Oceani in burrasca

di My Pride
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** [ Atto I: Caravella senza nome › Mar dei Caraibi, 1768 ] Helm's a-lee! ***
Capitolo 2: *** [ Atto II: Porto Rico › Mar dei Caraibi, 1768 ] Landlubber ***
Capitolo 3: *** [ Atto III: Porto Rico, Stiva della caravella › Mar dei Caraibi, 1768 ] Loaded to the gunwall ***
Capitolo 4: *** [ Atto IV: Roseau › Mar dei Caraibi, 1768 ] Shiver me timbers! ***
Capitolo 5: *** [ Atto V: Cruises Fear, Cabina del Capitano › Mar dei Caraibi, 1768 ] Dead men tell no tales ***
Capitolo 6: *** [ Atto VI: Cruises Fear, Ponte di comando › Mar dei Caraibi, 1768 ] Yo-ho-ho! ***
Capitolo 7: *** [ Atto VII: St. George's, Piazza cittadina › Mar dei Caraibi, 1768 ] Scourge of the seven seas ***
Capitolo 8: *** [ Atto VIII: St. George's, Nei pressi del porto › Mar dei Caraibi, 1768 ] Give no quarter ***
Capitolo 9: *** [ Atto IX: St. George's, Locanda › Mar dei Caraibi, 1768 ] No prey, no pay ***
Capitolo 10: *** [ Atto X: Isola di San Andres, Villaggio › Mar dei Caraibi, 1768 ] Davy Jones' Locker ***



Capitolo 1
*** [ Atto I: Caravella senza nome › Mar dei Caraibi, 1768 ] Helm's a-lee! ***


Oceani_1
[ Prima classificata al «Pirates Contest!» indetto da visbs88 ]
[ Vincitrice del Premio Coppia più originale al «Chi è normale non ha molta fantasia» indetto da Butterphil ]


Titolo: 
Oceani in burrasca

Autore: My Pride
Fandom: Originali › Sovrannaturale
Tipologia: Long Fiction 
Lunghezza: 10 capitoli per un totale di 42 pagine senza contare le 3 pagine con note finali e precisazioni
Prompt: Doblone
Citazione: Cominciate a dare credito alle storie di fantasmi? Ci siete dentro.
Rating: Giallo / Arancione
Genere: Generale, Avventura, A tratti vagamente introspettivo, Malinconico, Sentimentale, Drammatico
Nota1: Nel corso della storia potrebbero essere presenti espressioni come “Aye” e “Nay”, che significano rispettivamente “Sì” e “No” in italiano, e “Och”, che è un rafforzativo del “Sì”. Esse non sono un errore, bensì una scelta personale dell’autore, ormai affezionatasi a tale dicitura
Nota2: Per un paio di volte i capitoli saranno alternati sui punti di vista dei protagonisti principali
Nota3: I titoli dei capitoli saranno quasi tutti espressioni piratesche
Avvertimenti: Slash, Vagamente - o forse anche troppo - nonsense, Linguaggio a tratti un po’ colorito
Introduzione: Quell’occhiata avrebbe dovuto mettermi soggezione, probabilmente, ma in quel momento ero troppo preso dalla foga di quella che sperai sarebbe stata la mia prima avventura. Di una cosa, però, ero sicuramente certo: non sapevo in che guaio mi ero cacciato.


DISCLAIMER:
All rights reserved © I personaggi presenti in questa storia sono tutti maggiorenni e mi appartengono, dal primo all'ultimo. Sono comunque frutto di pura immaginazione. Ogni riferimento a cose e persone realmente esistite e/o esistenti è puramente casuale.
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OCEANI IN BURRASCA
 
Forse lo scopo della nostra vita è il viaggio stesso, non la destinazione.
Qualunque risposta mi attenda, oggi è l’inizio del mio viaggio.
La mia storia comincia qui.
[1]
 

ATTO I: CARAVELLA SENZA NOME › MAR DEI CARAIBI, 1768
HELM’S A-LEE!
[2]

    Il cielo azzurro sopra di me era una sconfinata landa di soffici nuvole bianche. Il richiamo dei gabbiani si confondeva con il sinistro scricchiolio dei legacci che assicuravano le vele di mezzana e trinchetto, e l’oscillazione dello scafo - contro il quale le onde del mare si infrangevano ad ogni movimento, spumeggiando - riusciva a donarmi una sensazione di quiete così appagante che quasi stentavo a credere alla sua esistenza.
     Erano passati poco più di tre mesi da quando io e il mio vice-capitano ci eravamo rimessi in viaggio, e dopo tutto ciò che era accaduto fino a quel momento era alquanto bizzarro riuscire a rilassarsi. Esattamente cinque mesi prima avevamo avuto uno scontro con la ciurma di un pirata della peggior specie - tale Jack Black, il più temuto corsaro del mar dei Caraibi dopo la dipartita di Barbanera
[3] anni addietro -, e purtroppo la situazione non si era svolta a nostro favore: complice anche l’ammutinamento dei nostri uomini, che avevano preferito schierarsi dalla sua parte piuttosto che combatterlo, ci eravamo ritrovati senza più una nave e gettati in mare a far compagnia ai pesci.
    Era stata solo fortuna se un mercantile aveva navigato sulla nostra stessa rotta. Se fosse arrivato poco tempo dopo, la corrente ci avrebbe spinti ancor più a largo e saremmo diventati cibo per gli squali senza poter far nulla per sfuggire al nostro destino. E invece eccoci lì, due uomini scapestrati su una sottospecie di imbarcazione che il mio vice si ostinava a chiamare galeone, sebbene avesse appena le dimensioni di una piccola caravella.
    L’avevamo acquistata a Tortuga per pochi dobloni, anche se le riparazioni ci erano costate un occhio della testa; ma con la fretta che avevamo avuto di lasciare quel posto, in modo da poterci rimettere in viaggio, avevamo inghiottito il rospo e concluso quello sporco affare, arrangiandoci in seguito come avevamo potuto. Ci erano voluti due lunghi mesi a lavorare in una sudicia locanda per riuscire a pagare il carpentiere che si era occupato della nave, però alla fine eravamo riusciti a partire una volta per tutte. Le vele erano per lo più composte da pezzi di stoffa rattoppati alla bell’e meglio e la bandiera era solo una bandana, certo, ma per il momento a noi stava bene così.
    «Ancora a guardare il cielo, Gale
[4] ?». La voce del mio vice mi giunse vicinissima ad un orecchio, e sussultai nel rendermi conto che si trovava accucciato vicino a me. Il suo volto entrò nel mio campo visivo nascondendo un frammento abbondante di cielo, però non me ne curai, anzi; mi ritrovai a rispondere al mezzo sorriso che mi stava rivolgendo.
    «Il navigatore e il cartografo sei tu, qui», rimbeccai sarcastico, drizzandomi lentamente a sedere quando si allontanò, sgranchendomi anche il collo. Quanto tempo ero rimasto sdraiato su quel ponte, diamine? «Io su questa nave sono superfluo».
    Sbuffò e ridacchiò, dandomi una pacca su una spalla. «Non sparare stronzate, Gale», replicò con fare divertito. «Immagina la figura che ci avrei fatto se fossi sbarcato da solo a Porto Rico con una bagnarola del genere, per lo più ridotta in questo stato pietoso».
    «Chi è che sparava stronzate?» lo scimmiottai ironico, poggiando entrambe le mani sul ponte per sorreggere il mio peso e guardare nuovamente in alto. L’odore salmastro del mare mi giungeva dritto alle narici, liberandomi i polmoni. «Piuttosto, chi è che guida la nave se tu sei qui?»
    Con la coda dell’occhio, lo vidi fare spallucce. «Il vento», rispose semplicemente. «Si è alzato un vento di scirocco, e per la direzione in cui stiamo andando è perfetto. Ho spiegato la vela maestra e sistemato i legacci di trinchetto; dovremo continuare su questa rotta ancora per un po’».
    «Non vedo l’ora di poter fare rifornimento», dovetti ammettere. «La stiva è miseramente vuota».
    «Se qualcuno di mia conoscenza avesse mangiato di meno, negli ultimi tempi, a quest’ora non moriremmo di fame», mi fece notare lui, e voltandomi appena lo vidi con un sopracciglio sollevato. La bandana che indossava gli nascondeva la fronte e i capelli biondi, ma dava maggior risalto ai suoi occhi e ai lineamenti del suo viso. «Sono rimasti solo frutti marci».
    A quel suo dire lo fulminai con lo sguardo, alzandomi in piedi una volta per tutte ed attraversando il ponte per raggiungere il cassero. «Taglia corto, Cid
[5]», rimbeccai, sfiorando il timone con due dita prima di gettargli un’occhiata. «Non ero io quello che si strafogava durante la notte, quindi direi che siamo pari, no?»
    Lo vidi alzare entrambe le mani in segno di resa, però sorrise. «E’ proprio come dice lei, oh mio buon Capitano», mi prese in giro, scendendo sottocoperta e ritornando solo qualche attimo dopo, munito di mappa, bussola e cannocchiale. Mi rivolse appena un cenno aggraziato con il capo e salì di vedetta, così da controllare la situazione dall’alto.
    Era sempre stato più esperto di me per quel che riguardava la navigazione, lui. Sebbene il più delle volte fossi proprio io a detenere il controllo di quella bagnarola, era lui che controllava la rotta e virava quando ne era richiesta l’occasione, prendendo nota della direzione del vento e del suo cambiamento, controllando persino le stelle quando calava la sera ed erano visibili nel firmamento.
    L’avevo conosciuto durante i miei primi anni trascorsi in mezzo al mare. Semplice garzone in una bettola a San Salvador, avevo scoperto quel suo talento come navigatore e cartografo per puro caso, ed era stato più che felice di lasciare quella merda di posto per intraprendere la vita del pirata, per quanto pericolosa fosse. Aveva così potuto sfruttare quella sua innata bravura e specializzarsi nelle arti mediche, divenendo con il tempo anche un tiratore provetto. Non c’era ancora stato nessuno in grado di battere lui e la sua fedele pistola a pietra focaia, fino a quel momento.
    La cosa bizzarra era che con il passar del tempo avevo cominciato a vederlo come qualcosa di più di un semplice uomo appartenente alla mia ciurma. Sembrava assurdo a dirlo, ma in seguito era divenuto una sorta di compagno, e non soltanto in senso figurato. Peccato che molto spesso, anche durante quelle rare volte in cui ci trovavamo a sfogare qualche basso istinto sessuale, il nostro rapporto si basasse su imprecazioni a denti stretti, epiteti volgari e litigi che sfociavano in un attorcigliamento confuso di corpi sudati e cosce muscolose. In fin dei conti, però, non avevo nulla di cui lamentarmi. La mia vita era quasi perfetta, ad eccezion fatta per un piccolo particolare che mi tormentava ormai da anni.
    «Terra in vista!» Il grido di Cid mi riscosse di botto e, afferrando svelto il cannocchiale che portavo appeso alla cintola accanto alla pistola, lo puntai dritto dinanzi a me ed osservai attraverso di esso il mare all’orizzonte, scorgendo il profilo sempre più marcato di una città in lontananza. Cappe di fumo si levavano dal mezzo di quelle abitazioni, simbolo della laboriosità dei cittadini e della vita frenetica che la caratterizzava. Si riuscivano anche a scorgere i contorni indistinti di alberi dai rami spogli e di colline rigogliose, e non potei fare a meno di sorridere al pensiero che, finalmente, avremmo potuto rifocillarci a dovere prima di riprendere il largo.
    Attraccammo precisamente una ventina di minuti dopo. Calata l’ancora, ammainate le vele e raggruppati i pochi dobloni che ci erano rimasti, scendemmo a terra e attraversammo il ponte di legno che conduceva verso il centro vivo della città, guardandoci intorno con estrema attenzione. Oltre alla nostra, erano ormeggiate altre sei navi dalle più disparate dimensioni, le cui vele bianche si gonfiavano in conche di vento ogni qual volta esso soffiava a sferzare il porto. C’era persino un’ammiraglia della marina, e fu specialmente a causa della sua presenza che affrettai il passo, seguito a ruota da Cid. Non avevamo ancora avuto grossi problemi con essa in quella parte del mar dei Caraibi, ma a causa del nostro aspetto, che gridava chiaramente pirati, era meglio evitarli come la peste.
    «Non male come posto, eh?» fece Cid con vaga ironia, osservando distrattamente una coppia di bambini che correva fra le strade impolverate brandendo dei bastoni, giocando probabilmente alla guerra. Poco distante c’erano donne dagli sgargianti vestiti costosi che ridacchiavano giulive, confidandosi chissà quali scabrosi segreti.
    Mi lasciai sfuggire uno sbuffo ilare. «Un po’ troppo chiassosa per i miei gusti».
    «Scherzi? In confronto a Tortuga questo posto è un mortorio!» esclamò Cid con fare fintamente scandalizzato. «Niente fiumi di rum, niente risse scomposte... nemmeno una bella pollastra che sia disponibile a farti divertire un po’ per qualche doblone».
    Assottigliai lo sguardo nella sua direzione e aggrottai le sopracciglia, sibilando, «Un’altra parola su una donna, e giuro che quel coso che hai in mezzo alle cosce lo getto in pasto agli squali».
    Per qualche attimo mi fissò sgomento e si fermò, spalancando la bocca in un’esclamazione muta e sgranando gli occhi, quasi non credesse alle sue orecchie o non volesse per niente prendere in considerazione la mia minaccia. Scoppiò in una risata frenetica qualche attimo dopo, terrorizzando un povero vecchio che passava di lì per caso. «Och, andiamo, Gale, non guardarmi in quel modo spaventoso», sghignazzò divertito. «Lo sai che la mia pistola vuole una sola fondina
[6]».
    Stirai le labbra in una linea sottile, decidendo di dargli le spalle e riprendere la mia traversata senza dargli più peso. Rispondergli per le rime avrebbe significato dargli corda, e sapevo bene quanto si dilettasse a prendermi in giro quando si trattava della mia cosiddetta gelosia. Non che lo fossi davvero, ma la cosa mi snervava lo stesso.
    Le risatine divertite di Cid continuarono per un buon tratto di strada, anche quando giungemmo finalmente nella zona mercantile della città. Bancarelle dalle più svariate merci erano accostate ai lati delle strade, e i venditori urlavano la qualità dei loro molteplici prodotti con tripudio e orgoglio, decantandone rarità e bellezza anche quando si trattava di comuni patacche. Adocchiai difatti un vaso decorato che riproduceva in modo perfetto l’originale, ed ero sicuro che si trattasse di una semplice imitazione per due buoni motivi: il primo era che quello vero non aveva una scheggiatura alla sommità, e potevo saperlo proprio perché il secondo motivo era che l’avevo rubato io stesso ad un ricco mercante britannico poco tempo prima che il mio equipaggio si ammutinasse. Era dunque quasi divertente vedere quegli uomini affaccendarsi a dar credibilità alle loro merci.
    «Patrick! Datti una mossa, ragazzo!» sentii esclamare d’un tratto, e voltandomi in quella direzione vidi un uomo grande e grosso con una folta barba scura richiamare un ragazzetto mingherlino dai lunghi capelli castani legati in un codino, intento ad osservare il fabbro locale mentre batteva l’acciaio per le sue spade.
    «Arrivo subito, mastro Garrington!» gli gridò di rimando, parlottando animatamente con il fabbro prima di dileguarsi, regalandogli un sorriso divertito. Nel voltarsi si girò senza volerlo verso di me, permettendomi di vedergli il viso, e raggelai nello stesso istante in cui quei suoi occhi marroni incontrarono i miei. Quel ragazzo di nome Patrick parve però non farci caso più di tanto, agitando una mano in segno di saluto come avrebbe fatto un bambino di cinque anni. Lo vidi poi correre via come una tempesta,  richiamando più e più volte l’uomo che si stava allontanando senza aspettarlo; io rimasi lì, immobile, con le braccia distese lungo i fianchi e la bocca aperta in un’esclamazione senza voce. Non poteva essere. Era inverosimile. Non era possibile che fosse lui. Allora perché quel ragazzo gli somigliava così tanto?
    «Ehi, Gale, che succede?» Faticai non poco a rendermi conto che il borbottio di sottofondo nelle mie orecchie era la voce di Cid, e fu sbattendo furiosamente le palpebre che mi ripresi, gettando una rapida occhiata verso di lui.
    Mi portai una mano alla fronte e scossi lentamente la testa, quasi cercassi di riprendermi dallo sconcerto che mi aveva investito. Ero forse stato suggestionato da qualcosa, se quel pensiero mi aveva colto così d’improvviso? «Niente, Cid. Niente», risposi appena in un sussurro, sforzandomi di abbozzare un sorriso. «Cerchiamo piuttosto una locanda, ho fame».
    Cid, però, mi osservò guardingo. «Sicuro che sia tutto okay, Gale?» mi chiese sospettoso. «Sei diventato bianco come un fantasma tutto d’un tratto».
    Bianco come un fantasma. Beh, non avrei saputo trovare un modo migliore per dirlo. Forse anche il ragazzino che avevo visto di sfuggita era stato semplicemente un fantasma partorito dalla mia mente rimasta troppo a lungo in balia del mare. Già, doveva essere senza dubbio così.
    Decisi dunque di non ribattere, dandogli semplicemente le spalle. «Andiamo, Cid», tagliai corto, non volendo discutere con lui com’ero solito fare. In altre circostanze non ci avrei pensato su due volte, ma quella strana apparizione aveva rimescolato così tanto il mio animo che mi sentivo sfatto.
    Sperai solo che si trattasse di una semplice coincidenza.
 

