido rifugio e ficcandosi in mezzo ad un gruppo di turisti tedeschi uscì in strada; appena fu fuori tirò su il cappuccio e puntò verso la strada meno trafficata che trovò. Senza quei bestioni armati attorno si sentiva molto più tranquillo, ma girato l’angolo si bloccò di colpo: erano lì, tutti e quattro, e si guardavano attorno scrutando la folla.

Trattenne il fiato, non si erano accorti di lui, non ancora almeno: non se la sentiva di rimettersi a correre, era sfinito e quei tipi sembravano fatti di marmo, non una goccia di sudore, non un minimo di irregolarità nei loro respiri.

L’occhio gli cadde sull’insegna di un pub dall’aria sudicia, alla sua destra e prima che gli altri si voltassero verso di lui infilò la porta; lo accolse una nuvola di fumo, un gruppo di vecchi sdentati fumava sigari cubani giocando a poker al tavolo accanto all’ingresso.

Tossì, gli occhi che bruciavano, ma camminò in fretta verso il banco e prese posto sul primo sgabello che gli capitò a tiro.

< Un Baileys.> ordinò senza calarsi il cappuccio.

Un attimo dopo un tonfo sordo lo informò che i suoi inseguitori erano entrati nel locale.

 

I guai non finivano mai quel giorno, a quanto pareva. Jay, tutto intento a scrutare il volto del nuovo arrivato da sotto il cappuccio, sollevò lo sguardo sui quattro bestioni apparsi sulla soglia.

Gli ci volle un secondo per accorgersi che avevano tutti le pistole alla mano: nulla di buono, questo era poco, ma sicuro. Probabilmente fu lo stesso pensiero di Fred, perché si irrigidì da dietro il banco mentre serviva l’ordine al ragazzino appena entrato e li guardò male.

< Niente armi, signori. Siamo gente pacifica, qui.> ordinò a voce alta, scuro in volto come non mai.

Jay infilò una mano in tasca, stringendo con fermezza il manico del suo coltellino svizzero: a mali estremi non si sarebbe certo fatto da parte. I quattro si guardarono con aria perplessa e ben poco intelligente, poi quello che doveva essere il capo fece un passo avanti.

< Non abbiamo cattive intenzioni, barista. Stiamo solo cercando una puttanella dispersa.> e a quel commento i suoi tre compagni scoppiarono a ridere.

Jay poteva giurare di aver visto il ragazzino vicino a lui tremare.

Sobbalzò quando vide il gorilla avvicinarsi al banco e spingere sulla superficie una foto un po’ sbiadita.

< L’avete visto per caso?>

Non era difficile vedere in quel ragazzino dai lunghi capelli neri e gli occhi blu il giovane che stava bevendo il suo Baileys nel tentativo di sembrare più naturale possibile; Jay intercettò il suo sguardo e si morse il labbro.

Aveva paura, era evidente, ma c’era qualcosa nei suoi occhi che non credeva di poter vedere: sfida.

Era come se, in fin dei conti, fosse certo che se la sarebbe cavata in un modo o nell’altro e questo aveva dello straordinario.

Jay si lasciò andare ad un mezzo sorrisetto e si sporse verso la foto.

< Mai visto.>

Fred annuì a sua volta.

< Non è mai entrato nel mio locale, ve lo posso assicurare.>

I gorilla non sembrarono molto felici, ma il capo scrollò le spalle e ad un suo cenno uscirono dalla porta, com’erano entrati, le armi ancora in pugno.

< Mi devi un favore, vecchio. E già che ci sei abbassa pure quel cappuccio, non serve più a nulla.>

Deuce si guardò attorno, ancora preoccupato di essere colto in fallo e di dover lasciare il suo amato Baileys a metà: il pub era tranquillo e la clientela sembrava essersi già dimenticata dell’irruzione di quegli omaccioni.

Si sfilò il cappuccio e senza rivolgere neanche un ringraziamento a Jay riprese a bere il suo drink.

< Bella gratitudine, eh?> borbottò quello sporgendosi verso il ragazzo, ma lui si scostò un poco, desideroso di mantenere le giuste distanze.

< Non ti ho mai chiesto di aiutarmi.>

< Bé, ma l’ho fatto. Una così buona azione andrebbe ricompensata, non credi?>

Lo guardò sospettoso, come se non fosse poi così sicuro delle sue buone intenzioni.

< Che vuoi da me?>

< Bé, potresti ripianare i miei debiti con questo gentile signore, per cominciare.> ridacchiò Jay indicando con una mano il barista.

< Poi sparirai una buona volta dalla mia vista?> domandò dubbioso Deuce, indeciso se ricambiare il favore o mandare al diavolo quello strano tipo – che non aveva l’aria di essere molto sobrio da come le parole scivolavano fuori dalla sua bocca – e sparire dalla circolazione fino a che le acque non si fossero calmate.

< Ma ceeerto! Poi non mi vedrai mai più, piccolo, promesso.>

Dovette sforzarsi di non picchiarlo per quello stupido appellativo.

< Il mio nome è Deuce.>

< Jay, molto piacere.>

< A quanto ammonta questo debito, comunque?>

< Trenta dollari.>

< Quaranta – si intromise Fred – dopo tutto quello che ti sei scolato oggi.>

< Ok, quaranta.>

Il ricercato lo fissò ad occhi spalancati.

< Non li ho quei soldi.>

< Oh, andiamo! Con tutti quegli uomini alle calcagna sono certo che non sei a secco.>

< Che stai insinuando?>

Jay si sporse in avanti appoggiando i gomiti al banco e cominciò a spiegare con aria professionale.

< In questa città un tizio viene inseguito solo in due casi: o è rimasto a secco e deve dei soldi a qualcuno e quindi devono torturarlo un po’ per fargli tirar fuori il gruzzolo oppure ha fottuto il denaro a qualche pezzo grosso e quindi va punito. Sinceramente credo che tu rientri nel secondo caso, o non avresti ordinato un costoso Baileys come copertura, ma qualcosa di decisamente più economico se avessi saputo di non avere soldi a disposizione. Allora, ho fatto centro?>

Da come Deuce assottigliò le labbra Jay ebbe la certezza di aver colpito nel segno.

< Non ho i soldi qua… ma posso farteli avere.>

< E bravo il mio ragazzo!>

Il giovane ingollò quel che restava del suo drink e fece un cenno mentre lasciava una banconota stropicciata sul bancone.

< Devo fare una telefonata, seguimi.>

L’altro guardò con sospetto il ragazzo che si stava allontanando lentamente.

< Niente scherzi, vero?>

< Se non dovessero più vederti qui al pub il barista saprà chi cercare. Ormai mi ha visto e sa chi sono, non posso sgarrare più di tanto, no? Signor Ragionamenti Brillanti?>

Jay non sembrava del tutto convinto, ma Fred annuì leggermente facendogli capire che ci avrebbe pensato lui a trovargli una cassa al cimitero se fosse stato ingannato. Sperando di non aver fatto l’errore più clamoroso della sua vita diede le spalle al banco e seguì docilmente Deuce.

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Capitolo 2
*** The smell of you in every single dream I dream ***


Note: Il titolo del capitolo è preso dalla canzone "Soul Sister" di Train ^^ Ringrazio inoltre Rasp (fammi indovinare, sei LittleBeaver91, vero? X°D)
per la recensione e tutte le simpatiche personcine che hanno messo questa storia tra le preferite e/o seguite <3

2. The smell of you in every single dream I dream

 

Era bello restare ad occhi chiusi e ascoltare il rumore delle ruote sulla strada accidentata, la brezza che gli scompigliava i capelli e si infiltrava sotto i vestiti senza riuscire a fargli provare freddo.

Aveva sempre saputo – e non aveva voglia di chiedersi come, non sempre c’erano risposte ai suoi interrogativi – e creduto che sarebbe stato così eccitante, così liberatorio lasciare quel paesino imbucato in campagna per affrontare il viaggio della sua vita, macché sua, della vita in generale. Un viaggio che aveva già letto su libri e cartine, ma che affrontare di persona era decisamente più appagante, più vero.

< Ehi, ragazzo! Tra un’ora dovremmo arrivare!>

Le grida del guidatore che cercava di comunicare sovrastando il frastuono della macchina lo rincuorarono.

< Ottimo, La ringrazio ancora per il passaggio!> urlò di rimando e si alzò dalla sua posizione sdraiata sul cassone posteriore di quel vecchio pick-up.

