Oceani in burrasca di My Pride (/viewuser.php?uid=39068)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** [ Atto I: Caravella senza nome › Mar dei Caraibi, 1768 ] Helm's a-lee! ***
Capitolo 2: *** [ Atto II: Porto Rico › Mar dei Caraibi, 1768 ] Landlubber ***
Capitolo 3: *** [ Atto III: Porto Rico, Stiva della caravella › Mar dei Caraibi, 1768 ] Loaded to the gunwall ***
Capitolo 4: *** [ Atto IV: Roseau › Mar dei Caraibi, 1768 ] Shiver me timbers! ***
Capitolo 5: *** [ Atto V: Cruises Fear, Cabina del Capitano › Mar dei Caraibi, 1768 ] Dead men tell no tales ***
Capitolo 6: *** [ Atto VI: Cruises Fear, Ponte di comando › Mar dei Caraibi, 1768 ] Yo-ho-ho! ***
Capitolo 7: *** [ Atto VII: St. George's, Piazza cittadina › Mar dei Caraibi, 1768 ] Scourge of the seven seas ***
Capitolo 8: *** [ Atto VIII: St. George's, Nei pressi del porto › Mar dei Caraibi, 1768 ] Give no quarter ***
Capitolo 9: *** [ Atto IX: St. George's, Locanda › Mar dei Caraibi, 1768 ] No prey, no pay ***
Capitolo 10: *** [ Atto X: Isola di San Andres, Villaggio › Mar dei Caraibi, 1768 ] Davy Jones' Locker ***
Capitolo 1 *** [ Atto I: Caravella senza nome › Mar dei Caraibi, 1768 ] Helm's a-lee! ***
Oceani_1
[
Prima classificata al «Pirates
Contest!» indetto da visbs88 ]
[ Vincitrice del Premio Coppia più originale
al «Chi è normale non ha molta fantasia»
indetto da Butterphil ]
Titolo: Oceani
in burrasca
Autore: My
Pride
Fandom: Originali
› Sovrannaturale
Tipologia: Long
Fiction
Lunghezza:
10 capitoli
per un totale di 42 pagine senza contare le 3 pagine con note finali e
precisazioni
Prompt: Doblone
Citazione: Cominciate
a dare credito alle storie di fantasmi? Ci siete dentro.
Rating: Giallo
/ Arancione
Genere: Generale,
Avventura, A tratti vagamente introspettivo, Malinconico,
Sentimentale,
Drammatico
Nota1: Nel
corso della storia potrebbero essere presenti
espressioni come “Aye” e “Nay”,
che significano rispettivamente “Sì” e
“No” in
italiano, e “Och”, che è un rafforzativo
del “Sì”. Esse non sono un errore,
bensì una scelta personale dell’autore, ormai
affezionatasi a tale dicitura
Nota2: Per
un paio di volte i
capitoli saranno alternati sui punti di vista dei protagonisti
principali
Nota3: I
titoli dei capitoli
saranno quasi tutti espressioni piratesche
Avvertimenti: Slash,
Vagamente - o
forse anche troppo - nonsense, Linguaggio a tratti un po’
colorito
Introduzione: Quell’occhiata
avrebbe dovuto mettermi soggezione, probabilmente,
ma in quel momento ero troppo preso dalla foga di quella che sperai
sarebbe
stata la mia prima avventura. Di una cosa, però, ero
sicuramente certo:
non sapevo in che guaio mi ero cacciato.
DISCLAIMER:
All rights reserved
©
I
personaggi presenti in questa storia sono tutti maggiorenni e mi
appartengono, dal primo all'ultimo. Sono comunque frutto di pura
immaginazione. Ogni riferimento a
cose e persone realmente esistite e/o esistenti è puramente
casuale.
This work
is licensed under a Creative
Commons Attribution-Noncommercial-No Derivative Works 3.0 License.
OCEANI IN BURRASCA
Forse lo scopo della nostra
vita è il viaggio stesso, non la destinazione.
Qualunque risposta mi
attenda, oggi è l’inizio del mio viaggio.
La mia storia comincia qui. [1]
ATTO I:
CARAVELLA SENZA
NOME › MAR DEI CARAIBI, 1768
HELM’S
A-LEE! [2]
Il
cielo azzurro sopra di me era
una sconfinata landa di soffici nuvole bianche. Il richiamo dei
gabbiani si
confondeva con il sinistro scricchiolio dei legacci che assicuravano le
vele di
mezzana e trinchetto, e l’oscillazione dello scafo - contro
il
quale le onde del
mare si infrangevano ad ogni movimento, spumeggiando - riusciva a
donarmi una
sensazione di quiete così appagante che quasi stentavo a
credere alla sua esistenza.
Erano passati poco
più di tre mesi
da quando io e il mio vice-capitano ci eravamo rimessi in viaggio, e
dopo tutto
ciò che era accaduto fino a quel momento era alquanto
bizzarro riuscire a
rilassarsi. Esattamente cinque mesi prima avevamo avuto uno scontro con
la
ciurma di un pirata della peggior specie - tale Jack Black, il
più temuto
corsaro del mar dei Caraibi dopo la dipartita di Barbanera
[3]
anni
addietro -, e purtroppo la situazione non si era svolta a nostro
favore:
complice anche l’ammutinamento dei nostri uomini, che avevano
preferito
schierarsi dalla sua parte piuttosto che combatterlo, ci eravamo
ritrovati
senza più una nave e gettati in mare a far compagnia ai
pesci.
Era stata solo fortuna se un
mercantile aveva navigato sulla nostra stessa rotta. Se fosse arrivato
poco
tempo dopo, la corrente ci avrebbe spinti ancor più a largo
e saremmo diventati
cibo per gli squali senza poter far nulla per sfuggire al nostro
destino. E
invece eccoci lì, due uomini scapestrati su una sottospecie
di imbarcazione che
il mio vice si ostinava a chiamare galeone, sebbene avesse appena le
dimensioni
di una piccola caravella.
L’avevamo acquistata a Tortuga
per
pochi dobloni, anche se le riparazioni ci erano costate un occhio della
testa;
ma con la fretta che avevamo avuto di lasciare quel posto, in modo da
poterci
rimettere in viaggio, avevamo inghiottito il rospo e concluso quello
sporco
affare, arrangiandoci in seguito come avevamo potuto. Ci erano voluti
due
lunghi mesi a lavorare in una sudicia locanda per riuscire a pagare il
carpentiere che si era occupato della nave, però alla fine
eravamo riusciti a
partire una volta per tutte. Le vele erano per lo più
composte da pezzi di
stoffa rattoppati alla bell’e meglio e la bandiera era solo
una bandana, certo,
ma per il momento a noi stava bene così.
«Ancora a guardare il cielo,
Gale
[4]
?».
La
voce del mio vice mi giunse vicinissima ad un orecchio, e sussultai nel
rendermi conto che si trovava accucciato vicino a me. Il suo volto
entrò nel
mio campo visivo nascondendo un frammento abbondante di cielo,
però non me ne
curai, anzi; mi ritrovai a rispondere al mezzo sorriso che mi stava
rivolgendo.
«Il navigatore e il cartografo
sei
tu, qui», rimbeccai sarcastico, drizzandomi lentamente a
sedere quando si
allontanò, sgranchendomi anche il collo. Quanto tempo ero
rimasto sdraiato su
quel ponte, diamine? «Io su questa nave sono
superfluo».
Sbuffò e
ridacchiò, dandomi una
pacca su una spalla. «Non sparare stronzate, Gale»,
replicò con fare divertito.
«Immagina la figura che ci avrei fatto se fossi sbarcato da
solo a Porto Rico
con una bagnarola del genere, per lo più ridotta in questo
stato pietoso».
«Chi è che sparava
stronzate?» lo
scimmiottai ironico, poggiando entrambe le mani sul ponte per
sorreggere il mio
peso e guardare nuovamente in alto. L’odore salmastro del
mare mi giungeva
dritto alle narici, liberandomi i polmoni. «Piuttosto, chi
è che guida la nave
se tu sei qui?»
Con la coda dell’occhio, lo
vidi
fare spallucce. «Il vento», rispose semplicemente.
«Si è alzato un vento di
scirocco, e per la direzione in cui stiamo andando è
perfetto. Ho spiegato la
vela maestra e sistemato i legacci di trinchetto; dovremo continuare su
questa
rotta ancora per un po’».
«Non vedo l’ora di
poter fare
rifornimento», dovetti ammettere. «La stiva
è miseramente vuota».
«Se qualcuno di mia conoscenza
avesse mangiato di meno, negli ultimi tempi, a quest’ora non
moriremmo di
fame», mi fece notare lui, e voltandomi appena lo vidi con un
sopracciglio
sollevato. La bandana che indossava gli nascondeva la fronte e i
capelli
biondi, ma dava maggior risalto ai suoi occhi e ai lineamenti del suo
viso.
«Sono rimasti solo frutti marci».
A quel suo dire lo fulminai con lo
sguardo, alzandomi in piedi una volta per tutte ed attraversando il
ponte per
raggiungere il cassero. «Taglia corto, Cid
[5]»,
rimbeccai, sfiorando il timone con due dita prima di gettargli
un’occhiata. «Non
ero io quello che si strafogava durante la notte, quindi direi che
siamo pari,
no?»
Lo vidi alzare entrambe le mani in
segno di resa, però sorrise. «E’ proprio
come dice lei, oh mio buon Capitano»,
mi prese in giro, scendendo sottocoperta e ritornando solo qualche
attimo dopo,
munito di mappa, bussola e cannocchiale. Mi rivolse appena un cenno
aggraziato
con il capo e salì di vedetta, così da
controllare la situazione dall’alto.
Era sempre stato più esperto
di me
per quel che riguardava la navigazione, lui. Sebbene il più
delle volte fossi
proprio io a detenere il controllo di quella bagnarola, era lui che
controllava
la rotta e virava quando ne era richiesta l’occasione,
prendendo nota della
direzione del vento e del suo cambiamento, controllando persino le
stelle
quando calava la sera ed erano visibili nel firmamento.
L’avevo conosciuto durante i
miei
primi anni trascorsi in mezzo al mare. Semplice garzone in una bettola
a San
Salvador, avevo scoperto quel suo talento come navigatore e cartografo
per puro
caso, ed era stato più che felice di lasciare quella merda
di posto per
intraprendere la vita del pirata, per quanto pericolosa fosse. Aveva
così
potuto sfruttare quella sua innata bravura e specializzarsi nelle arti
mediche,
divenendo con il tempo anche un tiratore provetto. Non c’era
ancora stato
nessuno in grado di battere lui e la sua fedele pistola a pietra
focaia, fino a
quel momento.
La cosa bizzarra era che con il
passar del tempo avevo cominciato a vederlo come qualcosa di
più di un semplice
uomo appartenente alla mia ciurma. Sembrava assurdo a dirlo, ma in
seguito era
divenuto una sorta di compagno, e non soltanto in senso figurato.
Peccato che
molto spesso, anche durante quelle rare volte in cui ci trovavamo a
sfogare
qualche basso istinto sessuale, il nostro rapporto si basasse su
imprecazioni a
denti stretti, epiteti volgari e litigi che sfociavano in un
attorcigliamento
confuso di corpi sudati e cosce muscolose. In fin dei conti,
però, non avevo
nulla di cui lamentarmi. La mia vita era quasi perfetta, ad eccezion
fatta per
un piccolo particolare che mi tormentava ormai da anni.
«Terra in vista!» Il
grido di Cid
mi riscosse di botto e, afferrando svelto il cannocchiale che portavo
appeso
alla cintola accanto alla pistola, lo puntai dritto dinanzi a me ed
osservai
attraverso di esso il mare all’orizzonte, scorgendo il
profilo sempre più
marcato di una città in lontananza. Cappe di fumo si
levavano dal mezzo di
quelle abitazioni, simbolo della laboriosità dei cittadini e
della vita
frenetica che la caratterizzava. Si riuscivano anche a scorgere i
contorni
indistinti di alberi dai rami spogli e di colline rigogliose, e non
potei fare
a meno di sorridere al pensiero che, finalmente, avremmo potuto
rifocillarci a
dovere prima di riprendere il largo.
Attraccammo precisamente una
ventina di minuti dopo. Calata l’ancora, ammainate le vele e
raggruppati i
pochi dobloni che ci erano rimasti, scendemmo a terra e attraversammo
il ponte
di legno che conduceva verso il centro vivo della città,
guardandoci intorno
con estrema attenzione. Oltre alla nostra, erano ormeggiate altre sei
navi
dalle più disparate dimensioni, le cui vele bianche si
gonfiavano in conche di
vento ogni qual volta esso soffiava a sferzare il porto.
C’era persino
un’ammiraglia della marina, e fu specialmente a causa della
sua presenza che
affrettai il passo, seguito a ruota da Cid. Non avevamo ancora avuto
grossi
problemi con essa in quella parte del mar dei Caraibi, ma a causa del
nostro
aspetto, che gridava chiaramente pirati,
era meglio evitarli come la peste.
«Non male come posto,
eh?» fece
Cid con vaga ironia, osservando distrattamente una coppia di bambini
che
correva fra le strade impolverate brandendo dei bastoni, giocando
probabilmente
alla guerra. Poco distante c’erano donne dagli sgargianti
vestiti costosi che
ridacchiavano giulive, confidandosi chissà quali scabrosi
segreti.
Mi lasciai sfuggire uno sbuffo
ilare. «Un po’ troppo chiassosa per i miei
gusti».
«Scherzi? In confronto a
Tortuga
questo posto è un mortorio!» esclamò
Cid con fare fintamente scandalizzato. «Niente
fiumi di rum, niente risse scomposte... nemmeno una bella pollastra che
sia
disponibile a farti divertire un po’ per qualche
doblone».
Assottigliai lo sguardo nella sua
direzione e aggrottai le sopracciglia, sibilando,
«Un’altra parola su una
donna, e giuro che quel coso che hai in mezzo alle cosce lo getto in
pasto agli
squali».
Per qualche attimo mi fissò
sgomento e si fermò, spalancando la bocca in
un’esclamazione muta e sgranando
gli occhi, quasi non credesse alle sue orecchie o non volesse per
niente
prendere in considerazione la mia minaccia. Scoppiò in una
risata frenetica
qualche attimo dopo, terrorizzando un povero vecchio che passava di
lì per
caso. «Och, andiamo, Gale, non guardarmi in quel modo
spaventoso», sghignazzò
divertito. «Lo sai che la mia pistola vuole una sola fondina
[6]».
Stirai le labbra in una linea
sottile, decidendo di dargli le spalle e riprendere la mia traversata
senza
dargli più peso. Rispondergli per le rime avrebbe
significato dargli corda, e
sapevo bene quanto si dilettasse a prendermi in giro quando si trattava
della
mia cosiddetta gelosia. Non che lo fossi davvero, ma la cosa mi
snervava lo
stesso.
Le risatine divertite di Cid
continuarono per un buon tratto di strada, anche quando giungemmo
finalmente
nella zona mercantile della città. Bancarelle dalle
più svariate merci erano
accostate ai lati delle strade, e i venditori urlavano la
qualità dei loro
molteplici prodotti con tripudio e orgoglio, decantandone
rarità e bellezza
anche quando si trattava di comuni patacche. Adocchiai difatti un vaso
decorato
che riproduceva in modo perfetto l’originale, ed ero sicuro
che si trattasse di
una semplice imitazione per due buoni motivi: il primo era che quello
vero non
aveva una scheggiatura alla sommità, e potevo saperlo
proprio perché il secondo
motivo era che l’avevo rubato io stesso ad un ricco mercante
britannico poco
tempo prima che il mio equipaggio si ammutinasse. Era dunque quasi
divertente
vedere quegli uomini affaccendarsi a dar credibilità alle
loro merci.
«Patrick! Datti una mossa,
ragazzo!» sentii esclamare d’un tratto, e
voltandomi in quella direzione vidi
un uomo grande e grosso con una folta barba scura richiamare un
ragazzetto
mingherlino dai lunghi capelli castani legati in un codino, intento ad
osservare il fabbro locale mentre batteva l’acciaio per le
sue spade.
«Arrivo subito, mastro
Garrington!» gli gridò di rimando, parlottando
animatamente con il fabbro prima
di dileguarsi, regalandogli un sorriso divertito. Nel voltarsi si
girò senza
volerlo verso di me, permettendomi di vedergli il viso, e raggelai
nello stesso
istante in cui quei suoi occhi marroni incontrarono i miei. Quel
ragazzo di
nome Patrick parve però non farci caso più di
tanto, agitando una mano in segno
di saluto come avrebbe fatto un bambino di cinque anni. Lo vidi poi
correre via
come una tempesta, richiamando più e
più
volte l’uomo che si stava allontanando senza aspettarlo; io
rimasi lì,
immobile, con le braccia distese lungo i fianchi e la bocca aperta in
un’esclamazione senza voce. Non poteva essere. Era
inverosimile. Non era
possibile che fosse lui. Allora perché quel ragazzo gli
somigliava così tanto?
«Ehi, Gale, che
succede?» Faticai
non poco a rendermi conto che il borbottio di sottofondo nelle mie
orecchie era
la voce di Cid, e fu sbattendo furiosamente le palpebre che mi ripresi,
gettando una rapida occhiata verso di lui.
Mi portai una mano alla fronte e
scossi lentamente la testa, quasi cercassi di riprendermi dallo
sconcerto che
mi aveva investito. Ero forse stato suggestionato da qualcosa, se quel
pensiero
mi aveva colto così d’improvviso?
«Niente, Cid. Niente», risposi appena in un
sussurro,
sforzandomi di abbozzare un sorriso. «Cerchiamo piuttosto una
locanda, ho
fame».
Cid, però, mi
osservò guardingo.
«Sicuro che sia tutto okay, Gale?» mi chiese
sospettoso. «Sei diventato bianco
come un fantasma tutto d’un tratto».
Bianco come
un fantasma. Beh, non avrei saputo trovare un modo
migliore per dirlo. Forse anche il ragazzino che avevo visto di
sfuggita era
stato semplicemente un fantasma partorito dalla mia mente rimasta
troppo a
lungo in balia del mare. Già, doveva essere senza dubbio
così.
Decisi dunque di non ribattere,
dandogli semplicemente le spalle. «Andiamo, Cid»,
tagliai corto, non volendo
discutere con lui com’ero solito fare. In altre circostanze
non ci avrei
pensato su due volte, ma quella strana apparizione aveva rimescolato
così tanto
il mio animo che mi sentivo sfatto.
Sperai solo che si trattasse di
una semplice coincidenza.
[1] Citazione
tratta dal primo episodio della terza
stagione del telefilm “The Lost World”, ispirato
all’omonimo romanzo di Sir
Arthur Conan Doyle.
[2] Grido
d’avvertimento per l’equipaggio che la
nave è in procinto di fare il giro, usato specialmente
quando si compie una
virata. Quando si gira bruscamente, difatti, vele e pennoni potrebbero
improvvisamente cambiare posizione.
La scelta del titolo
sarà chiara mano a mano che si andrà avanti con
il capitolo, o almeno questa è
l’intenzione.
[3] Nato
nel 1680 e morto il ventidue novembre del
1718, il suo vero nome era Edward Teach, e fu un celebre pirata
britannico che
ebbe il controllo del Mar dei Caraibi tra il 1716 e il 1718, durante la
cosiddetta età dell’oro della pirateria.
Aveva fama di essere uno
dei pirati più feroci, e alla sua immagine e alle sue
imprese, reali o
leggendarie che fossero, si deve in gran parte lo stereotipo del
“pirata
cattivo” nella cultura. I suoi modi terrorizzavano le sue
vittime ma anche lo
stesso equipaggio; si dice che usasse sparare con la pistola alle gambe
dei
suoi uomini come misura punitiva o semplicemente per mantenere la
disciplina a
bordo.
[4] Il
nome del Capitano non è stato scelto a caso
ed è ovviamente uno pseudonimo. La parola
“Gale” in inglese significa per
l’appunto tempesta, burrasca, e la scelta sarà
chiara solo una volta giunti
alla fine della storia, o almeno questa è
l’intenzione.
[5] Omaggio
ai tanti Cid comparsi in
tutti i capitoli principali, spin-off, film o anime della saga Final
Fantasy.
Assieme ai chocobo e ai moguri, Cid è un marchio di fabbrica
e non appare mai
come la stessa persona, interagendo con il gruppo di eroi di turno in
modo
differenti.
Per
la maggior parte dei titoli, Cid significa aeronave, e quasi sempre il
Cid di
turno guiderà egli stesso un veicolo o ne farà
dono ai protagonisti per usarlo
nelle fasi avanzate del gioco. Cid è solitamente un uomo di
mezza età, se non
più vecchio, che funge da figura di riferimento e fa un
po’ da padre ai
protagonisti più giovani.
Il
ruolo del Cid di questa storia è per l’appunto il
navigatore, dunque neanche il
suo nome è stato scelto a caso. Ha anche un altro ruolo che
si scoprirà andando
mano a mano avanti con la storia.
[6] Modo
non volgare per intendere che l’unica
persona con cui vuole andare a letto è per
l’appunto Gale.
Questa nota è
probabilmente - anzi, sicuramente - inutile, ma ci tenevo lo stesso a
chiarire
la cosa per evitare possibili fraintendimenti.
Messaggio No Profit
Dona l'8% del tuo tempo
alla causa pro-recensioni.
Farai felici milioni di
scrittori.
|
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Capitolo 2 *** [ Atto II: Porto Rico › Mar dei Caraibi, 1768 ] Landlubber ***
Oceani_2
ATTO II: PORTO RICO
› MAR DEI CARAIBI, 1768
LANDLUBBER
[1]
Ogni cosa che vedevo, dal mobiletto con la lampada ad olio
alle tende alla finestra, era avvolta da un pallido alone grigiastro,
simbolo
che erano da poco passate le nove di sera.
A svegliarmi era stato il continuo
latrato del nostro cane,
Nesh, seguito dalla voce sommessa di mastro Garrington, che mi
richiamava
insistente e con una nota di irritazione. Mugolai, coprendomi la testa con
il cuscino e bofonchiando qualche parola a mezza voce nella vana
speranza che,
sentendomi, quel fastidioso borbottio cessasse e mi lasciasse al mio
riposo per
altri cinque minuti. Avevo fatto proprio male a mettermi nuovamente a
letto per
riposare, dopo la tornata delle otto.
Ero quasi pronto a sprofondare
nuovamente nel sonno quando un tonfo sordo mi fece sussultare, e mi
ritrovai
praticamente sul petto le grosse zampe di Nesh, che uggiolava come non
mai. A
malincuore dovetti alzarmi per quanto concessomi, sbadigliando e
posando al
tempo stesso una mano sul dorso peloso del mio cane, che per tutta
risposta
allungò il muso verso di me per leccarmi il viso.
«Sono sveglio, Nesh, sono
sveglio»,
borbottai con voce impastata, cercando di allontanarlo inutilmente da
me. Era
un grosso cane da pastore dal pelo lucente, pieno di voglia di giocare
sebbene
non fosse più un cucciolo. Anziano ma vispo,
ripeteva sempre
mastro
Garrington. E da come lo vedevo agitare la coda e tirarmi un lembo
della
camicia da notte che indossavo, non potevo non dargli pienamente
ragione.
Con uno sbuffo divertito riuscii a
liberarmi dalla sua morsa, scansando le lenzuola per poggiare i piedi
oltre il
bordo del letto e stiracchiarmi tranquillamente. Nesh se ne
approfittò subito,
infilando il muso sotto le mie braccia per strofinare il naso contro di
me,
facendomi ridacchiare. «Andiamo, smettila», lo
ammonii in tono scherzoso. «Mastro
Garrington ci striglierà entrambi se non mi metto a lavoro
alla svelta».
Mi giunse in risposta un breve
abbaiare prima che, probabilmente capendomi, Nesh scendesse dal letto,
trotterellando svelto fuori dalla camera mentre agitava la coda. Quel
cane era
peggio del suo padrone. In senso buono, ovviamente. Dawson Garrington
era stata
la sola persona che aveva deciso di prendersi cura di me. Cinque anni
prima mi
aveva trovato sulla spiaggia privo di sensi, e a niente era servito
chiedermi
chi fossi o quale fosse il mio nome una volta risvegliatomi. Tutto
ciò che
avevo ricordato in quel momento era stato un immenso bagliore
infuocato,
difficile capire se rappresentasse un incendio o solo un tramonto sulle
coste
dell’arcipelago. Avevo provato a sforzarmi, ma la mente mi si
era affollata di
voci confuse e grida, facendo solo in modo che mi smarrissi di
più. Mastro
Garrington aveva così deciso di accogliermi nella sua casa,
sebbene non avesse
mai voluto avere a che fare con i mocciosi. Ero stato lui molto grato
di quella
gentilezza offertami, anche se spesso e volentieri avevo
l’irrefrenabile voglia
di andarmene da lì.
A quei pensieri, scossi la testa,
affrettandomi a darmi una lavata e a cambiarmi, legandomi in fretta e
furia i
capelli in un codino. Non ero mai stato uno di quei ragazzi dalla
grazia e dai
lineamenti femminili, anzi, forse il mio volto si presentava un
po’ più duro di
quanto in realtà non fosse. Portavo i capelli lunghi solo
per una questione
d’abitudine, ma non mi ero mai soffermato a curare il mio
aspetto più del
necessario.
Mi allacciai la casacca alla gola
e indossai gli stivali, arraffando quella vecchia patacca con cui ero
stato
trovato e che ormai mi portavo sempre dietro. Grande quanto un doblone,
sopra
vi era raffigurato un animale molto simile ad una tigre e, intorno ad
essa, vi
era inciso qualcosa in una lingua che non conoscevo, ma non mi ero mai
soffermato a capire cosa volessero significare quelle scritte. Per me
rappresentava solo un qualcosa legato alla mia vita passata, per quanto
non la
ricordassi. Era più che altro un portafortuna, se la si
voleva mettere in quei
termini.
Scesi le scale e giunsi al piano
di sotto, trovando mastro Garrington già a lavoro: quella
sera c’erano
stranamente parecchi clienti, e non sapevo dire se la cosa fosse da
considerare
un buon segno o meno. Di solito nessuno gironzolava da quelle parti se
non a
notte ormai inoltrata, dunque vedere qualcuno seduto a quei tavoli
malmessi
durante i primi bagliori della sera era una bizzarra novità.
I nostri clienti
abituali si presentavano per lo più dopo la mezzanotte,
quando il sole era ormai
calato oltre l’orizzonte da un bel pezzo e le ronde di
guardia si spostavano
nella parte ricca della città. In cinque anni avevo imparato
a conoscere la
maggior parte di loro e il lavoro che svolgevano, e non tutti erano
rispettosi
delle leggi. Tra mercenari, malfattori e pirati, lì, quasi
mi meravigliavo che
non ci fosse ancora scappato qualche morto. Di risse ce
n’erano praticamente
ogni sera.
Nonostante fossi felice della vita
che conducevo, però, negli ultimi tempi avevo cominciato a
sognare di navigare
libero per i sette mari, senza leggi né regole da
rispettare. Ero rimasto a dir
poco incantato nell’ascoltare le favolose avventure narrate
dai pirati che,
quando attraccavano da quelle parti, venivano a rifocillarsi nella
taverna del
vecchio mastro Garrington, e non era raro che mi soffermassi per ore ed
ore
accanto ai loro tavoli per non perdermi una sola parola, chiedendomi al
tempo
stesso che effetto avrebbe fatto assaggiare fino all’ultima
goccia l’ebrezza di
quella loro libertà. Avrei voluto solcare gli oceani a bordo
di una grande nave
che scivolava sull’acqua a vele spiegate, vedere
l’effetto che faceva osservare
il sole morire oltre l’orizzonte, e fissare la bandiera nera
che veniva
sferzata dal vento durante quelle traversate. Però sapevo
che quelle sarebbero
solo rimaste delle mie fantasie, purtroppo. Non avrei mai lasciato quel
posto.