 

[1] Citazione tratta dal primo episodio della terza stagione del telefilm “The Lost World”, ispirato all’omonimo romanzo di Sir Arthur Conan Doyle.

[2] Grido d’avvertimento per l’equipaggio che la nave è in procinto di fare il giro, usato specialmente quando si compie una virata. Quando si gira bruscamente, difatti, vele e pennoni potrebbero improvvisamente cambiare posizione.
La scelta del titolo sarà chiara mano a mano che si andrà avanti con il capitolo, o almeno questa è l’intenzione.


[3] Nato nel 1680 e morto il ventidue novembre del 1718, il suo vero nome era Edward Teach, e fu un celebre pirata britannico che ebbe il controllo del Mar dei Caraibi tra il 1716 e il 1718, durante la cosiddetta età dell’oro della pirateria.
Aveva fama di essere uno dei pirati più feroci, e alla sua immagine e alle sue imprese, reali o leggendarie che fossero, si deve in gran parte lo stereotipo del “pirata cattivo” nella cultura. I suoi modi terrorizzavano le sue vittime ma anche lo stesso equipaggio; si dice che usasse sparare con la pistola alle gambe dei suoi uomini come misura punitiva o semplicemente per mantenere la disciplina a bordo.

[4] Il nome del Capitano non è stato scelto a caso ed è ovviamente uno pseudonimo. La parola “Gale” in inglese significa per l’appunto tempesta, burrasca, e la scelta sarà chiara solo una volta giunti alla fine della storia, o almeno questa è l’intenzione.

[5] Omaggio ai tanti Cid comparsi in tutti i capitoli principali, spin-off, film o anime della saga Final Fantasy. Assieme ai chocobo e ai moguri, Cid è un marchio di fabbrica e non appare mai come la stessa persona, interagendo con il gruppo di eroi di turno in modo differenti.
Per la maggior parte dei titoli, Cid significa aeronave, e quasi sempre il Cid di turno guiderà egli stesso un veicolo o ne farà dono ai protagonisti per usarlo nelle fasi avanzate del gioco. Cid è solitamente un uomo di mezza età, se non più vecchio, che funge da figura di riferimento e fa un po’ da padre ai protagonisti più giovani.
Il ruolo del Cid di questa storia è per l’appunto il navigatore, dunque neanche il suo nome è stato scelto a caso. Ha anche un altro ruolo che si scoprirà andando mano a mano avanti con la storia.


[6] Modo non volgare per intendere che l’unica persona con cui vuole andare a letto è per l’appunto Gale.
Questa nota è probabilmente - anzi, sicuramente - inutile, ma ci tenevo lo stesso a chiarire la cosa per evitare possibili fraintendimenti.



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Capitolo 2
*** [ Atto II: Porto Rico › Mar dei Caraibi, 1768 ] Landlubber ***


Oceani_2 ATTO II: PORTO RICO › MAR DEI CARAIBI, 1768
LANDLUBBER [1]
 