Era stata una fortuna aver trovato uno strappo così facilmente e anche se il mezzo non era dei più veloci a Toad andava bene: più lento si viaggiava, più lungo era il viaggio e più lungo era il viaggio, più poteva viverlo.

Osservò il profilo della città che già si intravedeva all’orizzonte, grattacieli grigio fumo contro un cielo dello stesso colore; sorrise, la sua meta non era mai stata così vicina.

Diede una pacca affettuosa al telaio della sua bicicletta, la sua cara vecchia amica che l’aveva seguito fin là, caricata accanto a lui per tutto il tempo.

Non vedeva l’ora di arrivare a destinazione.

 

Erano ore che aspettavano in quel sottopasso, lontano da occhi indiscreti, ma il fantomatico tipo che Deuce doveva chiamare pareva scomparso nel nulla, inghiottito da Madre Terra, evaporato, eclissato, mai esistito, esploso come una bolla di sapone. E Jay stava cominciando ad annoiarsi.

< Vaffanculo!> sbottò il moro riattaccando per l’ennesima volta la chiamata andata a vuoto.

< Dunque i soldi ce li ha il tuo collega, giusto?> chiese il castano guardando il ragazzo agitarsi e camminare avanti e indietro per lo stesso tratto, certo che continuando con quell’andazzo avrebbe consumato l’asfalto.

< Sì, porca puttana, sì!>

In preda alla disperazione più nera Deuce si lasciò scivolare a terra e, presosi il volto tra le mani, rimase immobile.

< Forse l’hanno preso…> tentò l’altro cercando di trovare una spiegazione logica piuttosto che confortare il giovane così prossimo al suicidio.

< Impossibile, è più al sicuro di una cassaforte. Ho fatto io da esca perché avesse modo di non farsi trovare. E sono certo che non sia successo, è un genio nello scomparire quando si sente in pericolo.>

< Sì, lo sto notando… Allora l’unica opzione rimasta è la peggiore, vecchio mio: ti ha piantato in asso.>

Quello scosse la testa, guardandolo incredulo.

< No… no, non ci credo…>

< Perché così sconvolto? Sono cose che capitano tutti i giorni da queste parti…>

Ma Deuce continuava a negare, allibito.

< No, tu non capisci.>

< Cosa?>

Sembrò fare uno sforzo per rispondere e fece un bel respiro profondo, ma quando parlò la sua voce pareva stesse per spezzarsi.

< Il mio collega… cioè, il mio compagno… è la mia ragazza.>

Jay si chiese se quello lì avesse tutte le rotelle a posto: era fuori di testa, affidare del denaro ad una donna? Di colpo la situazione si fece molto più chiara.

< Era la tua ragazza, direi.>
Al suo commento il giovane tornò a nascondere il volto fra le mani.

< Comunque, vecchio mio – riprese il castano – hai fatto una cazzata. Fidarsi di una donna, ma insomma! Non lo vedi come va il mondo? E’ ovvio che quella ti ha piantato, una donna quando ha il denaro ha tutto quello che le interessa.>

Deuce non rispose, ma con un’occhiataccia significativa chiamò ancora e ancora, sperando che qualcuno, chiunque, premesse il fatidico pulsante verde, ma fu del tutto inutile.

Due ore dopo erano nell’appartamento del moro a bere birra ghiacciata nel tentativo di sollevarsi il morale.

< Certo che però – stava ridacchiando Jay – farsi sfuggire un bel gruzzolo in questa maniera… quanti soldi erano?>

< Poco meno di un milione.> borbottò in tutta risposta il giovane attaccandosi al collo della bottiglia; per poco il castano non sputò fuori la bevanda.

< UN MILIONE?! Cazzo, che fregatura!>

Il silenzio calò su di loro, interrotto solo dal rumore dell’alcol inghiottito e dal tamburellare delle dita di Jay sul tavolo.

< Dì un po’, che razza di lavoro era per fruttare così tanto?> chiese e quando il suo ospite lo guardò sospettoso scoppiò a ridere.

< Tranquillo, non cerco informazioni su di te per venderti. Ti ho già parato il culo una volta, se quei gorilla mi vedessero farebbero fuori anche me.>

Deuce si mosse a disagio sul suo divano, poi con un sospiro si lasciò andare.

< Io e Helen avevamo fregato una partita di droga. Era roba pesante, sai, tanta e di buona qualità. Siamo riusciti a venderla in blocco prima che i suoi possessori se ne accorgessero. Contavamo di fuggire all’estero prima che riuscissero a catturarci….>

< E invece a prendere il volo è stato solo uno di voi due… immagino quindi che quei tipi ti cercheranno in lungo e in largo ora. Ma chi erano esattamente?>

< Se te lo dicessi non vorresti passare più neanche un secondo in mia compagnia.>

< Non farti tante pare e spara. In fondo te l’ho detto, ci sono dentro anch’io in questa storia ormai.>

Un altro sospiro, Jay si accorse che stranamente cercava di evitare il suo sguardo.

< Allora?>

< Era gente del Colonnello.>

Questa volta sputò davvero la birra per la sorpresa.

< Della mafia? Ma che sei, un suicida?>

Deuce fece spallucce.

< Lavoravo per loro negli ultimi tempi, è per questo che sono riuscito a mettere le mani sulla droga. E comunque non è la mafia vera e propria, è più un piccolo clan, una propaggine. Sapevo che si volevano staccare dalla falda principale e questo può voler dire solo che hanno i giorni contati a loro volta. Mi basta aspettare che il Colonnello li abbia tolti di mezzo e potrò tornare alla mia vita di sempre. Più o meno.>

Jay era sempre più convinto che al mondo ci fossero molti più pazzi di quanti non si credesse.

< Certo che anche questi qua, a mettersi contro di lui… insomma, cosa credono di essere, immortali? Quello può schiacciare chiunque…>

Le birre erano ormai finite, ma nessuno dei due aveva la voglia o la forza di alzarsi dal divano e fare qualsiasi cosa, uscire fuori, cucinare un toast o cose simili, così fecero l’unica cosa sensata dal loro punto di vista: rimasero dov’erano.

< Tu che fai invece? Oltre ad accumulare debiti al pub.> domandò il moro sistemandosi meglio su un cuscino.

< Non tanto altro. Sto cercando un lavoro, ho soldi da dare a quasi mezza città.>

< Che tipo di lavoro?>

< Bah, qualsiasi cosa. Anche uno stabile, se mi riesce di trovarlo, ma preferirei qualcosa di facile, una piccola commissione, sai cosa intendo, no? Di quelle non troppo faticose e che fruttano bene,>

< Sì, so cosa intendi. Ma sono rare da trovare.>

< Se non lo fossero non sarei qui al momento. E tu, adesso? La tua bella è fuggita con tutti i tuoi soldi.>

Il volto del ragazzo si rabbuiò a quel pensiero.

< Temo di essere come te. Mi serve un impiego.>

Deuce aveva un’idea che gli ronzava nel lobo frontale, anche se gli sembrava davvero adatta a dei matti da legare; non che fosse impossibile, era solo complicata… in due era una condanna a morte, ci voleva un terzo uomo. Ma forse in quei bassifondi del cavolo un altro suicida lo si poteva trovare.

< Se trovo un lavoretto per entrambi ci stai?>

La domanda a bruciapelo attirò subito l’attenzione di Jay.

< Che lavoro?>

< Preferisco non parlartene nello specifico finché non trovo tutti gli elementi. Tu ci staresti comunque?>

< Cristo, se porta grana sì! Che intendi con elementi?>

< Ci serve un altro uomo. Appena lo troverò possiamo pensarci sul serio.>

Negli occhi del castano brillò qualcosa che sembrava terribilmente preoccupazione.

< Non per dire, vecchio mio, ma forse è meglio che me ne occupi io di reclutare il terzo. Pare che tu non abbia molta fortuna con i colleghi, no?>

Non che Jay avesse molto più fiuto di Deuce, se lo avesse avuto non si sarebbe trovato sommerso dai debiti, però aveva un asso nella manica: il vecchio Fred e i suoi fortunati giri di conoscenze.

 

Il barista non si era smentito neanche quella volta e gli aveva procurato un nome a suo dire affidabile, un bravo ragazzo giunto da poco in città e con la fissa del guadagno facile; era pulito, veniva dalla campagna, nessun contatto con brutte compagnie o società con cui nessuno degli altri due voleva avere a che fare.