«Patrick! Ma che diamine hai
oggi,
ragazzo? Scattare, coraggio!» La voce di Mastro Garrington,
proveniente dalle
cucine, mi fece sussultare, poiché mi ero talmente perso nei
miei più disparati
pensieri che avevo praticamente dimenticato il motivo per cui ero stato
chiamato laggiù. Basta fantasticare su storie di pirati e
grande avventure. Ero
lì per lavorare e servire ai tavoli, nient’altro.
La mia immaginazione avrebbe
potuto navigare sulle rotte dei Sette Mari in un altro momento.
Mi misi a lavoro con un sospiro,
stando attento a dove mettevo i piedi mentre mi incamminavo nella ressa
di
quella locanda trasandata. I tavoli che avevamo erano sempre stati
sudici e
malfermi, e a niente valeva lavarli ogni singolo giorno per tentare di
eliminare almeno uno strato del sudiciume che li ricopriva; le sedie
non se la
passavano meglio, tra l’altro, giacché la paglia
con cui erano state
intrecciate si era ormai ridotta ad un ammasso aggrovigliato di fili
indistinti
e sporchi. Persino il pavimento faceva letteralmente schifo, e
più volte avevo
richiamato Nesh perché arraffava tutto ciò che vi
rimaneva appiccicato sopra.
Quella sera non era da meno: non appena vedeva qualcuno dei clienti far
cadere
inavvertitamente qualcosa dal piatto, lui accorreva come un fedele
spazzino e
ingurgitava tutto, senza lasciare neanche una briciola. Che cane
ingordo.
Proprio in quel momento lo vidi
pararsi dinanzi a me come una freccia scoccata da un arco, correndo
come un
matto per raggiungere il lato opposto della locanda; tentai di restare
in piedi
per quanto concessomi, attento a non far cadere i piatti che reggevo
con
entrambe le mani, però persi l’equilibrio e caddi
addosso ad uno dei clienti,
sporcando me stesso e anche lui con la brodaglia che stavo
trasportando. Non mi
rimisi neanche in piedi che mi sentii afferrare per il colletto da una
mano
enorme, ritrovandomi praticamente faccia a faccia con
quell’energumeno. Con
quella stazza e quell’aria da armadio a quattro ante, ero
più che certo che non
me l’avrebbe fatta passare liscia neanche se gli avessi
chiesto scusa.
«Che diavolo fai,
moccioso?»
sbottò ad una spanna dal mio viso, appestandomi con il suo
alito che puzzava di
rum scadente e pranzi degni di una pattumiera. Quasi riuscì
a farmi venire un
capogiro, però non potei fare a meno di lasciarmi sfuggire
un sorriso
sarcastico.
«Puzzavi così tanto
che pensavo
fosse la spazzatura», ribattei, maledicendo la mia linguaccia
per quella battuta
infelice, specialmente quando quel tipo mi sferrò un pugno
in pieno viso con
tutta la forza che aveva. Diavolo, se faceva male! Faceva
maledettamente male.
Mi ritrovai inginocchiato a terra con una mano premuta contro la bocca,
sentendo il sapore del sangue sulle labbra; mi passai due dita su di
esse e,
portandomele davanti agli occhi, le vidi macchiate di rosso. Beh,
perfetto.
Solo un labbro spaccato ci mancava.
Ebbi appena il tempo di voltarmi
che un altro colpo ben assestato mi centrò in pieno stomaco,
lasciandomi
paonazzo e senza fiato. Mi accasciai su me stesso e boccheggiai,
probabilmente
nel vano tentativo di ricordarmi come si faceva a respirare. Fui quasi
tentato
di chiudere gli occhi quando vidi quel tipo pronto a colpirmi ancora,
ma
davanti al mio campo visivo si parò un braccio nascosto da
un pesante cappotto
con jabot. «Il ragazzo non l’ha fatto
apposta», esordì una voce calma e pacata.
Aveva uno strano accento straniero che non riuscivo a definire,
però ero certo
che fosse la prima volta che il possessore di quella voce capitava da
quelle
parti. «E accanirsi contro di lui non ti servirà
comunque a niente».
Restai lì per lì
interdetto,
osservando il tipo che era venuto in mio soccorso: indossava un logoro
giaccone
rosso dalle maniche a sbuffo, al di sotto del quale era visibile un
angolo di
una camicia che un tempo era sicuramente stata più pulita di
quanto non
apparisse in quell’esatto momento; i lunghi pantaloni erano
dello stesso colore
dei suoi capelli, d’un castano così chiaro da
sembrare vagamente biondo; non
potei vederlo con attenzione in viso, ma mi parve di vedere sul suo
occhio
sinistro uno scorcio di quella che sembrava una cicatrice.
Ciò che non lasciava
dubbi era il cappello piumato sulla sua testa: avevo visto soltanto una
categoria
di persone con quello stesso copricapo, e ciò poteva solo
significare che
quell’uomo era un pirata. Più lo guardavo,
però, più mi sembrava di averlo già
visto da qualche parte; era impossibile, lo sapevo, ma allora
perché provavo
quella bizzarra sensazione?
Feci per aprire la bocca quando
vidi l’energumeno che mi aveva aggredito scansare malamente
il braccio di quel
pirata, e non potei fare a meno di indietreggiare come la restante
clientela
nel momento esatto in cui avanzò minaccioso. «Chi
diavolo credi di essere, tu?»
sputacchiò con voce roca, digrignando i denti gialli.
«Vedi di farti i cazzi
tuoi, stronzo».
Quel tipo sospirò, scuotendo
poi
il capo con fare sconsolato. Era stato l’unico a restare
fermo in quella stessa
posizione, come se non temesse minimamente la rappresaglia a cui
avrebbe potuto
dar vita quell’armadio a quattro ante. «Non ho
intenzione di battermi con te
per colpa del moccioso, omaccione, quindi datti una calmata»,
lo spronò
tranquillamente, sollevando appena un angolo della bocca in un sorriso
cordiale.
Lo fissai con tanto d’occhi.
Quel
tipo era pazzo o cosa? Aveva una bella stazza anche lui, certo, ma non
era
nulla se paragonato a quell’energumeno che aveva dinanzi.
Avrebbe potuto
stritolargli la testa con una sola mano, e l’avrebbe di
sicuro fatto se in
quell’esatto momento non fosse stata scardinata la porta
della locanda; lo
schiocco sordo dei cardini fu sovrastato dalle voci altisonanti e
perentorie
delle guardie, che avevano fatto irruzione a baionette spianate. Tra
loro era presente
anche la possente figura del Commodoro Waine, che si guardò
intorno con aria
spavalda e austera. Quel tipo non mi era mai piaciuto, e il fatto che
facesse
parte della marina c’entrava ben poco; era un uomo viscido e
infido, come un
serpente dagli occhietti neri che squadrava la sua preda in attesa di
inghiottirla. Si vociferava persino che avesse fatto impiccare chiunque
fosse
in disaccordo con lui. E con i pirati non aveva la benché
minima pietà.
«Lui
dov’è?»
domandò con voce
tonante, bloccando tutti i presenti in un attimo di etereo stupore. Non
una
mosca volava nella locanda, e l’atmosfera d’odio e
di rissa che aveva aleggiato
fino a quel momento sembrava essere sparita nel nulla, quasi non ci
fosse mai
stata.
Non capii cosa volesse intendere
il Commodoro con quelle parole, e, dalle espressioni dei clienti,
neanche loro
si capacitavano di ciò che stesse tentando di domandare. Ci
guardammo tutti
nello stesso e identico istante, come se volessimo cercare una risposta
nel
volto di qualcun altro, ma fu proprio nel far questo che mi accorsi che
mancava
una testa all’appello: dov’era finito il tipo che
mi aveva appena salvato? Era
forse lui l’uomo che il Commodoro stava cercando? Beh, se era
scappato così
velocemente, evitando anche una sicura scazzottata, non poteva essere
altri che
lui.
«Pagherete anche voi le
conseguenze, se lo nascondete!» continuò il
Commodoro Waine, fissando ogni uomo
presente dall’alto della sua superbia. Il naso aquilino
tremò, simbolo che
stava iniziando a spazientirsi. Gettò un’occhiata
ai suoi uomini, serrando la
mascella in modo convulso. «Guardie! Mettete a soqquadro
questa topaia!»
I suoi commilitoni non se lo
fecero ripetere due volte, anch’essi impauriti dalla
reputazione che il
Commodoro si portava sulle spalle; cominciarono dunque a rivoltare i
tavoli, a
rompere le bottiglie, come se quello potesse aiutarli in qualche modo a
trovare
l’uomo che stavano cercando. Non esitarono nemmeno ad entrare
nelle cucine,
cacciando a pedate mio padre e ignorando i suoi impropri rivolti alla
loro
persona. Con il coltellaccio che reggeva cercava di intimidirli,
agitandolo a
destra e a manca come se fosse una vera e propria arma, ma avrebbe
fatto
davvero ben poco contro le baionette di cui ognuno di loro disponeva.
L’abbaiare di Nesh si confuse con le esclamazioni e gli
epiteti che venivano
lanciati contro i soldati del Commodoro, senza che nessuno di essi si
prendesse
la briga di starne a sentire qualcuno; quando finalmente se ne
andarono, tutto
ciò che ci rimase fu una bottiglia di rum ancora intera sul
bancone e più della
maggior parte dei tavoli rovesciati su loro stessi, con il pavimento
colmo di
cocci e bicchieri.
«Che Dio li fulmini,
perdiana!»
ringhiò mio padre, stringendo il manico del coltellaccio con
una tale furia che
fui certo gli si fossero disegnate le mezze lune delle unghie sui
palmi. «Cosa
diavolo volevano questa volta?»
Stavo aiutando ad alzare i tavoli
quando vidi che uno dei nostri clienti abituali, Jonathan, aveva
scoccato una
rapida occhiata nella sua direzione. «Forse quel tipo che se
l’è squagliata,
Garrington», lo informò, e sbattei le palpebre nel
sentire che aveva avuto la
mia stessa opinione. «Se l’è filata non
appena ha visto la porta sradicata».
«Che clientela
malfidente», esordì
una voce proveniente dal lato destra della locanda, nel punto esatto in
cui le
lanterne ad olio avevano smesso di illuminare la zona già da
un pezzo. Dalla
penombra spuntò il cappello piumato di quel tipo, e il
sorriso sulle sue labbra
fu capace di irritare tutti i presenti. Me incluso. «Quei
loschi figuri non
cercavano mica me, eh».
Mastro Garrington gli corse
incontro, afferrandolo per il colletto con una mano mentre con
l’altra lo
teneva sotto tiro con il coltellaccio. «Tu, piccolo diavolo,
non venirci a
raccontare cazzate» sibilò, avvicinandogli la lama
al collo. Il pirata la
guardò per quanto concessogli e deglutì,
reclinando un po’ la testa
all’indietro come se in quel modo potesse evitarla.
«Non voglio guai con il
Commodoro, quindi ti conviene sparire prima che decida di cavarti del
tutto l’occhio».
Sapevo con completa certezza che
le parole di mio padre non sarebbero state vane. Non era la prima volta
che
minacciava qualcuno in quel modo - aveva persino minacciato un tipo,
tale Josh
il Rosso, di strappargli gli attributi solo perché tempo
addietro aveva
infastidito l’unica cameriera che avevamo -, dunque ero certo
che dicesse sul
serio. Però qualcosa mi diceva che quel pirata aveva detto
la verità. Beh,
rettificai, se non
tutta, almeno parziale.
«Mastro Garrington», tentai quindi
di chiamarlo, non ottenendo la tanto agognata attenzione che avevo
desiderato.
Allora ci riprovai, riuscendo soltanto ad irritarlo maggiormente. Mi
scoccò
difatti una veloce occhiata senza allontanare la lama dalla gola di
quel
pirata, e ci mancò poco che con quel brusco movimento gli
tagliasse la
carotide.
«Sta’ zitto quando
gli adulti
parlano, ragazzo», mi ammonì in tono duro e
autoritario. «Vedi piuttosto di
darti da fare con gli altri per rimettere a posto».
«Ma...»
«Niente ma, ragazzo, e ora
muoviti».
Dovetti obbedire malgrado tutto,
ma non prima di aver lanciato un’ultima occhiata al tipo con
il giaccone rosso.
Se n’era rimasto lì ad osservarmi con quei suoi
occhi verdi, per nulla
preoccupato della lama che aveva quasi rischiato di ferirlo
mortalmente. Il suo
sguardo parve indagatore e irriverente, come se stesse cercando di
leggere la
mia anima anziché soffermarsi solo sul mio aspetto fisico.
La cosa non mi
piacque per niente, forse perché quel modo di fare mi aveva
messo in
agitazione; però fu proprio nel vederlo con attenzione in
viso che aprii la
bocca per dare vita ad un’esclamazione sorpresa.
«Ah!» lo additai. «Tu sei il
tipo di oggi pomeriggio!»
Lui sorrise maggiormente.
«Proprio
io, ragazzo», rimbeccò, venendo però
immediatamente richiamato all’ordine
quando la lama gli segnò parzialmente una guancia.
«Sono io il tuo interlocutore,
furfante», riprese mio padre in tono aspro.
«Perché la marina ti cerca? Chi
diavolo sei?»
Malgrado tutto, quel pirata
ridacchiò. «Capitan Gale, messere. Per
servirla», si presentò in tono di
scherno, e con la coda dell’occhio lo vidi abbozzare persino
un altro sorriso.
Allora quel tipo era davvero stupido. Però non potei fare a
meno di dar vita
anch’io ad un sorriso, puntando gli occhi sul pavimento per
far finta che fossi
concentrato a pulirlo. «E non ho la benché minima
idea del perché quei quattro
marinaretti mi stiano dando la caccia, ho appena attraccato».
«Vedi di non prendermi per il
culo, pirata».
«Och, non lo farei
mai», si
affrettò a chiarire. «Non sarebbe neanche il mio
tipo, messere».
Mastro Garrington lo
strattonò in
malo modo, puntandogli la lama vicino all’occhio parzialmente
sfregiato prima
di spingerlo lontano da sé. «Fuori da questo
posto, feccia», gli ringhiò
contro. «E guai a te se ci rimetti piede».
Il Capitano tossicchiò e si
portò
una mano alla gola, toccando il punto in cui si era trovato il
coltello; alzò
poi lo sguardo su mio padre, togliendosi il cappello per rivolgergli un
saluto
galante con esso. «A mai più rivederci, allora,
mio buon locandiere». Sembrò
non resistere dal prenderlo in giro ancora una volta, e fu solo per
miracolo se
riuscì a scansare il coltellaccio che mio padre gli
lanciò contro mentre si
defilava verso l’uscita.
Nel vederlo andare via, però,
il
mio cuore sembrò quasi perdere un battito; mi alzai in piedi
senza neanche
essermi reso conto di averlo fatto, lasciando cadere la pezzuola che
stavo
usando su quel pavimento incrostato di sudiciume. Non volevo che se ne
andasse.
Non volevo che scomparisse per sempre dalla mia vita. Il modo in cui mi
aveva
guardato aveva risvegliato in me delle strane emozioni, e fino a quel
momento
non avrei mai pensato che esse esistessero. Feci dunque qualche passo
avanti
con fare esitante, cominciando poi ad aumentare la mia andatura mano a
mano che
mi avvicinavo alla porta.
Quando la imboccai sentii appena mastro
Garrington urlare «Patrick! Dove credi di andare,
ragazzo!», ma io non vi diedi
peso, cominciando a correre nel momento esatto in cui vidi la stoffa
rossa di quel
familiare giaccone scomparire oltre il vicolo di una stradina. Se
volevo
raggiungerlo dovevo affrettarmi, e fu esattamente quello che feci; non
ci
pensai due volte ad inoltrarmi nella città per seguire quel
pirata, ansimando a
metà strada perché non ero abituato a correre
così tanto. Lo vidi qualche
istante dopo, rendendomi conto che si stava dirigendo verso il porto.
Voleva
forse salire sulla sua nave? L’avrei del tutto perso, se
l’avesse fatto.
«Ehi, Capitano!» lo
chiamai,
aumentando il passo per riuscire a stargli dietro. Era velocissimo, e
da un
uomo della sua stazza non me lo sarei mai aspettato. Grosso
com’era, difatti,
avevo quasi creduto che fosse piuttosto lento.
Lo vidi voltarsi appena verso di
me senza arrestarsi, rallentando però un po’ il
passo per fare così in modo che
lo raggiungessi. Non sembrava volersi sbarazzare di me, e la cosa fu
quasi
capace di farmi sorridere. «Che ci fai qui,
ragazzo?» mi domandò scettico.
Risposi solo dopo aver recuperato
un po’ di fiato. «Vengo con lei, mi sembra
ovvio!»
«E come la metti con il tuo
vecchio?»
«Lui
capirà», sussurrai in
risposta, continuando a correre senza voltarmi indietro. Sentivo che se
l’avessi fatto anche solo per un istante, avrei potuto
cambiare idea e
abbandonare quella mia fuga per tornare sui miei passi. «In
fondo questo non è
mai stato il mio posto, e lui che mi ha accolto dovrebbe saperlo
bene».
Mi lanciò una nuova occhiata,
e
quasi mi parve di vedere sul suo volto l’ombra di un sorriso.
«Ti ha accolto,
eh?» ripeté. «E va bene, allora. Come
vuoi tu, ragazzo», ridacchiò con fare
divertito, afferrandomi per un braccio come se volesse far
sì che mi
affrettassi, «ma guai a te se provi a fare qualcosa di
stupido», soggiunse,
guardandomi attento con quei suoi occhi verdi e lasciandomi ben
intendere che
non scherzava.
Quell’occhiata avrebbe dovuto
mettermi soggezione, probabilmente, ma in quel momento ero troppo preso
dalla
foga di quella che sperai sarebbe stata la mia prima avventura. Di una
cosa,
però, ero sicuramente certo: non sapevo in che guaio
mi ero cacciato.
[1] Persona
che non conosce il mare o l’arte della
navigazione. Il termine non deriva da “amante della
terra”, bensì dalla radice
di fede, che significa goffo e scoordinato.
Un marinaio d’acqua dolce,
ovvero il “Landlubber”, è dunque uno che
è inutile in mare a causa della sua
familiarità sulla terra. E’ specialmente usato per
insultare le scarse capacità
di navigazione di un uomo, e la scelta del titolo sarà
chiara solo durante la
lettura del capitolo, o almeno questa è
l’intenzione
Messaggio No Profit
Dona l'8% del tuo tempo
alla causa pro-recensioni.
Farai felici milioni di
scrittori.
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Capitolo 3 *** [ Atto III: Porto Rico, Stiva della caravella › Mar dei Caraibi, 1768 ] Loaded to the gunwall ***
Oceani_3
ATTO III:
PORTO RICO,
STIVA DELLA CARAVELLA › MAR DEI
CARAIBI, 1768
LOADED TO
THE GUNWALL [1]
«Adesso
spiegami cosa ci fa qui quel moccioso, Gale,
spiegamelo!» sbraitò per l’ennesima
volta Cid, continuando a camminare avanti e
indietro nella cabina, nervoso a dir poco. Aveva
cominciato quella solfa nel momento stesso in cui ero
tornato alla caravella con quel ragazzo al seguito, trascinandomi via
da lui in
modo che potessimo parlare a quattr’occhi senza la sua
costante presenza. Tentare poi di calmarlo era stato
completamente inutile, anche perché aveva cominciato a
tamburellare
nervosamente con le dita sul tavolo, spiegazzando qualche cartina e
rovesciando
persino due bottigliette d’inchiostro quando alla fine si era
alzato in piedi
per iniziare quel via vai continuo che mi aveva fatto dolere la testa.
«Te l’ho detto, Cid, mi ha seguito»,
sbuffai, sorreggendomi il viso sul dorso di una mano.
Lui, però, mi
fulminò con lo
sguardo. «E non potevi cacciarlo?»
sbottò irato. «Ti avevo detto di prendere da
mangiare, non di raccogliere un topo di sentina!»
«Calmati», provai,
sebbene sapessi
che avrebbe potuto continuare a rimproverarmi per ore. «Stai
facendo questioni
per un’idiozia».
«L’idiozia
l’hai fatta tu nel
momento stesso in cui hai portato qui il ragazzo»,
rimbeccò scorbutico,
fermandosi finalmente e dando un po’ di tregua ai miei occhi.
Non ne potevo
davvero più di vederlo fare avanti e indietro.
«Sai bene qual è la nostra
destinazione, Gale... ti sembrava forse il caso di trascinarti dietro
un
moccioso? Eri ubriaco?»
«Forse saresti dovuto venire
con
me, invece di tornare alla nave», ironizzai, adagiandomi
contro lo schienale
della sedia prima di reclinarmi un po’ all’indietro
insieme ad essa, in modo
che potessi poggiare uno stivale sul bordo del tavolo. Alzai anche
l’altro per
incrociare entrambi i piedi e stare più comodo, mentre nel
frattempo la mia
attenzione era interamente concentrata altrove, ma un pugno di Cid sul
tavolo mi
fece sussultare.
«Se sei così idiota
da portarti
appresso un moccioso pur sapendo
cosa dobbiamo fare, Gale, non venirmi a dire che dovrei controllarti
proprio
per questo. Hai ventisette anni, per la testa di Black Sam
[2],
comportati
come un uomo e cerca di non fare le solite stronzate».
«Io credo che il ragazzo debba
venire con noi», replicai, al che Cid si schiaffò
immediatamente il palmo della
mancina in faccia.
«Dannazione, Gale, non hai
sentito
ciò che ti ho appena detto?» sbottò
iracondo, passandosi quella stessa mano fra
i capelli. Si era liberato della bandana nel momento stesso in cui
quella
discussione fra noi era cominciata, lanciandola in un angolo lontano
della
cabina. Adesso giaceva inerme e solitaria accanto alle casse di viveri
nuovamente rifornite, afflosciata come la pelle di un serpente che
aveva appena
fatto la muta. «Se non sapessi che sei stupido di tuo, mi
chiederei che cosa ti
sia preso», soggiunse in uno sbuffo tutt’altro che
divertito, e avrei
volentieri risposto per le rime se un bussare alla porta non avesse
richiamato
la nostra attenzione.
Io e Cid ci guardammo, e fu proprio lui
il primo a riprendersi da
quello
stato di parziale e bizzarro scombussolamento. Troppo indaffarati nel
discutere, e tra l’altro abituati ad essere solo in due su
quella sottospecie
di caravella, ci eravamo quasi dimenticati della presenza del ragazzo.
«Va’
via, moccioso», abbaiò Cid. «Io e il
Capitano stiamo dibattendo, i mozzi non
sono ammessi alla nostra tavola».
Beh, da topo di sentina a mozzo.
Un passo avanti c’era stato. Riuscii a sentire
l’incertezza di quel ragazzo
anche attraverso il legno di cui era composta la porta, il che fu
incredibile. «Volevo
solo...» cominciò con un basso pigolio ovattato.
«Ho pensato che fosse giusto
informarvi del pattugliamento che la marina sta attuando giù
al porto».
A quelle parole quasi caddi dalla
sedia per colpa di Cid, che aveva sgranato gli occhi ed era corso alla
porta
così in fretta che quasi mi parve avesse un cazzo di grillo
al culo. La
spalancò con ben poca grazia e afferrò il ragazzo
per la camicia, portandoselo
ad una spanna dal viso con violenza inaudita. «Cosa diavolo
aspettavi a dirlo,
moccioso?!» sbottò, scansandolo di malo modo e
correndo fuori dalla cabina come
una furia, lasciando me e Patrick - se ben ricordavo il nome con cui
quel tipo,
Garrington, l’aveva chiamato - alquanto basiti.
«Ma che diamine gli
è preso?»
domandai, forse più rivolto a me stesso che al ragazzo. Non
avevamo ancora
fatto niente che ci facesse conoscere dalla marina del luogo e ci
facesse
prendere dunque di mira, ma allora perché tutta quella
fretta? Stornai lo
sguardo su Patrick, mettendomi in piedi prima di raggiungerlo sulla
soglia. «Andiamo,
ragazzo», lo spronai, attraversando il corridoio sottocoperta
per giungere alle
scale che portavano al ponte, e avrei anche cominciato a salirle con
tutta
calma se l’improvviso e brusco movimento della nave non mi
avesse fatto perdere
l’equilibrio.
Rischiai di cadere su Patrick, che
fortunatamente riuscì a sorreggermi pur essendo mingherlino
e poco in carne. «Sicuro
di non essere nei guai con la marina, Capitano?» mi chiese
scettico, e mi
voltai per fulminarlo con lo sguardo prima di calcarmi il cappello in
testa.
«Sicurissimo, corpo di mille
balene», sbottai, decidendo di tralasciare il modo dubbioso
con cui mi stava
osservando per prestare la mia attenzione al mio vice al di sopra del
cassero.
Di idiota me ne bastava già uno, a ben pensarci.
«Cid!» esclamai per
richiamarlo, vedendolo dinanzi al timone. Lo ruotava con una
velocità inaudita,
muovendo le mani in sincronia per evitare che gli scappasse e perdesse
così
l’inclinazione dell’imbarcazione, cosa che avrebbe
solo fatto oscillare la nave
in modo spaventoso.
«Non ora, Gale, sono
occupato!» strepitò
in tono rabbioso, e fu proprio in
quel mentre che mi accorsi del vociare proveniente dalla terra ferma.
Corsi
verso la poppa della nave e mi poggiai con le mani al parapetto di
legno,
sgranandogli occhi nel rendermi conto della moltitudine di soldati che
puntava
i fucili nella nostra direzione. Un gruppetto composto
all’incirca da una
ventina di uomini stava invece correndo verso l’ammiraglia
ormeggiata poco
distante, e tra loro distinsi l’ufficiale che aveva
organizzato l’incursione
alla locanda in cui avevo trovato Patrick.
«Quello è il
Commodoro Waine!»
esclamò incredulo quest’ultimo, facendomi
trasalire. Ero stato talmente assorto
nell’osservare quel caos che non l’avevo
minimamente sentito avvicinarsi. E
dire che quella nave scricchiolava che era una meraviglia, sia in mare
che in
porto.
«E che diamine vorrebbe da
noi?»
chiesi scettico, guadagnandoci uno sguardo stralunato.
«Se non lo sa lei,
Capitano...»
«Quante storie!»
sbottò Cid mentre
tentava di prendere il largo il più in fretta possibile,
nonostante il vento
non lo permettesse del tutto. Sferzava le vele senza gonfiarle del
tutto,
facendo sventolare sinistramente la bandana che fungeva da bandiera e
scricchiolare al tempo stesso i legacci che assicuravano la stoffa agli
alberi.
«Mobilitare persino un’ammiraglia solo per qualche
barile di polvere da sparo e
tre casse di ferraglia!»
Sebbene fossi stato più che
attento nell’osservare
la nave della marina
che levava gli ormeggi e spiegava le vele, nel sentire Cid mi voltai
immediatamente verso di lui a bocca spalancata. «Eri tu
quello che
cercavano, allora, topo di fogna che non sei altro!»
«Lui?»
domandò Patrick,
giacché
fin dal principio, come gli altri clienti della locanda, aveva creduto
cercasse
me. Che ragazzino di poca fede.
Non gli prestai attenzione,
gettando un’ultima occhiata all’ammiraglia prima di
correre incontro a quel
degenerato. «L’hai fatto di nuovo, vero?»
sibilai, risparmiandomi dal tirargli
un pugno solo perché era al timore.