    Ogni cosa che vedevo, dal mobiletto con la lampada ad olio alle tende alla finestra, era avvolta da un pallido alone grigiastro, simbolo che erano da poco passate le nove di sera.
    A svegliarmi era stato il continuo latrato del nostro cane, Nesh, seguito dalla voce sommessa di mastro Garrington, che mi richiamava insistente e con una nota di irritazione. Mugolai, coprendomi la tes
ta con il cuscino e bofonchiando qualche parola a mezza voce nella vana speranza che, sentendomi, quel fastidioso borbottio cessasse e mi lasciasse al mio riposo per altri cinque minuti. Avevo fatto proprio male a mettermi nuovamente a letto per riposare, dopo la tornata delle otto.
Ero quasi pronto a sprofondare nuovamente nel sonno quando un tonfo sordo mi fece sussultare, e mi ritrovai praticamente sul petto le grosse zampe di Nesh, che uggiolava come non mai. A malincuore dovetti alzarmi per quanto concessomi, sbadigliando e posando al tempo stesso una mano sul dorso peloso del mio cane, che per tutta risposta allungò il muso verso di me per leccarmi il viso.
    «Sono sveglio, Nesh, sono sveglio», borbottai con voce impastata, cercando di allontanarlo inutilmente da me. Era un grosso cane da pastore dal pelo lucente, pieno di voglia di giocare sebbene non fosse più un cucciolo. Anziano ma vispo, ripeteva sempre mastro Garrington. E da come lo vedevo agitare la coda e tirarmi un lembo della camicia da notte che indossavo, non potevo non dargli pienamente ragione.
    Con uno sbuffo divertito riuscii a liberarmi dalla sua morsa, scansando le lenzuola per poggiare i piedi oltre il bordo del letto e stiracchiarmi tranquillamente. Nesh se ne approfittò subito, infilando il muso sotto le mie braccia per strofinare il naso contro di me, facendomi ridacchiare. «Andiamo, smettila», lo ammonii in tono scherzoso. «Mastro Garrington ci striglierà entrambi se non mi metto a lavoro alla svelta».
    Mi giunse in risposta un breve abbaiare prima che, probabilmente capendomi, Nesh scendesse dal letto, trotterellando svelto fuori dalla camera mentre agitava la coda. Quel cane era peggio del suo padrone. In senso buono, ovviamente. Dawson Garrington era stata la sola persona che aveva deciso di prendersi cura di me. Cinque anni prima mi aveva trovato sulla spiaggia privo di sensi, e a niente era servito chiedermi chi fossi o quale fosse il mio nome una volta risvegliatomi. Tutto ciò che avevo ricordato in quel momento era stato un immenso bagliore infuocato, difficile capire se rappresentasse un incendio o solo un tramonto sulle coste dell’arcipelago. Avevo provato a sforzarmi, ma la mente mi si era affollata di voci confuse e grida, facendo solo in modo che mi smarrissi di più. Mastro Garrington aveva così deciso di accogliermi nella sua casa, sebbene non avesse mai voluto avere a che fare con i mocciosi. Ero stato lui molto grato di quella gentilezza offertami, anche se spesso e volentieri avevo l’irrefrenabile voglia di andarmene da lì.
    A quei pensieri, scossi la testa, affrettandomi a darmi una lavata e a cambiarmi, legandomi in fretta e furia i capelli in un codino. Non ero mai stato uno di quei ragazzi dalla grazia e dai lineamenti femminili, anzi, forse il mio volto si presentava un po’ più duro di quanto in realtà non fosse. Portavo i capelli lunghi solo per una questione d’abitudine, ma non mi ero mai soffermato a curare il mio aspetto più del necessario.
    Mi allacciai la casacca alla gola e indossai gli stivali, arraffando quella vecchia patacca con cui ero stato trovato e che ormai mi portavo sempre dietro. Grande quanto un doblone, sopra vi era raffigurato un animale molto simile ad una tigre e, intorno ad essa, vi era inciso qualcosa in una lingua che non conoscevo, ma non mi ero mai soffermato a capire cosa volessero significare quelle scritte. Per me rappresentava solo un qualcosa legato alla mia vita passata, per quanto non la ricordassi. Era più che altro un portafortuna, se la si voleva mettere in quei termini.
    Scesi le scale e giunsi al piano di sotto, trovando mastro Garrington già a lavoro: quella sera c’erano stranamente parecchi clienti, e non sapevo dire se la cosa fosse da considerare un buon segno o meno. Di solito nessuno gironzolava da quelle parti se non a notte ormai inoltrata, dunque vedere qualcuno seduto a quei tavoli malmessi durante i primi bagliori della sera era una bizzarra novità. I nostri clienti abituali si presentavano per lo più dopo la mezzanotte, quando il sole era ormai calato oltre l’orizzonte da un bel pezzo e le ronde di guardia si spostavano nella parte ricca della città. In cinque anni avevo imparato a conoscere la maggior parte di loro e il lavoro che svolgevano, e non tutti erano rispettosi delle leggi. Tra mercenari, malfattori e pirati, lì, quasi mi meravigliavo che non ci fosse ancora scappato qualche morto. Di risse ce n’erano praticamente ogni sera.
    Nonostante fossi felice della vita che conducevo, però, negli ultimi tempi avevo cominciato a sognare di navigare libero per i sette mari, senza leggi né regole da rispettare. Ero rimasto a dir poco incantato nell’ascoltare le favolose avventure narrate dai pirati che, quando attraccavano da quelle parti, venivano a rifocillarsi nella taverna del vecchio mastro Garrington, e non era raro che mi soffermassi per ore ed ore accanto ai loro tavoli per non perdermi una sola parola, chiedendomi al tempo stesso che effetto avrebbe fatto assaggiare fino all’ultima goccia l’ebrezza di quella loro libertà. Avrei voluto solcare gli oceani a bordo di una grande nave che scivolava sull’acqua a vele spiegate, vedere l’effetto che faceva osservare il sole morire oltre l’orizzonte, e fissare la bandiera nera che veniva sferzata dal vento durante quelle traversate. Però sapevo che quelle sarebbero solo rimaste delle mie fantasie, purtroppo. Non avrei mai lasciato quel posto.
    «Patrick! Ma che diamine hai oggi, ragazzo? Scattare, coraggio!» La voce di Mastro Garrington, proveniente dalle cucine, mi fece sussultare, poiché mi ero talmente perso nei miei più disparati pensieri che avevo praticamente dimenticato il motivo per cui ero stato chiamato laggiù. Basta fantasticare su storie di pirati e grande avventure. Ero lì per lavorare e servire ai tavoli, nient’altro. La mia immaginazione avrebbe potuto navigare sulle rotte dei Sette Mari in un altro momento.
    Mi misi a lavoro con un sospiro, stando attento a dove mettevo i piedi mentre mi incamminavo nella ressa di quella locanda trasandata. I tavoli che avevamo erano sempre stati sudici e malfermi, e a niente valeva lavarli ogni singolo giorno per tentare di eliminare almeno uno strato del sudiciume che li ricopriva; le sedie non se la passavano meglio, tra l’altro, giacché la paglia con cui erano state intrecciate si era ormai ridotta ad un ammasso aggrovigliato di fili indistinti e sporchi. Persino il pavimento faceva letteralmente schifo, e più volte avevo richiamato Nesh perché arraffava tutto ciò che vi rimaneva appiccicato sopra. Quella sera non era da meno: non appena vedeva qualcuno dei clienti far cadere inavvertitamente qualcosa dal piatto, lui accorreva come un fedele spazzino e ingurgitava tutto, senza lasciare neanche una briciola. Che cane ingordo.
    Proprio in quel momento lo vidi pararsi dinanzi a me come una freccia scoccata da un arco, correndo come un matto per raggiungere il lato opposto della locanda; tentai di restare in piedi per quanto concessomi, attento a non far cadere i piatti che reggevo con entrambe le mani, però persi l’equilibrio e caddi addosso ad uno dei clienti, sporcando me stesso e anche lui con la brodaglia che stavo trasportando. Non mi rimisi neanche in piedi che mi sentii afferrare per il colletto da una mano enorme, ritrovandomi praticamente faccia a faccia con quell’energumeno. Con quella stazza e quell’aria da armadio a quattro ante, ero più che certo che non me l’avrebbe fatta passare liscia neanche se gli avessi chiesto scusa.
    «Che diavolo fai, moccioso?» sbottò ad una spanna dal mio viso, appestandomi con il suo alito che puzzava di rum scadente e pranzi degni di una pattumiera. Quasi riuscì a farmi venire un capogiro, però non potei fare a meno di lasciarmi sfuggire un sorriso sarcastico.
    «Puzzavi così tanto che pensavo fosse la spazzatura», ribattei, maledicendo la mia linguaccia per quella battuta infelice, specialmente quando quel tipo mi sferrò un pugno in pieno viso con tutta la forza che aveva. Diavolo, se faceva male! Faceva maledettamente male. Mi ritrovai inginocchiato a terra con una mano premuta contro la bocca, sentendo il sapore del sangue sulle labbra; mi passai due dita su di esse e, portandomele davanti agli occhi, le vidi macchiate di rosso. Beh, perfetto. Solo un labbro spaccato ci mancava.
    Ebbi appena il tempo di voltarmi che un altro colpo ben assestato mi centrò in pieno stomaco, lasciandomi paonazzo e senza fiato. Mi accasciai su me stesso e boccheggiai, probabilmente nel vano tentativo di ricordarmi come si faceva a respirare. Fui quasi tentato di chiudere gli occhi quando vidi quel tipo pronto a colpirmi ancora, ma davanti al mio campo visivo si parò un braccio nascosto da un pesante cappotto con jabot. «Il ragazzo non l’ha fatto apposta», esordì una voce calma e pacata. Aveva uno strano accento straniero che non riuscivo a definire, però ero certo che fosse la prima volta che il possessore di quella voce capitava da quelle parti. «E accanirsi contro di lui non ti servirà comunque a niente».
    Restai lì per lì interdetto, osservando il tipo che era venuto in mio soccorso: indossava un logoro giaccone rosso dalle maniche a sbuffo, al di sotto del quale era visibile un angolo di una camicia che un tempo era sicuramente stata più pulita di quanto non apparisse in quell’esatto momento; i lunghi pantaloni erano dello stesso colore dei suoi capelli, d’un castano così chiaro da sembrare vagamente biondo; non potei vederlo con attenzione in viso, ma mi parve di vedere sul suo occhio sinistro uno scorcio di quella che sembrava una cicatrice. Ciò che non lasciava dubbi era il cappello piumato sulla sua testa: avevo visto soltanto una categoria di persone con quello stesso copricapo, e ciò poteva solo significare che quell’uomo era un pirata. Più lo guardavo, però, più mi sembrava di averlo già visto da qualche parte; era impossibile, lo sapevo, ma allora perché provavo quella bizzarra sensazione?
    Feci per aprire la bocca quando vidi l’energumeno che mi aveva aggredito scansare malamente il braccio di quel pirata, e non potei fare a meno di indietreggiare come la restante clientela nel momento esatto in cui avanzò minaccioso. «Chi diavolo credi di essere, tu?» sputacchiò con voce roca, digrignando i denti gialli. «Vedi di farti i cazzi tuoi, stronzo».
    Quel tipo sospirò, scuotendo poi il capo con fare sconsolato. Era stato l’unico a restare fermo in quella stessa posizione, come se non temesse minimamente la rappresaglia a cui avrebbe potuto dar vita quell’armadio a quattro ante. «Non ho intenzione di battermi con te per colpa del moccioso, omaccione, quindi datti una calmata», lo spronò tranquillamente, sollevando appena un angolo della bocca in un sorriso cordiale.
    Lo fissai con tanto d’occhi. Quel tipo era pazzo o cosa? Aveva una bella stazza anche lui, certo, ma non era nulla se paragonato a quell’energumeno che aveva dinanzi. Avrebbe potuto stritolargli la testa con una sola mano, e l’avrebbe di sicuro fatto se in quell’esatto momento non fosse stata scardinata la porta della locanda; lo schiocco sordo dei cardini fu sovrastato dalle voci altisonanti e perentorie delle guardie, che avevano fatto irruzione a baionette spianate. Tra loro era presente anche la possente figura del Commodoro Waine, che si guardò intorno con aria spavalda e austera. Quel tipo non mi era mai piaciuto, e il fatto che facesse parte della marina c’entrava ben poco; era un uomo viscido e infido, come un serpente dagli occhietti neri che squadrava la sua preda in attesa di inghiottirla. Si vociferava persino che avesse fatto impiccare chiunque fosse in disaccordo con lui. E con i pirati non aveva la benché minima pietà.
    «Lui dov’è?» domandò con voce tonante, bloccando tutti i presenti in un attimo di etereo stupore. Non una mosca volava nella locanda, e l’atmosfera d’odio e di rissa che aveva aleggiato fino a quel momento sembrava essere sparita nel nulla, quasi non ci fosse mai stata.
    Non capii cosa volesse intendere il Commodoro con quelle parole, e, dalle espressioni dei clienti, neanche loro si capacitavano di ciò che stesse tentando di domandare. Ci guardammo tutti nello stesso e identico istante, come se volessimo cercare una risposta nel volto di qualcun altro, ma fu proprio nel far questo che mi accorsi che mancava una testa all’appello: dov’era finito il tipo che mi aveva appena salvato? Era forse lui l’uomo che il Commodoro stava cercando? Beh, se era scappato così velocemente, evitando anche una sicura scazzottata, non poteva essere altri che lui.
    «Pagherete anche voi le conseguenze, se lo nascondete!» continuò il Commodoro Waine, fissando ogni uomo presente dall’alto della sua superbia. Il naso aquilino tremò, simbolo che stava iniziando a spazientirsi. Gettò un’occhiata ai suoi uomini, serrando la mascella in modo convulso. «Guardie! Mettete a soqquadro questa topaia!»
    I suoi commilitoni non se lo fecero ripetere due volte, anch’essi impauriti dalla reputazione che il Commodoro si portava sulle spalle; cominciarono dunque a rivoltare i tavoli, a rompere le bottiglie, come se quello potesse aiutarli in qualche modo a trovare l’uomo che stavano cercando. Non esitarono nemmeno ad entrare nelle cucine, cacciando a pedate mio padre e ignorando i suoi impropri rivolti alla loro persona. Con il coltellaccio che reggeva cercava di intimidirli, agitandolo a destra e a manca come se fosse una vera e propria arma, ma avrebbe fatto davvero ben poco contro le baionette di cui ognuno di loro disponeva. L’abbaiare di Nesh si confuse con le esclamazioni e gli epiteti che venivano lanciati contro i soldati del Commodoro, senza che nessuno di essi si prendesse la briga di starne a sentire qualcuno; quando finalmente se ne andarono, tutto ciò che ci rimase fu una bottiglia di rum ancora intera sul bancone e più della maggior parte dei tavoli rovesciati su loro stessi, con il pavimento colmo di cocci e bicchieri.
    «Che Dio li fulmini, perdiana!» ringhiò mio padre, stringendo il manico del coltellaccio con una tale furia che fui certo gli si fossero disegnate le mezze lune delle unghie sui palmi. «Cosa diavolo volevano questa volta?»
    Stavo aiutando ad alzare i tavoli quando vidi che uno dei nostri clienti abituali, Jonathan, aveva scoccato una rapida occhiata nella sua direzione. «Forse quel tipo che se l’è squagliata, Garrington», lo informò, e sbattei le palpebre nel sentire che aveva avuto la mia stessa opinione. «Se l’è filata non appena ha visto la porta sradicata».
    «Che clientela malfidente», esordì una voce proveniente dal lato destra della locanda, nel punto esatto in cui le lanterne ad olio avevano smesso di illuminare la zona già da un pezzo. Dalla penombra spuntò il cappello piumato di quel tipo, e il sorriso sulle sue labbra fu capace di irritare tutti i presenti. Me incluso. «Quei loschi figuri non cercavano mica me, eh».
    Mastro Garrington gli corse incontro, afferrandolo per il colletto con una mano mentre con l’altra lo teneva sotto tiro con il coltellaccio. «Tu, piccolo diavolo, non venirci a raccontare cazzate» sibilò, avvicinandogli la lama al collo. Il pirata la guardò per quanto concessogli e deglutì, reclinando un po’ la testa all’indietro come se in quel modo potesse evitarla. «Non voglio guai con il Commodoro, quindi ti conviene sparire prima che decida di cavarti del tutto l’occhio».
    Sapevo con completa certezza che le parole di mio padre non sarebbero state vane. Non era la prima volta che minacciava qualcuno in quel modo - aveva persino minacciato un tipo, tale Josh il Rosso, di strappargli gli attributi solo perché tempo addietro aveva infastidito l’unica cameriera che avevamo -, dunque ero certo che dicesse sul serio. Però qualcosa mi diceva che quel pirata aveva detto la verità. Beh, rettificai, se non tutta, almeno parziale. «Mastro Garrington», tentai quindi di chiamarlo, non ottenendo la tanto agognata attenzione che avevo desiderato. Allora ci riprovai, riuscendo soltanto ad irritarlo maggiormente. Mi scoccò difatti una veloce occhiata senza allontanare la lama dalla gola di quel pirata, e ci mancò poco che con quel brusco movimento gli tagliasse la carotide.
    «Sta’ zitto quando gli adulti parlano, ragazzo», mi ammonì in tono duro e autoritario. «Vedi piuttosto di darti da fare con gli altri per rimettere a posto».
    «Ma...»
    «Niente ma, ragazzo, e ora muoviti».
    Dovetti obbedire malgrado tutto, ma non prima di aver lanciato un’ultima occhiata al tipo con il giaccone rosso. Se n’era rimasto lì ad osservarmi con quei suoi occhi verdi, per nulla preoccupato della lama che aveva quasi rischiato di ferirlo mortalmente. Il suo sguardo parve indagatore e irriverente, come se stesse cercando di leggere la mia anima anziché soffermarsi solo sul mio aspetto fisico. La cosa non mi piacque per niente, forse perché quel modo di fare mi aveva messo in agitazione; però fu proprio nel vederlo con attenzione in viso che aprii la bocca per dare vita ad un’esclamazione sorpresa. «Ah!» lo additai. «Tu sei il tipo di oggi pomeriggio!»
    Lui sorrise maggiormente. «Proprio io, ragazzo», rimbeccò, venendo però immediatamente richiamato all’ordine quando la lama gli segnò parzialmente una guancia.
    «Sono io il tuo interlocutore, furfante», riprese mio padre in tono aspro. «Perché la marina ti cerca? Chi diavolo sei?»
    Malgrado tutto, quel pirata ridacchiò. «Capitan Gale, messere. Per servirla», si presentò in tono di scherno, e con la coda dell’occhio lo vidi abbozzare persino un altro sorriso. Allora quel tipo era davvero stupido. Però non potei fare a meno di dar vita anch’io ad un sorriso, puntando gli occhi sul pavimento per far finta che fossi concentrato a pulirlo. «E non ho la benché minima idea del perché quei quattro marinaretti mi stiano dando la caccia, ho appena attraccato».
    «Vedi di non prendermi per il culo, pirata».
    «Och, non lo farei mai», si affrettò a chiarire. «Non sarebbe neanche il mio tipo, messere».
    Mastro Garrington lo strattonò in malo modo, puntandogli la lama vicino all’occhio parzialmente sfregiato prima di spingerlo lontano da sé. «Fuori da questo posto, feccia», gli ringhiò contro. «E guai a te se ci rimetti piede».
    Il Capitano tossicchiò e si portò una mano alla gola, toccando il punto in cui si era trovato il coltello; alzò poi lo sguardo su mio padre, togliendosi il cappello per rivolgergli un saluto galante con esso. «A mai più rivederci, allora, mio buon locandiere». Sembrò non resistere dal prenderlo in giro ancora una volta, e fu solo per miracolo se riuscì a scansare il coltellaccio che mio padre gli lanciò contro mentre si defilava verso l’uscita.
    Nel vederlo andare via, però, il mio cuore sembrò quasi perdere un battito; mi alzai in piedi senza neanche essermi reso conto di averlo fatto, lasciando cadere la pezzuola che stavo usando su quel pavimento incrostato di sudiciume. Non volevo che se ne andasse. Non volevo che scomparisse per sempre dalla mia vita. Il modo in cui mi aveva guardato aveva risvegliato in me delle strane emozioni, e fino a quel momento non avrei mai pensato che esse esistessero. Feci dunque qualche passo avanti con fare esitante, cominciando poi ad aumentare la mia andatura mano a mano che mi avvicinavo alla porta.
    Quando la imboccai sentii appena mastro Garrington urlare «Patrick! Dove credi di andare, ragazzo!», ma io non vi diedi peso, cominciando a correre nel momento esatto in cui vidi la stoffa rossa di quel familiare giaccone scomparire oltre il vicolo di una stradina. Se volevo raggiungerlo dovevo affrettarmi, e fu esattamente quello che feci; non ci pensai due volte ad inoltrarmi nella città per seguire quel pirata, ansimando a metà strada perché non ero abituato a correre così tanto. Lo vidi qualche istante dopo, rendendomi conto che si stava dirigendo verso il porto. Voleva forse salire sulla sua nave? L’avrei del tutto perso, se l’avesse fatto.
    «Ehi, Capitano!» lo chiamai, aumentando il passo per riuscire a stargli dietro. Era velocissimo, e da un uomo della sua stazza non me lo sarei mai aspettato. Grosso com’era, difatti, avevo quasi creduto che fosse piuttosto lento.
    Lo vidi voltarsi appena verso di me senza arrestarsi, rallentando però un po’ il passo per fare così in modo che lo raggiungessi. Non sembrava volersi sbarazzare di me, e la cosa fu quasi capace di farmi sorridere. «Che ci fai qui, ragazzo?» mi domandò scettico.
    Risposi solo dopo aver recuperato un po’ di fiato. «Vengo con lei, mi sembra ovvio!»
    «E come la metti con il tuo vecchio?»
    «Lui capirà», sussurrai in risposta, continuando a correre senza voltarmi indietro. Sentivo che se l’avessi fatto anche solo per un istante, avrei potuto cambiare idea e abbandonare quella mia fuga per tornare sui miei passi. «In fondo questo non è mai stato il mio posto, e lui che mi ha accolto dovrebbe saperlo bene».
    Mi lanciò una nuova occhiata, e quasi mi parve di vedere sul suo volto l’ombra di un sorriso. «Ti ha accolto, eh?» ripeté. «E va bene, allora. Come vuoi tu, ragazzo», ridacchiò con fare divertito, afferrandomi per un braccio come se volesse far sì che mi affrettassi, «ma guai a te se provi a fare qualcosa di stupido», soggiunse, guardandomi attento con quei suoi occhi verdi e lasciandomi ben intendere che non scherzava.
    Quell’occhiata avrebbe dovuto mettermi soggezione, probabilmente, ma in quel momento ero troppo preso dalla foga di quella che sperai sarebbe stata la mia prima avventura. Di una cosa, però, ero sicuramente certo: non sapevo in che guaio mi ero cacciato
.
 