Col permesso di Deuce aveva passato a questo tipo l’indirizzo dell’appartamento per andare lì a farsi esaminare.

Ma quando Jay lo vide entrare in cucina seguendo docilmente Deuce non poté trattenersi.

< Ma è un cazzo di alternativo!>

Non c’era molto da aggiungere effettivamente, il ragazzo pareva l’insegna ambulante dell’alternative: i braccialetti col simbolo della pace stampato su sfondo multicolor come le bandiere del gay pride, la maglia bianca con scritte artigianali fatte con gli appositi colori, i jeans a sigaretta un po’ consunti, gli orecchini – Dio, un uomo con degli orecchini! – l’uno diverso dall’altro, le Vans senza lacci e, oh cielo, quei cazzo di capelli.

Se fosse stata casa sua l’avrebbe buttato fuori a calci, ma non aveva una tale confidenza con Deuce da potersi prendere quel tipo di libertà.

< Lui è Toad.> replicò il padrone di casa senza fare una piega e quel coso, perché Jay si rifiutava di chiamarlo con quel diavolo di nome da alternativo, sorrise ignorando totalmente l’esclamazione e le occhiatacce orripilate che l’altro continuava a scoccargli.

E, per quanto lui non volesse neanche vederla una persona simile, quando lo misero sotto torchio Toad rispose perfettamente ad ogni domanda, senza battere ciglia; il ragazzo odiava ammetterlo, ma non avrebbero potuto trovare una persona più adatta di quel moccioso.

Fred ci aveva visto giusto un’altra volta.

< Allora dire che possiamo cominciare ad ideare il piano. – cominciò Deuce dopo un giro veloce di birre – Il nostro obiettivo è la Le Royals.>

Toad annuì con aria convinta, ma Jay lo fissò come se gli fossero cresciute all’improvviso tre teste di troppo.

< Vecchio, so che forse hai i ricettori del pericolo un po’ sballati, ma qua sei fuori forte. Non c’è un solo centesimo in quella fottuta banca che non sia di proprietà del Colonnello.>

< Lo so perfettamente. Ma c’è un trucco. Noi non puntiamo a prendere tutti i soldi, solo quelli della cassetta 4191.>

< Quanti sono?>

< Abbastanza. All’incirca tre milioni. Fanno uno per ciascuno di noi.>

< Cazzo.>

< Perché puntiamo solo a quelli?> chiese Toad con aria spaesata.

Deuce ghignò, mettendo in bella mostra una serie infinita di denti bianchissimi e leggermente appuntiti: pareva di veder sorridere un piccolo squalo.

< L’unico che è al corrente di cosa ci sia dentro quella cassetta oltre al Colonnello è Harvey, il tipo che mi dava la caccia. E il sottoscritto, ovviamente, ma loro non lo sanno. Ora, Harvey e i suoi uomini vogliono staccarsi dal Colonnello e lo faranno quanto prima: se noi rubiamo quei soldi senza badare agli altri depositi il Colonnello logicamente penserà che sia stato il nostro vecchio Harvey a rubarli, accelerando l’esecuzione che ha già in programma per lui e i suoi scagnozzi.>

< In pratica loro si faranno fuori a vicenda mentre noi ce la svigneremo col malloppo?>

< Precisamente.>

< Come hai fatto a sapere della cassetta?>

< Origliavo da un pezzo le conversazioni di Harvey, per tenermi informato sulla partita di droga che m’interessava. Sono venuto a conoscenza di questa cosa per puro caso e l’ho tenuta segreta come piano d’emergenza.>

< Helen lo sa?>

< Non le ho mai detto nulla.>

Si fissarono tutti i tre, eccitati e preoccupati allo stesso tempo, la loro mente già correva a quello che avrebbero fatto una volta intascato il milione.

< Il piano?> domandò Toad con aria estasiata, ma a quel quesito calò un silenzio pressoché imbarazzante.

< Pausa caffè.> annunciò Jay alzandosi e armeggiando con la moka – ancora non riusciva a spiegarsi perché uno come Deuce avesse una moka in casa.

L’aroma forte del caffè si sparse per tutta la casa; Toad lo inspirò a fondo, un sorriso sulle labbra.

< Ha lo stesso profumo di quello che prepara sempre la mia ragazza…> mormorò nostalgico mescolando lo zucchero con un cucchiaino di plastica.

< Hai una ragazza, Alternativo? Con quella faccia da femmina che ti ritrovi?> ridacchio incredulo Jay mentre finiva di versare il liquido nella propria tazzina e si sedeva.

Il giovane preferì ignorare il commento e sorseggiò il suo caffè prima di rispondere.

< Sì, è una persona meravigliosa…>

< Un’alternativa anche lei?>

Il ragazzo sollevò un sopracciglio in una smorfia interrogativa.

< Ancora non capisco tutta questa storia dell’alternativo…>

Il castano si appoggiò con i gomiti al tavolo, di nuovo quell’aria professionale sul volto; Deuce lo fissò con aria disinteressata, come se lo spettacolo a cui stava assistendo non lo interessasse minimamente.

< Vedi, voi alternativi siete quelli che mi fanno imbestialire di più, tra tutti i movimenti giovanili: tutti pace e amore, non vedete l’ora di distinguervi da tutti gli altri, sempre là con le vostre chitarre e i vestiti del mercatino sotto casa. Dio, siete dei figli dei fiori andati a male!>

A Toad non sembrava che il giovane avesse le idee molto chiare sul suo conto e neanche sugli “alternativi”, come li chiamava lui, ma preferiva sorvolare.

< Comunque no, Anne non è un’alternativa.> replicò a bassa voce svuotando il contenuto della propria tazzina.

< Meglio. Da dove hai detto che vieni?>

< Texas.>

< Una bella camminata fin qua, eh? Come ci sei arrivato, volando?>

< Autostop.>

Se non si faceva caso alle frecciatine che Jay ogni spesso lanciava a Toad si sarebbe potuto dire che stavano andando anche abbastanza d’accordo; mentre i due chiacchieravano più o meno amichevolmente il cervello di Deuce si mise in moto per ideare quel benedetto piano.

Sapeva che non avevano molto tempo, Harvey aveva i giorni contati e bisognava agire prima che l’uomo fosse eliminato o non avrebbero potuto scaricare su di lui il barile.

< E sei venuto fin qua dal Texas per i soldi? – stava dicendo il castano agitando il cucchiaino in aria – E io che pensavo che gente come voi vivesse di aria, amore e canne.>

Il moro sperò che il suo nuovo compagno si desse una calmata o avrebbero davvero perso il loro terzo uomo.

 

< Ok, allora, dobbiamo architettare una rapina standard alla Le Royals, Ci servono prima di tutto armi.>

I tre si guardarono con apprensione prima che Deuce si schiarisse la voce e continuasse.

< Sarebbe meglio arrangiarci con quello che abbiamo, senza fare acquisti o movimenti sospetti. Perciò ho bisogno di sapere se possedete qualche arma oppure no. Io ho una pistola.> spiegò tirandola fuori da sotto la maglietta e appoggiandola sul tavolo.

Jay sbuffò e tirò fuori il suo fedele coltellino svizzero.

< E’ tutto quello che ho.>

< E’ ben poco… Toad?>

Ma il giovane scosse la testa.

< Non ho mai avuto armi.>

< Quindi non sai né sparare né far altro, giusto?>

< So sparare, un mio cugino mi portava al poligono di tiro quand’ero più piccolo. Non ho molta pratica, ma so farlo.>

Come partenza, a dirla tutta, sarebbe potuto andare molto meglio. Deuce sperò che i passi successivi sarebbero stati più produttivi.

< Va bene, non preoccupatevi, conosco una persona estremamente fidata che può procurarci un paio di pistole in più senza fare domande. Poi, altro problema: ci serve un mezzo per la fuga.>

Un’altra occhiata imbarazzata.

< Non guardate me. – borbottò il castano ficcandosi le mani in tasca – L’ultima macchina che ho avuto giace in fondo al mare. Non chiedetemi come ci sia arrivata.>

< Io non ho la patente.> replicò freddamente Deuce: la situazione era davvero più disastrosa del previsto.

< Io avrei qualcosa… ma non so se vada bene.> mormorò Toad.