La voglia di farlo davvero,
però,
tornò prepotente e divampò come fuoco vivo nelle
mie viene nel momento stesso
in cui lui sorrise. «Dovresti saperlo che ho un debole per la
divisa, Gale»,
ironizzò, nonostante non fosse affatto il momento di
scherzare. «Sarebbe andato
tutto liscio come l’olio se non mi avessero beccato proprio
mentre me ne stavo
andando».
Sentii una vena pulsarmi sulla
fronte. «Tu, ninfomane cleptomane che non sei altro, proprio
la marina
orientale dovevi derubare?!»
«Tu non hai idea
dell’armamentario
che hanno, Gale, è davvero formidabile!»
«Ma che diavolo vai
farneticando,
idiota?!»
«Ragazzi?» Patrick
ci richiamò con
voce incerta, e lo fulminammo entrambi con lo sguardo prima di
sbottare, «Che
c’è!» Lui non si lasciò
però intimorire, continuando soltanto a guardare al di
là del parapetto in poppa. «Questa bagnarola
resisterebbe a dei colpi di
cannone?»
Per qualche attimo io e Cid
sbattemmo le palpebre all’unisono, e fu proprio lui, passato
l’attimo di
parziale sbigottimento, a rispondere. «E’ talmente
malridotta che se venissimo
colpiti anche solo una volta allo scafo saremmo spacciati».
«Ah», fece il
ragazzo, e lo vidi
deglutire a fatica e stringere così forte le mani sul
parapetto che le nocche
sbiancarono. «Allora credo che siamo spacciati».
Capimmo con esattezza quel che
aveva voluto dire solo quando udimmo il cupo tuonare di un primo colpo
di
cannone. L’aria divenne satura di zolfo e polvere da sparo, e
le grida
provenienti dall’ammiraglia iniziarono a farsi sempre
più alte e vicine,
simbolo che stavano entrando sulla nostra traiettoria di tiro. Cid
imprecò a
denti stretti e tentò una brusca virata, rischiando quasi
che il pennone si
curvasse e che i legacci che assicuravano i tre alberi si spezzassero.
Sentii
Patrick lasciarsi sfuggire un’esclamazione sorpresa prima di
vederlo rinserrare
la presa sul parapetto, ma non ebbi il tempo di dargli retta
poiché avevo il
compito di spiegare la vela maestra. Più velocità
riuscivamo ad acquistare con
quella bagnarola, più possibilità avremmo avuto
di salvarci da quella
situazione.
«Cid!» gridai al mio
vice,
cercando di mantenere l’equilibrio mentre la nave oscillava
sotto ai miei
piedi. «Cos’altro hai rubato,
dannazione?!»
«Niente, giuro!»
urlò di rimando,
e fui quasi sul punto di credergli prima che lo vedessi con la coda
dell’occhio
tirar fuori dai pantaloni quella che sembrava una pergamena
spiegazzata. «Soltanto
la mappa per il paradiso!»
C’era da aspettarselo che
avrebbe
rubato qualcosa di sicuramente importante, maledizione a lui! Sarebbe
stato
troppo bizzarro se la marina avesse fatto tante storie solo per qualche
barile
di polvere da sparo e un po’ d’armeria.
«Questa è la volta buona che ti getto
in mare, Cid!» lo minacciai, imprecando a denti stretti prima
di correre ad
afferrare i legacci di tribordo.
«Fuoco alle
polveri!» gridò una
voce alla mia destra, ed ebbi appena il tempo di girarmi che una palla
di
cannone centrò l’albero di mezzana, spezzandolo
come se si fosse trattato di un
fuscello. Schegge di legno si disseminarono nell’aria
circostante, cadendoci
addosso come tanti piccoli frammenti di vetro. Cercare di proteggermi
il capo
fu un grosso sbaglio, poiché lasciai andare inavvertitamente
la corda e le vele
sventolarono furentemente nel vento che si era innalzato verso est.
Seguì il
sonoro tonfo della parte superiore dell’albero che si
schiantava contro la
balaustrata e il suo seguente crollo rovinoso in mare, spruzzando
zampilli
freddi in ogni dove prima di venire inghiottito dalle acque.
Un’altra grossa palla di
cannone
fischiò pericolosamente nei pressi della poppa, mancandola
miracolosamente solo
grazie ad un’ennesima e brusca virata che aveva compiuto Cid.
La nave oscillava
terribilmente e in modo spaventoso, tanto che era difficile mantenere
l’equilibrio senza aggrapparsi a qualcosa. Il suono delle
cannonate riempiva
l’aria e mi assordava, riportandomi al tempo stesso alla
memoria quanto era
accaduto anni addietro nel mio villaggio natale; con quei pensieri per
la testa
ghermii ciò che era rimasto dell’albero di mezzana
e volsi lo sguardo in
direzione di Patrick, che si teneva al parapetto per quanto le forze
glielo
permettessero. A peggiorare la situazione si era messo anche
l’annuvolarsi del
cielo e il calar della nebbia, simbolo che di lì a poco
sarebbe potuto
scoppiare un temporale che avrebbe potuto troncare la nostra fuga una
volta per
tutte.
«Patrick!» urlai,
allungando una
mano verso di lui come se farlo potesse servire realmente a qualcosa.
«Vieni
qui, ragazzo, muoviti!»
Mi guardò ad occhi sgranati e
spaventati, rinserrando maggiormente la presa su quello che era ormai
divenuto
il suo unico appiglio sicuro. Le grida provenienti
dall’ammiraglia della marina
si erano intensificate e, sebbene confusa
con il sibilo che sentivo nelle mie orecchie e lo sciabordio delle onde
che si
infrangevano contro la chiglia al suo passaggio, la voce del Commodoro
Waine
appariva la più alta e minacciosa di tutte, così
rabbiosa e altisonante da
sovrastare l’ululato del vento.
Senza perdere d’occhio
Patrick, almeno per quanto concessomi
dalla
visuale che andava pian piano sfocandosi, mi alzai in piedi tentando di
non
perdere l’equilibrio. «Cid, tutta a
tribordo!» ordinai al mio vice,
correndo il più in fretta possibile verso il ragazzo anche
se l’oscillare della
caravella non me lo permetteva. Lo afferrai per un braccio non appena
lo
raggiunsi, sentendolo irrigidirsi nel momento stesso in cui una palla
di
cannone sfrecciò sopra le nostre teste; oppose resistenza
quando cercai di staccarlo
da lì per portarlo al sicuro, e i suoi occhi ingigantiti
dalla confusione
sembrarono quasi sul punto di schizzargli fuori dalle orbite.
Urlò spaventato e
si aggrappò a me quando una palla fece breccia nella parte
superiore dello
scafo, facendo crollare su se stesso il lato ovest della nave. Il ponte
si
inclinò sotto ai nostri piedi all’improvviso, e io
ebbi appena il tempo di
aggrapparmi ad una colonna della balaustra, così da evitare
di scivolare di
sotto; Patrick allungò una mano per fare lo stesso, ma le
dita, rimaste troppo
a lungo strette intorno al parapetto, cedettero e gli fecero mollare la
presa,
e fu solo per miracolo che riuscii ad afferrarlo per il polso con la
mano
libera, vedendolo di sfuggita impuntare i piedi contro il ponte
inclinato per
darsi una spinta e non cadere. Strisciò sulle assi di legno
con i gomiti,
aggrappandosi con entrambe le mani al mio avambraccio e stringendo le
palpebre
così forte che naso e fronte gli si corrugarono. Sembrava
non voler vedere ciò
che gli accadeva intorno, ma anche ad occhi chiusi era alquanto
difficile
ignorare il dondolio sempre più sinistro della caravella.
«Figli d’un
cane!» La voce di Cid
apparve flebile e lontana a causa dei tuoni che avevano iniziato ad
esplodere
in cielo. «Quei bastardi fanno sul serio!»
Attraverso la foschia sempre più
densa lo vidi voltarsi nella nostra direzione, i capelli scompigliati e
sudati
gli ricadevano sulla fronte fin quasi a nascondergli gli occhi.
«Resistete un
altro po’, ragazzi! E tenetevi forte!»
Tenerci forte... och, beh,
facevamo quel che potevamo. Avevo cominciato a non sentire
più il braccio, e un
orribile formicolio stava iniziando a correre pericolosamente lungo di
esso,
simbolo che il sangue non stava circolando più come avrebbe
dovuto. Anche la
presa delle mani di Patrick stava divenendo meno salda, e pian piano le
dita
non ebbero più la forza necessaria per tenersi alle mie
braccia, facendo
inesorabilmente allentare la stretta; come a rallentatore lo vidi
spalancare
gli occhi ed aprire la bocca per dar vita ad un urlo senza voce,
scivolando
precipitosamente lungo le assi di legno del ponte e rotolando
rovinosamente su
se stesso.
«Patrick!» esclamai,
allungando
inutilmente una mano verso di lui ma vedendolo sparire oltre il
parapetto ormai
in frantumi. Boccheggiai incredulo, sentendo nelle mie orecchie solo
cupi suoni
distanti che non avevano nulla a che vedere con il possente tuonare dei
cannoni
che avevo udito fino a quel momento. Cosa diavolo avevo fatto? Nella
speranza
che quel ragazzino potesse essere la persona che avevo cercato
così a lungo
avevo lasciato che venisse con me senza fermarlo... ma a che scopo?
Avevo solo
lasciato che morisse in quel modo. Non me lo sarei mai perdonato.
«Vallo a prendere invece di
restare lì come un idiota, Gale!» La voce rabbiosa
di Cid mi riscosse dal mio
stato di torpore e alzai dunque gli occhi verso la sua figura ormai
sfocata, senza
riuscire a capire che cosa intendesse. Fu nel voltarmi verso il ponte
in cui
era sparito Patrick che vidi due mani aggrappate alla base: cercava di
resistere nonostante le schegge di legno che gli ferivano a sangue le
dita, e
il tremore scomposto che le animava lasciava intendere che di
lì a poco non ce
l’avrebbe più fatta.
Senza nemmeno riflettere mi
lanciai a capofitto nella sua direzione, lasciandomi scivolare lungo il
ponte
per raggiungerlo più in fretta. Quasi caddi
anch’io prima di riuscire a
frenarmi bruscamente, abbassando lo sguardo per capire con
l’esattezza la posizione di Patrick. Aveva poggiato entrambi
i
piedi ad una trave che era capitolata fuori dallo scheletro dello
scafo, ma a
causa dell’acqua che aveva cominciato ad impregnarla
risultava scivolosa e poco
affidabile.
«Prendi la mia mano, ragazzo!»
esclamai non appena riuscii a tenermi a qualcosa, allungando un braccio
verso
di lui per far sì che mi afferrasse. Cercando di issarsi e
di non capitolare di
sotto si slanciò un po’, sfiorando la mia mano con
due dita. Fece per prenderla
ma la presa gli sfuggì, e rischiò
davvero
di essere sbalzato fuori dalla nave quando un’altra palla di
cannone centrò
l’albero di trinchetto. Urlammo entrambi quando lo vedemmo
cadere verso di noi,
trascinandoci verso il mare senza che potessimo evitarlo. Tentai di
issarmi su
di esso e vidi di sfuggita Patrick fare lo stesso, gli occhi stralunati
e
spaventati mentre cercava di rinserrare sempre più la
stretta con le braccia
intorno all’albero, divenuto ormai la nostra sola e unica
speranza.
«Ehi! State bene,
ragazzi?» gridò
Cid dalla barra del timone al di sotto del cassero, e anche se non
potei
vederlo ero certo di sapere con che espressione avesse pronunciato
quelle
parole.
«Pensa a portarci lontani da
quest’inferno!» esclamai subito dopo in risposta,
sperando che mi sentisse
nonostante il sibilare del vento. Mi
issai meglio sul legno dell’albero e riuscii a raggiungere
Patrick, che mi
afferrò il braccio con tale forza che quasi temetti volesse
strapparmelo
letteralmente dall’articolazione. «Tranquillo,
ragazzo, tra poco andrà
tutto per il meglio!» tentai di rassicurarlo.
Non sembrò aver capito
davvero le
mie parole, però annuì bruscamente come se
sentisse il bisogno di farlo,
provando a lanciare un’occhiata verso l’ammiraglia
che si faceva sempre più
lontana.
Riuscimmo a distanziarla solo
grazie alla nebbia che era calata a gravare sulla superficie del mare.
In
verità non ci avevo minimamente sperato, ma fu un sollievo
sentire unicamente
il suono del nulla vigilare costantemente intorno a noi. Lo sciabordio
dell’oceano si era affievolito e anche il fischio del vento
era ormai un ricordo
lontano, esattamente come la moltitudine di colpi di cannone che ci
avevano
bombardati fino a quel momento.
Quando era stato sicuro di aver
fatto perdere le nostre tracce alla marina, Cid aveva abbandonato
immediatamente la sua postazione e ci era corso in contro, gettandoci
una corda
a doppio nodo che aveva recuperato in ciò che restava della
stiva; era stato
lui stesso, poi, a trascinarci via dall’albero, ed era
rimasto persino
scombussolato quando Patrick si era gettato fra le sue braccia in preda
ad un
attacco isterico, singhiozzando. Mi aveva quindi gettato
un’occhiata perplessa,
quasi avesse cercato di chiedermi aiuto, e con un po’ di
incertezza aveva poi
cominciato a picchiettare la sua schiena nel tentativo di calmarlo,
riuscendo
solo a provocargli un altro attacco di tremore e a fargli aumentare la
presa
sui vestiti.
Adesso era già da una buona
mezz’ora che dormiva, sfinito, sull’unico giaciglio
presente nella mia cabina,
mentre io mi ero concesso un attimo di respiro godendomi un goccio di
rum. Seduto
sul ponte del castello di prua, che si era miracolosamente salvato da
quell’assalto, osservavo il mare che sfrecciava sotto i miei
occhi
svogliatamente, tenendo la bottiglia per il collo. Che ci tenessimo
ancora a
galla era un miracolo, ma il cielo sopra di noi era ancora plumbeo e
poco
rassicurante, come se attendesse il momento esatto per riversare tutta
la sua
collera sugli ignari marinai.
«Ce la siamo vista brutta,
eh?»
Cid, che si trovava nuovamente al timone, aveva parlato con voce pacata
e bassa,
ma perfettamente udibile. Era rimasto a
sua volta scosso da quel che era successo poche ore addietro, e anche
se avevo
tentato di offrirgli un sorso di liquore aveva bellamente rifiutato.
Annuii automaticamente, tralasciando il
fatto che non potesse vedermi
dal
punto in cui era. «Non venivamo bombardati così
dai tempi della
Conqueror», replicai, ricordando i saccheggiamenti che
avevamo compiuto a bordo
del mio vecchio galeone. Però non c’era davvero
paragone con quella bagnarola
con cui viaggiavamo adesso.
Cid sospirò.
«È stata colpa mia,
Gale, mi spiace», rimbeccò sottovoce. Sembrava
davvero dispiaciuto per quanto
era accaduto con la marina militare pocanzi, il che era alquanto
bizzarro,
conoscendolo. «Avrei dovuto lasciar perdere quella stupida
mappa».
«Sta’ zitto e cerca
di portarci a
riva, Cid», lo spronai, troppo stanco persino per litigare
come al solito. In
un altro momento gliene avrei dette quattro e l’avrei
gonfiato di botte -
beccandomi a mia volta un occhio nero, tra l’altro -, ma dopo
ciò che avevo
passato ero davvero sfiancato. Magari ci avrei pensato una volta
ripresomi.
Cid si zittì e, virando la
nave
verso ovest, intraprese la rotta che ci avrebbe portati in un luogo
sicuro. O
almeno quella era la speranza di tutti noi, in quel momento.
[1] Letteralmente
significherebbe “essere ubriaco”
in gergo piratesco.
Già dalle prime righe
del capitolo si può benissimo intuire il perché
della scelta del titolo.
[2] Nato
a Hittisleigh il 23 febbraio del 1689 e
morto a Wellfleet il 27 aprile del 1717, il suo vero nome era Samuel
Bellamy,
ed è stato un pirata britannico dalla carriera assai breve.
Difatti non durò
più di un anno, ma ciò nonostante lui e il suo
equipaggio riuscirono a
catturare più di cinquanta navi.
Fu chiamato “Black Sam”
perché non portava la tipica parrucca incipriata che andava
in voga nel
Settecento, ma lasciava in bella vista i suoi lunghi capelli neri,
legandoli
solo con un laccio. Divenne inoltre noto per la misericordia e la
generosità
verso coloro che catturava durante le incursioni, tanto da ottenere
anche il
soprannome di “Principe dei pirati”
La
leggenda ufficiale narra che ogni volta che conquistava una nave
chiedeva di
provarla. Se non la riteneva abbastanza veloce la restituiva al
legittimo
proprietario e se ne andava per la sua strada.
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Capitolo 4 *** [ Atto IV: Roseau › Mar dei Caraibi, 1768 ] Shiver me timbers! ***
Oceani_4
ATTO IV:
ROSEAU › MAR DEI CARAIBI, 1768
SHIVER ME
TIMBERS!
[1]
Essere
riusciti ad arrivare fino a Roseau
con
quella
bagnarola ridotta in quello stato pietoso era un vero e proprio
miracolo. Avevo
creduto che saremmo affondati ancor prima che la nostra caravella
prendesse il
largo o giungesse nei pressi di Plymouth, interrompendo così
bruscamente il
viaggio in cui ci eravamo imbarcati. Invece eravamo sopravvissuti.
Contro ogni
previsione, certo, ma eravamo sopravvissuti. L’unico problema
era che, adesso,
quella nave era quasi del tutto inutilizzabile.
Era ciò a cui pensavo mentre
me ne
stavo seduto al tavolo di una pessima locanda lì a Roseau in
compagnia degli
unici due componenti della mia ciurma, che si stavano ingozzando come
maiali
davanti ai miei occhi. L’aria era asfissiante e puzzava di
sudore, carne
stantia e whisky scadente, e il caldo era così
insopportabile che mi ero
liberato della casacca per restare solo in camicia. Patrick e Cid,
invece,
sembravano non essersi accorti di niente o non farci minimamente caso,
troppo
intenti a consumare le pietanze che avevano dinanzi con
voracità, quasi non
mangiassero da giorni. E, beh, quello era quasi del tutto vero.
Sbuffai sonoramente e abbassai lo
sguardo nel mio piatto, scansando svogliatamente qualche pezzo di carne
che
avevo precedentemente tagliato. A differenza loro, io non avevo tutta
quella
gran voglia di mangiare. Ero stato tormentato per tutto il viaggio dal
pensiero
di quella stupida mappa, senza capacitarmi del perché Cid
avesse deciso di rubarla.
Era sempre stato affascinato da cartacce varie e cimeli antichi, era
una cosa
di cui ormai ero a conoscenza, però non aveva molto senso di
inimicarsi la
marina solo per una stupida mappa. Avrei preferito fare qualcosa di
più
grandioso se proprio dovevo ritrovarmela fra i piedi.
«Lei non mangia,
Capitano?» Alzai
lo sguardo non appena la voce di Patrick si fece largo fra i miei
pensieri, e
sbattei le palpebre per osservarlo in viso. Durante quella nostra
traversata di
era calmato pian piano e aveva cercato di seppellire momentaneamente
nei
recessi della sua mente la bombardata che avevamo subito, capendo
subito da
solo che soffermarsi su quel determinato avvenimento non avrebbe
portato
praticamente a nulla. Ragazzo intelligente.
Scossi di poco il capo e fissai
Cid, chiedendomi come facesse ad essere così tranquillo ora
che ci trovavamo
sulla terra ferma. Beh, a ben pensarci non avrei dovuto stupirmi
più di tanto. «Dobbiamo
procurarci una nave, Cid», lo riportai all’ordine,
vedendolo alzare lo sguardo
con fare confuso. Aveva la bocca piena ed entrambe le mani occupate,
visto che
con una reggeva un boccale colmo di liquore e con l’altra la
forchetta, sulla
quale era stata infilzata così tanta carne che ebbi quasi la
netta impressione
che alcuni pezzi potessero ricadere nel piatto da un momento
all’altro.
«A quella ci penso
io», bofonchiò,
sputacchiando qualche frammento di carne prima di annuire convinto e
inghiottire. «Ne sceglierò una con le contro
palle. Vedrai che ti piacerà da
morire, Gale».
«Sceglierla?»
ripeté Patrick,
fissandolo attento. «Che significa?»
«Che la prenderò in prestito,
mi sembra ovvio». Mimò la parola con le virgolette
non appena ebbe le mani
libere, sorridendo divertito nel vedere l’espressione
incredula che si era
dipinta sul volto del ragazzo. «Andiamo, cosa ti aspettavi?
Che andassi lì e la
comprassi tranquillamente? Siamo pirati, per tutti i
pescecani».
«Lascia stare il ragazzo,
Cid»,
rimbeccai sarcastico, scostando da me il piatto che avevo dinanzi per
concentrarmi invece sul mio boccale. Ignorai il fatto che il mio vice
avesse
adocchiato il mio cibo e sbuffai, aggiungendo, «Questa non
è la sua vita».
Patrick, però,
aggrottò la fronte.
«Ma posso imparare», replicò in tono
serio, stringendo la presa sulla forchetta
e maledicendosi per averlo fatto pochi istanti dopo. Gli avevo fasciato
le dita
e le mani con delle garze non appena avevo potuto, giacché
le ferite che si era
procurato non avevano smesso un secondo di sanguinare. Aveva anche un
taglio
sul viso, ma quello l’avevamo tralasciato perché
era poco più di una ferita di
striscio.
Mi grattai la testa, brontolando,
«Per
essere un pirata devi essere pronto a tutto, anche ad uccidere, se
necessario».
Lo vidi deglutire e, prima che tornasse ad aprire bocca per ribattere,
lo
fermai alzando bruscamente una mano. «Non una parola,
Patrick. Torna a mangiare».
Cid non poté fare a meno di
ridacchiare per l’espressione che si era dipinta sul volto
del ragazzo, che
aveva aggrottato le sopracciglia con fare nervoso e incrociato le
braccia al
petto, gonfiano le guance come un moccioso. Che si arrabbiasse pure;
meglio
vederlo nervoso che vederlo morto o ridotto ad un pirata della peggior
specie.
Non che io e Cid fossimo poi dei così bravi ragazzi,
però... avevamo i nostri
limiti e cercavamo di non superarli, se riuscivamo ad evitarlo.
Fu proprio a quel punto che, una
volta terminata del tutto la propria cena - ed essersi mangiato anche
ciò che
avevo rimasto nel piatto, dannazione a lui -, Cid tirò fuori
dalla tasca quella
maledetta mappa che aveva rubato, sorridendo al mio indirizzo.
«Guardala, non è
fantastica?» mormorò con occhi sognanti, e ci
mancò poco che cominciasse a
baciare con ardore quel pezzo di carta, neanche si fosse trattato di
una donna
focosa. «Apparteneva al grande Barbanera in persona, e pare
sia stata
confiscata anni fa a causa del segreto che gravava su di
essa».
«Che razza di
segreto?» domandai
con scarso entusiasmo. Per me restava solo una mappa come
un’altra.
«Nessuno lo sa con
certezza»,
rispose. «La marina cerca di capirlo dal giorno in cui
l’hanno presa, si dice,
ma pare che nasconda luoghi di tesori formidabili. Non mi meraviglio
che quel
Commodoro volesse tenersela a tutti i costi».
Sollevai un sopracciglio.
«Credi
davvero che sia per questo motivo?»
«E per cos’altro,
altrimenti?» mi
chiese stralunato, abbassando lo sguardo sulla mappa. Segnava tutto il
mar dei
Caraibi e le varie isolette che lo popolavano, ma era così
logora che diversi
punti si erano cancellati, mostrando unicamente zone morte.
Feci per rispondere, ma al mio
posto parlò Patrick. «Non sarebbe poi
così strano, conoscendo il Commodoro
Waine», ci informò, e ci voltammo entrambi ad
osservarlo. Aveva abbassato lo
sguardo e fissava ostinatamente il piatto ormai vuoto che aveva
dinanzi, la
fronte aggrottata per la concentrazione e le mani chiuse a pugno
poggiate sulle
cosce. «E’ un ufficiale spietato e senza scrupoli,
quasi al pari di parecchi
pirati che solcano questi mari. Ne ha trucidati a centinaia e ne ha
pedinati
altrettanti, volendo a tutti i costi assicurarli alla giustizia...
peccato che
i suoi metodi siano poco ortodossi». La voce gli divenne
incerta e arricciò il
naso, disgustato. «Come se non bastasse, poi, è
uno a cui piace incutere timore
persino fra i suoi uomini. Tre mesi fa ha impiccato uno dei suoi
sott’ufficiali
solo perché l’aveva sentito commentare
negativamente il suo modo di agire». Lo
vidi rabbrividire sotto i miei occhi, e fu solo a quel punto che
alzò lo
sguardo su di noi. «Le sue angherie e la sua avarizia non
hanno limiti... non
mi meraviglierei del fatto che voglia tenersi quella mappa e carpirne
il
segreto».
Lo sguardo che ci lanciammo io e
Cid non lasciò spazio a fraintendimenti alcuni:
quell’uomo, che eravamo sicuri
si fosse messo sulle nostre tracce, rappresentava un pericolo che
avremmo
dovuto evitare per il raggiungimento ultimo del nostro obiettivo. Non
potevamo
farci fermare da uno stupido ufficiale della marina.
«Arricchendosi potrebbe
consolidare il suo potere», costatai d’un tratto,
grattandomi il mento con fare
pensoso, «e la cosa risulterebbe più complicata di
quanto non lo sia adesso per
ogni singolo pirata del mar dei Caraibi». Scoccai
un’occhiata a Cid, dando vita
ad un mezzo sorriso sarcastico prima di sporgermi verso di lui per
dargli una
sonora pacca su una spalla. «Tutto sommato hai fatto bene a
rubare quella
mappa, figlio d’un cane che non sei altro».
Abbozzò a sua volta un
sorriso,
facendo un cenno galante con il capo. «Te l’ho
sempre detto che puoi fidarti
ciecamente di me, oh mio Capitano», rimbeccò
divertito, afferrando il proprio
boccale e spronando noi a fare lo stesso. Patrick gli gettò
un rapido sguardo
prima di prenderlo a sua volta, e lo feci anch’io alzando un
po’ lo sguardo al
soffitto, brindando con loro per un motivo che neanche noi eravamo
sicuri di
conoscere.
Passarono un altro paio d’ore,
durante le quali cercammo di fare il punto della situazione e di capire
come
avremmo dovuto riprendere il nostro viaggio; Cid continuava a dire di
voler
rubare una nave piccola e veloce che ci avrebbe permesso di prendere il
vento
in poppa e di seminare eventuali imbarcazioni della marina, mentre
Patrick,
ancora segnato dall’avvenimento accaduto poche ore addietro,
discuteva con lui
animatamente e insisteva con il voler prendere qualcosa di
più simile ad un
galeone - molto più grosso e resistente -, provando a fargli
cambiare idea. Dal
canto mio, tra l’altro, li lasciavo semplicemente fare. Quel
che volevo era
semplicemente andarmene il più in fretta possibile da
lì e prendere nuovamente
il largo, visto che avevamo perso già fin troppo tempo in
quella parte del mar
dei Caraibi.
Con le orecchie ormai piene delle
chiacchiere di quei due distolsi lo sguardo, facendolo vagare
distrattamente in
quella bettola come se volessi controllare i clienti presenti; brutti
ceffi
della peggior specie erano seduti ai tavoli a consumare a loro volta la
cena,
mentre altri si sollazzavano con le poche donne presenti dai seni
prosperosi e
in bella mostra. Tutto sommato l’atmosfera era piuttosto
vivace, ma essa si
frantumò nel momento esatto in cui la porta della locanda si
aprì e fece il suo
trionfale ingresso un uomo in divisa che mi sembrava di aver
già visto, e non
ci misi molto a capire di chi si trattasse: il Commodoro Waine alla
fine ci
aveva trovati.