 

[1] Persona che non conosce il mare o l’arte della navigazione. Il termine non deriva da “amante della terra”, bensì dalla radice di fede, che significa goffo e scoordinato.
Un marinaio d’acqua dolce, ovvero il “Landlubber”, è dunque uno che è inutile in mare a causa della sua familiarità sulla terra. E’ specialmente usato per insultare le scarse capacità di navigazione di un uomo, e la scelta del titolo sarà chiara solo durante la lettura del capitolo, o almeno questa è l’intenzione


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Capitolo 3
*** [ Atto III: Porto Rico, Stiva della caravella › Mar dei Caraibi, 1768 ] Loaded to the gunwall ***


Oceani_3 ATTO III: PORTO RICO, STIVA DELLA CARAVELLA › MAR DEI CARAIBI, 1768
LOADED TO THE GUNWALL
[1]
 
    «Adesso spiegami cosa ci fa qui quel moccioso, Gale, spiegamelo!» sbraitò per l’ennesima volta Cid, continuando a camminare avanti e indietro nella cabina, nervoso a dir poco. Aveva cominciato quella solfa nel momento stesso in cui ero tornato alla caravella con quel ragazzo al seguito, trascinandomi via da lui in modo che potessimo parlare a quattr’occhi senza la sua costante presenza. Tentare poi di calmarlo era stato completamente inutile, anche perché aveva cominciato a tamburellare nervosamente con le dita sul tavolo, spiegazzando qualche cartina e rovesciando persino due bottigliette d’inchiostro quando alla fine si era alzato in piedi per iniziare quel via vai continuo che mi aveva fatto dolere la testa.
    «Te l’ho detto, Cid, mi ha seguito», sbuffai, sorreggendomi il viso sul dorso di una mano.
    Lui, però, mi fulminò con lo sguardo. «E non potevi cacciarlo?» sbottò irato. «Ti avevo detto di prendere da mangiare, non di raccogliere un topo di sentina!»
    «Calmati», provai, sebbene sapessi che avrebbe potuto continuare a rimproverarmi per ore. «Stai facendo questioni per un’idiozia».
    «L’idiozia l’hai fatta tu nel momento stesso in cui hai portato qui il ragazzo», rimbeccò scorbutico, fermandosi finalmente e dando un po’ di tregua ai miei occhi. Non ne potevo davvero più di vederlo fare avanti e indietro. «Sai bene qual è la nostra destinazione, Gale... ti sembrava forse il caso di trascinarti dietro un moccioso? Eri ubriaco?»
    «Forse saresti dovuto venire con me, invece di tornare alla nave», ironizzai, adagiandomi contro lo schienale della sedia prima di reclinarmi un po’ all’indietro insieme ad essa, in modo che potessi poggiare uno stivale sul bordo del tavolo. Alzai anche l’altro per incrociare entrambi i piedi e stare più comodo, mentre nel frattempo la mia attenzione era interamente concentrata altrove, ma un pugno di Cid sul tavolo mi fece sussultare.
    «Se sei così idiota da portarti appresso un moccioso pur sapendo cosa dobbiamo fare, Gale, non venirmi a dire che dovrei controllarti proprio per questo. Hai ventisette anni, per la testa di Black Sam
[2], comportati come un uomo e cerca di non fare le solite stronzate».
    «Io credo che il ragazzo debba venire con noi», replicai, al che Cid si schiaffò immediatamente il palmo della mancina in faccia.
    «Dannazione, Gale, non hai sentito ciò che ti ho appena detto?» sbottò iracondo, passandosi quella stessa mano fra i capelli. Si era liberato della bandana nel momento stesso in cui quella discussione fra noi era cominciata, lanciandola in un angolo lontano della cabina. Adesso giaceva inerme e solitaria accanto alle casse di viveri nuovamente rifornite, afflosciata come la pelle di un serpente che aveva appena fatto la muta. «Se non sapessi che sei stupido di tuo, mi chiederei che cosa ti sia preso», soggiunse in uno sbuffo tutt’altro che divertito, e avrei volentieri risposto per le rime se un bussare alla porta non avesse richiamato la nostra attenzione.
    Io e Cid ci guardammo, e fu proprio lui il primo a riprendersi da quello stato di parziale e bizzarro scombussolamento. Troppo indaffarati nel discutere, e tra l’altro abituati ad essere solo in due su quella sottospecie di caravella, ci eravamo quasi dimenticati della presenza del ragazzo. «Va’ via, moccioso», abbaiò Cid. «Io e il Capitano stiamo dibattendo, i mozzi non sono ammessi alla nostra tavola».
    Beh, da topo di sentina a mozzo. Un passo avanti c’era stato. Riuscii a sentire l’incertezza di quel ragazzo anche attraverso il legno di cui era composta la porta, il che fu incredibile. «Volevo solo...» cominciò con un basso pigolio ovattato. «Ho pensato che fosse giusto informarvi del pattugliamento che la marina sta attuando giù al porto».
    A quelle parole quasi caddi dalla sedia per colpa di Cid, che aveva sgranato gli occhi ed era corso alla porta così in fretta che quasi mi parve avesse un cazzo di grillo al culo. La spalancò con ben poca grazia e afferrò il ragazzo per la camicia, portandoselo ad una spanna dal viso con violenza inaudita. «Cosa diavolo aspettavi a dirlo, moccioso?!» sbottò, scansandolo di malo modo e correndo fuori dalla cabina come una furia, lasciando me e Patrick - se ben ricordavo il nome con cui quel tipo, Garrington, l’aveva chiamato - alquanto basiti.
    «Ma che diamine gli è preso?» domandai, forse più rivolto a me stesso che al ragazzo. Non avevamo ancora fatto niente che ci facesse conoscere dalla marina del luogo e ci facesse prendere dunque di mira, ma allora perché tutta quella fretta? Stornai lo sguardo su Patrick, mettendomi in piedi prima di raggiungerlo sulla soglia. «Andiamo, ragazzo», lo spronai, attraversando il corridoio sottocoperta per giungere alle scale che portavano al ponte, e avrei anche cominciato a salirle con tutta calma se l’improvviso e brusco movimento della nave non mi avesse fatto perdere l’equilibrio.
    Rischiai di cadere su Patrick, che fortunatamente riuscì a sorreggermi pur essendo mingherlino e poco in carne. «Sicuro di non essere nei guai con la marina, Capitano?» mi chiese scettico, e mi voltai per fulminarlo con lo sguardo prima di calcarmi il cappello in testa.
    «Sicurissimo, corpo di mille balene», sbottai, decidendo di tralasciare il modo dubbioso con cui mi stava osservando per prestare la mia attenzione al mio vice al di sopra del cassero. Di idiota me ne bastava già uno, a ben pensarci. «Cid!» esclamai per richiamarlo, vedendolo dinanzi al timone. Lo ruotava con una velocità inaudita, muovendo le mani in sincronia per evitare che gli scappasse e perdesse così l’inclinazione dell’imbarcazione, cosa che avrebbe solo fatto oscillare la nave in modo spaventoso.
    «Non ora, Gale, sono occupato!» strepitò in tono rabbioso, e fu proprio in quel mentre che mi accorsi del vociare proveniente dalla terra ferma. Corsi verso la poppa della nave e mi poggiai con le mani al parapetto di legno, sgranandogli occhi nel rendermi conto della moltitudine di soldati che puntava i fucili nella nostra direzione. Un gruppetto composto all’incirca da una ventina di uomini stava invece correndo verso l’ammiraglia ormeggiata poco distante, e tra loro distinsi l’ufficiale che aveva organizzato l’incursione alla locanda in cui avevo trovato Patrick.
    «Quello è il Commodoro Waine!» esclamò incredulo quest’ultimo, facendomi trasalire. Ero stato talmente assorto nell’osservare quel caos che non l’avevo minimamente sentito avvicinarsi. E dire che quella nave scricchiolava che era una meraviglia, sia in mare che in porto.
    «E che diamine vorrebbe da noi?» chiesi scettico, guadagnandoci uno sguardo stralunato.
    «Se non lo sa lei, Capitano...»
    «Quante storie!» sbottò Cid mentre tentava di prendere il largo il più in fretta possibile, nonostante il vento non lo permettesse del tutto. Sferzava le vele senza gonfiarle del tutto, facendo sventolare sinistramente la bandana che fungeva da bandiera e scricchiolare al tempo stesso i legacci che assicuravano la stoffa agli alberi. «Mobilitare persino un’ammiraglia solo per qualche barile di polvere da sparo e tre casse di ferraglia!»
    Sebbene fossi stato più che attento nell’osservare la nave della marina che levava gli ormeggi e spiegava le vele, nel sentire Cid mi voltai immediatamente verso di lui a bocca spalancata. «Eri tu quello che cercavano, allora, topo di fogna che non sei altro!»
    «Lui?» domandò Patrick, giacché fin dal principio, come gli altri clienti della locanda, aveva creduto cercasse me. Che ragazzino di poca fede.
    Non gli prestai attenzione, gettando un’ultima occhiata all’ammiraglia prima di correre incontro a quel degenerato. «L’hai fatto di nuovo, vero?» sibilai, risparmiandomi dal tirargli un pugno solo perché era al timore.
    La voglia di farlo davvero, però, tornò prepotente e divampò come fuoco vivo nelle mie viene nel momento stesso in cui lui sorrise. «Dovresti saperlo che ho un debole per la divisa, Gale», ironizzò, nonostante non fosse affatto il momento di scherzare. «Sarebbe andato tutto liscio come l’olio se non mi avessero beccato proprio mentre me ne stavo andando».
    Sentii una vena pulsarmi sulla fronte. «Tu, ninfomane cleptomane che non sei altro, proprio la marina orientale dovevi derubare?!»
    «Tu non hai idea dell’armamentario che hanno, Gale, è davvero formidabile!»
    «Ma che diavolo vai farneticando, idiota?!»
    «Ragazzi?» Patrick ci richiamò con voce incerta, e lo fulminammo entrambi con lo sguardo prima di sbottare, «Che c’è!» Lui non si lasciò però intimorire, continuando soltanto a guardare al di là del parapetto in poppa. «Questa bagnarola resisterebbe a dei colpi di cannone?»
    Per qualche attimo io e Cid sbattemmo le palpebre all’unisono, e fu proprio lui, passato l’attimo di parziale sbigottimento, a rispondere. «E’ talmente malridotta che se venissimo colpiti anche solo una volta allo scafo saremmo spacciati».
    «Ah», fece il ragazzo, e lo vidi deglutire a fatica e stringere così forte le mani sul parapetto che le nocche sbiancarono. «Allora credo che siamo spacciati».
    Capimmo con esattezza quel che aveva voluto dire solo quando udimmo il cupo tuonare di un primo colpo di cannone. L’aria divenne satura di zolfo e polvere da sparo, e le grida provenienti dall’ammiraglia iniziarono a farsi sempre più alte e vicine, simbolo che stavano entrando sulla nostra traiettoria di tiro. Cid imprecò a denti stretti e tentò una brusca virata, rischiando quasi che il pennone si curvasse e che i legacci che assicuravano i tre alberi si spezzassero. Sentii Patrick lasciarsi sfuggire un’esclamazione sorpresa prima di vederlo rinserrare la presa sul parapetto, ma non ebbi il tempo di dargli retta poiché avevo il compito di spiegare la vela maestra. Più velocità riuscivamo ad acquistare con quella bagnarola, più possibilità avremmo avuto di salvarci da quella situazione.
    «Cid!» gridai al mio vice, cercando di mantenere l’equilibrio mentre la nave oscillava sotto ai miei piedi. «Cos’altro hai rubato, dannazione?!»
    «Niente, giuro!» urlò di rimando, e fui quasi sul punto di credergli prima che lo vedessi con la coda dell’occhio tirar fuori dai pantaloni quella che sembrava una pergamena spiegazzata. «Soltanto la mappa per il paradiso!»
    C’era da aspettarselo che avrebbe rubato qualcosa di sicuramente importante, maledizione a lui! Sarebbe stato troppo bizzarro se la marina avesse fatto tante storie solo per qualche barile di polvere da sparo e un po’ d’armeria. «Questa è la volta buona che ti getto in mare, Cid!» lo minacciai, imprecando a denti stretti prima di correre ad afferrare i legacci di tribordo.
    «Fuoco alle polveri!» gridò una voce alla mia destra, ed ebbi appena il tempo di girarmi che una palla di cannone centrò l’albero di mezzana, spezzandolo come se si fosse trattato di un fuscello. Schegge di legno si disseminarono nell’aria circostante, cadendoci addosso come tanti piccoli frammenti di vetro. Cercare di proteggermi il capo fu un grosso sbaglio, poiché lasciai andare inavvertitamente la corda e le vele sventolarono furentemente nel vento che si era innalzato verso est. Seguì il sonoro tonfo della parte superiore dell’albero che si schiantava contro la balaustrata e il suo seguente crollo rovinoso in mare, spruzzando zampilli freddi in ogni dove prima di venire inghiottito dalle acque.
    Un’altra grossa palla di cannone fischiò pericolosamente nei pressi della poppa, mancandola miracolosamente solo grazie ad un’ennesima e brusca virata che aveva compiuto Cid. La nave oscillava terribilmente e in modo spaventoso, tanto che era difficile mantenere l’equilibrio senza aggrapparsi a qualcosa. Il suono delle cannonate riempiva l’aria e mi assordava, riportandomi al tempo stesso alla memoria quanto era accaduto anni addietro nel mio villaggio natale; con quei pensieri per la testa ghermii ciò che era rimasto dell’albero di mezzana e volsi lo sguardo in direzione di Patrick, che si teneva al parapetto per quanto le forze glielo permettessero. A peggiorare la situazione si era messo anche l’annuvolarsi del cielo e il calar della nebbia, simbolo che di lì a poco sarebbe potuto scoppiare un temporale che avrebbe potuto troncare la nostra fuga una volta per tutte.
    «Patrick!» urlai, allungando una mano verso di lui come se farlo potesse servire realmente a qualcosa. «Vieni qui, ragazzo, muoviti!»
    Mi guardò ad occhi sgranati e spaventati, rinserrando maggiormente la presa su quello che era ormai divenuto il suo unico appiglio sicuro. Le grida provenienti dall’ammiraglia della marina si erano intensificate e, sebbene confusa con il sibilo che sentivo nelle mie orecchie e lo sciabordio delle onde che si infrangevano contro la chiglia al suo passaggio, la voce del Commodoro Waine appariva la più alta e minacciosa di tutte, così rabbiosa e altisonante da sovrastare l’ululato del vento.
    Senza perdere d’occhio Patrick, almeno per quanto concessomi dalla visuale che andava pian piano sfocandosi, mi alzai in piedi tentando di non perdere l’equilibrio. «Cid, tutta a tribordo!» ordinai al mio vice, correndo il più in fretta possibile verso il ragazzo anche se l’oscillare della caravella non me lo permetteva. Lo afferrai per un braccio non appena lo raggiunsi, sentendolo irrigidirsi nel momento stesso in cui una palla di cannone sfrecciò sopra le nostre teste; oppose resistenza quando cercai di staccarlo da lì per portarlo al sicuro, e i suoi occhi ingigantiti dalla confusione sembrarono quasi sul punto di schizzargli fuori dalle orbite. Urlò spaventato e si aggrappò a me quando una palla fece breccia nella parte superiore dello scafo, facendo crollare su se stesso il lato ovest della nave. Il ponte si inclinò sotto ai nostri piedi all’improvviso, e io ebbi appena il tempo di aggrapparmi ad una colonna della balaustra, così da evitare di scivolare di sotto; Patrick allungò una mano per fare lo stesso, ma le dita, rimaste troppo a lungo strette intorno al parapetto, cedettero e gli fecero mollare la presa, e fu solo per miracolo che riuscii ad afferrarlo per il polso con la mano libera, vedendolo di sfuggita impuntare i piedi contro il ponte inclinato per darsi una spinta e non cadere. Strisciò sulle assi di legno con i gomiti, aggrappandosi con entrambe le mani al mio avambraccio e stringendo le palpebre così forte che naso e fronte gli si corrugarono. Sembrava non voler vedere ciò che gli accadeva intorno, ma anche ad occhi chiusi era alquanto difficile ignorare il dondolio sempre più sinistro della caravella.
    «Figli d’un cane!» La voce di Cid apparve flebile e lontana a causa dei tuoni che avevano iniziato ad esplodere in cielo. «Quei bastardi fanno sul serio!» Attraverso la foschia sempre più densa lo vidi voltarsi nella nostra direzione, i capelli scompigliati e sudati gli ricadevano sulla fronte fin quasi a nascondergli gli occhi. «Resistete un altro po’, ragazzi! E tenetevi forte!»
    Tenerci forte... och, beh, facevamo quel che potevamo. Avevo cominciato a non sentire più il braccio, e un orribile formicolio stava iniziando a correre pericolosamente lungo di esso, simbolo che il sangue non stava circolando più come avrebbe dovuto. Anche la presa delle mani di Patrick stava divenendo meno salda, e pian piano le dita non ebbero più la forza necessaria per tenersi alle mie braccia, facendo inesorabilmente allentare la stretta; come a rallentatore lo vidi spalancare gli occhi ed aprire la bocca per dar vita ad un urlo senza voce, scivolando precipitosamente lungo le assi di legno del ponte e rotolando rovinosamente su se stesso.
    «Patrick!» esclamai, allungando inutilmente una mano verso di lui ma vedendolo sparire oltre il parapetto ormai in frantumi. Boccheggiai incredulo, sentendo nelle mie orecchie solo cupi suoni distanti che non avevano nulla a che vedere con il possente tuonare dei cannoni che avevo udito fino a quel momento. Cosa diavolo avevo fatto? Nella speranza che quel ragazzino potesse essere la persona che avevo cercato così a lungo avevo lasciato che venisse con me senza fermarlo... ma a che scopo? Avevo solo lasciato che morisse in quel modo. Non me lo sarei mai perdonato.
    «Vallo a prendere invece di restare lì come un idiota, Gale!» La voce rabbiosa di Cid mi riscosse dal mio stato di torpore e alzai dunque gli occhi verso la sua figura ormai sfocata, senza riuscire a capire che cosa intendesse. Fu nel voltarmi verso il ponte in cui era sparito Patrick che vidi due mani aggrappate alla base: cercava di resistere nonostante le schegge di legno che gli ferivano a sangue le dita, e il tremore scomposto che le animava lasciava intendere che di lì a poco non ce l’avrebbe più fatta.
    Senza nemmeno riflettere mi lanciai a capofitto nella sua direzione, lasciandomi scivolare lungo il ponte per raggiungerlo più in fretta. Quasi caddi anch’io prima di riuscire a frenarmi bruscamente, abbassando lo sguardo per capire con l’esattezza la posizione di Patrick. Aveva poggiato entrambi i piedi ad una trave che era capitolata fuori dallo scheletro dello scafo, ma a causa dell’acqua che aveva cominciato ad impregnarla risultava scivolosa e poco affidabile.
«Prendi la mia mano, ragazzo!» esclamai non appena riuscii a tenermi a qualcosa, allungando un braccio verso di lui per far sì che mi afferrasse. Cercando di issarsi e di non capitolare di sotto si slanciò un po’, sfiorando la mia mano con due dita. Fece per prenderla ma la presa gli sfuggì,  e rischiò davvero di essere sbalzato fuori dalla nave quando un’altra palla di cannone centrò l’albero di trinchetto. Urlammo entrambi quando lo vedemmo cadere verso di noi, trascinandoci verso il mare senza che potessimo evitarlo. Tentai di issarmi su di esso e vidi di sfuggita Patrick fare lo stesso, gli occhi stralunati e spaventati mentre cercava di rinserrare sempre più la stretta con le braccia intorno all’albero, divenuto ormai la nostra sola e unica speranza.
    «Ehi! State bene, ragazzi?» gridò Cid dalla barra del timone al di sotto del cassero, e anche se non potei vederlo ero certo di sapere con che espressione avesse pronunciato quelle parole.
    «Pensa a portarci lontani da quest’inferno!» esclamai subito dopo in risposta, sperando che mi sentisse nonostante il sibilare del vento. Mi issai meglio sul legno dell’albero e riuscii a raggiungere Patrick, che mi afferrò il braccio con tale forza che quasi temetti volesse strapparmelo letteralmente dall’articolazione. «Tranquillo, ragazzo, tra poco andrà tutto per il meglio!» tentai di rassicurarlo.
    Non sembrò aver capito davvero le mie parole, però annuì bruscamente come se sentisse il bisogno di farlo, provando a lanciare un’occhiata verso l’ammiraglia che si faceva sempre più lontana.
    Riuscimmo a distanziarla solo grazie alla nebbia che era calata a gravare sulla superficie del mare. In verità non ci avevo minimamente sperato, ma fu un sollievo sentire unicamente il suono del nulla vigilare costantemente intorno a noi. Lo sciabordio dell’oceano si era affievolito e anche il fischio del vento era ormai un ricordo lontano, esattamente come la moltitudine di colpi di cannone che ci avevano bombardati fino a quel momento.
    Quando era stato sicuro di aver fatto perdere le nostre tracce alla marina, Cid aveva abbandonato immediatamente la sua postazione e ci era corso in contro, gettandoci una corda a doppio nodo che aveva recuperato in ciò che restava della stiva; era stato lui stesso, poi, a trascinarci via dall’albero, ed era rimasto persino scombussolato quando Patrick si era gettato fra le sue braccia in preda ad un attacco isterico, singhiozzando. Mi aveva quindi gettato un’occhiata perplessa, quasi avesse cercato di chiedermi aiuto, e con un po’ di incertezza aveva poi cominciato a picchiettare la sua schiena nel tentativo di calmarlo, riuscendo solo a provocargli un altro attacco di tremore e a fargli aumentare la presa sui vestiti.
    Adesso era già da una buona mezz’ora che dormiva, sfinito, sull’unico giaciglio presente nella mia cabina, mentre io mi ero concesso un attimo di respiro godendomi un goccio di rum. Seduto sul ponte del castello di prua, che si era miracolosamente salvato da quell’assalto, osservavo il mare che sfrecciava sotto i miei occhi svogliatamente, tenendo la bottiglia per il collo. Che ci tenessimo ancora a galla era un miracolo, ma il cielo sopra di noi era ancora plumbeo e poco rassicurante, come se attendesse il momento esatto per riversare tutta la sua collera sugli ignari marinai.
    «Ce la siamo vista brutta, eh?» Cid, che si trovava nuovamente al timone, aveva parlato con voce pacata e bassa, ma perfettamente udibile. Era rimasto a sua volta scosso da quel che era successo poche ore addietro, e anche se avevo tentato di offrirgli un sorso di liquore aveva bellamente rifiutato.
    Annuii automaticamente, tralasciando il fatto che non potesse vedermi dal punto in cui era. «Non venivamo bombardati così dai tempi della Conqueror», replicai, ricordando i saccheggiamenti che avevamo compiuto a bordo del mio vecchio galeone. Però non c’era davvero paragone con quella bagnarola con cui viaggiavamo adesso.
    Cid sospirò. «È stata colpa mia, Gale, mi spiace», rimbeccò sottovoce. Sembrava davvero dispiaciuto per quanto era accaduto con la marina militare pocanzi, il che era alquanto bizzarro, conoscendolo. «Avrei dovuto lasciar perdere quella stupida mappa».
    «Sta’ zitto e cerca di portarci a riva, Cid», lo spronai, troppo stanco persino per litigare come al solito. In un altro momento gliene avrei dette quattro e l’avrei gonfiato di botte - beccandomi a mia volta un occhio nero, tra l’altro -, ma dopo ciò che avevo passato ero davvero sfiancato. Magari ci avrei pensato una volta ripresomi.
    Cid si zittì e, virando la nave verso ovest, intraprese la rotta che ci avrebbe portati in un luogo sicuro. O almeno quella era la speranza di tutti noi, in quel momento
.
 