< Qualsiasi cosa ci andrà bene in questo caso. Rubare una macchina quando la mafia controlla tutti i furti della città è una mossa troppo azzardata, non possiamo procurarcene una, dobbiamo lavorare con quel che abbiamo.>

Jay concordava pienamente con il moro e capiva perfettamente che era una questione di vita o di morte, ma quando si vide presentare quel “coso” davanti pensò seriamente di mollare il progetto e cercare fortuna da qualche altra parte.

< Io non ho intenzione di rapinare una banca a bordo di questo affare!>

Sarebbe stata la rapina più ridicola del secolo, ecco cosa pensò Deuce.

Ma quella bicicletta scassata, probabilmente risalente all’ante-guerra, pesantissima e sferragliante era la loro unica risorsa.

< Bene. Cioè, sì, insomma, è meno di zero.> bofonchiò mentre rovistava un cassetto alla ricerca di una cartina della città; la trovò e l’aprì per bene sul tavolo evidenziando con un pennarello rosso la banca e le vie di fuga.

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Capitolo 3
*** Those things I'll never say ***


3. Those things I’ll never say

 

Il mozzicone di sigaretta restò tra le sue labbra anche se era ormai completamente consumato; era una piccola abitudine che si portava dietro da anni ormai, da quando si accendeva le cicche in camera da letto con l’accendino rubato a sua sorella, la musica a tutto volume nelle orecchie, hip-hop puro, rap a manetta, rumore, tanto rumore che copriva suoni sgraditi e rendeva possibile il suo mondo.

In quella stanza poteva accadere di tutto senza che nessuno sapesse niente, quello era il gioco. Lì poteva gustarsi il suo dannato pacchetto, poteva toccarsi, poteva sniffare un po’ di roba, stendersi sul letto e fissare il soffitto.

Lì le urla dei suoi genitori non arrivavano e neanche il rumore di piatti e tazzine infranti. Al massimo qualche colpo alla porta di tanto in tanto, come a controllare se lui fosse ancora vivo, ma nulla di più.

Anche in quel momento, a distanza di anni dalla sua prima sigaretta, Deuce provava la stessa sensazione di smarrimento: il futuro davanti a lui era un buco nero, profondo, sconosciuto. Se avesse potuto, se ne fosse stato in grado, sarebbe scappato così, su due piedi, senza voltarsi indietro.

Fanculo Harvey, fanculo il Colonnello, fanculo quei cazzo di soldi.

Erano anni che sperava di svegliarsi un giorno e scoprire che tutto quello che aveva vissuto era solo un brutto sogno e in quell’istante ringraziava di aver trovato dei buoni colleghi come Jay e Toad, gente che non faceva domande pur avendo tutto il diritto di farle.

Eppure c’erano tanti di quegli indizi nel lavoro che aveva proposto a quei due, tante zone oscure che avrebbero dovuto essere spiegate. Ma lui non voleva farlo: come poteva raccontare tutto a quei due? Dei suoi genitori che lavoravano per Harvey. Di come si erano ammazzati a vicenda lasciando lui e la sorella in un mare di guai e di debiti. Di come la ragazza era fuggita all’estero per non restare prigioniera in quella città e di come lui, Deuce, aveva dovuto pagare tutto da solo, con ogni mezzo a disposizione.

Primo fra tutti il suo corpo.

Era stato la puttana di Harvey per troppo tempo e ora che stava per sganciarsi da quell’uomo voleva solo dimenticare il suo passato e non parlarne coi suoi compagni.

Si accese un’altra sigaretta.

Quel piano era una follia, la rapina più incredibile mai fatta. Certo, perché no, andiamo a svaligiare una banca della mafia a bordo di una bicicletta scassata e una sola pistola! Ah, no, giusto, avevano anche quell’utilissimo coltellino svizzero, nessuno avrebbe osato opporsi ad una così temibile banda!

Scosse la testa: che diamine stava facendo? Ci teneva così tanto a morire giovane?

Lui e quegli altri erano solo tre pazzi suicidi che non si rendevano conto di in che guaio si stavano cacciando.

Avrebbe voluto bere qualcosa in quel momento, ma l’ultima bottiglia di Baileys era finita settimane prima e l’unica lattina di birra rimasta in casa giaceva vuota sul pavimento della cucina.

Fumò in silenzio la sua cicca, beandosi di quello stato di vuoto mentale: il giorno seguente avrebbero dovuto fare sopralluoghi, procurarsi qualche arma più seria, limare il piano, ma in quel preciso istante era tanto fortunato da potersi dimenticare di tutto.

 

Che la birra fosse finita, insieme a tutti gli altri alcolici in quella casa, se n’era accorto anche Jay, che continuava ostinatamente a vagare dalla cucina al salotto con la speranza di scorgere in qualche angolo nascosto di quelle due stanze una bottiglia dimenticata.

Mentre proseguiva la sua ricerca borbottava imprecazioni contro l’idiota che si era scolato tutte le riserve, ignorando bellamente il fatto che era stato lui stesso a svuotare lattine e bottiglie una dopo l’altra e in maniera così plateale e assetata da meritarsi un’occhiataccia dal padrone di casa.

Ridacchiò a quel ricordo: oh, lo sapeva cosa aveva pensato Deuce in quel momento.

“Ubriacone del cazzo, alcolista di merda.”

Bé, non aveva tutti i torti, ma non si sentiva poi così incolpa per il suo vizio. Non era l’attaccamento morboso all’alcol tipico di quei vecchi depressi che non avevano nulla di meglio da fare nella vita che ubriacarsi e tornare a casa per picchiare moglie e figli.

Lui non aveva picchiato nessuno dei suoi famigliari, anche perché non ne aveva mai avuto l’occasione. Era stato lasciato a casa del suo vecchio zio zitello all’età di cinque anni e non aveva più saputo nulla né dei suoi genitori né di nessun altro parente.

Non aveva avuto un’infanzia molto felice, se ci ripensava: pochi amici, tutti rimasti con lui per molto poco, e suo zio assolutamente non adatto a crescere un bambino. La maggior parte del tempo l’aveva passata da solo a leggere, fare parole crociate e sognare: non esattamente il massimo di compagnia per un ragazzino vivace come sarebbe stato lui di natura.

Poi era arrivato l’alcol. Jay non era mai stato troppo bravo a relazionarsi con le persone, ma era così facile fare amicizia con quella bottiglia piena di affetto e felicità. L’unica compagnia stabile, su cui poteva sempre contare e che non l’aveva mai tradito.

Gli permetteva di dimenticare la solitudine, i sogni irrealizzati, la vita che stava scorrendo come se non fosse sua, senza progetti, senza amici, senza affetti. Ma la bottiglia c’era sempre, meravigliosa e letale.

E grazie a lei era anche più facile socializzare con altri esseri umani.

Ricordava quelle lunghissime notti insonni passate a ballare con perfetti sconosciuti, imbottito di alcol e con la musica che rimbombava nelle orecchie stordendolo tanto da aver difficoltà a restare in piedi senza cercare appoggio.

Suo zio disapprovava tutto quello nella maniera più assoluta, ripetendogli che non poteva dire di divertirsi assieme ad altri coetanei se tutto quello che faceva era strusciarsi su di loro e non spiccicare neanche una parola, un po’ per lo stato di confusione mentale, un po’ per la musica troppo alta.

Ma lui non poteva capire cosa voleva dire passare ore e ore da solo, senza neanche una persona accanto, non per parlarci assieme, ma anche solo per guardarla, sapere che c’era qualcuno oltre a lui in questo mondo.

E quelle notti scatenate durante le quali faceva esattamente tutto quello che facevano gli altri, come un’unica entità, era una delle poche cose che davano un senso alla sua vita.

Poi suo zio era morto di vecchiaia, lasciandogli un piccolo gruzzoletto che era sparito in poco tempo e da quel momento in avanti la sua vita era stata un continuo racimolare grana per pagarsi la sua amata compagnia alcolica.

E così, tra una bottiglia e l’altra, era finito al bar di Fred, il posto più accogliente che avesse mai visto prima d’ora: c’era gente, musica in sottofondo, alcol, tutto quello che a Jay serviva per vivere bene.

Un ottimo rifugio per la solitudine, anche perché il barista dava l’impressione di capire perché lui beveva, perché passava là ogni singola ora libera; oh, probabilmente non capiva per bontà d’animo o particolare sensibilità emotiva, Jay non credeva in quelle stronzate, specie se si parlava di Fred.