Imprecai a denti stretti e,
afferrando quegli altri due idioti per la camicia che indossavano, mi
fiondai
verso il primo muro che riuscii a trovare, portandomeli dietro in
fretta e
furia e sfruttando esso per nasconderci. Ci misero un po’ a
rendersi conto del
mio gesto, e prima ancora che Cid potesse aprir bocca per protestare
gli voltai
la testa verso la ressa della locanda, vedendolo sgranare gli occhi
subito
dopo. «Dannazione, proprio non molla quel tizio,
eh?» sussurrò a mezza voce, lo
sguardo ancora puntato sul Commodoro. Si era poggiato con entrambe le
braccia
al bancone e stava parlando animatamente con il locandiere, sventolando
con
fare nervoso un foglio spiegazzato dinanzi al suo viso. Non riuscendo a
capire
che cosa fosse, sgranai gli occhi nel rendermi conto che quello era un
manifesto da ricercato, e impallidii nel vedere di sfuggita il volto di
Cid su
di esso. Ci avevano messo davvero poco a procurarsi un ritratto e a
ficcargli
una taglia sulla testa, maledizione.
«Adesso puoi considerarti un
vero
pirata, Cid», lo sfottei sottovoce, al che lui si
girò e mi scoccò
un’occhiataccia, nascondendosi poi dietro al muro quando vide
il Commodoro
volgere uno sguardo nella nostra direzione. Ci rendemmo conto che il
locandiere
non aveva aperto minimamente bocca solo quando sentimmo il Commodoro
imprecare
contro di lui, e con la coda dell’occhio lo vidi affiggere
quel manifesto al
muro accanto al bancone, srotolandone un altro dalla tasca per fissare
anche
quello accanto al primo. Fu con somma sorpresa che mi accorsi che
quello era il
mio mandato di cattura, e sebbene non vi fosse scritto alcun nome, quel
“Vivo o
morto” quasi marchiato a fuoco lasciava benissimo intendere
che alla marina
importava ben poco. Och, beh, almeno la somma per la mia testa era
quella che
era. La cosa che mi rallegrò fu vedere che non ce
n’era uno anche per il
ragazzo. Avrebbe ancora potuto star tranquillo.
«Se li vedete»,
cominciò poi il
Commodoro, picchiettando l’uno e l’altro con un
dito, «dovrete informare
immediatamente la marina. Ogni intransigenza sarà
severamente punita secondo la
legge. Non provate a catturarli... quei due stronzi sono
miei».
Quelle parole le pronunciò con un ringhio
rabbioso prima di
continuare. «Hanno con sé anche un ostaggio: un
ragazzo magrolino e di media
statura, con lunghi capelli castani legati in un codino. Il padre lo
rivuole
indietro».
Al mio fianco sentii Patrick
sussultare, e si passò le mani sulle braccia come se avesse
freddo; lo guardai
per capire che cosa gli fosse preso, ma lui ricambiò la mia
occhiata e
indietreggiò, pestando senza volerlo la coda del gatto della
moglie del
proprietario. Quest’ultimo miagolò e
drizzò il pelo sulla schiena, soffiandogli
contro e richiamando l’attenzione del locandiere e del
Commodoro, che si voltò
nella nostra direzione.
Ciò che successe in seguito
accadde
come a rallentatore: il Commodoro sgranò gli occhi nel
momento esatto in cui ci
vide, imprecando a denti stretti prima di correre verso di noi che,
d’altro
canto, ce l’eravamo letteralmente data a gambe non appena
l’avevamo visto
muoversi. Non ci voleva proprio. Avevo sperato di riuscire a
sgattaiolare fuori
di lì senza farci scoprire, ma a quanto sembrava mi ero
sbagliato.
Imboccammo un vicolo in cui
provvidi a rovesciare i barili riposti contro il muro di uno dei
palazzi, così
da rallentare quel figlio d’un cane che ci veniva ancora
dietro; incespicò e
quasi rischiò di cadere, ma si mantenne in piedi per
miracolo prima di
riprendere la sua folle corsa. Tornai a guardare avanti, imprecando a
denti
stretti. Quel tipo non mollava proprio. «Cid!» Il
mio vice si voltò appena
verso di me, affrettandosi a riportare lo sguardo dritto dinanzi a
sé ed
evitando per un pelo una fila di casse di legno. «Porta
Patrick con te, io
proverò a farmi seguire! Ci rivediamo al porto tra dieci
minuti esatti!»
Non si voltò, ma
alzò una mano per
farmi intendere d’aver capito. «Vedi di non
tardare, idiota!» esclamò di
rimando, accostandosi a Patrick e svoltando svelto insieme a lui verso
sinistra; lo vidi scomparire in quella stradina nel momento esatto in
cui un
colpo di pistola mi fischiò sinistramente
nell’orecchio, passando oltre.
Sgranai gli occhi e aumentai la mia andatura, lanciando un grido
allarmato
quando un secondo colpo rischiò quasi di centrarmi una
gamba. Aveva difatti
beccato il marciapiede, ma ci era andato maledettamente vicino.
Con una capriola, mi gettai a
sinistra, inzaccherandomi il giaccone in una pozza di fango creatasi a
causa
della precedente pioggia; per quanto tenessi a quel logoro e vecchio
cappotto
non vi diedi momentaneamente importanza, afferrando a mia volta la
pistola che
tenevo alla cintola per puntarla svelto verso il Commodoro. Non
vedendolo più
dietro di me, però, mi accigliai. Dove diavolo era finito?
La risposta mi
giunse così in fretta che quasi capitai a capire esattamente
cosa fosse successo,
sentendo il sinistro arretrare del cane di una pistola vicino alla mia
nuca.
«La corsa è finita,
pirata». La
voce del Commodoro mi giunse come uno stridio fastidioso, dovuto forse
anche al
respiro spezzato dal troppo correre. «Metti immediatamente
giù quell’arma e
tieni le mani ben in vista».
Obbedii, pur non avendone la
benché minima intenzione. Quel tipo, però,
sembrava più che intenzionato a
sparare, e io non volevo di certo concludere lì la mia vita.
Mi portai le mani
dietro alla nuca e sfiorai inavvertitamente la pistola, sentendone il
metallo
freddo a contatto con le dita; quella stessa arma piombò a
colpirmi il capo con
furia, mandandomi quasi al tappeto. Boccheggiai e socchiusi gli occhi,
attendendo
il momento esatto per fare qualcosa... ma cosa?
«Niente scherzi», mi
redarguì il
Commodoro. «Chi di voi due fottuti bastardi ha la mia
mappa?»
Deglutii e mi umettai le labbra.
«Non
ho idea di cosa stia parlando, Commodoro», replicai,
sforzandomi di essere il
più credibile possibile, almeno per quanto concessomi dalla
situazione in cui
versavo.
Lui mi assestò un altro
potente e
violento colpo alla testa, nervoso. «Non ti conviene giocare
con me, ragazzo»,
sibilò, afferrandomi per i capelli e portandomi alla sua
stessa altezza. Potei
così fissarlo con attenzione in viso, scorgendo le
pressappoco invisibili
cicatrici che lo deturpavano. Ne aveva una che gli percorreva lo zigomo
destro
e uno svariato reticolo sul lato sinistro del viso, un ammasso
cicatriziale
così fitto che mi sembrava quasi impossibile che non le
avessi viste fino a
quel momento. Quelle erano la chiara testimonianza che si era sempre
sporcato
le mani, facendo tutto da solo. «Consegnatemi la mappa e vi
lascerò andare; non
me ne faccio nulla delle vostre misere taglie».
Sentii il calore del sangue lungo
il viso e quasi faticai a tenere gli occhi aperti a causa del nuovo
colpo che
mi centrò in pieno viso, facendo scricchiolare orrendamente
la mia mascella.
Quel marinaretto ci stava andando giù pesante, ma non avrei
mai venduto i miei
compagni per aver salva la vita. Sarei morto piuttosto che disonorarmi
in quel
modo. «La mappa», biascicai, leccandomi via il
sangue dalle labbra, «dovrà
andare a litigarsela con gli squali, Commodoro».
«Non mentire,
pirata», replicò
adirato. «Tu e il tuo amichetto vi credete furbi,
eh?» Mi afferrò per il
colletto della camicia e mi issò da terra con forza
incredibile, tanto che i
miei piedi quasi non sfiorarono più il terreno sottostante,
ciondolando. «Mi
state sottovalutando».
Aprii piano un occhio e tentai di
rispondergli, ma in quel mentre un cupo rimbombo risuonò
nell’aria e una
spruzzata di sangue mi inzaccherò il viso, proprio nel
momento esatto in cui il
Commodoro allentò la presa e mi lasciò; le sue
grida disarticolate mi
riempirono le orecchie, e fu tossendo che alzai lo sguardo su di lui,
vedendolo
con una mano convulsamente stretta sul proprio avambraccio. Perdeva
copiosamente sangue, e brandelli di stoffa e carne erano ricaduti a
formare una
pozza più scura del fango.
«È lei che
sottovaluta noi»,
dichiarò infine una voce, e voltandomi nella direzione da
cui proveniva vidi la
figura sfocata di Cid, che reggeva la propria pistola e la puntava
verso di
noi. «La prossima volta tenga giù le mani dal mio
compagno, Commodoro».
«Brutto bastardo!»
sputacchiò
quest’ultimo,
agguantando con una mano insanguinata la propria arma; la
puntò verso Cid e
fece fuoco, colpendolo ad una spalla solo perché lui non fu
abbastanza rapido
da scansarsi.
Vedendolo barcollare, gridai
«Cid!»,
ma nel momento stesso in cui provai a rimettermi in piedi le mie gambe
cedettero inesorabilmente. Imprecai, sentendo un altro colpo di pistola
riempire sinistramente l’aria; alzai la testa di scatto e
fissai Cid ad occhi
sgranati, vedendo la camicia che indossava praticamente imbrattata di
sangue. A
cadere, però, fu il Commodoro. L’espressione
sgomenta sul suo viso era come
marchiata a fuoco, e crollò al suolo lasciando gradualmente
andare la pistola
che reggeva, colpito in pieno stomaco; boccheggiò e
tossì sangue, tentando
inutilmente di girarsi su un fianco per riprendere quella lotta che
aveva
ingaggiato.
Cid approfittò proprio di
quel
momento per correre verso di me, allontanando con un calcio la pistola
dalla
portata del Commodoro prima di chinarsi e afferrarmi per un braccio,
facendo in
modo che gli circondassi le spalle con esso. «Ce la fai a
camminare?» mi
domandò preoccupato, ma lo colpii con un violento pugno in
testa, ignorando i
suoi lamenti.
«Idiota!» esclamai,
lasciandomi
però trascinare via da lì, lanciando
un’ultima rapida occhiata al Commodoro.
Tentava ancora di rimettersi in piedi e di inseguirci... che tipo
tenace. In
fondo era un peccato doverlo lasciare al proprio destino. Socchiusi gli
occhi,
continuando a prendermela poi con quello stupido del mio vice.
«Sei ferito più
di me, che diamine avevi in testa?!»
Cid strinse gli occhi, dando vita
ad una smorfia. «Sono solo colpi di striscio, pirata isterico
che non sei altro»,
sbottò. «E’ questo il tuo ringraziamento
per essere venuto a salvarti?»
«Sei comunque un idiota! Non
avevo
bisogno del tuo aiuto, me la stavo cavando alla grande!»
rimbrottai, conscio
che si trattasse di una bugia bella e buona. Ma, ehi, avevo il mio
orgoglio,
io, dannazione! Ero pronto ad inveirgli contro ancora una volta, ma,
inaspettatamente, Cid mi caricò letteralmente sulle spalle,
lasciandomi basito.
Scombussolato, imprecai contro di lui e tentai di farmi mettere
giù,
lasciandogliela ben presto vinta a causa dei giramenti di testa che mi
avevano
assalito. «Guarda che non ti ho perdonato, anche se mi stai
portando in spalla»,
borbottai. «Saresti dovuto restare al porto e
aspettarmi».
«Ho avuto un brutto
presentimento»,
replicò senza tanti giri di parole. «E come vedi
ci avevo visto giusto». Quando
continuò, sentii dalla sua voce che stava sorridendo.
«In compenso, però, ti ho
procurato una signora nave».
Mi issai un po’ e mi portai
una
mano alla fronte, lasciandomi sfuggire uno sbuffo divertito nonostante
tutto. «Ti
conviene sperare che sia davvero così, Cid»,
replicai. «Ti conviene proprio
sperarlo». Non attesi poi risposta, accasciandomi contro di
lui per poggiare la
testa sulla sua schiena, concentrato sul ritmico sobbalzare che compiva
il suo
corpo ad ogni rapida falcata. Attraverso l’orlo delle ciglia
vidi sfrecciare
davanti ai miei occhi case dai muri tutti uguali e scalinate che
portavano alla
parte alta della città, dove risate e schiamazzi si
sentivano nell’aria e
rallegravano l’ambiente; le luci cominciavano ad affievolirsi
in direzione del
mare, e il suono della risacca sovrastò ben presto il rumore
creato da voci
umane.
«Cid! Capitano
Gale!» La voce di
Patrick proveniva dal fondo della banchiglia, e alzando lo sguardo
oltre il
capo di Cid potei vederlo agitare le mani e le braccia per farci cenno
di
sbrigarci. Quando fummo ad una certa distanza e il mio vice mi rimise
giù, poi,
riuscii a scorgere sul suo viso i segni della preoccupazione.
«Cos’è successo?»
gracchiò spaventato. «Siete coperti di
sangue!»
Assicuratosi che io mi mantenessi
in piedi senza bisogno di aiuto, Cid gli si avvicinò e gli
diede un’amichevole
pacca su una spalla, abbozzando un sorriso. «Rilassati,
ragazzo. Questo sangue
non è nostro», mentì, tappandogli
immediatamente la bocca con una mano quando
lo vide in procinto di parlare ancora.
Voltandosi verso di me, poi,
allargò il sorriso e, ignorando gli strepiti soffocati di
Patrick, mi indicò
con la mano libera un vascello alla nostra destra, le cui vele nere
erano già
state tirate giù e sventolavano nel vento serale. Era la
più grossa nave che
avessi mai visto dopo la Conqueror. «La Cruises
Fear», dichiarò solenne. «Benvenuto a
bordo della sua
nuova nave, Capitano».
[1] Espressione
di sorpresa oppure di paura.
La scelta del titolo
sarà chiara mano a mano che si andrà avanti con
la lettura del capitolo.
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Capitolo 5 *** [ Atto V: Cruises Fear, Cabina del Capitano › Mar dei Caraibi, 1768 ] Dead men tell no tales ***
Oceani_5
ATTO V:
CRUISES FEAR, CABINA
DEL CAPITANO › MAR DEI
CARAIBI, 1768
DEAD MEN
TELL NO TALES
Anche se ci trovavamo sottocoperta, mi
sembrava di sentire
l’odore del mare e della libertà.
Non mi ero mai realmente soffermato su
queste due singole
parole, ma da quando la nostra vita aveva ricominciato a farsi davvero
avventurosa avevano acquistato un
significato tutto nuovo, quasi si fosse trattato di parole
assolutamente diverse:
l’arruolamento di Patrick, la fuga da Porto Rico,
l’attacco della marina ai
danni della nostra caravella, le taglie sulle nostre teste e
l’inseguimento del
Commodoro Waine lì a Roseau... avevano fatto in modo che mi
sentissi nuovamente
vivo, un
pirata come avevo sempre
sognato di essere, quasi al pari del mio compianto padre. E tutta
l’adrenalina
che avevo accumulato durante quel nostro viaggio sembrava essere ancora
in
circolo, sebbene ci trovassimo momentaneamente in una situazione di
stallo.
La nostra destinazione era ancora
parecchio lontana e ci sarebbero voluti giorni, se non mesi, per
riuscire
quanto meno a trovarci nei paraggi, e inoltre si era aggiunto il
ritrovamento
di quella mappa che, ne ero certo, ci avrebbe fatto perdere ancora
più tempo. Purtroppo
sapevo che avevo ormai i minuti contati e che dovevo affrettarmi a
raggiungere
quel determinato luogo in mezzo all’oceano, dunque non potevo
pensare anche ad
eventuali luoghi immaginari colmi di tesori, per quanto essi mi
tentassero.
A quei miei stessi pensieri
sospirai, gettando un’occhiata alla mia ciurma: Cid, che si
era occupato lui
stesso di fasciarmi la ferita alla testa prima di occuparsi del proprio
braccio, se ne stava seduto a lucidare la sua pistola come se si stesse
preparando ad un altro possibile scontro, mentre il ragazzo ammazzava
il tempo
giocherellando con qualcosa che ricordava vagamente un doblone; sebbene
avessi
cominciato ad fissarlo distrattamente, sbadigliando in preda alla noia,
quando
mi resi davvero conto di cosa fosse sgranai gli occhi e spalancai la
bocca,
avvicinandomi a lui così rapidamente che quasi
sussultò quando gli fui ad una
spanna dal viso. «Dove l’hai preso?» gli
domandai incredulo, osservando quella
patacca come se non credessi alla sua esistenza. Grande quanto un
doblone,
sopra vi era raffigurata una tigre e, intorno ad essa, vi erano incise
delle
scritte in aramaico [1]
che
non avevo mai tradotto. Quello era
l’unico esemplare di un antico tesoro che
mio padre aveva rubato tempo addietro nelle Bermuda, ne ero certo.
Perché
diamine ce l’aveva quel moccioso?
Lui si strinse nelle
spalle, chinando lo sguardo per fissare con fare afflitto i legacci dei
suoi
stivali. «Quando sono arrivato a Porto Rico l’avevo
già con me», mi rispose,
evitando di guardarmi come se avesse fatto una brutta cosa.
«L’ho sempre
considerato un portafortuna».
«Hai detto che mastro
Garrington
ti ha trovato e ti ha accolto, giusto? Che altro ricordi di quel
giorno?»
indagai, fissandolo attentamente come se cercassi di sondare la sua
anima
semplicemente facendolo. C’era qualcosa che non quadrava, in
quella storia, e
avrei fatto luce su di essa in un modo o nell’altro.
«Senta, Capitano, ma questo
che
importanza ha?»
«Rispondi alla mia domanda e
basta, ragazzo».
«Ti conviene fare come
dice», si
intromise Cid, che fino a quel momento se n’era rimasto in
disparte a lucidare
la sua cara pistola. Era seduto sulle casse gettate lì nella
stiva con una
gamba ciondoloni, e il suo viso esprimeva un’indifferenza
tale e una noia così
profonda che avrebbero anche potuto dirgli che l’Olandese
volante [2]
si
aggirava nei pressi del porto senza che battesse ciglio minimamente.
«Potrebbe
continuare a farti la stessa domanda in eterno, e alla fine per non
sentirlo
l’unica cosa che vorresti fare sarebbe puntargli una pistola
alla testa e
fargli saltare le cervella».
Alla faccia del compagno che
avevo! «Grazie, Cid, tu sì che mi sei
d’aiuto», ironizzai, vedendolo però
sollevare un angolo della bocca in un sorriso e farmi un cordiale cenno
del
capo con il cappello piumato che indossava.
«Quando vuole, oh mio
Capitano»,
mi prese in giro a sua volta, tornando ad occuparsi della propria arma
e
lasciando finalmente a me il compito di occuparmi del ragazzo. Era
già
difficile farlo parlare chiaro senza che ci si mettesse anche il mio
vice a
fare dell’ironia.
«Ricominciamo da capo,
Patrick»,
mi sforzai di essere cordiale, chiamandolo persino per nome invece di
usare
altri appellativi. Mi ero anche seduto, quasi potesse realmente
servire. «Cosa
ricordi di quel giorno?»
Lui si grattò dietro la testa
e
cominciò a guardarsi intorno, lanciando di tanto in tanto
delle occhiate
furtive a Cid come se volesse cercare in qualche modo il suo aiuto.
Restio a
parlare, al principio, decise finalmente di spiegarsi solo dopo che
iniziò a giocherellare
con il doblone, rigirandolo fra le dita. «Vedevo rosso
ovunque», disse
sottovoce, quasi temesse di star dicendo la cosa sbagliata.
«Però è difficile
dire di cosa si trattasse davvero. Non so se fosse semplicemente il
tramonto
riflesso sul mare o qualcosa che andava a fuoco». Si
interruppe, però io mi
ritrovai a sgranare ancora una volta gli occhi. Le coincidenze erano
troppe,
davvero troppe. Ma ero sicuro quasi al cento per cento che la persona
che
conoscevo io fosse scomparsa sei anni prima, e avevo creduto alle voci
che lo
davano ormai per morto. Quel ragazzo non poteva essere chi credevo che
fosse.
Allora perché il mio cuore si ostinava a sperarlo?
«Ricordo anche la nausea che
mi aveva provocato l’oscillazione di una nave in balia delle
onde», continuò,
riscuotendomi. «Sono stato trovato sulla riva, poco distante
dal porto, e sono
quasi certo che ero imbarcato su una nave. Ma oltre a questo non
ricordo altro,
a parte qualche parola confusa».
«Chi era colui che le
pronunciava?
E cosa diceva?» insistetti, venendo ammonito da Cid che mi
lanciò contro lo
straccio che aveva usato fino a quel momento per pulire la sua pistole.
«Dagli tempo,
dannazione», sbottò
tranquillo. «Se fai tutte queste domande insieme lo confondi,
quel povero
ragazzo».
Assottigliai lo sguardo nella sua
direzione. «Tu vedi di farti gli affari tuoi».
«Ehi, Cid,
Capitano», ci richiamò
subito Patrick. «Non c’è bisogno di
discutere, sul serio. Ho solo sentito
qualcuno che canticchiava una bassa nenia, qualcosa tipo
“L’alba non c’è
ancora”
o simile».
A quel suo dire stornai
bruscamente lo sguardo su di lui per fissarlo attentamente con tanto
d’occhi,
spalancando la bocca con fare incredulo.
«“L’alba è ancor lontana, ma
la notte
non ci fa paura”... era una cosa del genere?»
Gli occhi di Patrick si
illuminarono. «Aye, proprio quella!»
esclamò tutto contento, ma io lo osservai
basito e dilatai gli occhi, non credendo alle mie orecchie. Mi alzai
così
velocemente che rivoltai la sedia all’indietro e feci
sussultare sia Cid sia
Patrick, che mi fissarono come se si stessero chiedendo cosa mi fosse
preso
così all’improvviso.
Troppo scombussolato, però,
diedi
loro le spalle e corsi come una furia fuori dalla cabina, seguito dalla
voce di
Cid che mi urlava di tornare lì. Non mi presi la briga di
voltarmi né tanto
meno di rispondere, salendo svelto sul ponte per rifugiarmi dietro al
cassero,
portandomi le mani alla testa per intrecciare le dita fra i capelli. Mi
lasciai
scivolare a terra a gambe spalancate, fissando basito un punto
indefinito. Tutte
quelle conferme, le parole del ragazzo, quella patacca proveniente
dalle
Bermuda... nay, non potevano essere solo coincidenze, tanto meno la
canzone che
soleva cantare mia madre quando mio padre prendeva il largo per mesi e
mesi.
Me ne restai lì fuori ad
osservare
il cielo nero trapunto di stelle per chissà quanto tempo,
con l’alone argentato
della luna che rendeva il legno della nave quasi spettrale. Persino le
vele,
che si gonfiavano con il vento che soffiava da ovest, erano simili ad
enormi e
spaventose creature emerse dai fondi più oscuri e
terrificanti dell’oceano.
A distrarmi furono dei pesanti
passi sulle assi del ponte, ma non ebbi bisogno di alzare lo sguardo
per capire
di chi si trattasse. «Gale, idiota», mi
apostrofò Cid, «si può sapere che ti
è
preso? Io e il ragazzo ci siamo spaventati».
«Il ragazzo»,
ripetei senza
guardarlo, nascondendomi il viso con il palmo di una mano. Avevo anche
chiuso
gli occhi, come se servisse. «Dobbiamo riportare il ragazzo a
Porto Rico, Cid.
Non può più venire con noi».
Sentii il più completo
sconcerto
nella sua voce quando infine parlò, «Pochi giorni
fa dicevi l’esatto contrario»,
annotò. «Per non parlare poi del tempo che
impiegheremo nel cambiare rotta. Ma
perché pensi questo, adesso?»
Strinsi i denti, imprecando.
«Voglio
che scenda da questa nave. Immediatamente. Il triangolo delle Bermuda
è un
posto pericoloso, per il ragazzo».
«Ma che diamine ti
prende?» Lo
sentii avvicinarsi maggiormente a me a passi pesanti e veloci, e fu lui
stesso
ad allontanarmi la mano dal viso per costringermi a guardarlo.
«Anch’io mi sono
un po’ affezionato al ragazzo, Gale, ma venire con noi
è stata una sua scelta»,
mi fece notare. «Che diritto hai di prendere decisioni al suo
posto? E’ un
uomo, per la miseria».
Che diritto avevo? Eh, avevo più diritti di
quel che
credessi
anch’io al principio, il che non era cosa da poco.
Così trassi un sospiro,
socchiudendo le palpebre per non guardare né lui
né tanto meno la luce della
luna che si frammentava sulle onde dell’oceano.
«Quel ragazzo... credo che non
si chiami Patrick, Cid», cominciai, dando finalmente voce
alla mia ipotesi.
Forse farlo mi avrebbe convinto che non stavo sognando. «Il
doblone che ha con
sé, il bagliore rosso che dice di aver visto, la canzone che
ricordava...
quella era la canzone che mia madre cantava a me e a mio
fratello».
«E questo cosa diavolo
centrerebbe
con...» iniziò, interrompendosi tutto
d’un tratto quando la sua mente realizzò
ciò che avevo tentato di dirgli. Attraverso l’orlo
delle ciglia lo vidi
sgranare gli occhi, sgomento, sbattendo poi le palpebre più
e più volte mentre
boccheggiava. «Credi... credi sul serio che quel ragazzo sia
Jim?» mi chiese
con fare guardingo, con voce bassa e appena percettibile da orecchio
umano. «Gale,
amico... non puoi aver semplicemente preso un abbaglio?»
«So quel che dico, Cid,
dannazione»,
scompigliandomi furente i capelli prima di aprire gli occhi e fissarlo
con
attenzione in viso. «Non riuscivo a crederci neanche io,
però...» mi
interruppi, lasciando sfumare la voce ed abbassando ancora una volta la
testa.
Volevo aggrapparmi alla speranza che fosse davvero come credevo, ma al
tempo
stesso non volevo farmi illusioni su quella mia stramba supposizione se
essa si
fosse rivelata sbagliata.
Avevo perso mio fratello Jim sei
anni prima, quando la cittadina in cui vivevamo era stata presa di mira
da una
flotta di pirati che era sempre stata contro mio padre. Prima che
morisse in
mare era difatti stato il più grande pirata che avessi mai
conosciuto, ed era
stato anche per quel motivo che io avevo deciso di seguire le sue orme
e
salpare alla volta dei sette mari.