 

[1] Letteralmente significherebbe “essere ubriaco” in gergo piratesco.
Già dalle prime righe del capitolo si può benissimo intuire il perché della scelta del titolo.

[2] Nato a Hittisleigh il 23 febbraio del 1689 e morto a Wellfleet il 27 aprile del 1717, il suo vero nome era Samuel Bellamy, ed è stato un pirata britannico dalla carriera assai breve. Difatti non durò più di un anno, ma ciò nonostante lui e il suo equipaggio riuscirono a catturare più di cinquanta navi.
Fu chiamato “Black Sam” perché non portava la tipica parrucca incipriata che andava in voga nel Settecento, ma lasciava in bella vista i suoi lunghi capelli neri, legandoli solo con un laccio. Divenne inoltre noto per la misericordia e la generosità verso coloro che catturava durante le incursioni, tanto da ottenere anche il soprannome di “Principe dei pirati”
La leggenda ufficiale narra che ogni volta che conquistava una nave chiedeva di provarla. Se non la riteneva abbastanza veloce la restituiva al legittimo proprietario e se ne andava per la sua strada.

 
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Capitolo 4
*** [ Atto IV: Roseau › Mar dei Caraibi, 1768 ] Shiver me timbers! ***


Oceani_4 ATTO IV: ROSEAU › MAR DEI CARAIBI, 1768
SHIVER ME TIMBERS!
[1]