No, quell’uomo capiva perché ne aveva visti altri, chissà quanti, di tizi come lui, che per tirare avanti avevano bisogno di quel bicchiere e di qualcuno con cui parlare. Non per noia, ma per poter sopravvivere.

L’unica cosa particolare del suo caso era che era arrivato a quel punto quasi senza ritorno ad appena ventitrè anni: bella vita di merda.

La bottiglia della salvezza non si vedeva da nessuna parte e il ragazzo lanciò un ultima maledizione prima di lasciarsi cadere sul divano, che era diventato da qualche giorno il suo nuovo letto improvvisato.

Non aveva la più pallida idea di cosa avrebbero fatto il giorno dopo, ma di certo valeva la pena di schiacciare un pisolino per essere in grado di fronteggiare ogni evenienza.

 

Un’assordante musica rap filtrava da sotto la porta chiusa a chiave di quello che, almeno una volta, doveva essere stato lo studio; le pareti erano ancora ricoperte di scaffali dai grossi libri impolverati, ma tutto attorno c’erano scatoloni pieni di cianfrusaglie, sacche di vestiti, un ferro da stiro, un frigo da campeggio e altri oggetti vari. Più che uno studio quel posto sembrava uno sgabuzzino dove gettare la roba che non si sapeva dove mettere.

Per fortuna o per caso c’era anche un letto ad una piazza, forse lì per gli ospiti oppure, più probabilmente, per parenti e amici intimi che non avevano problemi a dormire in quel caos.

Toad dal canto suo non si era lamentato per il disordine, trovare un posto dove dormire senza dover sganciare una lira era più di quanto chiedesse. Aveva anche ottenuto il permesso di sistemare in camera la sua amata bicicletta, l’unico oggetto a cui fosse realmente interessato.

Mentre quell’accozzaglia di suoni distorti e parole scurrili si affievolivano il ragazzo si lasciò cadere sul letto sollevando un gran polverone; a quanto pareva non era molto utilizzata, quella stanza.

Sospirò, stanco come se avesse avuto settant’anni invece che diciotto, e si passò una mano tra i lunghi capelli scarmigliati: avrebbe volentieri chiuso gli occhi per dormire, aveva una gran voglia di sognare, ma prima c’era qualcosa che doveva fare.

Allungò una mano ad afferrare il cellulare e sospirò: quindici nuovi messaggi e cinque chiamate senza risposta.

Tutto da un solo numero: Anne.

Per fortuna che aveva messo in silenzioso, non avrebbe potuto sopportare i commenti acidi e i ghignetti di Jay, a quanto pareva quel ragazzo proprio non lo poteva sopportare. Il che era un peccato, dato che a lui non stava affatto antipatico a pelle, anche se avrebbe fatto volentieri a meno di tutte le sue frecciatine.

Cancellò le chiamate senza risposta e si lesse i messaggi, che dicevano più o meno tutte cose come “ti amo da morire”, “mi manchi”, “chiama quando puoi”, “baci baci baci”.

Reprimendo il brivido di freddo che gli saliva lungo la schiena scrisse una sintetica risposta, sufficientemente romantica per i suoi standard.

“Qui tutto bene, mi sono sistemato e ho trovato un lavoro. Dovrei essere di ritorno in tempi brevi. Mi manchi un sacco, bacio. Pensami.”

In realtà nella sua testa la risposta suonava più o meno come “ti prego, dammi un attimo per riprendere fiato e non assillarmi come se fossi un call-center”, ma sentiva che troncare un rapporto in quella maniera non era esattamente il massimo della cavalleria.

Ad essere sincero anche lui sentiva la sua mancanza, non solo di Anne, ma di tutta la sua famiglia, della sua casa in campagna, dei fratelli, i genitori, gli zii, i vicini, tutti. Erano una bella comunità, molto legata, e Toad l’aveva sempre ritenuta come un’enorme famiglia allargata. E in effetti quando aveva iniziato ad uscire con Anne si sentiva un po’ come se stesse uscendo con sua sorella, una situazione alquanto inquietante.

Spense il cellulare e si sdraiò su un fianco, cercando di prendere sonno nonostante la musica che era tornata a rumoreggiare come prima. Se si trovava lì in quel momento, pensò seriamente, era proprio per il suo legame affettivo con quella specie di famiglia allargata.

Era andato tutto bene fino a che la signora Barnaby, la zia di Anne, non si era ammalata; aveva dovuto affrontare un ciclo di cure molto costoso e tutti avevano versato un contributo perché potesse seguirlo fino in fondo.

Ora stava meglio, ma il problema non era finito lì e gli abitanti di quel paesino non erano in grado, con tutta la loro buona volontà, di pagarle un altro ciclo. E in tutto quel casino era spuntato fuori lui, Toad,

Non era solo a dire il vero, altri ragazzi giovani come lui erano partiti per cercare di rimediare un po’ di soldi, ognuno in una differente direzione.

E Toad era finito nel luogo probabilmente più pericoloso di tutti, il covo delle vipere; ma a lui poco importava, tutto diventava ininfluente di fronte al problema della signora Barnaby. Lui aveva un compito e l’avrebbe portato a termine, a costo di svaligiare una banca o sparare a qualcuno (anche se in cuor suo aveva già deciso che, se fosse stato costretto a farlo, avrebbe mirato alle gambe).

Nel profondo del suo cuore poi, ma non l’avrebbe mai confessato a nessuno, aveva sempre sognato di fare qualcosa come nei film, una sparatoria, una fuga mirabolante, un geniale piano di rapina.

Certo, forse un colpo messo a segno da tre ragazzi con un coltellino svizzero e una bicicletta scassata non era molto da film, ma quelli erano dettagli.

A Toad bastava concludere quella questione e tornarsene a casa con i soldi. E riabbracciare Anne.

Fine del problema.

 

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Capitolo 4
*** The world stops turning when we burn it to the ground ***


4. The world stops turning when we burn it to the ground

 

L’affidabile personcina che secondo Deuce era in grado di recuperare un paio di pistole e tenere contemporaneamente la bocca chiusa si rivelò essere il padrone di un piccolo negozio di dischi all’angolo di una stradina laterale; era un vero bugigattolo, se non fosse stato per l’insegna appesa fuori, ben visibile grazie ad un paio di corna e uno scheletro che la ornavano, chiunque ci sarebbe passato davanti senza degnarlo di uno sguardo.

Jay fissò diffidente lo scheletro che dondolava sinistramente e le pareti esterne, nere e rovinate.

< Di’ un po’, per caso il tuo amico è un metallaro?> chiese al compagno tenendo la voce sufficientemente bassa qualora il proprietario fosse nei paraggi.

< Non esattamente, lui è IL metallaro.> replicò il moro aprendo la porta e facendo segno agli altri di seguirlo.

< Dovresti smetterla di suddividere il mondo in categorie, sai?> fece Toad rivolto al castano, che aveva fatto una smorfia di disapprovazione.

< Tutti noi utilizziamo le categorie per affrontare la realtà, alternativo. E’ nella natura umana, serve a rendere un po’ più ordinato questo caos di merda che ci sovrasta.>

La porta si chiuse alle loro spalle con uno stridio che fece accapponare la pelle ai due; Deuce si era già sporto verso il banco fischiando per richiamare il suo amico.

Se Jay aveva qualcosa da ridire a proposito dei metallari fu molto bravo a nasconderlo perché quando il padrone entrò si fece piccolo piccolo ed evitò qualsivoglia commento acido; in realtà bastava dare un’occhiata all’uomo per capire che sarebbe stato un suicidio non tenere a freno la lingua: era l’uomo più grosso che i tre avessero mai visto, una sorta di armadio a quattro ante, con una folta barba nera che gli ricopriva le guance e scendeva lungo il mento legata con una treccina. Le mani parevano padelle da quanto erano grandi e probabilmente quella sottospecie di gigante sarebbe stato in grado di bloccare una macchina in corsa senza troppi sforzi.

< Ciao Shaun.> lo salutò il moro; gli occhi dell’interpellato saettarono sul suo volto per poi indirizzarsi verso gli altri due che, intimoriti, lo osservavano da una distanza di sicurezza.

< Deuce. Come posso aiutarti?>

La voce cavernosa rimbombò nella stanza, ma il giovane non si scompose minimamente.