Quel giorno di sei anni addietro
mi stavo per l’appunto apprestando ad intraprendere quel
lungo viaggio. Avevo
radunato le mie cose e, salutati mio fratello e mia madre, avevo
lasciato la
nostra abitazione con un sorriso, attraversando le vie della
città in direzione
del porto. Era stato proprio in quel mentre che si era scatenato
l’inferno in
terra: il cupo suono dei cannoni e il sinistro sibilo dei colpi aveva
infranto
la quiete notturna del luogo, svegliando la popolazione e gettandola in
preda
al panico; l’odore della polvere da sparo si era diffuso
ovunque, e ben presto
le strade erano state ghermite da centinaia di pirati travestiti da
uomini
della marina, ognuno armato di spada e pistola. Chi tentava di scappare
veniva
subito trucidato, e a nulla era valso tentare di combatterli. Gli
uomini del
villaggio si erano comunque muniti di armi per scacciare gli invasori,
e
anch’io avevo preso parte alla rivolta tentando di portare
con me più pirati
possibili. Se fossi morto nel tentativo di difendere la mia gente, quei
filibustieri mi avrebbero fatto compagnia all’inferno.
Peccato però che, mentre
ero intento a salvaguardare la parte bassa della città, i
pirati avessero
raggiunto i quartieri residenziali, razziando case e rapendo donne e
bambini.
Mio fratello era stato tra questi.
Quando tutto era finito e i pirati
avevano lasciato il villaggio, ero corso a casa così in
fretta che le gambe
avevano cominciato a farmi male; dinanzi alla porta, però,
mi ero accasciato a
terra lasciando cadere la spada, fissando il corpo privo di vita di mia
madre,
il cui viso insanguinato era stato sinistramente illuminato dalle
fiamme
arancioni che divoravano le abitazioni. E da quel momento avevo creduto
che
anche il mio fratellino fosse morto o stato venduto come schiavo,
convinto
persino dalle voci che si sentivano in giro riguardo quella stessa nave
pirata
che ci aveva attaccati. Sapere adesso che quel Patrick poteva essere in
realtà
Jim, sebbene stentassi ancora a crederlo, alimentava almeno in parte la
fiamma
di speranza che si era affievolita in me esattamente sei anni prima.
«Non farne parola con il
ragazzo»,
raccomandai infine a Cid a mezza voce, ostinandomi a guardare le assi
di legno
di cui era composto quel ponte trasandato.
Lui trasse un lungo sospiro, quasi
avesse voluto aggiungere altro, ma si limitò semplicemente
ad annuire prima di
chinarsi di poco verso di me, alzandomi il viso con due dita e
poggiando appena
le labbra sulle mie, con un tocco leggero e quasi inesistente.
«Sta’
tranquillo, Gale», sussurrò. «Gli uomini
morti non raccontano storie [3]».
[1] Lingua
semitica che vanta circa 3.000 anni di
storia. In passato fu lingua di culto religioso e lingua amministrativa
di
imperi. E’ la lingua in cui furono in origine scritti il
Talmud e parte del
Libro di Daniele e del Libro di Esdra. Essa era una lingua parlata
correntemente in Palestina ai tempi di Gesù. Attualmente,
l’aramaico è
utilizzato nei villaggi di Ma’lula, Jabadin e Bakha, in
Siria.
[2] Secondo
il folklore nord-europeo, l’olandese
volante è una nave fantasma che solca i mari in eterno senza
una meta precisa,
e a cui un destino avverso impedisce di tornare a casa. Viene spesso
avvistata
da lontano, avvolta in una nebbia o emanante una luce spettrale. I
marinai
della nave sono fantasmi, che tentano a volte di comunicare con le
persone
sulla terraferma.
[3] Tipica
espressione piratesca utilizzata come
scusa per non lasciare sopravvissuti.
Richiamando anche il
titolo del capitolo stesso, motivo per cui non è stato
segnato precedentemente
fra le note, in questo caso sta solo ad indicare che Cid si
tapperà la bocca
come se fosse un uomo morto.
C’è anche un secondo
motivo di fondo che si chiarirà andando avanti con la
storia.
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Capitolo 6 *** [ Atto VI: Cruises Fear, Ponte di comando › Mar dei Caraibi, 1768 ] Yo-ho-ho! ***
Oceani_6
ATTO
VI: CRUISES FEAR,
PONTE DI
COMANDO › MAR DEI CARAIBI, 1768
YO-HO-HO!
[1]
Perdemmo il conto dei giorni che passammo
in mare, nelle
settimane che seguirono.
L’ago della nostra bussola
aveva continuamente girato a
vuoto come se fosse impazzito, ed era stato difficile orientarsi senza
avere
una rotta esatta da seguire. Ovunque guardassimo c’era solo
un’enorme distesa
di acqua salata, e lo scorgere di un misero angolo di vegetazione mi
sembrava
ormai un’utopia. Mi massaggiai stancamente gli
occhi con due dita, appostato nei pressi della polena; era ormai da
parecchie
ore che non abbandonavo quella postazione, forse nella vana speranza di
scorgere almeno un lembo di terra su cui attraccare. Le provviste e
l’acqua
scarseggiavano, e non ero certo di sapere quanto tempo ancora avremmo
potuto
resistere in quelle condizioni.
Cid aveva passato le ultime tre
notti al timone e alla barra, incaricando Patrick di occuparsi delle
vele ogni
qual volta ne veniva richiesta l’occasione. Capitava difatti
molto spesso che
il clima variasse, e durante quella nostra traversata ci eravamo
imbattuti in
ben quattro temporali che avevano quasi rischiato di distruggere
l’albero
maestro e strappare le vele. Per quanto in quel momento il mare fosse
una
tavola piatta e calma che si increspava solo al nostro passaggio,
sapevo che
bisognava tenere gli occhi aperti per non rischiare di imbattersi in
spiacevoli
e improvvise sciagure. L’oceano non risparmiava nessuno.
Lo stridente richiamo di un
gabbiano mi fece alzare lo sguardo verso il cielo terso sopra di noi,
riaccendendo un barlume di speranza in tutto il mio essere; non
dovevamo essere
ancora molto distanti dalla terra ferma se quell’uccello si
era spinto a caccia
fin lì. Dovevamo dunque cercare di resistere ancora per un
po’, per quanto
sembrasse che vagassimo alla cieca fra quei mari.
Mi stavo finalmente apprestando ad
allontanarmi da lì quando la nave compì una
brusca virata, e poco ci mancò che
finissi a gambe all’aria; riuscii a mantenermi appena in
tempo alla balaustra e
ad avere al contempo una visione piuttosto ravvicinata di uno dei
cannoni
sottostanti. Cid aveva insistito con il prepararli se mai la marina ci
avesse inseguiti,
e non me l’ero proprio sentita di dargli torto. Dopo
l’ultima volta eravamo
diventati tutti un po’ guardinghi quando si trattava di certe
cose.
La Cruises virò bruscamente
ancora
una volta e caddi rovinosamente all’indietro; rotolai sul
ponte prima di andare
a sbattere con la schiena contro l’albero di mezzana,
imprecando a denti
stretti. Che diavolo stava combinando quell’idiota di Cid? Mi
rialzai a fatica
e cercai di raggiungere la cabina al di sotto del cassero,
così da potermi
accertare io stesso delle condizioni del timone e della barra.
Arrivato infine alla porta la
spalancai di malagrazia, ed fui più che pronto a sbottare
contro il mio vice
degli insulti quando mi resi conto che non era lui a manovrare la nave,
bensì
Patrick: cercava di ruotare il timone lottando contro le correnti che
trascinavano la Cruises, con la fronte imperlata di sudore e le
sopracciglia
aggrottate dalla concentrazione. «Che diamine stai facendo,
ragazzo?» lo
richiamai con uno sbuffo, vedendolo sussultare.
Rischiò di mollare il timone
ma si
affrettò a rinserrare la presa, riconcentrandosi sulla
navigazione come avrebbe
fatto un vero timoniere. «Cid non riusciva più a
tenere gli occhi aperti,
quindi l’ho sostituito», mi informò,
asciugandosi il sudore con la manica della
camicia. «Però è più
difficile di quanto pensassi».
Alzai lo sguardo al soffitto,
avvicinandomi a lui per scansarlo di malo modo e afferrare il timone
con una
mano. «La prossima volta che succede vieni a chiamarmi,
ragazzo», borbottai,
gettandogli una rapida occhiata. «Potevamo rischiare
grosso». E l’oscillazione
della Cruises ne era stata la prova lampante. Lo vidi annuire con la
coda
dell’occhio e ficcarsi le mani nelle tasche, non prima di
essersi grattato
dietro la nuca in preda all’imbarazzo.
Sbuffai. Quel ragazzino faceva
sorgere un lato di me che odiavo, forse perché, in fondo in
fondo, rivedevo me
stesso alla sua età. Ma di cosa mi stupivo? Seppur da poco,
avevo scoperto che
Patrick era in realtà mio fratello, per quanto ancora non
riuscissi a credere
davvero a ciò che io stesso avevo formulato
nell’ascoltare la sua
testimonianza. «Va’ immediatamente a svegliare
quell’idiota invece di
ciondolare, Patrick», gli ordinai in tono schietto,
così da provare al tempo
stesso ad allontanare la sensazione che mi aveva investito.
«Digli di occuparsi
delle vele e poi sali di vedetta; appena scorgi anche un solo sputo di
terra,
urla con tutto il fiato che hai nei polmoni».
Non ne fui realmente certo, ma i
suoi occhi sembrarono illuminarsi di un qualcosa che non riuscii a
comprendere
appieno. «Signorsì, signor Capitano!»
esclamò raggiante prima di scattare fuori
dalla cabina, e la cosa mi lasciò interdetto. Chi
l’avrebbe mai detto che
persino i lavori più insignificanti e umili
l’avrebbero mandato in fermento; dava
proprio l’impressione di essere un mocciosetto alla continua
ricerca di qualche
avventura e modo per rendersi utile, poco importava che dovesse
raggiungere il
suo scopo in modi ben poco ortodossi.
Sorrisi appena e scossi il capo,
ruotando il timone di altri venticinque gradi. Le cose sarebbero state
diverse
se il nostro villaggio non fosse stato attaccato, ne ero certo:
crescendo,
forse, Patrick avrebbe deciso di intraprendere la vita del pirata come
avevo
fatto io seguendo le orme di mio padre, e mio nonno prima di lui; ci
saremmo
imbarcati insieme e avremmo avuto un luogo a cui fare ritorno, non un
cimitero
costellato da sentieri impervi e rocce appuntite. Ma ben sapevo che
continuare
a rimuginare sul passato era inutile, dunque dovevo mettermi il cuore
in pace;
niente sarebbe stato più come un tempo, forse nemmeno se
avessi raccontato a
Patrick la verità sulla sua identità.
«Capitano!» La voce
improvvisa di
Patrick, che tra l’altro aveva fatto un po’ troppo
in fretta a tornare su,
sembrò penetrarmi nel cervello, e pochi attimi dopo
entrò in cabina come una
furia, sbattendo la porta senza rendersene pienamente conto. Respirava
a fatica
e sembrava trafelato, quasi avesse corso fin lì senza
fermarsi un attimo.
«E adesso che cosa
c’è,
ragazzo?»
sbottai, ruotando il timone di settanta gradi senza prendermi la briga
di
voltarmi. «Ti avevo dato degli ordini, mi sembra».
Si grattò un braccio, come se
fosse incerto sul da farsi. «Riguarda Cid,
Capitano», mi informò in un mormorio
sordo, e forse fu a causa dell’urgenza che avvertii nel tono
della sua voce che
stornai bruscamente lo sguardo su di lui.
Mi accigliai. «Cid?»
ripetei,
vedendolo umettarsi le labbra.
«Non so che
cos’abbia, ma appena
gli ho sfiorato una spalla per svegliarlo si è
lamentato», esalò tutto d’un
fiato, mordicchiandosi il labbro inferiore.
Dal canto mio, imprecai a denti
stretti non appena assimilai con esattezza quelle parole. Se avevo
visto
giusto, c’entrava qualcosa lo scontro che aveva avuto con il
Commodoro un po’
di tempo addietro. «Quel dannato idiota», borbottai
fra me e me, allontanandomi.
«Tieni il timone, Patrick, e cerca di mantenere costantemente
questa rotta»,
gli intimai senza preamboli. «Se siamo fortunati è
quella giusta».
Ciò detto lasciai tutto nelle
sue
mani e mi affrettai a raggiungere la cabina sottocoperta, sicuro
più che mai
che Cid si fosse rintanato lì per riposare. Avanzai a grandi
falcate nel lungo
corridoio in penombra, giungendo a destinazione così in
fretta che quasi
faticai ad avvedermene; spalancata la porta trovai il mio vice seduto
sulla
branda, con il petto nudo coperto di graffi e lividi. Una sottile linea
di
sangue gli correva lungo il braccio destro, e, sebbene
l’avesse lavata con
dell’acqua e del rum, la ferita frastagliata provocata dal
colpo di pistola appariva
gonfia e rossa, come se stesse andando in suppurazione.
«Avrei dovuto
immaginarlo», sbottai, richiudendomi la porta alle spalle.
Cid non si degnò di
guardarmi,
limitandosi soltanto a bagnare la ferita con un panno. Stringeva i
denti dal
dolore, e con essi si mordeva il labbro inferiore per non lasciarsi
sfuggire
nemmeno il più piccolo lamento. «Non è
niente», rimbeccò, abbandonando il panno
sulla branda prima di allungare l’altro braccio verso i suoi
piedi, dove aveva
riposto ago di balena, spago e bende. «Ho incassato colpi
peggiori di questo».
La cosa avrebbe forse dovuto
rassicurarmi? Sollevai un sopracciglio con aria scettica, sbuffando e
poggiandomi contro il muro di legno della cabina. «Och, non
ne dubito. L’ho
sempre saputo che hai la pellaccia dura», ironizzai.
«Allora fammi il favore di
piantarla», replicò immediatamente senza cogliere
il sarcasmo delle mie parole,
infilando lo spago nella cruna prima di farci un nodo
all’estremità; portò poi
la punta dell’ago verso la candela accesa sulla cassa riposta
alla sua destra,
sterilizzandolo ben bene. Quando tempo addietro avevamo viaggiato a
bordo della
Conqueror aveva imparato dal medico di bordo le basi della medicina, ed
era
stata una vera e propria fortuna, a ben pensarci. Non ci saremmo mai
aspettati
un ammutinamento da parte della ciurma, e quei giorni passati da soli
su quella
sottospecie di barchetta sarebbero stati un sicuro inferno se uno di
noi due si
fosse ammalato senza che l’altro sapesse cosa fare.
Decisi di non prestargli
attenzione, andando a prender posto sulla cassa ormai vuota delle
vivande.
Osservai, poi, Cid apprestarsi a suturare la ferita, infilando la punta
dell’ago nella carne per ricucire i lembi; imprecò
a denti stretti lanciando
insulti a mezza voce, ma fu difficile dire a chi o che cosa si stesse
riferendo
e soprattutto contro chi
li stesse
lanciando. Quando alla fine terminò, raccattò le
bende e bofonchiò, «Non
guardarmi in quel modo, Gale. Mi fascio la ferita e torno al timone; la
nave
balla che è una meraviglia», soggiunse, e fui
più che certo che il suo fosse
sarcasmo. Beh, se riusciva a scherzare significava che tutto sommato
stava alla
grande.
Alzai lo sguardo e sbuffai.
«Non
cambierai mai, razza di idiota», replicai esasperato.
«Tu e il tuo fottutissimo
orgoglio».
Per la prima volta da quando
avevamo preso il largo, Cid sorrise. Sembrava che il buon umore fosse
tornato
sul suo viso come se qualcuno ce l’avesse appena appiccicato
sopra, visto il
repentino cambiamento che aveva avuto. «Non ti piaccio forse
per questo?»
scherzò, distogliendo la sua attenzione da me per applicare
la fasciatura; ne
afferrò un lembo con i denti e strinse il più
possibile, così da evitare che
potesse sciogliersi.
Io restai lì per
lì scombussolato
da quanto aveva appena detto, sbattendo persino le palpebre con fare
perplesso.
Bofonchiai poi qualcosa fra me e me, forse vagamente imbarazzato,
affrettandomi
a dargli le spalle e a riaprire la porta. «Non sparare
cazzate, pirata»,
sbottai al suo indirizzo, uscendo dalla cabina con la sua risata al
seguito.
Ero appena salito per raggiungere Patrick quando quella furia del mio
vice mi
sorpassò in fretta - senza che io me ne rendessi conto, tra
l’altro -, e lo
sentii esclamare «Virare a prua!» nel momento
esatto in cui mi affrettai ad
entrare anch’io; forse fu di riflesso che Patrick
eseguì e ruotò il timone
velocemente, sebbene avesse brevemente sussultato. Di certo non si era
aspettato quell’ordine improvviso, e neanch’io, a
dirla tutta.
«Che succede?» gli
chiesi quindi
trafelato, vedendolo sporgersi quel tanto che bastava per osservare il
mare.
Alzò di sfuggita lo sguardo verso lo scorcio di cielo che si
vedeva e,
umettandosi un dito, controllò con esso la direzione del
vento, scoccandomi
un’occhiata.
«Torno al timone, tu occupati
delle vele, Patrick», disse semplicemente, afferrando da una
tasca un qualcosa
che solo in seguito capii essere una bussola.
«L’ago finalmente indica una
direzione, però punta a nord-ovest; dobbiamo cambiare rotta,
o rischiamo di
continuare a vagare in mare senza una meta».
Patrick si scansò
immediatamente e lasciò tutto nelle mani di Cid, annuendo
per un breve istante
prima di scattare ed eseguire gli ordini appena ricevuti. Lo seguii con
lo
sguardo finché non sparì del tutto dalla mia
visuale, tornando a fissare il mio
vice: l’ebrezza che l’aveva sempre animato era
tornata prepotentemente sul suo
viso, rendendolo luminoso come quello di un bambino che aveva appena
ricevuto
un nuovo giocattolo; nonostante la ferita appariva pimpante e pieno di
energie,
e fu sorridendo che mi invitò a svolgere i miei incarichi di
Capitano prima di
tornare a concentrarsi sulla navigazione.
Calò la sera senza che ce ne
rendemmo conto, presi com’eravamo dalle nostre rispettive
mansioni. Il livello
del mare sembrava essersi abbassato, simbolo che non mancava molto al
raggiungimento della terra ferma; il cielo si era tinto di un cupo
violetto
frammentato solo dal grigiore di alcune nuvole di passaggio, e il solo
suono
che si udiva era il lieve cigolare della chiglia della Cruises. Avevamo
lasciato che fosse il vento a guidare la nave a dritta, e ci eravamo
finalmente
concessi qualche attimo di riposo. Cid aveva persino trasportato sul
ponte
l’ultimo barilotto rimasto e quel poco cibo avanzato,
insistendo con il dire
che c’era bisogno di festeggiare. E per una volta eravamo
stati pienamente
d’accordo con lui.
Tra risate e schiamazzi avevamo
consumato la cena e bevuto, dilettando Patrick con i racconti delle
nostre
avventure. Gli avevamo parlato di quella volta in cui ci eravamo
ritrovati ad
affrontare una flotta di navi pirata nel Golfo del Messico, e di come
avevamo
rischiato di lasciarci le penne a causa delle lame avvelenate con cui
l’equipaggio ci aveva fronteggiati; di quando eravamo giunti
per la prima volta
nei pressi del porto di Tortuga, godendo dei mille piaceri che essa
riservava
prima di rifornire i nostri bastimenti truffando un vecchio
commerciante d’armi
nei guai con la marina; gli avevamo parlato persino di quando avevamo
solcato
le coste del lontano Adriatico con la nostra Conqueror, che aveva
infranto più
onde di quante ne ricordassimo e affrontato più viaggi di
quanto non fosse
possibile. Patrick ci aveva ascoltati con stupore e meraviglia,
assimilando
quelle informazioni e chiedendoci maggiori dettagli, gli occhi luminosi
e
vogliosi di sapere. Appariva come un bambino a cui stavano narrando una
fiaba,
e la cosa mi aveva fatto sorridere non poco. Mi rammentava i giorni in
cui,
quando il nostro villaggio era ancora un luogo rigoglioso e pieno di
vita, era
la nostra compianta madre a raccontare le gesta di nostro padre,
facendo sì che
la leggenda che era stato continuasse; Jim, il cui nome era adesso
Patrick,
aveva in viso la stessa espressione che mi stava mostrando in
quell’esatto
momento.
Il momento migliore della serata -
o peggiore, a detta di Patrick stesso - fu quando Cid, dopo essersi
bevuto ben
più di metà barilotto ed essersi alzato in piedi
con fare ciondolante, ebbe la
brillante idea di intrattenerci con delle canzoni. Stonato come una
campana e
con il boccale colmo fino all’orlo ben stretto in una mano,
Cid cominciò ad
intonare “Hoist the colours [2]”
con
voce gracchiante, ridendo come un matto a causa del liquore ormai in
circolo
sebbene quella canzone fosse tutt’altro che allegra.
«Yo, ho, haul together, hoist the Colors high. Heave,
ho, thieves and beggars, never say we die [3]!»
Il
suo schiamazzare sguaiato si diffuse nel silenzio della notte,
perdendosi nella
vastità dell’oceano. «E voi
perché ve ne state zitti? Cantiamo e balliamo fino
alla fine del viaggio!»
Beh, aveva decisamente bevuto
troppo. Però per una volta lo lasciai fare, comprendendo
l’entusiasmo che lo
animava. Il nostro viaggio stava andando a gonfie vele, dunque non
avrei
frenato quella sua voglia di festeggiare né avrei permesso
che lo facesse
qualcun altro. Andava bene anche così.
«Quando beve sembra
un’altra
persona», costatò Patrick, lo sguardo fisso su Cid
come se il boccale che aveva
in mano non esistesse. Sorrideva, come se, in fondo in fondo, quella
situazione
lo divertisse. E dovevo ammettere che divertiva parecchio anche me.
Gli diedi una pacca su una spalla,
tornando a guardare il mio vice. Non aveva smesso un secondo di cantare
quella
dannata canzone, a parte quando si bagnava la gola con il liquore.
Ancora mi
chiedevo come facesse a non riversarlo completamente sul ponte, visto
il modo
in cui continuava a sbracciarsi. «Tranquillo, è
uno spettacolo che fortunatamente
non si ripete spesso», lo
informai, sentendolo sospirare di sollievo.
«Quell’idiota preferisce essere
vigile e sobrio».
«E scommetto che lo fa
soprattutto
per il suo bene, Capitano», replicò semplicemente,
al che io mi accigliai non
poco per quelle sue parole. Riuscii a vedere l’espressione
sgomenta che mi si
era dipinta in viso riflessa negli occhi di Patrick, che mi osservava
con estrema
attenzione. «Quando eravamo a Roseau e ha visto che lei non
tornava... si è
agitato talmente tanto che non ci ha pensato due volte a correre a
cercarla.
Cid ha piena fiducia in lei, Capitano. E’ un uomo che farebbe
di tutto per
proteggerla».
Boccheggiai come un pesce fuor
d’acqua, probabilmente stupito da quelle sue costatazioni.
Con poche e semplici
parole aveva colto i passaggi essenziali del legame che avevo con Cid,
rapporto
che andava ben oltre a quello che mostravamo agli altri e persino a noi
stessi.
Feci dunque per rispondere, ma il peso di una grossa mano sulla mia
testa
richiamò la mia attenzione; il cappello piumato che portavo
mi venne
schiacciato sul capo e una risata mi riempì le orecchie,
prima che quell’idiota
di Cid si chinasse verso di me e mi cingesse le spalle con un braccio.
«Fatti
un bel goccio», parve ordinarmi con voce gracchiante,
agitando il proprio
boccale e facendo sì che la maggior parte del liquore in
esso contenuto gli si
riversasse addosso. «Allenterà anche i tuoi nervi,
credimi».
Lo allontanai da me con uno sbuffo
sotto lo sguardo parecchio divertito di Patrick. «Vedi
piuttosto di piantarla
tu, idiota ubriacone», ironizzai, sentendo il suo fiato caldo
sul collo e il
suo ansimare; raggelai nell’avvertire la pressione delle sue
labbra contro la
pelle e il suo insistente avvicinarsi, ma fu soprattutto nel vedere
l’espressione incuriosita e al contempo stralunata del
ragazzo che mi sentii
sbiancare. Aveva sollevato un sopracciglio e incurvato un po’
le labbra verso
il basso, come se si stesse domandando cosa diavolo stesse succedendo.
Mi alzai così in fretta che
Cid,
che nel frattempo aveva provato ad accostare il suo petto alla mia
schiena,
crollò con la faccia sul ponte della nave, lamentandosi per
la botta ricevuta e
imprecando al mio indirizzo; aveva anche lasciato andare il boccale di
liquore,
che era rotolato sulle assi di legno rovesciando il poco contenuto
rimasto. Non
diedi minimamente peso all’espressione contrariata con cui mi
osservò, dando le
spalle ad entrambi per dirigermi a grandi falcate verso il ponte,
sentendo però
i passi di qualcun altro far eco ai miei.
«L’ha proprio messo
di cattivo
umore», mi disse in tono vagamente divertito Patrick. Gli
gettai appena una
veloce occhiata prima di stornare lo sguardo in direzione di Cid, che
si era
sdraiato sul ponte di schiena a braccia e gambe spalancate, gli occhi
annebbiati rivolti verso il cielo sopra di lui.
Giocherellando con il mio capello,
replicai, «Che dormisse, quell’idiota. Almeno le
nostre orecchie saranno salve
fino alla sua prossima bevuta».
Patrick inclinò la testa di lato,
grattandosi dietro al collo. «Non si arrabbi, Capitano. Non
vede com’è ubriaco?
Probabilmente non si rendeva nemmeno conto di ciò che
faceva».
Ah, beata innocenza. Quello
stupido del mio vice lo sapeva fin troppo bene ciò che
faceva, in qualsiasi
momento e in qualsiasi modo. Era impensabile il contrario, piuttosto. E
il modo
in cui aveva tentato di agire parlava da solo.
«Posso farle una domanda,
comunque?»
Bofonchiai qualcosa fra me e me,
per niente propenso ad ascoltarlo. Però gli chiesi in tono
scorbutico, «Sarebbe?»
«Perché
è diventato un pirata,
Capitano?» Si poggiò a braccia conserte contro il
parapetto della Cruises,
guardando oltre esso. Sembrava assorto nell’osservare
l’incresparsi del mare,
che appariva come una vasta distesa nera illuminata solo parzialmente
dalla
luce della luna, i cui raggi facevano timidamente capolino dalle nubi
che ci
sovrastavano.
«Per realizzare un mio
sogno»,
risposi in tono schietto e immediato, vedendolo con la coda
dell’occhio portare
la sua attenzione su di me.
«E si è
avverato?»
A quella domanda sorrisi
inconsciamente, non sapendo cosa rispondere con l’esattezza.
Forse si era
avverato per davvero, quel mio sogno, sebbene io stentassi ancora a
crederci.
Optai dunque per una mezza verità, adagiandomi a mia volta
contro la balaustra.
«Chi lo sa».
Patrick alzò un angolo della
bocca, divertito. «Sa, Capitano, a volte stento a credere che
lei sia davvero
un pirata», buttò lì, richiamando la
mia attenzione.
«E cosa te ne fa
dubitare?»
«Il fatto che non avesse una
nave
e che quando l’ha ottenuta non ha neanche tentato di metter
su un equipaggio»,
disse distrattamente, alzando finalmente lo sguardo verso il cielo.
«Ha
soltanto Cid, che ci fa da navigatore, cuoco e, purtroppo, anche da
musicista»,
soggiunse, enfatizzando con tono ilare l’ultima mansione.
Sbuffai appena, allontanandomi da
lì il più in fretta possibile. «Un
giorno capirai il perché della mia
decisione. Credimi, ragazzo».
Sentii il suo sguardo puntato
sulla mia schiena, come se mille pugnali mi stessero trafiggendo senza
pietà. «Un
giorno, forse, ma non oggi».