    E
ssere riusciti ad arrivare fino a Roseau con quella bagnarola ridotta in quello stato pietoso era un vero e proprio miracolo. Avevo creduto che saremmo affondati ancor prima che la nostra caravella prendesse il largo o giungesse nei pressi di Plymouth, interrompendo così bruscamente il viaggio in cui ci eravamo imbarcati. Invece eravamo sopravvissuti. Contro ogni previsione, certo, ma eravamo sopravvissuti. L’unico problema era che, adesso, quella nave era quasi del tutto inutilizzabile.
    Era ciò a cui pensavo mentre me ne stavo seduto al tavolo di una pessima locanda lì a Roseau in compagnia degli unici due componenti della mia ciurma, che si stavano ingozzando come maiali davanti ai miei occhi. L’aria era asfissiante e puzzava di sudore, carne stantia e whisky scadente, e il caldo era così insopportabile che mi ero liberato della casacca per restare solo in camicia. Patrick e Cid, invece, sembravano non essersi accorti di niente o non farci minimamente caso, troppo intenti a consumare le pietanze che avevano dinanzi con voracità, quasi non mangiassero da giorni. E, beh, quello era quasi del tutto vero.
    Sbuffai sonoramente e abbassai lo sguardo nel mio piatto, scansando svogliatamente qualche pezzo di carne che avevo precedentemente tagliato. A differenza loro, io non avevo tutta quella gran voglia di mangiare. Ero stato tormentato per tutto il viaggio dal pensiero di quella stupida mappa, senza capacitarmi del perché Cid avesse deciso di rubarla. Era sempre stato affascinato da cartacce varie e cimeli antichi, era una cosa di cui ormai ero a conoscenza, però non aveva molto senso di inimicarsi la marina solo per una stupida mappa. Avrei preferito fare qualcosa di più grandioso se proprio dovevo ritrovarmela fra i piedi.
    «Lei non mangia, Capitano?» Alzai lo sguardo non appena la voce di Patrick si fece largo fra i miei pensieri, e sbattei le palpebre per osservarlo in viso. Durante quella nostra traversata di era calmato pian piano e aveva cercato di seppellire momentaneamente nei recessi della sua mente la bombardata che avevamo subito, capendo subito da solo che soffermarsi su quel determinato avvenimento non avrebbe portato praticamente a nulla. Ragazzo intelligente.
    Scossi di poco il capo e fissai Cid, chiedendomi come facesse ad essere così tranquillo ora che ci trovavamo sulla terra ferma. Beh, a ben pensarci non avrei dovuto stupirmi più di tanto. «Dobbiamo procurarci una nave, Cid», lo riportai all’ordine, vedendolo alzare lo sguardo con fare confuso. Aveva la bocca piena ed entrambe le mani occupate, visto che con una reggeva un boccale colmo di liquore e con l’altra la forchetta, sulla quale era stata infilzata così tanta carne che ebbi quasi la netta impressione che alcuni pezzi potessero ricadere nel piatto da un momento all’altro.
    «A quella ci penso io», bofonchiò, sputacchiando qualche frammento di carne prima di annuire convinto e inghiottire. «Ne sceglierò una con le contro palle. Vedrai che ti piacerà da morire, Gale».
    «Sceglierla?» ripeté Patrick, fissandolo attento. «Che significa?»
    «Che la prenderò in prestito, mi sembra ovvio». Mimò la parola con le virgolette non appena ebbe le mani libere, sorridendo divertito nel vedere l’espressione incredula che si era dipinta sul volto del ragazzo. «Andiamo, cosa ti aspettavi? Che andassi lì e la comprassi tranquillamente? Siamo pirati, per tutti i pescecani».
    «Lascia stare il ragazzo, Cid», rimbeccai sarcastico, scostando da me il piatto che avevo dinanzi per concentrarmi invece sul mio boccale. Ignorai il fatto che il mio vice avesse adocchiato il mio cibo e sbuffai, aggiungendo, «Questa non è la sua vita».
    Patrick, però, aggrottò la fronte. «Ma posso imparare», replicò in tono serio, stringendo la presa sulla forchetta e maledicendosi per averlo fatto pochi istanti dopo. Gli avevo fasciato le dita e le mani con delle garze non appena avevo potuto, giacché le ferite che si era procurato non avevano smesso un secondo di sanguinare. Aveva anche un taglio sul viso, ma quello l’avevamo tralasciato perché era poco più di una ferita di striscio.
    Mi grattai la testa, brontolando, «Per essere un pirata devi essere pronto a tutto, anche ad uccidere, se necessario». Lo vidi deglutire e, prima che tornasse ad aprire bocca per ribattere, lo fermai alzando bruscamente una mano. «Non una parola, Patrick. Torna a mangiare».
    Cid non poté fare a meno di ridacchiare per l’espressione che si era dipinta sul volto del ragazzo, che aveva aggrottato le sopracciglia con fare nervoso e incrociato le braccia al petto, gonfiano le guance come un moccioso. Che si arrabbiasse pure; meglio vederlo nervoso che vederlo morto o ridotto ad un pirata della peggior specie. Non che io e Cid fossimo poi dei così bravi ragazzi, però... avevamo i nostri limiti e cercavamo di non superarli, se riuscivamo ad evitarlo.
    Fu proprio a quel punto che, una volta terminata del tutto la propria cena - ed essersi mangiato anche ciò che avevo rimasto nel piatto, dannazione a lui -, Cid tirò fuori dalla tasca quella maledetta mappa che aveva rubato, sorridendo al mio indirizzo. «Guardala, non è fantastica?» mormorò con occhi sognanti, e ci mancò poco che cominciasse a baciare con ardore quel pezzo di carta, neanche si fosse trattato di una donna focosa. «Apparteneva al grande Barbanera in persona, e pare sia stata confiscata anni fa a causa del segreto che gravava su di essa».
    «Che razza di segreto?» domandai con scarso entusiasmo. Per me restava solo una mappa come un’altra.
    «Nessuno lo sa con certezza», rispose. «La marina cerca di capirlo dal giorno in cui l’hanno presa, si dice, ma pare che nasconda luoghi di tesori formidabili. Non mi meraviglio che quel Commodoro volesse tenersela a tutti i costi».
    Sollevai un sopracciglio. «Credi davvero che sia per questo motivo?»
    «E per cos’altro, altrimenti?» mi chiese stralunato, abbassando lo sguardo sulla mappa. Segnava tutto il mar dei Caraibi e le varie isolette che lo popolavano, ma era così logora che diversi punti si erano cancellati, mostrando unicamente zone morte.
    Feci per rispondere, ma al mio posto parlò Patrick. «Non sarebbe poi così strano, conoscendo il Commodoro Waine», ci informò, e ci voltammo entrambi ad osservarlo. Aveva abbassato lo sguardo e fissava ostinatamente il piatto ormai vuoto che aveva dinanzi, la fronte aggrottata per la concentrazione e le mani chiuse a pugno poggiate sulle cosce. «E’ un ufficiale spietato e senza scrupoli, quasi al pari di parecchi pirati che solcano questi mari. Ne ha trucidati a centinaia e ne ha pedinati altrettanti, volendo a tutti i costi assicurarli alla giustizia... peccato che i suoi metodi siano poco ortodossi». La voce gli divenne incerta e arricciò il naso, disgustato. «Come se non bastasse, poi, è uno a cui piace incutere timore persino fra i suoi uomini. Tre mesi fa ha impiccato uno dei suoi sott’ufficiali solo perché l’aveva sentito commentare negativamente il suo modo di agire». Lo vidi rabbrividire sotto i miei occhi, e fu solo a quel punto che alzò lo sguardo su di noi. «Le sue angherie e la sua avarizia non hanno limiti... non mi meraviglierei del fatto che voglia tenersi quella mappa e carpirne il segreto».
    Lo sguardo che ci lanciammo io e Cid non lasciò spazio a fraintendimenti alcuni: quell’uomo, che eravamo sicuri si fosse messo sulle nostre tracce, rappresentava un pericolo che avremmo dovuto evitare per il raggiungimento ultimo del nostro obiettivo. Non potevamo farci fermare da uno stupido ufficiale della marina. «Arricchendosi potrebbe consolidare il suo potere», costatai d’un tratto, grattandomi il mento con fare pensoso, «e la cosa risulterebbe più complicata di quanto non lo sia adesso per ogni singolo pirata del mar dei Caraibi». Scoccai un’occhiata a Cid, dando vita ad un mezzo sorriso sarcastico prima di sporgermi verso di lui per dargli una sonora pacca su una spalla. «Tutto sommato hai fatto bene a rubare quella mappa, figlio d’un cane che non sei altro».
    Abbozzò a sua volta un sorriso, facendo un cenno galante con il capo. «Te l’ho sempre detto che puoi fidarti ciecamente di me, oh mio Capitano», rimbeccò divertito, afferrando il proprio boccale e spronando noi a fare lo stesso. Patrick gli gettò un rapido sguardo prima di prenderlo a sua volta, e lo feci anch’io alzando un po’ lo sguardo al soffitto, brindando con loro per un motivo che neanche noi eravamo sicuri di conoscere.
    Passarono un altro paio d’ore, durante le quali cercammo di fare il punto della situazione e di capire come avremmo dovuto riprendere il nostro viaggio; Cid continuava a dire di voler rubare una nave piccola e veloce che ci avrebbe permesso di prendere il vento in poppa e di seminare eventuali imbarcazioni della marina, mentre Patrick, ancora segnato dall’avvenimento accaduto poche ore addietro, discuteva con lui animatamente e insisteva con il voler prendere qualcosa di più simile ad un galeone - molto più grosso e resistente -, provando a fargli cambiare idea. Dal canto mio, tra l’altro, li lasciavo semplicemente fare. Quel che volevo era semplicemente andarmene il più in fretta possibile da lì e prendere nuovamente il largo, visto che avevamo perso già fin troppo tempo in quella parte del mar dei Caraibi.
    Con le orecchie ormai piene delle chiacchiere di quei due distolsi lo sguardo, facendolo vagare distrattamente in quella bettola come se volessi controllare i clienti presenti; brutti ceffi della peggior specie erano seduti ai tavoli a consumare a loro volta la cena, mentre altri si sollazzavano con le poche donne presenti dai seni prosperosi e in bella mostra. Tutto sommato l’atmosfera era piuttosto vivace, ma essa si frantumò nel momento esatto in cui la porta della locanda si aprì e fece il suo trionfale ingresso un uomo in divisa che mi sembrava di aver già visto, e non ci misi molto a capire di chi si trattasse: il Commodoro Waine alla fine ci aveva trovati.
    Imprecai a denti stretti e, afferrando quegli altri due idioti per la camicia che indossavano, mi fiondai verso il primo muro che riuscii a trovare, portandomeli dietro in fretta e furia e sfruttando esso per nasconderci. Ci misero un po’ a rendersi conto del mio gesto, e prima ancora che Cid potesse aprir bocca per protestare gli voltai la testa verso la ressa della locanda, vedendolo sgranare gli occhi subito dopo. «Dannazione, proprio non molla quel tizio, eh?» sussurrò a mezza voce, lo sguardo ancora puntato sul Commodoro. Si era poggiato con entrambe le braccia al bancone e stava parlando animatamente con il locandiere, sventolando con fare nervoso un foglio spiegazzato dinanzi al suo viso. Non riuscendo a capire che cosa fosse, sgranai gli occhi nel rendermi conto che quello era un manifesto da ricercato, e impallidii nel vedere di sfuggita il volto di Cid su di esso. Ci avevano messo davvero poco a procurarsi un ritratto e a ficcargli una taglia sulla testa, maledizione.