< Posso parlarti un attimo in privato?>

Un quarto d’ora dopo i tre uscirono dal negozio con in mano una borsetta di carta con il logo degli Slayers in bella mostra; Jay fece del suo meglio per reggerla con la maggiore disinvoltura, senza far capire ai passanti quanto diamine pesasse quella roba: non aveva mai maneggiato una pistola, ma in quel momento si rese conto che prendere la mira con quell’affare non era cosa da poco.

Forse pesavano così tanto perché erano un vecchio modello arrugginito dell’anteguerra, ma comunque non gl’importava più di tanto, in caso di necessità avrebbe dovuto usarne una e il solo pensiero lo faceva rabbrividire.

< Domani è il gran giorno.> mormorò Deuce, più a se stesso che agli altri, quando furono seduti al tavolo della cucina nel suo appartamento.

< Chissà se domani a quest’ora saremo ancora vivi.> sbuffò il castano, maledicendo la loro mancanza di soldi che gli aveva impedito di comprarsi una birra.

< Bene, direi di ripassare per un’ultima volta il piano.>

 

Si sentiva terribilmente ridicolo accanto a quell’affare, specialmente per tutte le occhiate che i passanti gli rivolgevano – le ragazze, Gesù, le ragazze che ridevano di lui in quella maniera… la sua meravigliosa reputazione stava andando a puttane ogni minuto di più.

Lanciò un’occhiata all’orologio, ma era ancora presto, mancava almeno un quarto d’ora; continuò imperterrito a leggere quel tremendo libro sulle categorie di Kant – a volte si chiedeva se Deuce fosse cresciuto così male a causa delle terribili letture che giravano per casa sua, ma quella era la meno tremenda di tutta la sua ristretta biblioteca. Sfiorò con la punta del piede lo zaino appoggiato alla panchina assieme alla bicicletta.

Se pensava che presto si sarebbe riempito con tre milioni si sentiva impazzire, eppure non poteva far altro che restare lì in postazione a leggere.

Il non essere in grado di sparare l’aveva costretto a non prendere parte direttamente al piano, nel senso che il suo compito era scappare con il bottino mentre gli altri due attiravano l’attenzione. Niente sparatorie, niente incursioni a mano armata in banca per lui… bé, meglio così, non se la sentiva di puntare contro qualcuno qualcosa che non sapeva assolutamente controllare.

Nel peggiore dei casi sarebbe stato necessario ricorrere a quella pistola che ora giaceva in una delle tasche esterne del suo zaino, ma preferiva non pensare a quell’ipotesi. Doveva solo aspettare altri quindici minuti.

 

Non c’erano molte persone a quell’ora, per fortuna: per quanto quella avrebbe dovuto essere una rapina in grande stile, Deuce non aveva intenzione di tenere sotto tiro troppa gente, erano solo delle inutili complicazioni. Come previsto c’erano solo due sportelli aperti, con poca coda a ciascuno dei due.

Strinse con forza la busta di plastica piegata accuratamente nella sua tasca e gettò un’occhiata a Toad; era esattamente nella posizione prestabilita, nella fila affianco alla sua, e non pareva neanche troppo nervoso.

Il moro si chiese se si rendesse davvero conto di cosa stava per fare.

Avevano entrambi il cappuccio della giacca tirato su, ma il volto era scoperto; non avevano ritenuto necessario coprirsi, nessuno conosceva il ragazzo del Texas e, in quanto a Deuce, se qualcuno l’avesse riconosciuto l’avrebbe ricollegato subito ad Harvey, che era proprio quello che volevano.

Scoccò uno sguardo all’orologio, ancora tre minuti all’ora prevista.

La persona davanti a lui nella coda si avvicinò allo sportello, lui strinse istintivamente la mano sul calcio della pistola. Gli ci volle una manciata di secondi per accorgersi che un’anziana vecchietta era passata davanti a Toad senza farsi problemi; con un cenno il capo fece capire all’altro che doveva levarsela di torno.

L’alternativo impallidì: odiava quelle situazioni, in condizioni normali avrebbe lasciato perdere e fatto andare avanti la signora. Peccato che quelle non fossero condizioni normali.

Si schiarì la voce e fece un passo avanti, sfiorando la spalla dell’anziana.

< Mi scusi signora, ma c’ero prima io…>

Jay l’avrebbe preso per il culo per settimane se avesse sentito quel tono innocente e pietoso, ma il ragazzo ricacciò il pensiero da dov’era venuto; la signora non pareva per nulla convinta.

< Oh, mi perdoni, ragazzo, ma ne è sicuro? Non l’ho proprio vista…>

< Mi spiace, ma temo proprio che sia così. Le lascerei volentieri il posto, ma ho i minuti contati…>

Gettò un’altra occhiata all’orologio: due minuti.

L’anziana si fece da parte e lo lasciò passare continuando a scusarsi, ma prima che Toad e Deuce potessero tirare un sospiro di sollievo la donna prese a chiacchierare amabilmente con l’alternativo.

< Mi scusi ancora, sa, la miopia… eh, ormai gli occhi non sono più quelli di un tempo! Ma sa che Lei è davvero un bel giovanotto? Oh, mi ricorda tanto mio nipote, anche lui è molto carino!>

Toad avrebbe dato qualsiasi cosa per poter sprofondare nel sottosuolo, o anche perché si aprisse una voragine sotto quella terribile logorroica e la inghiottisse; il moro dal canto suo avrebbe volentieri pestato quell’orribile vecchia a sangue – non aveva mai sopportato gli anziani e in particolar modo quelli che cianciavano tutto il giorno.

Mancava solo un minuto; il Texano sentiva le goccioline di sudore ghiacciate colargli lungo la spina dorsale.

Improvvisamente un cellulare cominciò a squillare; ci volle un attimo per capire che era dell’anziana.

< Oh cielo! – fece quella recuperandolo dalla borsa – Non capirò mai come funzionano queste diavolerie…>

L’istinto da boy-scout seppellito nel profondo del cuore di Toad si risvegliò e il ragazzo si fece avanti, pieno di buona volontà.

< Deve premere quel tasto verde, signora…>

Un’occhiataccia mortale di Deuce lo fulminò sul posto: dovevano disfarsi della vecchia, era una presenza troppo ingombrante. All’improvviso però al più giovane venne un’idea.

< Premendo quello potrà accettare la chiamata, ma Le conviene farlo fuori, qui dentro rischia di non sentire molto bene. Le tengo io il posto.>

In una situazione differente il moro avrebbe abbracciato il compagno per la trovata, ma mentre la signora usciva più in fretta possibile ringraziandolo di cuore l’orologio segnò l’ora prestabilita.

Tirarono fuori le pistole nello stesso istante e il capo della spedizione sparò un colpo in aria; ci fu un urlo, la gente cominciava ad allontanarsi più in fretta possibile, ma Toad puntò l’arma contro di loro.

< Fermi tutti, il primo che si muove fa una brutta fine. Potete facilmente immaginare quale.>

L’uomo dietro al banco cercò di raggiungere con la mano il pulsante dell’allarme, ma Deuce fu più veloce a puntargli contro la pistola.

< Non lo farei se fossi in te.>

< Cosa volete?>

< Il contenuto della cassetta 4191, Subito, adesso.>

I due impiegati si fissarono, visibilmente sconvolti.

< Siete impazziti? Sapete a chi appartiene quella cassetta?>

< Poche storie, muoviti se vuoi tornare a casa sano e salvo.>

Il moro tirò fuori dalla tasca la sacca di plastica e la aprì con una mano sola mentre l’uomo si affrettava a portare la cassetta.

 

Le sirene della polizia non tardarono a farsi sentire, ma Jay dovette costringersi a non saltare in piedi o dare in escandescenze; si guardò attorno spaesato, come tutti gli altri passanti, e chiuse il libro che teneva sulle ginocchia.

Si alzò dalla panchina e, gettatasi la borsa sulle spalle, si avviò in un vicolo secondario con la bici a mano: era una zona poco battuta, secondo i loro calcoli passavano per quel viottolo del parco solo cinque o sei persone in tutta la giornata. Il luogo che faceva il caso loro.

Montò su quel ferrovecchio di bici e aprì la cerniera della sacca; dei passi concitati alle sue spalle lo fecero voltare e dei Deuce e Toad molto sudati e ansanti gli apparvero accanto.