Non mi voltai, limitandomi solo a
calcarmi il cappello sulla testa mentre mi incamminavo verso il
cassero. «Già»,
replicai semplicemente. Però, dentro di me, qualcosa mi dava
la certezza che il
giorno in cui avrei dovuto spiegargli la verità si stesse
avvicinando sempre di
più.
[1] Esclamazione
tipicamente associata ai pirati.
La scelta sarà chiara
andando mano a mano avanti con il capitolo, o almeno è
questa l’intenzione.
[2] La
traduzione letterale sarebbe “Issa i colori”,
sebbene in questo contesto si intenda la bandiera; il titolo, dunque,
diventa
per l’appunto “Issa la bandiera”.
La canzone è il tema
principale del film “Pirati dei Caraibi: Ai confini del
mondo”, e oltre a
rappresentare i pirati stessi e la loro ideologia di
libertà, racconta di come
Calypso venne imprigionata in un corpo umano dal Re dei Pirati.
[3] Strofa
della canzone “Issa la bandiera”.
La scelta di lasciarla
in inglese è voluta, e tradotta reciterebbe: “Yo,
ho, trasportare insieme,
issare la bandiera. Solleva, ho, ladri e accattoni, non dite mai che
moriremo”.
C’è inoltre un altro
motivo di fondo per cui è stata scelta proprio questa frase,
ma esso sarà
intuibile solo alla fine della storia, o almeno questa è
l’intenzione.
Messaggio No Profit
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alla causa pro-recensioni.
Farai felici milioni di
scrittori.
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Capitolo 7 *** [ Atto VII: St. George's, Piazza cittadina › Mar dei Caraibi, 1768 ] Scourge of the seven seas ***
Oceani_7
ATTO
VII: ST.
GEORGE’S,
PIAZZA CITTADINA › MAR DEI
CARAIBI, 1768
SCOURGE OF THE SEVEN SEAS [1]
Giungere sulla terra ferma mi era parso
come un sogno.
Dopo tutto quel tempo passato in mare, e con le
scorte di
cibo ormai ridotte all’osso, l’unica cosa che
riuscivo a pensare era il poter
rifornire la stiva. La testa mi doleva ancora a causa di tutto il
liquore che
mi ero scolato, ma gli effetti della sbronza erano fortunatamente
scomparsi. Di
quel che avevo fatto o detto non ricordavo assolutamente nulla, ma
l’espressione di Gale mi aveva fatto capire che qualsiasi
cosa fosse stata non
gli era per piaciuta per niente. Chi sembrava rilassato e tranquillo,
invece,
era Patrick. Con il sorriso sulle labbra e quell’aria
divertita dipinta in
viso, si guardava intorno assorto e meravigliato, assimilando ogni
dettaglio
della nuova città in cui ci eravamo ritrovati.
Dal canto mio, invece, quello era
uno scenario già visto e rivisto, forse perché
per me ogni città appariva
uguale alla precedente. Ognuna di esse rappresentava semplicemente un
luogo
dove poter rifornire la nave, nient’altro, e non avevo dunque
bisogno di
ricordare con l’esattezza ogni minimo particolare.
«Cerchiamo di passare il
più
inosservati possibile», disse d’un tratto Gale, e
gettandogli una rapida
occhiata lo vidi guardarsi intorno con fare guardingo, quasi stesse
controllando i dintorni. Si era persino liberato di quel suo ridicolo
cappello
piumato, lasciando che qualche ciuffo di capelli castani ricadesse a
nascondergli parzialmente gli occhi.
Mi passai una mano sulla testa,
scompigliandomi la zazzera bionda. «Siamo ricercati, non
credo sarà così facile»,
gli tenni presente, e, per quanto il fatto che avessi ragione gli desse
fastidio, si ritrovò ad annuire. «Vediamo di
comprare l’essenziale e di
svignarcela».
In risposta ricevetti solo qualche
vago suono d’assenso prima che cominciassimo ad incamminarci
nel centro della
città, dove le strade pullulavano di mercanti che
strillavano a destra e a
manca, nel tentativo di richiamare le persone che passeggiavano fra
quelle vie.
Ovunque si guardasse c’erano mercanzie d’ogni tipo,
esattamente come a Porto
Rico, ma non ci feci caso poi più di tanto,
poiché la cosa mi interessava
relativamente poco.
Ciò che catturò la
mia attenzione
fu invece un gruppetto di donne che guardava con aria assorta una di
quelle
bancarelle trasandate, ridacchiando fra loro per motivi astrusi. Una di
esse
intercettò il mio sguardo e mi sorrise, scostandosi i
capelli rossi dal viso
per ravvivarseli dietro alle orecchie in un gesto invitante e
provocatorio,
giacché nel farlo aveva scoperto una buona porzione di pelle
all’altezza del
seno.
La salutai con un gesto della mano
e ricambiai il sorriso, ricevendo subito dopo una gomitata nelle
costole. «Ricorda
l’avvertimento che ti ho fatto a Porto Rico, Cid»,
disse Gale con voce
divertita, ma si vedeva lontano un miglio che in realtà non
stava affatto
scherzando. L’avrebbe fatto sul serio, ed era dunque meglio
non dargli nessun
incentivo per fargli mettere in atto quella minaccia.
Fu quindi con un certo dispiacere
che mi costrinsi a distogliere lo sguardo, vedendo però
Patrick gettare
un’occhiata in direzione della combriccola e soffermarsi
soprattutto sulla
bionda. Quel moccioso aveva decisamente capito tutto della vita.
La giornata cominciò a farsi
uggiosa mano a mano che le ore passavano.
L’umidità nell’aria era diventata
intensa, quasi pesante, molto simile ad una gelida coperta che si
posava
lievemente sulla pelle; le persone che avevano affollato avevano
cominciato a
disperdersi a poco a poco, urtando l’una contro
l’altra per raggiungere in
fretta le proprie abitazioni. Le nuvole sopra di noi erano cariche di
pioggia,
e avrei scommesso che, se non subito, avrebbero sicuramente riversato
sulle
nostre teste tutta l’acqua che trasportavano.
Forse era soltanto una mia
impressione, ma quell’improvvisa precipitazione non mi
piaceva per niente.
Sapevo che il tempo, in quel periodo dell’anno, era
instabile, ma avevo come
l’impressione che ci fosse sotto qualcos’altro.
Scossi il capo, cercando di
allontanare da me quegli stupidi pensieri. Tutto ciò che era
successo mi aveva
rimescolato il cervello, non c’era altra spiegazione.
Superammo una taverna già
chiusa
nonostante l’ora, e ci dirigemmo verso la piazza cittadina,
convinti che
avremmo così trovato altre locande per rifocillarsi e un
negozio per alimentare
le scorte della stiva. Avevo anche la ferma intenzione di comprare da
bere, ma
mi sarei ben guardato dal tracannare un barilotto intero di liquore,
stavolta.
Quando la raggiungemmo, trovammo la
piazza quasi completamente vuota, e la cosa mi apparve quanto meno
strana. Per
quanto il tempo promettesse pioggia, essa non era ancora caduta ad
abbattersi
sulla città, dunque non vedevo il motivo di quello
sfollamento. Giusto qualche
madre indaffarata si intratteneva ancora in essa, tirandosi dietro i
figli. Un
bambino di circa tre anni dai vivaci capelli rossi ci venne in contro
e,
regalandoci una linguaccia, ci sorpassò come se nulla fosse,
lasciando dietro
di sé la genitrice che lo richiamava e lo inseguiva. La
donna corse verso di
noi, ma non si degnò di gettarci neanche
un’occhiata, pensando probabilmente che
fosse più saggio non immischiarsi; raggiunto il figlio lo
riacciuffò in fretta
e lo trascinò via, ignorando i suoi piagnistei per aumentare
soltanto il passo.
Non ci volle molto prima che la
piazza fosse del tutto sgombra, e fu sbuffando che Gale ci fece cenno
di
seguirlo in direzione delle stradine laterali, più che
intenzionato a sbrigare
le nostre faccende ed andarcene. E, beh, su quel punto ero
perfettamente
d’accordo con lui. Non avevamo tempo da perdere, e finalmente
quell’idiota
l’aveva capito.
Fu nello svoltare l’angolo che
sentii correre un brivido lungo la schiena, poi un fruscio e un veloce
suono di
passi. «Credevate di potermi sfuggire, pirati?»
Mi
si gelò il sangue nelle vene
nel capire a chi appartenesse quella voce. Mi voltai nella direzione da
cui
proveniva quasi a rallentatore, aprendo la bocca senza che da essa
uscisse
alcun suono. Il Commodoro Waine, per quanto apparisse deperito e
pallido in
viso, era esattamente a pochi metri di distanza da noi, con il volto
stravolto
da una tale soddisfazione che mi ricordò un falco che aveva
appena adocchiato
la sua cena. Come poteva essere possibile che fosse ancora vivo?
Sgranai gli occhi quando lo vidi
puntare la pistola verso Gale, e non ci pensai due volte: mi parai
dinanzi a
lui a braccia spalancate, sentendo un dolore lancinante bruciare al
fianco
destro. Mi accasciai su me stesso, sentendo nelle orecchie le grida di
Patrick
e i suoi passi veloci; un altro colpo di pistola risuonò
nell’aria, e non ci
misi molto a rendermi conto che era stato proprio Gale a sparare verso
il
Commodoro.
«Dannazione!»
imprecò,
facendo
fuoco ancora una volta. Premendomi una mano sul fianco mi rialzai
faticosamente
in piedi, vedendo il Commodoro armeggiare con la propria arma; sembrava
che la
pistola gli si fosse inceppata, ma anche Gale non se la passava meglio.
Pronto a lanciarsi contro
l’ufficiale munito solo d’arma bianca, mi frapposi
nuovamente davanti a lui e
drizzai la schiena, ansimando. «Vattene, Gale»,
soffiai a bassa voce,
osservando ogni minimo movimento del Commodoro. Aveva estratto a sua
volta la
spada e, sebbene faticasse a respirare, appariva più che
determinato a non
farsi scappare l’occasione di ammazzarci.
«Non ti lascio qui,
idiota»,
sbottò, ma nel vedere con la coda dell’occhio il
viso stralunato di Patrick,
che se ne stava in disparte per non restare coinvolto, non ci pensai
due volte;
afferrai Gale per il colletto del giaccone e lo allontanai di malo
modo,
ignorando le sue imprecazioni per sguainare la mia spada.
«Che diavolo stai aspettando,
Gale?» dissi poi. «Porta via il ragazzo!»
gli urlai contro, lo sguardo puntato
ostinatamente sull’avversario che avevo dinanzi. Sapevo che
se avessi distolto gli
occhi anche solo per un secondo sarebbe stato tutto perduto.
Con la coda dell’occhio, vidi
il
suo viso trasfigurarsi in una smorfia, ma fu socchiudendo gli occhi che
imprecò
a denti stretti e afferrò Patrick per un braccio,
lanciandomi un grido
d’avvertimento che, nonostante tutto, mi fece abbozzare un
sorriso sarcastico.
Quell’idiota. Era in pericolo quanto me e si preoccupava
delle mie condizioni.
Deglutii sonoramente, aggrottando
la fronte con la mia arma in pugno. «E ora a noi,
Commodoro».
Intorno a me avevo notato che il
silenzio era diventato così fitto da apparire quasi irreale,
dovuto anche all’aria
satura di pioggia che ci circondava. Non avevo ancora mosso un solo
muscolo,
troppo impegnato a tener d’occhio il mio avversario e a
concentrarmi sui passi
sempre più rapidi di Gale e Patrick, nella speranza che si
allontanassero il
più in fretta possibile da quel luogo.
Puntavo la lama della spada verso
il Commodoro, che brandiva a sua volta un’arma bianca di
notevoli dimensioni.
Aveva il respiro pesante e sembrava stare in piedi a malapena, ma
neanch’io ero
messo meglio: la ferita al fianco che mi ero procurato per proteggere
Patrick e
Gale mi doleva in modo pazzesco, e a causa della gran
quantità di sangue che
avevo perso la mia vista era sfocata. Ma non mi sarei mai fatto battere
da quel
marinaretto da quattro soldi, non con tutta l’esperienza che
mi portavo dietro.
Prima di conoscere Gale non mi era mai capitato di imbarcarmi in
un’avventura
del genere, e l’avrei vissuta fino all’ultima
goccia prima del raggiungimento
della nostra meta. Il momento era ormai giunto, e io non avevo il
potere di
rimandarlo ancora per molto.
Trassi un lungo respiro e, sebbene
sentissi il furente pulsare del sangue nelle orecchie e il respiro
affannoso e
irregolare, alzai il braccio con cui reggevo la spada quel tanto che
bastava
per portarmi la lama piatta dinanzi al viso, incurvando un
po’ la schiena e
allargando le gambe, così da mettermi in posizione
d’attacco. Il Commodoro,
seppur con movimenti più lenti, gettò via la
propria pistola e mi imitò,
squadrandomi con aria battagliera. Anche da quella distanza potevo
leggere nei
suoi occhi l’ira e la sfrontatezza, quasi avesse la certezza
di uscire
vittorioso da quel nostro scontro. Beh, si sbagliava di grosso. Non gli
avrei
permesso di fare più un passo, anche a costo di ammazzarci a
vicenda.
Prima ancora che potessi rendermene
pienamente conto, però, mi fu addosso con una
velocità sorprendente, compiendo
un affondo nel tentativo di trapassarmi lo stomaco; riuscii a fermare
quel
colpo appena in tempo con la mia spada, e il cozzare delle due lame
risuonò
nell’aria come un sinistro tintinnio. Ci guardammo per un
istante prima di
scattare all’indietro nello stesso momento, sforzando
l’aria con colpi che si
susseguivano ad intervalli sempre più irregolari; con un
grido rabbioso mi
gettai contro di lui e lo costrinsi a scartare di lato, venendo subito
contrattaccato prima di riuscire a colpirlo, anche se di striscio, alla
guancia.
Il viso del Commodoro si trasfigurò in una maschera iraconda
e, con il sangue
che cominciava a stillare dalla ferita, sporcandogli la pelle, mi
colpì con il
dorso della spada sulla schiena, facendomi barcollare; indietreggiai di
qualche
passo per cercare di ristabilire le distanze iniziali, ma il Commodoro
mi venne
dietro e, con una rapida scoccata, mi ferì al braccio, poco
al di sotto del
punto in cui settimane prima mi aveva centrato con la pistola. Sibilai
dal
dolore, e mi sarei anche portato una mano alla ferita se non fossi
stato
costretto a scartare velocemente di lato per evitare un altro affondo.
Parai la lama che mirava al mio
cuore con rapidità e scioltezza, ma ormai avevo come la
netta sensazione che
ciò non bastasse. L’acciaio delle lame
cozzò ancora una volta, sprizzando
scintille; l’umidità nell’aria sembrava
appesantire i nostri vestiti e impedire
i nostri movimenti, o forse era soltanto un’illusione
provocata dalla
stanchezza che dilaniava i nostri corpi.
Flettendo le gambe provai a
colpire il Commodoro ad un fianco, ma lui, ruotando il polso con cui
sorreggeva
la spada, parò facilmente il colpo e
contrattaccò, piroettando di lato prima di
piegare le ginocchia; non ebbi il tempo di rendermi conto delle mie
intenzioni
che sentii un dolore acuto alla coscia destra, cadendo riverso di
schiena
quando venni spinto in terra dal mio avversario.
Tentai di rimettermi in piedi il
più in fretta possibile, ma prima ancora che potessi farlo
una manciata di
terriccio mi accecò, costringendomi a strofinarmi
furentemente gli occhi nel
tentativo di vedere; le sagome intorno a me apparivano sfocate, e
dovetti
sbattere violentemente le palpebre per cercare di riacquistare la
vista. Non
riuscii a capire immediatamente cosa fosse ciò che mi si
stava avvicinando a
velocità sorprendente che un peso mi si poggiò
sul petto, mozzandomi il
respiro; con la coda dell’occhio catturai la fugace e
distorta visione di una
lama che veniva infilata nel terreno, tra l’altro molto
vicino alla mia faccia,
prima che il Commodoro piantasse lo stivale in mezzo alle mie costole,
togliendomi quel poco fiato che mi era rimasto nei polmoni.
«Sei stato un osso
duro, pirata», sussurrò ansimante, e attraverso le
palpebre socchiuse potei
vederlo sorridere con fosca soddisfazione, «ed è
per questo che ti renderò
onore infliggendoti immediatamente il colpo di grazia. Un vero peccato
che in
questo modo la tua taglia sarà dimezzata, ma ci
penserà quella del tuo
amichetto a compensare il vuoto».
Boccheggiai, afferrandogli la
caviglia prima di stringere la presa intorno alla mia spada; provai ad
alzare
il braccio il più velocemente possibile, ma il Commodoro
parve intuire le mie
intenzioni e si allontanò compiendo un salto
all’indietro, stupendomi. In vita
mia non avevo mai visto tale abilità, e la cosa, seppur si
trattasse di un
nemico, riuscì a sorprendermi positivamente. «Sei
più tenace di quel che
credessi, pirata», disse con fare vagamente divertito,
puntando la lama contro
di me. «Ma questi giochetti non funzionano con il
sottoscritto».
«Va’
all’inferno!»
biascicai,
poggiando una mano a terra per rimettermi in piedi, ma nel momento
esatto in
cui ci provai il Commodoro ritornò all’attacco,
approfittando della debolezza
che stavo dimostrando. Riuscii a rotolare via per un soffio, sentendo
il tonfo
sordo della lama nel punto in cui pochi istanti prima mi ero trovato
io; alzai
la mia arma per fronteggiare il Commodoro da quella posizione,
indietreggiando
ogni qual volta mi era concesso. Più tentavo di scappare
più gli affondi
divenivano rapidi e precisi, e non ebbi più via di scampo
quando la mia schiena
andò a sbattere contro un muro.
Alzai lo sguardo per puntarlo sul
viso del Commodoro, scorgendo nei suoi occhi il mio riflesso. Apparivo
teso e
stralunato come non lo ero mai stato, e la cosa mi spaventava. Io, che
avevo
sempre avuto il controllo sul mondo che mi circondava e sulle mie
azioni, mi
sentivo adesso come un bambino sperduto... era impensabile. Non mi
sarei però
arreso, avrei combattuto fino alla fine senza risparmiare un solo
colpo. E fu
proprio a quei pensieri che tentai ancora una volta di colpire il mio
avversario, mirando dritto al cuore; ebbi appena il tempo di vedere la
sua
espressione confusa prima che con un movimento fulmineo della sua spada
intercettasse la mia e la scansasse, facendomi
allentare la presa.
Fu con orrore che la vidi roteare
in aria prima che si piantasse a terra, esattamente a pochi metri di
distanza
da me. Inerme e disarmato, con il sangue che già cominciava
a coagularsi
intorno alle mie ferite, l’unica cosa che riuscii a fare fu
stringere forte le
palpebre e serrare le labbra nel tentativo di bloccarlo a mani nude,
prima che
la lama del Commodoro mi si conficcasse nelle carni, riducendo il mio
mondo ad
una macchia di sangue.
L’ultima cosa che sentii fu
«Ci
sono già stato all’inferno», poi...
più niente.
[1] Letteralmente
significa “Flagello dei sette
mari”.
Rappresenta un pirata
noto per la sua natura estremamente violenta e brutale.
La scelta del titolo
sarà chiara mano a mano che si procederà con la
lettura del capitolo, o almeno
questa è l’intenzione.
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Capitolo 8 *** [ Atto VIII: St. George's, Nei pressi del porto › Mar dei Caraibi, 1768 ] Give no quarter ***
Oceani_8
ATTO
VIII: ST. GEORGE’S, NEI
PRESSI DEL PORTO › MAR DEI
CARAIBI, 1768
GIVE NO
QUARTER
[1]
Stavo correndo a perdifiato quando un dolore acuto
all’altezza del petto mi paralizzò, mozzandomi il
respiro.
Caddi in ginocchio con le mani
convulsamente chiuse a pugno,
portandomele al cuore mentre tentavo di riportare a fatica il fiato nei
polmoni. Eravamo quasi nei pressi del porto, e si poteva benissimo
udire lo
scrosciare delle onde contro le chiglie delle navi lì
ormeggiate; però quel
dolore aveva arrestato la mia corsa, facendo sì che Patrick
mi distanziasse.
Provai ad aprire la bocca per richiamarlo, ma un’altra fitta
mi rubò il
respiro, e dovetti accasciarmi su me stesso nella vana speranza che
tutto
cessasse presto.
Sollevai di poco il capo giusto in
tempo per vedere il ragazzo fermarsi e voltarsi verso di me, essendosi
forse
accorto che non lo seguivo più; si affrettò a
corrermi in contro e a chinarsi,
cingendomi la schiena con un braccio. «Tutto bene,
Capitano?» mi chiese
apprensivo, aiutandomi ad alzarmi nonostante non avessi la forza per
farlo.
Avevo come il presentimento che fosse appena accaduto qualcosa di
spiacevole, e
la conferma mi giunse quando il dolore al petto dilagò come
un fiume in piena,
costringendomi a piegarmi a mezzo busto contro Patrick.
«Cid», sussurrai
d’un tratto,
sgranando gli occhi. «È successo qualcosa a
Cid».
«Come può esserne
sicuro?» mi
domandò in risposta, ma non c’era tempo per le
spiegazioni. Sapevo quel che
dicevo, e il dolore che avevo cominciato a provare me ne dava la
più assoluta
conferma. La sorte di Cid era anche la mia e viceversa, e
ciò significava che
avremmo dovuto tornare sui nostri passi per aiutarlo prima che fosse
troppo
tardi.
Ogni respiro mi provocava una
fitta di acuta sofferenza, ma provai comunque a drizzare la schiena per
incamminarmi velocemente a ritroso, scansando Patrick da me; lui,
però, mi
afferrò per un braccio, strattonandomi. «Dove
crede di andare?» sbottò. «Cid ci
ha raccomandato di andarcene, non può tornare lì
solo per una sensazione!»
Lo allontanai di malo modo,
mantenendomi in piedi per chissà quale miracolo quando
indietreggiai. «Che cosa
ne puoi sapere, tu?» sibilai adirato, traendo un lungo
sospiro che mi bruciò la
gola come fuoco vivo. «Cosa diavolo ne puoi sapere? Non ne
sai niente di noi!»
«Sia ragionevole,
Capitano!»
esclamò di rimando, riattaccandosi al mio braccio.
«Cosa spera di ottenere,
tornando indietro? Niente! Non otterrà un accidente di
niente!»
Strinsi i pugni e imprecai a denti
stretti, spingendolo violentemente a terra. Se non voleva capire con le
buone,
l’avrebbe fatto con le cattive. «Stammi a sentire,
moccioso». Ogni parola che
usciva dalle mie labbra era aspra e severa, accentuata soprattutto dal
dolore
che mi attanagliava il petto in una morsa. «Questa
è una faccenda che non ti
riguarda, quindi vedi di starne fuori». Indietreggiai senza
perderlo d’occhio
mentre lo vedevo rimettersi in piedi, già pronto a fermarmi
ancora una volta.
Ma non gliel’avrei mai permesso.
Tirai fuori dalla fondina la
pistola e, pur sapendo che non avevo più colpi, la puntai
verso di lui,
vedendolo sussultare dalla sorpresa. «Non azzardarti a
seguirmi, Jim», gli soffiai
contro, dandogli le spalle per correre nella direzione da cui eravamo
venuti.
Il petto mi doleva in modo pazzesco, e la vista aveva cominciato ad
indebolirsi
sempre di più. Mancava poco. Molto poco.
Con i richiami furenti del ragazzo
nelle orecchie e il sibilo lontano del vento, corsi con tutta la forza
che mi
era rimasta nelle gambe, sentendole cedere ad ogni passo;
più correvo più i
polmoni mi si incendiavano, ma dovevo continuare sulla mia strada
ancora e
ancora, senza fermarmi.
Quando giunsi al luogo in cui
avevo lasciato Cid, raggelai nel vedere la scena che mi si era parata
dinanzi
agli occhi. Il mio vice giaceva riverso di fianco in una pozza di
sangue, la
bocca spalancata in un grido senza voce e gli occhi socchiusi, persi in
un
punto indefinito; inginocchiato accanto a lui, intento a frugare nelle
sue
tasche, c’era il Commodoro Waine, la cui spada orribilmente
macchiata di rosso
pendeva inerme alla sua cintola.
Boccheggiai incredulo e, prima
ancora che il mio cervello mandasse segnali ai nervi, sguainai la mia
arma e gli
corsi incontro, furioso. «Che cosa gli hai fatto,
bastardo!» strillai fuori di
me, e fu solo a quel punto che il Commodoro, sgranando gli occhi, si
accorse
della mia presenza; con una velocità impressionante
riuscì a scansare il
fendente con cui avevo tentato di ferirlo, rotolando di lato prima di
impugnare
la propria spada ancora una volta.
Il sorriso che gli si dipinse
immediatamente in viso, però, non mi lasciò
presagire niente di buono.
Raddrizzò la schiena e, dopo aver scoccato una rapida
occhiata al corpo inerme
di Cid, indietreggiò di qualche passo per evitare il mio
nuovo colpo, fermando
la mia lama con la sua. «Adesso mi è tutto chiaro,
pirata», esordì, fissandomi
fra i fili delle nostre spade. «Oh, eccome se mi è
tutto chiaro. L’ho capito
incrociando la lama con quel tipo», soggiunse, accennando
appena con il capo al
mio vice prima di fare forza con il braccio e spingere la spada,
così da
costringermi ad indietreggiare a mia volta. «Tu e il tuo
amichetto non dovreste
essere qui. Tanto meno io».
Feci leva sulla punta dei piedi
per contrastarlo, sferzando un colpo per allontanarlo da me e
distanziarlo a
mia volta, adocchiando Cid. Non si muoveva, e al solo pensiero di
essere
arrivato tardi mi morsi con rabbia il labbro inferiore. «Se
deve perdere tempo
in chiacchiere parli chiaro, Commodoro, perché in
combattimento lo sbaglio
peggiore è distrarsi», replicai, partendo ancora
una volta all’attacco senza
nemmeno aspettare che mi spiegasse il significato delle sue parole. In
quel
momento me ne importava relativamente poco.
Le lame si sfiorarono ancora una
volta quando ci muovemmo in simultanea, provocando un lieve tintinnio
metallico
prima che ritornassimo entrambi in posizione d’attacco, con
le armi inclinate
da un lato e impugnate a due mani. Ci lanciammo nuovamente
l’uno contro l’altro,
scontrandoci violentemente fra sibili d’acciaio e sguardi. Un
attacco fulmineo,
un fendente; le nostre gambe si muovevano ritmicamente, quasi stessimo
seguendo
dei passi di danza che solo noi potevamo conoscere, i nostri corpi
compivano
movenze eguali creando archi invisibili al suono delle armi.
Provando a colpirmi al petto, il
Commodoro tentò un affondo laterale subito dopo, ma io
riuscii a indietreggiare
rapidamente, rinserrando la presa sulla mia spada. Guardai il mio
avversario,
traendo lunghi sospiri. «Tu sei come noi, vero,
Commodoro?», dissi di punto in
bianco, deglutendo prima di riprendere fiato. Non mi occorse una sua
risposta,
giacché l’espressione che si era dipinta sul suo
viso parlò per lui. E sorrisi,
aggiungendo, «Avrei dovuto immaginarlo. La tua presenza mi
aveva fatto venire
qualche dubbio, dato ciò che è accaduto a
Roseau».