    «Adesso puoi considerarti un vero pirata, Cid», lo sfottei sottovoce, al che lui si girò e mi scoccò un’occhiataccia, nascondendosi poi dietro al muro quando vide il Commodoro volgere uno sguardo nella nostra direzione. Ci rendemmo conto che il locandiere non aveva aperto minimamente bocca solo quando sentimmo il Commodoro imprecare contro di lui, e con la coda dell’occhio lo vidi affiggere quel manifesto al muro accanto al bancone, srotolandone un altro dalla tasca per fissare anche quello accanto al primo. Fu con somma sorpresa che mi accorsi che quello era il mio mandato di cattura, e sebbene non vi fosse scritto alcun nome, quel “Vivo o morto” quasi marchiato a fuoco lasciava benissimo intendere che alla marina importava ben poco. Och, beh, almeno la somma per la mia testa era quella che era. La cosa che mi rallegrò fu vedere che non ce n’era uno anche per il ragazzo. Avrebbe ancora potuto star tranquillo.
    «Se li vedete», cominciò poi il Commodoro, picchiettando l’uno e l’altro con un dito, «dovrete informare immediatamente la marina. Ogni intransigenza sarà severamente punita secondo la legge. Non provate a catturarli... quei due stronzi sono miei». Quelle parole le pronunciò con un ringhio rabbioso prima di continuare. «Hanno con sé anche un ostaggio: un ragazzo magrolino e di media statura, con lunghi capelli castani legati in un codino. Il padre lo rivuole indietro».
    Al mio fianco sentii Patrick sussultare, e si passò le mani sulle braccia come se avesse freddo; lo guardai per capire che cosa gli fosse preso, ma lui ricambiò la mia occhiata e indietreggiò, pestando senza volerlo la coda del gatto della moglie del proprietario. Quest’ultimo miagolò e drizzò il pelo sulla schiena, soffiandogli contro e richiamando l’attenzione del locandiere e del Commodoro, che si voltò nella nostra direzione.
    Ciò che successe in seguito accadde come a rallentatore: il Commodoro sgranò gli occhi nel momento esatto in cui ci vide, imprecando a denti stretti prima di correre verso di noi che, d’altro canto, ce l’eravamo letteralmente data a gambe non appena l’avevamo visto muoversi. Non ci voleva proprio. Avevo sperato di riuscire a sgattaiolare fuori di lì senza farci scoprire, ma a quanto sembrava mi ero sbagliato.
    Imboccammo un vicolo in cui provvidi a rovesciare i barili riposti contro il muro di uno dei palazzi, così da rallentare quel figlio d’un cane che ci veniva ancora dietro; incespicò e quasi rischiò di cadere, ma si mantenne in piedi per miracolo prima di riprendere la sua folle corsa. Tornai a guardare avanti, imprecando a denti stretti. Quel tipo non mollava proprio. «Cid!» Il mio vice si voltò appena verso di me, affrettandosi a riportare lo sguardo dritto dinanzi a sé ed evitando per un pelo una fila di casse di legno. «Porta Patrick con te, io proverò a farmi seguire! Ci rivediamo al porto tra dieci minuti esatti!»
    Non si voltò, ma alzò una mano per farmi intendere d’aver capito. «Vedi di non tardare, idiota!» esclamò di rimando, accostandosi a Patrick e svoltando svelto insieme a lui verso sinistra; lo vidi scomparire in quella stradina nel momento esatto in cui un colpo di pistola mi fischiò sinistramente nell’orecchio, passando oltre. Sgranai gli occhi e aumentai la mia andatura, lanciando un grido allarmato quando un secondo colpo rischiò quasi di centrarmi una gamba. Aveva difatti beccato il marciapiede, ma ci era andato maledettamente vicino.
    Con una capriola, mi gettai a sinistra, inzaccherandomi il giaccone in una pozza di fango creatasi a causa della precedente pioggia; per quanto tenessi a quel logoro e vecchio cappotto non vi diedi momentaneamente importanza, afferrando a mia volta la pistola che tenevo alla cintola per puntarla svelto verso il Commodoro. Non vedendolo più dietro di me, però, mi accigliai. Dove diavolo era finito? La risposta mi giunse così in fretta che quasi capitai a capire esattamente cosa fosse successo, sentendo il sinistro arretrare del cane di una pistola vicino alla mia nuca.
    «La corsa è finita, pirata». La voce del Commodoro mi giunse come uno stridio fastidioso, dovuto forse anche al respiro spezzato dal troppo correre. «Metti immediatamente giù quell’arma e tieni le mani ben in vista».
    Obbedii, pur non avendone la benché minima intenzione. Quel tipo, però, sembrava più che intenzionato a sparare, e io non volevo di certo concludere lì la mia vita. Mi portai le mani dietro alla nuca e sfiorai inavvertitamente la pistola, sentendone il metallo freddo a contatto con le dita; quella stessa arma piombò a colpirmi il capo con furia, mandandomi quasi al tappeto. Boccheggiai e socchiusi gli occhi, attendendo il momento esatto per fare qualcosa... ma cosa?
    «Niente scherzi», mi redarguì il Commodoro. «Chi di voi due fottuti bastardi ha la mia mappa?»
    Deglutii e mi umettai le labbra. «Non ho idea di cosa stia parlando, Commodoro», replicai, sforzandomi di essere il più credibile possibile, almeno per quanto concessomi dalla situazione in cui versavo.
    Lui mi assestò un altro potente e violento colpo alla testa, nervoso. «Non ti conviene giocare con me, ragazzo», sibilò, afferrandomi per i capelli e portandomi alla sua stessa altezza. Potei così fissarlo con attenzione in viso, scorgendo le pressappoco invisibili cicatrici che lo deturpavano. Ne aveva una che gli percorreva lo zigomo destro e uno svariato reticolo sul lato sinistro del viso, un ammasso cicatriziale così fitto che mi sembrava quasi impossibile che non le avessi viste fino a quel momento. Quelle erano la chiara testimonianza che si era sempre sporcato le mani, facendo tutto da solo. «Consegnatemi la mappa e vi lascerò andare; non me ne faccio nulla delle vostre misere taglie».
    Sentii il calore del sangue lungo il viso e quasi faticai a tenere gli occhi aperti a causa del nuovo colpo che mi centrò in pieno viso, facendo scricchiolare orrendamente la mia mascella. Quel marinaretto ci stava andando giù pesante, ma non avrei mai venduto i miei compagni per aver salva la vita. Sarei morto piuttosto che disonorarmi in quel modo. «La mappa», biascicai, leccandomi via il sangue dalle labbra, «dovrà andare a litigarsela con gli squali, Commodoro».
    «Non mentire, pirata», replicò adirato. «Tu e il tuo amichetto vi credete furbi, eh?» Mi afferrò per il colletto della camicia e mi issò da terra con forza incredibile, tanto che i miei piedi quasi non sfiorarono più il terreno sottostante, ciondolando. «Mi state sottovalutando».
    Aprii piano un occhio e tentai di rispondergli, ma in quel mentre un cupo rimbombo risuonò nell’aria e una spruzzata di sangue mi inzaccherò il viso, proprio nel momento esatto in cui il Commodoro allentò la presa e mi lasciò; le sue grida disarticolate mi riempirono le orecchie, e fu tossendo che alzai lo sguardo su di lui, vedendolo con una mano convulsamente stretta sul proprio avambraccio. Perdeva copiosamente sangue, e brandelli di stoffa e carne erano ricaduti a formare una pozza più scura del fango.
    «È lei che sottovaluta noi», dichiarò infine una voce, e voltandomi nella direzione da cui proveniva vidi la figura sfocata di Cid, che reggeva la propria pistola e la puntava verso di noi. «La prossima volta tenga giù le mani dal mio compagno, Commodoro».
    «Brutto bastardo!» sputacchiò quest’ultimo, agguantando con una mano insanguinata la propria arma; la puntò verso Cid e fece fuoco, colpendolo ad una spalla solo perché lui non fu abbastanza rapido da scansarsi.
    Vedendolo barcollare, gridai «Cid!», ma nel momento stesso in cui provai a rimettermi in piedi le mie gambe cedettero inesorabilmente. Imprecai, sentendo un altro colpo di pistola riempire sinistramente l’aria; alzai la testa di scatto e fissai Cid ad occhi sgranati, vedendo la camicia che indossava praticamente imbrattata di sangue. A cadere, però, fu il Commodoro. L’espressione sgomenta sul suo viso era come marchiata a fuoco, e crollò al suolo lasciando gradualmente andare la pistola che reggeva, colpito in pieno stomaco; boccheggiò e tossì sangue, tentando inutilmente di girarsi su un fianco per riprendere quella lotta che aveva ingaggiato.
    Cid approfittò proprio di quel momento per correre verso di me, allontanando con un calcio la pistola dalla portata del Commodoro prima di chinarsi e afferrarmi per un braccio, facendo in modo che gli circondassi le spalle con esso. «Ce la fai a camminare?» mi domandò preoccupato, ma lo colpii con un violento pugno in testa, ignorando i suoi lamenti.
    «Idiota!» esclamai, lasciandomi però trascinare via da lì, lanciando un’ultima rapida occhiata al Commodoro. Tentava ancora di rimettersi in piedi e di inseguirci... che tipo tenace. In fondo era un peccato doverlo lasciare al proprio destino. Socchiusi gli occhi, continuando a prendermela poi con quello stupido del mio vice. «Sei ferito più di me, che diamine avevi in testa?!»
    Cid strinse gli occhi, dando vita ad una smorfia. «Sono solo colpi di striscio, pirata isterico che non sei altro», sbottò. «E’ questo il tuo ringraziamento per essere venuto a salvarti?»
    «Sei comunque un idiota! Non avevo bisogno del tuo aiuto, me la stavo cavando alla grande!» rimbrottai, conscio che si trattasse di una bugia bella e buona. Ma, ehi, avevo il mio orgoglio, io, dannazione! Ero pronto ad inveirgli contro ancora una volta, ma, inaspettatamente, Cid mi caricò letteralmente sulle spalle, lasciandomi basito. Scombussolato, imprecai contro di lui e tentai di farmi mettere giù, lasciandogliela ben presto vinta a causa dei giramenti di testa che mi avevano assalito. «Guarda che non ti ho perdonato, anche se mi stai portando in spalla», borbottai. «Saresti dovuto restare al porto e aspettarmi».
    «Ho avuto un brutto presentimento», replicò senza tanti giri di parole. «E come vedi ci avevo visto giusto». Quando continuò, sentii dalla sua voce che stava sorridendo. «In compenso, però, ti ho procurato una signora nave».
    Mi issai un po’ e mi portai una mano alla fronte, lasciandomi sfuggire uno sbuffo divertito nonostante tutto. «Ti conviene sperare che sia davvero così, Cid», replicai. «Ti conviene proprio sperarlo». Non attesi poi risposta, accasciandomi contro di lui per poggiare la testa sulla sua schiena, concentrato sul ritmico sobbalzare che compiva il suo corpo ad ogni rapida falcata. Attraverso l’orlo delle ciglia vidi sfrecciare davanti ai miei occhi case dai muri tutti uguali e scalinate che portavano alla parte alta della città, dove risate e schiamazzi si sentivano nell’aria e rallegravano l’ambiente; le luci cominciavano ad affievolirsi in direzione del mare, e il suono della risacca sovrastò ben presto il rumore creato da voci umane.
    «Cid! Capitano Gale!» La voce di Patrick proveniva dal fondo della banchiglia, e alzando lo sguardo oltre il capo di Cid potei vederlo agitare le mani e le braccia per farci cenno di sbrigarci. Quando fummo ad una certa distanza e il mio vice mi rimise giù, poi, riuscii a scorgere sul suo viso i segni della preoccupazione. «Cos’è successo?» gracchiò spaventato. «Siete coperti di sangue!»
    Assicuratosi che io mi mantenessi in piedi senza bisogno di aiuto, Cid gli si avvicinò e gli diede un’amichevole pacca su una spalla, abbozzando un sorriso. «Rilassati, ragazzo. Questo sangue non è nostro», mentì, tappandogli immediatamente la bocca con una mano quando lo vide in procinto di parlare ancora.
    Voltandosi verso di me, poi, allargò il sorriso e, ignorando gli strepiti soffocati di Patrick, mi indicò con la mano libera un vascello alla nostra destra, le cui vele nere erano già state tirate giù e sventolavano nel vento serale. Era la più grossa nave che avessi mai visto dopo la Conqueror. «La Cruises Fear», dichiarò solenne. «Benvenuto a bordo della sua nuova nave, Capitano»
.
 