< Tutto ok per ora, ci sono alle costole.> borbottò il moro e gli porse il sacchetto con i soldi; Jay ne tirò fuori dalla borsa uno identico, pieno di carta straccia e se li scambiarono.

< Andate.> intimò sentendo i passi della polizia farsi più vicini e i due non se lo fecero ripetere, caracollando via con il sacchetto finto.

Neanche un minuto dopo gli agenti furono accanto al castano.

< Ha visto due ragazzi con un sacchetto?>

< Sì, sono andati da quella parte.>

Mentre i poliziotti si lanciavano all’inseguimento lui fece dietrofront e si mise a pedalare nella direzione opposta, la sacca sulle spalle.

 

Se fossero stati dei ladri qualunque nel giro di una mezz’ora si sarebbero fatti incastrare in qualche vicolo cieco, ma, sfortunatamente per la polizia, Deuce conosceva quelle strade meglio delle sue tasche: in meno di un’ora avevano seminato i loro inseguitori, gettato il sacchetto finto e le giacche in un cestino e si erano dileguati in un batter d’occhio.

Jay aveva avuto qualche problema in più di loro a scorrazzare per la città in sella a quel pericolo ambulante, specie quando ad un certo punto si era visto inseguire da due uomini in nero che si erano messi a corrergli dietro.

Non ci voleva un genio per capire che erano scagnozzi della mafia e la paura gli aveva messo le ali ai piedi, tanto da riuscire alla fine a seminarli. Anche se lui la raccontava in maniera molto più tragica.

< Mi sono quasi ammazzato, davvero! Uno di quelli mi stava per afferrare per il portapacchi, diamine, potevo contargli le rughe attorno agli occhi.>

< Bé, era un buon motivo per fracassarmi la bicicletta?> replicò acido Toad nel tentativo di sistemare il povero mezzo di trasporto che non pareva aver retto bene il passaggio sui gradini della scalinata del parco.

< Non è che non fosse malridotta anche prima, eh? E se fossi in te darei un’occhiata ai freni, fanno schifo.>

Mentre l’alternativo si prendeva cura del suo povero ferrovecchio, Deuce continuava a vagare per la stanza, lo sguardo continuava a cadergli sulla sacca aperta.

Tre milioni, cazzo, tre milioni.

Dovevano andarsene, dovevano scomparire dalla circolazione e andarsene il più lontano possibile, dove non potevano trovarli.

< Ragazzi, dobbiamo filarcela. Non è sicuro restare qui.>

Gli altri due smisero subito il loro bisticcio.

< Dove?>

Jay si sentiva un coglione, un vero coglione. Non ci aveva pensato per tutto quel tempo, preoccupandosi invece di organizzare il piano, di aiutare per il colpo: certo, aveva pensato al suo milione, a ripianare i debiti, ma poi?

Dove sarebbe andato? Cosa avrebbe fatto? Non ne aveva idea.

Toad sarebbe tornato nel Texas e avrebbe aiutato la sua amata vecchietta. Deuce se ne sarebbe andato verso Est, a cercare fortuna, ma Jay non voleva partire all’avventura, non da solo almeno.

< Ovunque. Dobbiamo saldare gli ultimi conti e tagliare la corda. Andiamo da Shaun a riconsegnargli le vostre pistole e via.>

 

Fred era rimasto sconvolto quando Jay gli si era presentato davanti con soldi a sufficienza per pagargli tre volte quanto gli doveva e non solo; a dire la verità non gli era piaciuto molto il suo sguardo sfuggente e neanche quell’atteggiamento così schivo, come se si aspettasse che qualcuno gli saltasse addosso da un momento all’altro: non era da lui, c’era poco da dire.

Qualcosa doveva essere andato storto.

Il pomeriggio i tre andarono al negozio di musica di Shaun, che sembrò ben felice di recuperare le sue due pistole, specie perché non avevano sparato neanche un colpo, quindi non erano né rintracciabili né altro, permettendogli di essere in una botte di ferro.

Sembrava tutto terribilmente tranquillo per le strade, una calma irreale che non aiutava nessuno dei tre a rilassarsi; erano quasi arrivati a casa e Jay stava già aprendo la bocca per una battutina sarcastica sul loro stato di tensione quando dei passi alle loro spalle li fecero voltare di scatto.

Il volto di Deuce sbiancò, un’espressione di puro terrore dipinta in viso; gli altri lo fissarono con aria interrogativa, muovendo lo sguardo da lui ai cinque uomini in nero che si trovavano di fronte, in particolar modo un signore di mezz’età, dalla barba brizzolata e gli occhi neri e brillanti come tizzoni ardenti.

< Harvey…>

Quel nome appena sussurrato fece riscuotere gli altri due dalla loro paralisi momentanea; afferrarono da entrambi i lati il moro e si lanciarono giù per la strada a rotta di collo.

< Prendeteli!>

Deuce si era messo a correre con gli altri, ma tremava come una foglia, le gambe lo sorreggevano appena: non doveva accadere tutto questo, era l’ultima cosa che doveva succedere. Era stato abbastanza prudente da nascondere la propria abitazione ai suoi vecchi colleghi, ma i soldi non erano al sicuro in quel momento, non con Harvey alle calcagna.

< Di qua!>

Jay lo trascinò per un braccio lungo un dedalo di vicoli secondari che il ragazzo non aveva mai percorso, Toad li seguiva a mezzo metro di distanza, i loro inseguitori riuscivano senza problemi a star loro dietro, anche se non erano in grado di guadagnare terreno.

Non seppero per quanto tempo continuarono a correre, ma all’ennesima svolta si trovarono nel bel mezzo di un cantiere in costruzione; si guardarono prima di scavalcare in tutta fretta la cancellata di protezione, ma in quell’istante di tentennamento una pallottola sfrecciò accanto alla guancia di Jay.

Prima che gli altri due potessero dire qualcosa Toad si sporse verso Deuce e afferrò di slancio la pistola che teneva fissata alla cintura, sotto la maglietta; un colpo riecheggiò e i ragazzi si voltarono appena per vedere cos’era successo, ma notarono solo uno degli uomini che si teneva il braccio sanguinante, nulla di più.

< Ora saranno più incazzati.> borbottò il castano, ma non fece tempo ad aggiungere altro che l’alternativo gli tappò la bocca e lo trascinò al riparo.

Tentarono in tutta fretta di far perdere le proprie tracce, fino a che non riuscirono a trovare riparo; sentivano i loro inseguitori controllare ogni angolo vicino e si fecero più piccoli dietro a quel cilindro in cemento che avevano raggiunto.

< Cercate ovunque, non fateli scappare!>

Deuce tremava ancora, ma aveva preso un po’ più di colore; sbirciò al di sopra del rifugio: poteva vedere il profilo di Harvey, quegli occhi di fuoco, il naso leggermente aquilino, quelle labbra sottili. Lo stomaco gli si annodò mentre i ricordi tornavano a infestargli la mente.

I tre si fissarono sconvolti.

< Che facciamo?> sussurrò Jay, il sudore gli colava dalla fronte.

Un rumore di gomme sull’asfalto coprì la risposta che Toad stava per dare; rimasero in silenzio mentre uno sbattere di porta annunciava l’arrivo di altri uomini.

< Ma quello è…>

Se il moro avesse potuto avrebbe perso ancora colore, ma ormai il sangue doveva essere completamente defluito dal suo volto; anche Harvey e gli altri non sembravano esattamente contenti del nuovo arrivo.

Il Colonnello.

< Harvey… quanto tempo.>

Nessuno avrebbe mai potuto dire che quell’uomo magro, dall’aria così tranquilla e gentile, un vero damerino, fosse in realtà uno dei massimi capi della mafia.

< Capo…>

< Allora… Ho saputo del tuo colpo geniale alla banca. Audace, non c’è che dire.>

Le labbra di Harvey si assottigliarono pericolosamente.

< Vedo che le voci corrono in fretta. Ma temo che non sia perfettamente esatte.>

Ad un suo cenno i suoi uomini misero mano alle pistole, pronti a far fuoco al suo comando.

< Ma davvero? Perché uno dei miei cassieri ha riconosciuto il tuo amichetto. Come si chiama, Douze? Daice?>

< Deuce. Ma non devi preoccuparti per lui, l’ho già sistemato. Sia lui che i suoi complici.>

< Oh. Bé, questo semplifica le cose e parecchio anche.>

Prima che Harvey potesse fare un gesto, uno solo, gli scagnozzi del Colonnello spararono.