Aggrottò la fronte,
portandosi la
lama contro il petto. «Taci, pirata»,
sibilò velenoso, lo sguardo ardente di
furia omicida. Flettendo le gambe si gettò nuovamente
all’attacco, compiendo
una stoccata così veloce che faticai non poco a scansarmi;
mi colpì al viso con
la lama e sibilai dal dolore nell’avvertire
l’intenso bruciore che si appropriò
della mia guancia qualche istante dopo, tentando di restituirgli
quell’affondo
con il doppio della potenza. Riuscii solo a tagliargli una ciocca di
capelli,
complice il terreno fangoso e la mia debolezza che diveniva pian piano
maggiore.
Anche il Commodoro, però,
sembrava
far fatica a respirare. Il sangue gli sporcava in più punti
la divisa,
difficile dire se per i colpi che gli erano stati inferti o per
l’essersi
inginocchiato accanto a Cid alla sicura ricerca della mappa. Ma non
persi tempo
a soffermarmi su particolari del genere, approfittando di quel momento
per
cercare di colpirlo allo stomaco.
«Capitano Gale!»
venni richiamato
in quello stesso istante, e fu con orrore che mi resi conto che
Patrick,
disubbidendomi, era tornato a sua volta indietro. A conti fatti,
però, la cosa
sarebbe anche potuta risultare utile.
In un altro frangente mi sarei difatti
arrabbiato, ma in quel momento l’arrivo di Patrick era stato
davvero
provvidenziale. «Prendi la pistola di Cid, ragazzo,
presto!», gli urlai senza
preoccuparmi di vedere dove fosse con l’esattezza, gettandomi
a terra per
evitare l’affondo del Commodoro. Con un salto
all’indietro mi allontanai il più
possibile da lui, vedendolo con la coda dell’occhio venirmi
incontro per
concludere il proprio lavoro. Imprecando a denti stretti lanciai
finalmente un’occhiata
a Patrick, vedendolo tirar fuori con incertezza la pistola di Cid dalla
fondina, prima che alzasse lo sguardo per localizzarmi.
«Capitano!» mi
chiamò ancora,
caricando il braccio per lanciarmela; dovetti correre in quella
direzione per
afferrarla al volo, affrettandomi ad impugnarla nel lato giusto prima
di mirare
verso il mio avversario, che sgranò gli occhi alla vista
della bocca della
pistola.
Tentò di sottrarsi alla mia
linea
di tiro per mettersi al riparo, ma prima ancora che potesse farlo
premetti
immediatamente il grilletto, centrandolo in pieno petto. Boccheggiando,
tossì
più volte e sputò sangue, accasciandosi su se
stesso e crollando in ginocchio,
con una mano premuta convulsamente sul punto colpito.
«B-bastar...do», biascicò
a mezza voce, gli occhi ingigantiti dalla confusione erano puntati su
di me,
che mi trovavo esattamente a pochi passi da lui. Potei vedere riflesso
in essi
il mio volto, impassibile e distaccato, quasi non me ne importasse
nulla di ciò
che stava accadendo. E a dirla tutta era davvero così.
Mi avvicinai maggiormente a lui e
con un calcio gli feci mollare la presa della mano dall’elsa
che ancora
sorreggeva, fissandolo. «Ci si vedrà presto
all’inferno, Commodoro», sembrai
promettergli, puntando la canna della pistola prima di far fuoco. Cadde
riverso
a terra con un buco in fronte, la bocca socchiusa e gli occhi
spalancati, fissi
su un punto indefinito dinanzi a lui che non avrebbe mai più
potuto vedere.
Io me ne restai lì ad
osservarlo,
completamente estraniato dal mondo. Mi sembrava di essere uno
spettatore ignaro
che si era ritrovato ad assistere suo malgrado a quella scena,
giacché non
provavo assolutamente niente. Né gioia per la vittoria,
né amarezza, né tanto
meno tristezza per la fine che quel bastardo aveva fatto fare a Cid.
Assolutamente niente. E avrei continuato a starmene fermo in quel punto
se un
richiamo, basso e ovattato come se provenisse da molto lontano, non mi
si fosse
insinuato insistente nelle orecchie, quasi cercasse di farmi tornare
con i
piedi per terra.
Fu difatti con una certa fatica
che mi voltai nella direzione da cui proveniva, vedendo Patrick intento
a
strapparsi la camicia per una ragione che, sul momento, non compresi;
quando lo
vidi premere i pezzi di stoffa sul petto ormai nudo di Cid, mi
sembrò come se
qualcuno avesse appena riafferrato la mia razionalità,
facendo sì che mi
aggrappassi a quella speranza. «Cid», sussurrai a
mezza voce, barcollando nella
loro direzione prima di accasciarmi a mia volta lì di
fianco; il petto gli si
abbassava e gli si alzava a ritmi lenti e irregolari, ma respirava.
Respirava,
dannazione!
«Che diavolo sta facendo,
Capitano?!» sbottò Patrick, strattonandomi un
braccio. «Mi aiuti ad arrestare
l’emorragia, presto!»
Non me lo feci ripetere due volte,
afferrando i lembi di stoffa che il ragazzo mi stava porgendo in fretta
e furia
per stringerli intorno al torace di Cid; per quanto ci fosse concesso
avremmo
almeno potuto impedire di farlo morire dissanguato, ma avevamo
necessariamente bisogno
di molto di più di qualche straccio.
Senza riflettere, quindi, mi issai
il mio vice sulle spalle, allontanandomi il più in fretta
possibile. Non c’era
un solo minuto da perdere. «Non morire, razza di
idiota!» esclamai, aumentando
il passo per quanto concessomi dal dolore lancinante che aveva ormai
invaso il
mio petto. «Abbiamo un compito da portare a termine, te lo
sei scordato? L’hai
detto tu che è troppo importante per fermarsi a
metà strada!»
Mi sentivo il petto in fiamme e,
sebbene avvertissi dietro di me la presenza costante di Patrick, mi
sembrava
quasi di essere solo. Tutto il mio mondo si era momentaneamente ridotto
al peso
di Cid che mi portavo sulle spalle e ai suoi respiri lievi e spezzati,
sentendo
la sua sofferenza dilaniare anche le mie carni.
«Non. Morire»,
continuai a
ripetere all’infinito, accasciandomi su me stesso e avanzando
solo grazie alla
mia forza di volontà. Il peso di Cid divenne d’un
tratto più leggero, e faticai
non poco a rendermi conto che Patrick si era accostato a me per
sorreggere a
sua volta il corpo del mio vice.
Lo guardai confuso, probabilmente
troppo stravolto per capire con esattezza ciò che mi
capitava intorno; Patrick,
però, si limitò ad aiutarmi senza dire niente,
quasi avesse finalmente compreso
il mio stato d’animo. Grazie al suo aiuto riuscii a
trasportare Cid senza
grandi difficoltà, concentrato sul ritmo del suo respiro e
sui battiti furenti
del mio cuore; non avevo trovato pace neanche per un attimo, e forse
era stata
solo fortuna l’essere in seguito incappati in una locanda
sgangherata dalla
quale provenivano suoni confusi e schiamazzi.
Io e Patrick ci facemmo forza e,
issando meglio Cid in modo da poter camminare liberamente, aprimmo la
porta per
entrare all’interno, dove il caldo proveniente dal camino ci
scaldava le ossa e
l’odore di carne arrosto si disperdeva nell’aria,
entrando nelle narici e
facendo brontolare lo stomaco. «Occupati di Cid per qualche
minuto, Patrick»,
gli sussurrai, lasciandogli quel fardello per dirigermi in fretta e
furia verso
il locandiere, gesticolando e indicando alla svelta la direzione in cui
avevo
lasciato entrambi i membri della mia ciurma.
Per quanto il mio aspetto
trasandato sembrasse portare ormai impressa la parola
“guai”, non appena gli
mostrai un sacchetto colmo di dobloni il locandiere sembrò
farsi più
interessato, gettando un’occhiata verso la ressa del locale
prima di aggirare
il bancone e farmi cenno di seguirlo. Superò Patrick senza
degnarlo di uno
sguardo, cominciando a salire le scale che portavano al piano di sopra.
Raggiunto il ragazzo lo aiutai a trascinare Cid su per i gradini, e ci
inoltrammo in compagnia di quel vecchio in un lungo corridoio
illuminato da
qualche lanterna, sorpassando le porte di varie camere prima di
raggiungere
quella a noi destinata.
«Ciò che posso
darvi sono soltanto
delle bende e qualche medicinale, pirati, a patto che ve ne andiate poi
in
fretta», bofonchiò in tono burbero una volta
aperta la camera. «La marina
pattuglia la zona da giorni, e l’ultima cosa che voglio
è che trovino dei
bucanieri; non si fanno affari del tutto legali, qui dentro».
Nonostante tutto mi ritrovai a
sorridere in modo stentato. «Sarà come se non
esistessimo», lo rassicurai,
sapendo in cuor mio che in fin dei conti, quella, era
l’assoluta verità. Non
appena ci ebbe mostrato dove trovare tutto ciò che ci
occorreva, si richiuse la
porta alle spalle e ci lasciò soli, così che
potessimo occuparci una volta per
tutte di Cid. Con l’aiuto di Patrick disinfettai le sue
ferite e, anche se con
ben poca dimestichezza, gli fasciammo braccia e torace, distendendolo
poi sul
letto al centro della stanza.
Afferrai la sedia posta contro il
muro e mi sedetti al suo fianco, sia per controllare la
regolarità del suo
respiro, sia per placare le lievi fitte che sentivo ancora al petto. Il
dolore
si era placato, in verità, e ciò avrebbe dovuto
essere un buon segno.
D’un tratto sentii Patrick
trarre
un lungo sospiro, prima di guardarmi attentamente in viso.
«Perché mi ha
chiamato Jim, prima?», mi domandò, e io raggelai.
L’avevo chiamato Jim? Quando,
con l’esattezza? Faticai non poco a ricordare il momento
esatto in cui l’avevo
fatto, quasi fossi caduto in un bizzarro stato di semi-incoscienza che
non
riuscivo ad identificare.
Imprecai a denti stretti non
appena lo rammentai, ravvivandomi i capelli all’indietro
prima di incassare la
testa nelle spalle. «Forse è arrivato il momento
di dirti tutto, ragazzo»,
cominciai, decidendo di guardare insistentemente il capezzale di Cid
anziché
lui. Non volevo ancora affrontare la realtà di quel
discorso, forse perché io
stesso avevo ancora qualche dubbio al riguardo. Ma fu traendo un lungo
sospiro
che cominciai a raccontargli con gran dovizia di particolari
ciò che era
accaduto anni addietro nel mio villaggio, cogliendo con la coda
dell’occhio i
cambiamenti del suo viso. Dapprima apparve confuso, quasi non avesse
capito
perché avessi deciso di parlargli di tutte quelle cose,
sgranando pian piano
gli occhi quando, una volta arrivato a narrargli dell’attacco
che aveva
sconvolto la quiete della nostra isola, parve rammentare qualcosa di
quella
situazione.
La parte peggiore fu dirgli la
verità sulle sue origini. Con lo sguardo ancora fisso su
Cid, che aveva
cominciato a respirare con maggiore regolarità, cercai di
farmi forza e di
spiegargli per filo e per segno come stessero le cose. Quando conclusi,
però,
il modo in cui Patrick mi guardò sembrò a dir
poco sconvolto. «E tu», cominciò
con voce fremente, quasi si stesse trattenendo dall’alzare il
tono, «me l’hai
tenuto nascosto per tutto questo tempo?»
Trassi un lungo sospiro, annuendo.
«Ho dovuto», soffiai, vedendolo portarsi una mano
alla testa come se faticasse
ancora a credere a ciò che avevo appena detto. E come dargli
torto? Anch’io non
riuscivo a farci i conti, per quanto sapessi che fosse la pura e
semplice
verità.
«Mio fratello»,
mormorò poi a
mezza voce, lasciandosi cadere seduto a gambe incrociate sul pavimento,
osservando un punto indefinito dinanzi a sé. Lo lasciai
fare, non ritenendo
necessario richiamarlo. L’avevo sconvolto abbastanza, per
quel giorno, e si
meritava almeno un attimo di tregua.
Per l’ultimo addio ci sarebbe
stato tempo.
[1] Espressione
che in termini stretti significa
“Non mostrare alcuna pietà”.
La scelta del titolo
sarà chiara durante la lettura del capitolo, sebbene
già dalle prime righe si
possa evincerne il motivo.
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scrittori.
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Capitolo 9 *** [ Atto IX: St. George's, Locanda › Mar dei Caraibi, 1768 ] No prey, no pay ***
Oceani_9
ATTO IX: ST. GEORGE’S,
LOCANDA › MAR DEI
CARAIBI, 1768
NO PREY,
NO PAY [1]
Quando riaprii gli occhi mi resi conto che
il grigiore che
stavo osservando altro non era che il soffitto sopra di me.
Mi sentivo la testa pesante e il mio
intero corpo doleva da
impazzire, come se fossi appena finito sotto gli zoccoli di un cavallo;
un
brusio sconnesso sembrava inoltre risuonarmi nelle orecchie come una
bassa
nenia, e mi ci volle un po’ per riuscire a capire di cosa si
trattasse. Volsi
la testa verso la direzione da cui provenivano quelle voci, vedendo due
sagome
sfocate in piedi vicino a quella che aveva tutta l’aria di
essere una porta.
Faticavo a capire che cosa stessero dicendo, e altrettanto difficile
era
cercare di ricordare che cosa fosse successo con esattezza.
Tutto ciò che
ricordavo era l’immagine del Commodoro dinanzi a me e la sua
lama che mi
trafiggeva le carni, poi soltanto un freddo intenso, quasi mi fossi
ritrovato
d’un tratto nel gelido abbraccio del mare.
Assottigliai le palpebre per
mettere a fuoco le due figure, riconoscendo ben presto l’alta
sagoma vestita di
rosso che altri non poteva essere che Gale; al suo fianco
c’era un uomo anziano
e grassoccio che non conoscevo, ma dal tono animato con cui stavano
discutendo
sembravano piuttosto in confidenza. Quanto tempo ero rimasto svenuto su
quel
dannato letto?
Provai a drizzarmi a sedere, ma ci
rinunciai ben presto quando avvertii una fitta al petto. La ferita a
quanto
sembrava non era ancora guarita, dunque non dovevano essere passati
più di tre
o quattro giorni da quando ero stato portato lì. Con una
colorita imprecazione
a mezza voce mi portai una mano all’altezza del cuore,
sfiorando la fasciatura
con due dita; riuscivo a sentire il calore della mia pelle attraverso
di essa,
e la cosa mi stupì. Ero stato più che certo che
sarei morto, lasciando in
sospeso il mio incarico.
«Oh, ti sei
svegliato?» domandò
una voce tonante, e sussultai appena prima di gettare
un’occhiata nella
direzione da cui proveniva. Gale e quell’uomo mi stavano
osservando con
assoluta attenzione, quasi fossi stato una qualche creatura mitologica.
E, beh,
non erano poi così lontani dalla verità, quei
due.
Socchiusi gli occhi, come se la cosa
potesse aiutarmi a pensare. «Dove sono?» sussurrai
in tono rauco e aspro,
tossendo per schiarirmi almeno in parte la voce.
«Le domande a dopo, idiota.
Ora
torna a sdraiarti», sbottò Gale, e le sue parole
sembrarono rimbombarmi nel
cervello con la stessa violenza di grosse catene di ferro che venivano
trascinate sul ponte di una nave.
L’uomo grassoccio
ridacchiò,
avvicinandosi al letto per farmi adagiare lui stesso sul materasso,
giacché non
davo segno di volermi muovere da solo. «Fa’ come
dice il tuo amico, pirata»,
diede man forte, e data la vicinanza potei sentire il forte odore di
tabacco
che lo avvolgeva come una nuvola di profumo. «Noi abbiamo
parecchie cosa da
discutere al piano di sotto».
Gli scoccai un’occhiataccia ma
non
gli diedi peso, tenendo ancora la mano poggiata al petto.
«Che cosa significa,
Gale?» gli domandai, accorgendomi solo in
quell’istante che mancava qualcuno
all’appello, in quella stanza. «E
dov’è Patrick?»
«Il ragazzo sta alla grande,
pensa
a te stesso», tagliò corto, aprendo la porta senza
tanti preamboli per
incamminarsi per primo. L’uomo lì a fianco mi
diede una leggera pacca sulla
schiena e si diresse a sua volta verso l’uscita,
raccomandandomi ancora di
riposare prima di oltrepassare la soglia e richiudersi la porta alle
spalle.
Rimasto finalmente solo affondai
la testa sul cuscino, traendo un lungo sospiro prima di cominciare ad
osservare
distrattamente il soffitto sopra di me. In quella stanza non
c’era granché che
richiamasse la mia attenzione, a parte una grande finestra dalle
pesanti tende
grigiastre che affacciava sulle mura dell’edificio a fianco.
A parte quella e
il letto sui cui mi trovavo non c’era altra mobilia.
Socchiusi gli occhi, portandomi
una mano alla fronte. Che fine aveva fatto il Commodoro, se io mi
trovavo in
quella squallida camera? Non lo sapevo, ma ciò di cui ero
certo era che
quell’idiota di Gale c’entrava sicuramente qualcosa
con quella situazione.
Nonostante le mie raccomandazioni era tornato indietro per aiutarmi, ma
anziché
rendermi felice quella cosa mi mandava letteralmente in bestia. Aveva
una
missione da portare a termine prima della fine e quel bastardo perdeva
il suo
tempo a starmi dietro. Sbuffai. Non sarebbe dovuto venire da me,
ciò era
indiscutibile, e gliene avrei dette quattro non appena fossi riuscito
ad uscire
da quel maledetto letto e a raggiungerlo di sotto.
Volsi lo sguardo in direzione
della porta, dietro la quale si udivano i rumori che provenivano dal
piano di
sotto. Il vociferare allegro e chiassoso della clientela aveva
cominciato a
martellarmi insistentemente nelle orecchie, facendomi dolere la testa;
ad esso
si era anche aggiunto il suono vivace di un piano e le parole di una
canzone
che non comprendevo, ma il ritmo mi riportava alla mente il periodo in
cui
avevo vissuto a San Salvador. Eh, erano passati solo sei anni dal
giorno in cui
me n’ero andato, eppure a me sembravano
un’eternità.
Imprecando a denti stretti poggiai
una mano sul materasso e tentai di issarmi a sedere, sibilando quando
una fitta
di dolore mi sconquassò, lasciandomi paonazzo e senza fiato.
Che umiliazione.
Ridotto in quello stato pietoso da uno stupido ufficiale della marina.
Mi
passai una mano fra i corti capelli sudati, e ci volle tutta la mia
forza di
volontà per riuscire a gettare i piedi oltre il bordo del
letto e alzarmi,
riuscendoci per chissà quale miracolo.
Rantolai e deglutii, umettandomi
le labbra secche. La distanza che mi separava dalla porta non era
molta, dunque
avrei anche potuto farcela senza intoppi. Strascicando i piedi
barcollai
faticosamente in quella direzione, rischiando più volte di
perdere
l’equilibrio; dovetti abbassare e rialzare le palpebre in ben
diverse occasioni
a causa della vista ormai sfocata, ma una volta raggiunta la porta mi
aggrappai
alla maniglia come se essa rappresentasse la mia ancora di salvezza.
Essere
arrivati fin lì era un bel traguardo, però non
ero del tutto sicuro del fatto
che sarei riuscito a scendere anche nella locanda, dalla quale le voci
si erano
fatte più alte e divertite.
Sbattei il pugno dell’altra
mano
contro il muro e aprii la porta senza tanti preamboli, restando
accecato dalla
forte luce delle lampade ad olio appese ai muri. Mi ci volle un
po’ per
abituarmi, e quasi feci per incamminarmi quando i miei occhi
intercettarono una
figura raggomitolata contro la parete, le cui palpebre abbassate
tremolavano
lievemente. Mi accigliai non appena mi resi conto che si trattava di
Patrick.
Che diavolo ci faceva lì?
In quel mentre si lasciò
sfuggire
un lamento e, con lentezza, aprì gli occhi, sbattendo
più volte le palpebre per
abituarli alla luce. E forse fu proprio nel vedere la mia ombra
stagliarsi sul
pavimento che alzò lo sguardo, aprendo la bocca per la
sorpresa. «Cid!» esclamò
con una contentezza che rasentava l’impossibile, scattando in
piedi come un
grillo per abbracciarmi stretto. A quel fare mi lasciai sfuggire un
lamento
sommesso e lui, rendendosi conto di ciò che aveva appena
fatto, allentò
immediatamente la presa, allontanandosi da me. «Mi
spiace!» farfugliò,
guardandomi con tanto d’occhi. «Sei... sei ferito,
non dovevo!»
Non c’erano dubbi, era
sicuramente
imparentato con Gale. La stupidità era di famiglia.
Nonostante il dolore provai
ad abbozzare un sorriso, dandogli una pacca su una spalla.
«Tranquillo, ragazzo»,
bofonchiai, umettandomi le labbra subito dopo. «Portami da
quell’idiota del
nostro Capitano, piuttosto».
Per tutta risposta, lui scosse il
capo. «Gale ha detto che devi riposare»,
replicò in tono autoritario, quasi
volesse farsi valere. E nemmeno feci caso al fatto che avesse chiamato
quell’idiota di un Capitano per nome, in quel mentre. Ero
troppo impegnato ad
imprecare contro tutti e tutto.
Aggrottai la fronte e, sbuffando,
decisi di incamminarmi da solo; Patrick mi afferrò subito
per un braccio,
approfittando della terribile debolezza che scorreva nel mio corpo come
veleno.
Soffocai una colorita imprecazione, costatando che, aye, in fondo quel
moccioso
ne aveva di forza. «Smettila di comportarti come un idiota,
Cid», replicò, e in
quel momento quasi mi parve che fosse stato Gale a parlare.
«Sei stato
gravemente ferito, è già un miracolo che tu ti
regga in piedi».
Gli scoccai un’occhiataccia,
strattonando il braccio. E me ne pentii amaramente quando mi
investì un’altra
fitta di dolore. Fui costretto a socchiudere gli occhi e ad appoggiarmi
al muro
con una mano sulla ferita, stringendo i denti. «Tu non hai la
benché minima
idea di cosa significhi essere ferito gravemente, ragazzo»,
rimbeccai in un
soffio. «Questi sono dannatissimi colpi di striscio, e il
nostro stupido
Capitano lo sa bene».
Ciò detto gli diedi
nuovamente le
spalle e mi allontanai il più velocemente possibile da lui,
almeno per quanto
le mie gambe e le mie condizioni me lo permettessero. Non prestai
neanche
ascolto ai suoi richiami, né tanto meno al fatto che mi
stesse seguendo passo dopo
passo nel tentativo di farmi desistere dal mio intento. In quello era
in tutto
e per tutto identico a Gale: un completo idiota.
«Cid», mi
chiamò ancora una volta
con un lamento, accostandosi a me senza però trattenermi
come aveva tentato di
fare fino a quel momento. Camminando contro il muro mi muovevo
sfruttando la
forza dell’unico braccio ancora sano, e fu con una certa
diffidenza che lanciai
una rapida occhiata a Patrick, pur non aprendo minimamente bocca.
Già mi
innervosiva il semplice fatto di farmi vedere ridotto in quel modo...
il suo
insistente seguirmi era la goccia che faceva traboccare il vaso.
Socchiusi gli occhi e tornai a
guardare dritto dinanzi a me, trascinandomi contro la parete.
«Se non intendi
portarmi da Gale, ragazzo, smettila di seguirmi», abbaiai.
«Non abbiamo tempo
da perdere in questa topaia».
«Ma Gale ha
detto...» riprovò, ma
lo interruppi con un brusco gesto della mano.
«Non mi interessa che cosa ha
detto, Patrick», sbottai, sorpassando la porta di una camera
dalla quale provenivano
bassi sussurri. «Dobbiamo andarcene da qui alla svelta, sono
stato chiaro?»
Con la coda dell’occhio lo
vidi
annuire di controvoglia, atteggiando il viso ad
un’espressione alquanto
contrariata prima di superarmi e piazzarsi davanti a me, quasi volesse
bloccarmi il passaggio. Aveva persino allargato le braccia, fissandomi
agguerrito. «Capisco la tua fretta, Cid, ma come credi di
poter governare una
nave se sei ridotto in quelle condizioni?» replicò
in tono aspro, quasi adulto,
e stonava non poco con la figura mingherlina che mostrava.
«Perché diavolo non
puoi attendere qualche giorno?»
Chiusi una mano a pugno e la
abbandonai lungo un fianco, poggiandomi con la schiena al muro. Trassi
persino
un lungo respiro, quasi volessi calmarmi, picchiando lievemente il capo
contro
la parete. «Se te lo dicessi non capiresti,
ragazzo», soffiai in risposta. «E’
per questo che devi portarmi immediatamente da Gale. Non abbiamo un
minuto da
perdere. Per noi ogni istante è prezioso». Mi
ravvivai i capelli all’indietro,
sentendoli umidi sotto le dita. «E il fatto che la marina ci
dia la caccia
c’entra ben poco».
«Tu e Gale non mi dite mai
niente,
siete sempre così misteriosi»,
rimbrottò, accostandosi a me prima di cingermi i
fianchi e afferrare al tempo stesso un mio braccio per passarselo
dietro alle
spalle. A quel fare mi ritrovai a dilatare gli occhi, incredulo a dir
poco. Che
cosa diavolo aveva in mente, quel moccioso? Si vedeva lontano un miglio
che
faticava a sorreggere il mio peso, e anche quando mosse qualche passo
malfermo
confermò la mia costatazione. «Non ho idea del
perché voi due idioti teniate
tutto per voi, ma mentre ti portavamo qui mio fratello ha accennato ad
una cosa
importante che dovete fare».
Feci per aprire bocca e
rispondergli per le rime quando mi resi realmente conto di
ciò che aveva appena
detto, sgranando gli occhi. «Tuo fratello?» ripetei
stralunato. «Gale ti ha...
ti ha raccontato tutto?» Non lo credevo possibile,
giacché quello stupido
Capitano mi aveva espressamente pregato di tenere la bocca chiusa
riguardo
quella situazione. Venire dunque a conoscenza del fatto che fosse stato
proprio
lui a cantare mi sembrava più che bizzarro.
Patrick, o forse avrei fatto
meglio a dire Jim, si limitò semplicemente ad annuire,
continuando a guardare
dritto dinanzi a sé mentre faceva leva con le ginocchia,
così da poter
sorreggere almeno in parte il mio peso senza problemi.
Giacché non aveva avuto
la benché minima intenzione di aprire bocca e di aggiungere
qualcosa, lasciai
semplicemente cadere lì il discorso e mi limitai a fissare a
mia volta il
corridoio parzialmente illuminato, sforzandomi di camminare anche senza
il suo
aiuto. Stavo cominciando ad odiare ogni secondo di più
quella stramaledetta
situazione, ma se volevo rispettare la mia tabella di marcia dovevo
ingoiare il
rospo e farmi dare una mano da quel moccioso.
Il percorso che ci separò
dalla
rampa di scale che portava di sotto parve protrarsi
all’infinito. A causa delle
mie condizioni procedemmo a passi lenti e moderati, e potei trarre un
lungo
sospiro di sollievo solo quando Patrick, attraversando un piccolo
disimpegno
dalle pareti di legno, svoltò a destra fino a portarmi
dinanzi ad una porta
borchiata, picchiettando due volte le nocche contro di essa. Aprendosi
rivelò
la figura dell’uomo di mezza età che avevo visto
in compagnia di Gale, e
adocchiandomi si accigliò, quasi si stesse domandando il
perché della mia
presenza. «Cosa diavolo ci fa qui?» chiese a
Patrick, additandomi come se io
non fossi presente.
In quel mentre fece capolino anche
la testa di Gale, che sgranò gli occhi non appena mi vide.
Si alzò in un lampo
dalla sedia su cui era accomodato, raggiungendoci a grandi falcate
prima di
fermarsi a pochi passi da noi, infuriato a dir poco. «Tu,
maledetto idiota,
tornatene di sopra e vedi di restarci», sibilò
inviperito, scoccando
un’occhiataccia a Patrick. «Perché credi
che ti abbia lasciato lì fuori a fare
la guardia, Jim?» sbottò, ricevendo una pacca su
una spalla dall’uomo al suo
fianco.
«Te l’avevo detto
che il ragazzo
non sarebbe riuscito a tenerlo fermo, pirata»,
rimbeccò in tono vagamente
ilare. «Il tuo amico è proprio una testa calda, e
vi converrebbe filarvela
finché siete in tempo».
«Finalmente qualcuno che dice
qualcosa di sensato», sbottai, rimediandoci ben due
occhiatacce. Però non vi
diedi peso, sforzandomi di restare in piedi sulle mie sole gambe,
scansandomi
con ben poco garbo da Patrick. «Il vecchio ha ragione, Gale,
lo sai bene anche
tu», soggiunsi, guardando con attenzione il mio Capitano.
Aveva assunto
un’espressione tutt’altro che accondiscendente, ma
si vedeva benissimo che,
volente o nolente, conveniva anche lui su quanto era stato appena
detto.
Fu dunque con un lungo sospiro che
si voltò verso l’uomo, accennando un saluto con il
capo. «Ti ringrazio per
l’aiuto, Josh», sembrò quasi
bofonchiare, lungi dal voler intraprendere il
viaggio con me in quelle condizioni. «Mi porto via questo
mentecatto una volta
per tutte, tanto sarebbe inutile tentare di convincerlo».
«Diamoci una mossa,
piuttosto», mi
intromisi, cominciando ad incamminarmi da solo senza darmi pena di
aspettarli. Dietro
di me sentii giusto gli ultimi convenevoli e saluti veloci prima che
quei due
mi raggiungessero; sebbene avessi già percorso un buon
tratto di strada con le
mie sole forze, Patrick mi passò nuovamente un braccio
intorno ai fianchi, e
probabilmente fu solo per sfinimento che lo lasciai fare, non avendo la
forza
di combattere né con lui né tanto meno con Gale.
Mi bastava difatti la sua
espressione poco convinta per capire che non era per niente contento
della
decisione che avevo preso. Ma, al diavolo! Volevo andarmene da
lì e riprendere
il mare il più in fretta possibile.
Mi lasciai sfuggire
un’imprecazione soffocata quando persi parzialmente
l’equilibrio, e fui
costretto a piegarmi a mezzo busto, mantenendomi in piedi solo grazie
al pronto
intervento di Patrick, che mi sorresse immediatamente nonostante avesse
rischiato di cadere a sua volta. «E’ tutto okay,
Cid?» mi domandò, però mi
limitai a rispondere soltanto con un basso grugnito
d’assenso.
Superare il mare di gente che
affollava la locanda ed uscire fuori nella fresca brezza serale fu un
vero e
proprio toccasana, per me. Dopo aver respirato quell’olezzo
pestilenziale di
whisky scadente e sudore fino a quel momento, inspirare aria salmastra
e umida
sembrò far scoppiare di gioia i miei polmoni, che riempii
avidamente come se
avessi appena imparato a respirare. Non mi pesò neanche il
dover attraversare
le stradine affollate e festose, dove gente indaffarata scalpicciava e
gridava
allegramente, ebbri di vino e di felicità.
Fu possibile avere un po’ di
silenzio solo quando giungemmo nei pressi del porto, e una volta saliti
a bordo
mi affrettai di dare ordine a Patrick di occuparsi delle vele,
vedendolo
atteggiare il viso ad un’espressione contrariata prima di
ubbidire senza
proferir parola, bofonchiando però qualcosa a mezza voce
riguardo alla mia
salute. Ah, dannato ragazzino impiccione. La mia salute stava alla
grande,
erano loro che non volevano capirlo.
Mi diressi sottocoperta per capire
da solo in che condizioni ero, ignorando prontamente
l’occhiata che mi lanciò
Gale. Non volevo affrontare nessun discorso con lui, o almeno non in
quel
momento. Così, per quanto concessomi, mi affrettai a
raggiungere la cabina e ad
entrarci dentro, liberandomi della parte superiore dei miei vestiti con
una
piccola smorfia sofferente. Braccia e torace erano nascoste da una
grossa
fasciatura sporca di rosso in più punti, e fu dunque con uno
sbuffo che
cominciai a disfarla pian piano, in modo tale da poterla cambiare e
vedere al tempo
stesso com’ero ridotto. Fui alquanto sorpreso nel costatare
che era meno peggio
di quel che mi aspettassi, forse perché la ferita aveva
già cominciato a
rimarginarsi. Beh, tanto meglio così. Non avevo bisogno di
perdere tempo con
idiozie del genere.
«Cid». Impegnato
com’ero
nell’occuparmi delle mie ferite, ci misi un po’ a
rendermi conto che Gale mi
aveva chiamato, e fu solo quando riuscii ad afferrare un lembo di garza
con i
denti che gli scoccai appena un’occhiata.
«Cosa
c’è?» domandai, sebbene
in cuor
mio conoscessi già la risposta.
«Ho un ultimo favore da
chiederti»,
rispose difatti, traendo un lungo sospiro. «Prima della
fine... facciamo rotta
verso San Andres, te ne prego».
Sollevai un sopracciglio, non
prima di aver stretto il nodo al braccio. Gale che si abbassava a
pregarmi?
Doveva essere per un motivo veramente serio se si spingeva a tanto, non
c’era
altra spiegazione. Non alzai dunque lo sguardo verso di lui, forse per
timore
di vedere l’ansia distruggere i lineamenti del suo viso,
limitandomi ad
osservare la fasciatura già intrisa di sangue.
«È per il ragazzo, giusto?»
rimbeccai senza mezzi termini, sentendo rumoreggiare dentro di me un
qualcosa
di paragonabile solo alla gelosia. In tutti quegli anni non avevo mai
provato
niente di simile per un essere vivente, donna, uomo, vecchio o bambino
che
fosse; avevo sempre svolto il mio incarico con rapidità e
scioltezza, senza
intrattenere nessun tipo di rapporto con nessuno di loro. Con Gale,
invece, era
stato diverso, e a volte me ne rammaricavo terribilmente.
«Ti chiedo solo questo,
Cid»,
insistette con voce tremante, e fu quello il motivo per cui alzai
finalmente
gli occhi per osservarlo. Aveva chiuso le mani a pugno e rilasciato le
braccia
lungo i fianchi, con in viso un’espressione rammaricata e
addolorata. «Voglio
che Jim sia al sicuro».
Imprecai a denti stretti,
maledicendomi; avrei dovuto mettere la parola fine quando ne avevo
avuto
l’occasione invece di attendere tutto quel tempo. Adesso mi
ero affezionato
troppo a quell’idiota di un Capitano, e non sapevo se la cosa
mi snervasse o
no. «Sappi che non lo faccio per il ragazzo, ma per
te», ci tenni a precisare
infine, alzandomi in piedi per fronteggiarlo. «San Andres
sarà la nostra
prossima meta».
Gale sorrise tristemente,
abbracciandomi per darmi due pacche sulla schiena. «E poi
dritti verso il fondo
dell’oceano, come da accordo».
[1] Una
legge pirata molto comune.
Il senso sarà intuibile
durante la lettura del capitolo, o almeno questa è
l’intenzione.
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Capitolo 10 *** [ Atto X: Isola di San Andres, Villaggio › Mar dei Caraibi, 1768 ] Davy Jones' Locker ***
Oceani_10
ATTO
X: ISOLA DI SAN
ANDRES, VILLAGGIO › MAR DEI
CARAIBI, 1768
DAVY
JONES’ LOCKER [1]
Non riuscivo ancora a credere a
ciò che i miei occhi mi
stavano mostrando.
A bocca aperta avevo cominciato a guardarmi intorno sin dal
momento in cui avevamo attraccato ed eravamo sbarcati, con le braccia
distese
lungo i fianchi e le gambe che mi tremavano a causa della bizzarra
emozione che
mi aveva investito.
Avevo saputo la verità sulle
mie
origini da non molto tempo, e, sebbene non ricordassi niente dei
momenti
passati in quel posto, nell’osservare la vasta distesa verde
che avevo dinanzi
mi sentivo stranamente nostalgico. Cespugli e rovi sorgevano in ogni
dove, e
gli alberi, i cui rami ormai spogli oscillavano piano al vento che si
era
innalzato, apparivano simili a tante sinistre sentinelle poste a
protezione di
quel luogo senza tempo.
«San Andres»,
esordì d’un
tratto
Gale, lo sguardo puntato a sua volta dritto davanti a sé.
«Il luogo dove siamo
cresciuti entrambi». Non abbassò gli occhi per
guardarmi in viso, però sorrise
quasi tristemente. «Bentornato a casa, Jim».
Mi umettai le labbra, portando la
mia attenzione verso le costruzioni in rovina che scorgevo in
lontananza. «Casa»,
ripetei in un soffio, facendo fatica a deglutire. Era davvero casa mia,
quella?
«Stai cominciando a ricordare
qualcosa?»
Scossi il capo, cercando al tempo
stesso di fare mente locale. Di quel giorno lontano ricordavo solo le
alte
fiamme che avevano avvolto il villaggio, il fetore del grasso umano che
bruciava e il viaggio che avevo compiuto in seguito in mare a bordo di
quella
nave pirata; tutto ciò che era avvenuto prima,
però, era ancora tutto avvolto
da una nebbia che non riuscivo a dissipare, una terribile incognita che
sembrava farsi più fitta mano a mano che avanzavo.
Gale mi diede una pacca su una
spalla. «Con il tempo ci riuscirai, vedrai».
«E gli conviene anche farlo in
fretta». Cid, che dopo essersi avvicinato a noi si era
intromesso nel nostro
discorso, mi lanciò uno sguardo eloquente, riportando poi la
propria attenzione
sul viso del Capitano. «E’ ormai tempo di andare,
Gale», gli disse
semplicemente, senza aggiungere nient’altro ma sfiorandosi il
petto con due
dita, esattamente nel punto in cui era stato ferito.
Ricevette una rapida occhiata da
Gale, che sospirò sconsolato prima di annuire.
«Aye, ti raggiungo subito»,
replicò, passandomi un braccio dietro alle spalle senza che
io mi opponessi. Lo
shock che mi aveva provocato il ritrovarmi lì era stato
grande, e ancora
faticavo a credere che quella fosse realmente la mia isola natale. Per
anni
avevo sognato di riacquistare la memoria e di ricordare così
chi fossi e dove
avessi vissuto prima di giungere a Porto Rico, ma mai mi sarei sognato
di credere
che provenissi da una stirpe di pirati. Ma ciò spiegava la
sete di
avventura che avevo provato sin dalla prima volta che avevo udito i
racconti
della clientela che stanziava nella locanda, e non mi era
più così difficile
comprendere perché mi ribollisse ogni qual volta il sangue
nelle vene.
Viaggiando con Gale e Cid, però, avevo appurato che la vita
in mezzo all’oceano
non faceva affatto per me: ero goffo, poco attento, non sapevo
maneggiare
un’arma né tanto meno sapevo governare un
vascello... come pirata ero un
fallimento, e niente avrebbe potuto cambiare le cose. Forse se fossi
cresciuto
lì, in quel villaggio di cui adesso stavo osservando le
macerie, le cose
sarebbero state diverse.
Seguii Gale fra le erbacce che
erano cresciute intorno ai blocchi di pietra crollati a causa delle
cannonate,
scavalcando travi di legno logorate e annerite dal fuoco; ovunque mi
guardassi
vedevo oggetti di uso quotidiano sparsi in ogni dove, da cocci rotti a
bambole
di pezza macchiate di sangue, appartenute molto probabilmente a qualche
bambina
del villaggio. Alla vista di tutto ciò mi si strinse il
cuore: era stata quella
la sorte che era toccata a chi non era riuscito a scappare? Vedere i
propri
cari cadere come mosche prima di venir trucidati a loro volta?
Strinsi gli occhi con forza, non
volendo vedere oltre; ma anche se avessi tenuto le palpebre abbassate
per tutto
il tragitto non sarebbe servito a niente, giacché la
testimonianza di quanto
accaduto era proprio lì davanti a me, che lo volessi oppure
no. Mi sembrava di
sentire il respiro di ogni singola pietra, di ogni filo
d’erba o tronco
d’albero, persino i sussurri di quel passato che non riuscivo
a ricordare con esattezza.
Cercai dunque di farmi forza e,
riaperti gli occhi, continuai a seguire Gale, che mi aveva frattanto
lasciato
per aumentare da solo il passo; ci fermammo soltanto quando superammo
il
villaggio e ci ritrovammo nei pressi di una collina erbosa, dove
sembrava
esserci un cimitero. Il mio sguardo vagò fra quella vasta
distesa di lapidi
contrassegnate da semplici bastoni legati fra loro a formare una croce,
ed
erano così marci e scheggiati da darmi
l’impressione che potessero collassare
su loro stessi in qualsiasi momento. «Quante
tombe...» sussurrai, sfiorando la
pietra di una di esse e sporcandomi subito dopo le dita. Era umida e
imbrattata
di terriccio, ed emanava uno strano odore che mi riportò
alla mente quello
della cenere.
Il Capitano mi poggiò
delicatamente una mano su una spalla. «Appartengono a tutte
le persone morte
quel giorno», mi spiegò, quasi l’avesse
ritenuto necessario. Mi condusse fra la
moltitudine di pietre tombali abbandonate a loro stesse e io lo lasciai
fare,
avvertendo la profonda malinconia che sembrava scaturire dal suo stesso
corpo.
Avevo davvero vissuto anch’io quella tragedia? Avevo sul
serio visto tutte
quelle persone morire nel vano tentativo di mandar via i pirati che li
avevano
così brutalmente attaccati? Non lo ricordavo minimamente e,
per quanto Gale mi
avesse detto e ripetuto di essere mio fratello per tutto il viaggio e
oltre,
ancora non riuscivo a rammentare niente di lui o di quanto era
accaduto.
Spronato da Gale, mi chinai verso una
delle tombe esterne che avevamo raggiunto, ripulendola dal muschio che
la
ricopriva con entrambe le mani e ignorando la viscida sensazione che
esso mi
trasmetteva ogni qual volta le mie dita ne sfioravano la vischiosa
consistenza.
«Questa... è di nostra madre?» chiesi
poi non appena riuscii a leggere il nome
inciso sulla pietra, osservandolo quasi con referenziale tristezza. Non
ricordavo assolutamente niente di quella donna, e mi sembrava una cosa
a dir
poco meschina nei suoi confronti, nei confronti di colei che aveva
rischiato la
propria vita solo per proteggermi.
Gale annuì appena senza dire
una
parola, indicando poi la tomba affianco ad essa. Lo osservai e sbattei
le
palpebre, non riuscendo a capire cosa volesse dire, ma lui mi fece
cenno di
districare anche quella dal muschio e dalle erbacce che erano cresciute
tutt’intorno e che non mi permettevano di leggere il nome,
sollevando un sopracciglio
quando mi fu finalmente possibile. «Chi era questo Thomas?
Porta lo stesso
cognome della mamma».
La risposta che mi diede, con voce
così pacata che non sembrò appartenere allo
strambo Capitano che avevo imparato
a conoscere, mi raggelò seduta stante. «Ero
io».
Sgranai gli occhi e boccheggiai,
portandomi una mano fra i capelli come se quel gesto potesse servire a
dare un
senso a quelle parole. «M-ma... è
impossibile», farfugliai, non riuscendo a
credere a ciò che le mie orecchie avevano appena sentito. Mi
stava forse
prendendo in giro? Cosa diavolo voleva intendere? «Questo
significherebbe che
tu sei...»
«...morto».
La cosa stava diventando sempre
più strana, specialmente a causa del tono schietto e pacato
con cui Gale stava
pronunciando quelle parole. Lo vidi persino gettare una rapida occhiata
verso
Cid, e mi venne spontaneo domandare, «E anche Cid
è un...»
Gale stornò nuovamente lo
sguardo
su di me, incerto. «Cid?», ripeté,
alzando appena un angolo della bocca in un
mezzo sorriso. Si lasciò sfuggite uno sbuffo ilare,
incrociando subito dopo le
braccia al petto. «Och, beh, lui è una sorta di
traghettatore, sai», mi
confessò, e sebbene il suo tono parve di scherno capii
immediatamente che non
scherzava. Erano davvero... morti. Erano morti, eppure avevo viaggiato
con loro
fino a quel momento, avevo vissuto mille avventure, riso, pianto,
scherzato...
non riuscivo davvero a credere di aver condiviso tutto ciò
con due persone che
non avrebbero nemmeno dovuto essere lì.
«Adesso ci credi a quelle
vecchie storie
di fantasmi che ti raccontavo quand’eri più
piccolo, Jim?» mi domandò vagamente
spassoso, ma si sentiva benissimo che aveva tentato di usarlo solo per
alleggerire la situazione. Mi scompigliò i capelli con fare
paterno,
ravvivandomeli poi all’indietro prima di chinarsi verso di
me. «Stammi bene,
ragazzo», soggiunse in un sussurro, raddrizzando la schiena e
traendo un
sospiro.
Accennò un altro saluto con
il
capo, dandomi infine le spalle per cominciare ad incamminarsi nella
stessa
direzione in cui era già sparito Cid, che aveva deciso di
lasciarci soli per
concederci un po’ di privacy. Io me ne restai lì
ad osservarlo, inerme come una
bambola di pezza a cui erano stati appena strappati gli arti, la fronte
aggrottata da emozioni che fino a quel momento non avevano mai solcato
il mio
viso. Non volevo vederlo sparire ancora una volta. Non volevo
ritrovarmi di
nuovo solo. Perché doveva andare per forza così?
Sentii le lacrime bruciarmi agli
angoli degli occhi. «Non voglio che tu vada, Gale»,
gracchiai con voce
strozzata dal pianto, avvertendo la saliva che mi bloccava la gola. Mi
stavo
trattenendo per non singhiozzare, però mi fu ancor
più difficile farlo quando
lui si fermò di botto e si voltò verso di me,
osservandomi attento con quei
suoi occhi verdi e profondi che esprimevano più di quanto
avesse mai potuto
dirmi a parole.
La cosa che mi fece ancora
più
male fu vedere che sorrideva. Nonostante tutto, nonostante il fatto che
dovessimo separarci ancora, lui sorrideva. «Andiamo, ragazzo,
cosa sono quei
lacrimoni?» mi disse, inclinando un po’ il capo di
lato. «Questo non è mica un
addio, eh».
«Lo è,
invece», insistetti,
passandomi la mano destra su una guancia e tirando su con il naso. Non
mi
importava niente di star facendo la figura del bambino a cui mancava la
madre;
avevo bisogno di sfogarmi, di piangere tutte le lacrime che mi ero
tenuto
dentro in quegli anni, e non riuscivo ancora a capacitarmi del fatto
che
dovessi lasciar andare una volta per tutte l’unico membro
della mia vera
famiglia che avevo conosciuto.
«Affidiamo a te la mappa,
Jim», mi
disse poi in un mezzo sussurro, prendendomi svelto una mano per far
sì che
afferrassi saldamente quel pezzo di carta stropicciata che mi stava
porgendo
con così tanta apprensione. «Fanne buon uso,
nascondila oppure distruggila,
spetta solo a te decidere il da farsi». Quando alzai gli
occhi vidi che
sorrideva ancora, e la cosa mi snervò. «Verso
ovest c’è una città, dista
pochissimo da qui. Alcuni abitanti sono le poche persone sopravvissute
all’assalto di sei anni fa, mostra loro il doblone che
custodisci e capiranno
subito chi sei; ti accoglieranno come un figlio, vedrai».
Le sue parole, però,
anziché
rassicurarmi, fecero aumentare il groppo che ormai sentivo in gola.
Strinsi la
mappa che mi aveva consegnato e abbassai le palpebre talmente forte che
sentii
la testa scoppiarmi, e dovetti trarre un lungo sospiro per impedirmi di
singhiozzare come un moccioso ancora una volta. Ci stavo provando
davvero a
comportarmi come un uomo degno di tale nome, ma mi sembrava di non
esserne
all’altezza. Con la coda dell’occhio vidi
nuovamente la figura piccola e
lontana di Cid, che attendeva nei pressi del vecchio porto con le
braccia
incrociate al petto; non potevo vederlo con attenzione in viso, ma ero
sicuro
quasi al cento per cento che la sua espressione fosse impassibile.
Tornai
dunque a guardare Gale, umettandomi le labbra prima di passarmi di
nuovo il
dorso della mano sul viso. «Cid ti sta aspettando»,
ebbi infine il coraggio di
mormorare, conscio che se non l’avessi fatto in quel momento
non ci sarei più
riuscito.
Lo vidi lanciarsi un’occhiata
alle
spalle come se volesse controllare la posizione del suo vice, alzando
poi un
braccio per fare un rapido cenno nella sua direzione. Quando
stornò lo sguardo
su di me, si tolse il giaccone - quel maledetto giaccone logoro e
trasandato di
cui non si liberava mai - e me lo poggiò sulle spalle,
facendomi sgranare gli
occhi, scombussolato. «Ti affido anche questo,
ragazzo», esordì con voce lieve.
«Vedi di farci attenzione, mi raccomando».
Guardai lui e poi il giaccone, non
riuscendo a capacitarmi del fatto che fosse tremendamente caldo. Mi
strinsi
dentro di esso, chinando il capo e affondando il viso nella stoffa
logora:
odorava di tabacco, salsedine e liquore, ma in quel momento mi parve il
profumo
più bello che avessi mai sentito. «Mi sta
grande», pigolai, sforzandomi di fare
uscire dal fondo della mia gola una mezza risata, così da
alleggerire quella
situazione.
«Ci crescerai dentro,
tranquillo»,
rimbeccò Gale, scompigliandomi ancora una volta i capelli.
«Ti porterà fortuna,
proprio come il doblone di nostro padre. Ha permesso che ci
incontrassimo, no?
Custodiscili come farebbe un vero pirata con il proprio
tesoro».
Non gli risposi, però annuii
piano, ancora stretto in quel giaccone che odorava di tutte le
avventure e
scorribande che aveva affrontato insieme al suo precedente possessore.
Non ebbi
nemmeno il coraggio di alzare lo sguardo quando sentii Gale salutarmi
un’ultima
volta prima di allontanarsi, concentrandomi unicamente sul rumore dei
suoi
passi sul terreno umido e fragrante; udii il richiamo di Cid e li
sentii
parlottare, e fu solo a quel punto che mi decisi ad alzare la testa,
vedendoli
gettarmi un ultimo sguardo prima di risalire sulla nave, salpando una
volta per
tutte da quei lidi a vele spiegate.
Le labbra mi tremarono ancora una
volta e, prima ancora che il mio cervello potesse mandare segnali ai
nervi, mi
strinsi quel giaccone addosso e corsi, corsi come non avevo mai fatto
fino a
quel momento, con le gambe che mi dolevano ad ogni falcata; arrivai al
porto e
seguii la rotta della nave dalla terra ferma, osservandola mentre
diveniva
sempre più piccola e distante, con quelle vele nere che si
gonfiavano ad ogni
folata di vento e la chiglia che veniva investita dalle onde del mare.
Mi
fermai solo quando non ebbi più fiato nei polmoni e non
riuscii più a vedere nemmeno
uno scorcio del veliero, accasciandomi a mezzobusto con le mani
poggiate sulle
ginocchia e gli occhi ormai gonfi di lacrime, le orecchie colme dello
sciabordio delle onde contro le pareti rocciose.
Alla fine era andata così. Il
mare
ci aveva divisi e aveva poi fatto sì che ci incontrassimo
ancora una volta dopo
anni, separandoci definitivamente in seguito senza che potessimo far
niente per
impedirlo. Thomas Randall, altresì detto
Capitan Gale, era entrato nella mia vita come una tempesta e con la
stessa
furia se n’era andato, lasciandosi trascinare via dalle onde
di quell’oceano in
tumulto che stavo osservando. Un oceano in burrasca, proprio come il
mio cuore.
OCEANI IN BURRASCA
FINE
[1] Espressione
che, oltre a significare “Lo scrigno
di Davy Jones”, è anche un eufemismo per
“il fondo dell’oceano”, inteso come
luogo in cui riposano i marinai annegati, ovvero “una tomba
in fondo al mare”.
La scelta del titolo
sarà chiara mano a mano che si procederà con la
lettura del capitolo, o almeno
questa è l’intenzione.
PRIMA CLASSIFICATA
OCEANI IN
BURRASCA
_Note conclusive (E
inconcludenti) dell'autrice
Questa
storia è stata scritta per il
“Pirates
Contest” indetto
da visbs88, e si
è
classificata Prima
per quanto io l'abbia considerata un'assurdità sin dal
principio. Ma scriverla è stata un vero piacere, e vedere la
posizione mi ha provocato una gioia inimmaginabile.
Siamo comunque finalmente giunti alla fine di questa storia,
che ammetto sarebbe dovuta essere molto più lunga
di
quanto non sia adesso. E’ alquanto diversa da quelle
che scrivo di solito, forse perché ho voluto giocare
maggiormente la carta
dell’avventura e della commedia anziché quella del
drammatico...
Mi è piaciuto molto
descrivere il rapporto fra Gale e Cid, che sebbene siano compagni non
lo
dimostrano quasi mai, se non in rarissime situazioni; essendo uomini di
mare ho
pensato che sarebbe stato assurdo dipingerli come una coppietta felice
- e tra
l’altro neanche mi piace scrivere storie in cui la coppia in
questione è tutta
“cicci cicci miao miao”, mi fa davvero venire
l’orticaria -, e ho dunque dato
al loro rapporto questa tonalità :3
Spendiamo inoltre due parole
sull’ultimo capitolo: tutti i piccoli riferimenti che mettevo
mano a mano nella storia
servivano per arrivare esattamente a questa conclusione, lasciando
credere al
lettore che Gale si fosse salvato dalla strage avvenuta al suo
villaggio e che
avesse cominciato a solcare i mari alla ricerca del fratello scomparso.
E’
invece morto anche lui e il suo animo non ha trovato pace, vagando come
un
fantasma corporeo e partendo alla volta di quel vasto oceano,
procurandosi
persino una ciurma con la quale raggiunge mille e mille luoghi fino
all’incontro con Cid, il cui ruolo è anche quello
di traghettare le anime. Per
farla breve, tutti i precedenti capitoli e tutto ciò che
viene raccontato in
essi sono stati solo un’avventura fasulla vissuta da un
fantasma (Gale) e dal
suo Caronte (Cid) fino al raggiungimento del desiderio del fantasma
stesso:
trovare il fratello e accertarsi che stesse bene, perché in
fin dei conti, aye,
essere un pirata significa anche inseguire i propri sogni, le proprie
ambizioni
e i propri ideali *Le sparano perché guarda troppo One
Piece*
Ecco anche spiegato il motivo
per cui in realtà su quella benedetta nave sono soltanto in
tre. Essendo dei
fantasmi, beh... la cosa sarebbe risultata alquanto bizzarra. Fino a
questo momento non
avevo mai scritto una storia di pirati, dunque è stata una
bella esperienza;
per quanto io abbia visto molti film e letto un paio di libri
sull’argomento,
avevo un po’ paura a presentare questa storia
perché all’inizio non mi
convinceva. Però alla fine eccola qui ;)
E’ un po’ incasinata, non lo
nego, ma spero comunque che sia stata comprensibile e che, in special
modo, sia piaciuta
Alla prossima ♥
_My Pride_
Messaggio No Profit
Dona l'8% del tuo tempo
alla causa pro-recensioni.
Farai felici milioni di
scrittori.
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