 

Il silenzio surreale che era calato dopo quegli spari, quei tonfi, era insopportabile. Nessuno dei tre ragazzi osò muoversi, sbirciare la scena o tirare il fiato; l’unico rumore era il martellare pesante dei loro cuori e la risatina breve e cattiva del Colonnello.

< Ripulite questo casino, ragazzi. Non lasciate tracce di questi inutili vermi, ma vedete di mettere in bella mostra il corpo di quello sporco traditore. E fate in fretta, voglio andare nel suo covo a recuperare i miei soldi.>

Toad recuperò un poco del suo autocontrollo e gettò un’occhiata al di là del loro rifugio: gli uomini di quel tipo stavano caricando i cadaveri su una delle due macchine, mentre il Colonnello, fischiettando allegramente, saliva sulla seconda.

Parve un’eternità prima che il rumore di una macchina messa in moto squarciasse l’aria e ancora una volta le ruote sgommassero sull’asfalto.

< Cristo…>

Come appena risvegliati dopo un lungo letargo i tre uscirono con circospezione allo scoperto, i muscoli tesi e pronti ad una fuga immediata se il caso l’avesse richiesto, ma non c’era ombra di quei mafiosi, tutto ciò che rimaneva dello scontro di poco prima era del sangue per terra e il corpo di Harvey sollevato e legato con corde ai polsi contro un muro, impossibile non vederlo.

< Che ne avranno fatto degli altri?> mormorò Jay schiarendosi la gola – non si era neanche accorto di quanto impastata fosse la sua bocca e le parole uscivano a fatica.

< In mare. Fanno così per non far ritrovare i corpi.>

Gli altri due sobbalzarono nell’udire la voce di Deuce così roca, così spezzata, come se provenisse dall’Oltretomba anche lui.

< Wow, grandioso… Se penso che ci saremmo finiti noi in pasto ai pesci se fossero arrivati solo cinque minuti prima…> bofonchiò il castano passandosi una mano sudata tra i capelli.

Deuce non rispose, non degnò di uno sguardo nessuno dei suoi compagni: si incamminò verso quel corpo, IL corpo, ma i suoi piedi parevano di piombo e ogni secondo era un minuto in quel tragitto infinito.

Quando si ritrovò di fronte a quel volto fin troppo conosciuto – odiato, ad essere sinceri, e che più volte aveva cercato inutilmente di dimenticare – gli venne una voglia matta di picchiarlo, sferrare un pugno su quella guancia ormai fredda e cominciare ad insultarlo.

L’unico motivo che lo trattenne dal farlo era che non era ancora un caso così disperato da mettersi a oltraggiare un cadavere, ma davvero, quell’uomo se lo sarebbe meritato. Perché quello era l’ennesimo affronto che gli era toccato subire ed era riuscito a farlo nei suoi ultimi istanti di vita, e questo lo mandava in bestia.

Aveva trascorso anni ad essere letteralmente usato da Harvey, che si era servito di lui senza alcuno scrupolo, senza alcun rimorso, un semplice oggetto e basta; da anni si ripeteva quanto odiasse quel bastardo, quanto avrebbe voluto vederlo crepare davanti ai suoi occhi, quanto si sarebbe meritato di soffrire per tutto ciò che gli aveva fatto prima della sua lenta dipartita da questo mondo e invece, invece niente.

Harvey era morto facendo l’ultima cosa che Deuce avrebbe voluto: proteggendolo, quasi lo avesse considerato qualcuno di importante, come se chiedesse perdono per quello che gli aveva fatto. Ma no, quella non era una richiesta di perdono, assolutamente no: era l’ennesima stupida beffa.

Un altro debito che prima o poi Deuce avrebbe dovuto ripagare, in un modo o nell’altro.

Quel bastardo.

Prima che il moro rivalutasse le sue precedenti riflessioni sull’oltraggio di cadaveri la voce di Jay lo richiamò alla realtà.

< Deuce. Non per fare il guastafeste, ma sarebbe il caso di recuperare la roba e svignarcela il prima possibile. Dubito che quel tipo ci metterà tanto a scoprire che in realtà noi siamo ancora vivi.>

Il ragazzo aveva ragione, c’erano altre priorità in quel momento.

Il moro gettò un ultimo sguardo al volto rilassato di Harvey, gli occhi chiusi e quello che assomigliava terribilmente ad un ghigno sulle labbra, poi si voltò di scatto, incapace di reggere quella vista terribilmente irritante.

< Andiamo.>

 

Nonostante Toad fosse quello che rischiava meno, visto che non conosceva praticamente nessuno, fu il primo ad andarsene, malloppo nello zaino e bici a mano, alla ricerca di qualche buontempone che gli desse un passaggio fino a casa (non aveva alcuna intenzione di spendere subito i soldi che aveva guadagnato, anche perché con ogni probabilità quei bigliettoni di gran taglio non sarebbero passati inosservati e gli uomini del Colonnello si nascondevano dietro ogni muro).

Prima di partire comunque lasciò agli altri due il suo numero di telefono, in modo da avvertirli in caso di pericolo o avvisarli che era rientrato senza problemi a casa. Se poi avesse avuto bisogno di racimolare soldi facilmente si sarebbe ricordato di loro.

Deuce era in camera sua, intento a gettare in un borsone tutto ciò che riteneva degno di essere conservato – una foto di famiglia, i suoi amati cd, vestiti, la pistola, qualche libro – quando qualcuno bussò molto discretamente alla porta.

Era Jay.

Il moro sollevò un sopracciglio, cercando di riportare alla memoria quando mai il ragazzo era stato così discreto e silenzioso, con ogni probabilità mai, visto che fino a che Toad non era uscito dal portone aveva continuato a cianciare riguardo “quel dannato alternativo che se la filava più veloce di una lepre”.

Ora che ci ripensava, il castano era sembrato decisamente abbattuto da quando quel campagnolo se n’era andato, come se avesse perso uno dei suoi intrattenimenti preferiti.

< Dovresti prepararti la borsa e andartene, restare qui non è sicuro.> borbottò il moro chiudendo la borsa con un gesto impaziente, rischiando di rompere la zip.

< Ho già preparato la mia roba. Non ho poi molto da portarmi via.>

Non c’era altro da aggiungere, ma il giovane non sembrava intenzionato a scollarsi da quella porta; Deuce si volse verso di lui senza abbandonare la sua espressione scettica.

< E allora?>

Doveva essere difficile per l’altro esprimere quello che voleva, almeno a parole, perché fissò per qualche secondo il pavimento, spostando il peso da una gamba all’altra, prima di rialzare lo sguardo sul suo interlocutore.

< Stavo pensando… non ho mai avuto molti contatti, né qui in città né tantomeno fuori. Sono conosciuto, ma io non conosco gli altri, perciò mi trovo un po’ incasinato ora… sai, dover prendere e andarmene, senza una meta, senza niente da fare, con solo quel bel gruzzolo dietro.>

< Arriva al punto.>

Jay deglutì riluttante e grattandosi la testa parlò.

< Non ho la più pallida idea di dove andare. Se per te non è un problema, non mi dispiacerebbe seguirti.>

Se Deuce prima era scettico, ora era decisamente allibito.

< Ho intenzione di andare molto lontano.>

< Tanto meglio.>

< E’ un luogo un po’ particolare, non so se potrebbe andarti a genio.>

< Ovunque va bene.>

< …>

Non era esattamente quello che aveva in mente di fare, scarrozzarsi dietro quell’ubriacone da una parte all’altra del Paese, da costa a costa, ma a quanto pareva certe cose non si potevano proprio scegliere.

Sbuffò, gettandosi la borsa in spalla.

< Prendi la tua roba e muoviamoci. – sbottò rassegnato – E’ un lungo viaggio verso Est.>

Il castano ghignò sgusciando fuori dalla stanza e ripresentandosi pochi secondi dopo con lo zaino.

< Pronto?>

< Pronto.>

< E allora andiamo.>

Si chiusero il portone alle spalle e se ne andarono, lasciandosi alle spalle in fretta gli occhi guardinghi della città e il rumore della macchina nera, piena di uomini e armi, che dieci minuti dopo parcheggiò sotto l’ormai ex-abitazione di Deuce e sfondò l’ingresso.

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