 

[1] Espressione di sorpresa oppure di paura.
La scelta del titolo sarà chiara mano a mano che si andrà avanti con la lettura del capitolo.


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Capitolo 5
*** [ Atto V: Cruises Fear, Cabina del Capitano › Mar dei Caraibi, 1768 ] Dead men tell no tales ***


Oceani_5 ATTO V: CRUISES FEAR, CABINA DEL CAPITANO › MAR DEI CARAIBI, 1768
DEAD MEN TELL NO TALES

    Anche se ci trovavamo sottocoperta, mi sembrava di sentire l’odore del mare e della libertà.
    Non mi ero mai realmente soffermato su queste due singole parole, ma da quando la nostra vita aveva ricominciato a farsi davvero avventurosa avevano acquistato un significato tutto nuovo, quasi si fosse trattato di parole assolutamente diverse: l’arruolamento di Patrick, la fuga da Porto Rico, l’attacco della marina ai danni della nostra caravella, le taglie sulle nostre teste e l’inseguimento del Commodoro Waine lì a Roseau... avevano fatto in modo che mi sentissi nuovamente vivo, un pirata come avevo sempre sognato di essere, quasi al pari del mio compianto padre. E tutta l’adrenalina che avevo accumulato durante quel nostro viaggio sembrava essere ancora in circolo, sebbene ci trovassimo momentaneamente in una situazione di stallo.
    La nostra destinazione era ancora parecchio lontana e ci sarebbero voluti giorni, se non mesi, per riuscire quanto meno a trovarci nei paraggi, e inoltre si era aggiunto il ritrovamento di quella mappa che, ne ero certo, ci avrebbe fatto perdere ancora più tempo. Purtroppo sapevo che avevo ormai i minuti contati e che dovevo affrettarmi a raggiungere quel determinato luogo in mezzo all’oceano, dunque non potevo pensare anche ad eventuali luoghi immaginari colmi di tesori, per quanto essi mi tentassero.
    A quei miei stessi pensieri sospirai, gettando un’occhiata alla mia ciurma: Cid, che si era occupato lui stesso di fasciarmi la ferita alla testa prima di occuparsi del proprio braccio, se ne stava seduto a lucidare la sua pistola come se si stesse preparando ad un altro possibile scontro, mentre il ragazzo ammazzava il tempo giocherellando con qualcosa che ricordava vagamente un doblone; sebbene avessi cominciato ad fissarlo distrattamente, sbadigliando in preda alla noia, quando mi resi davvero conto di cosa fosse sgranai gli occhi e spalancai la bocca, avvicinandomi a lui così rapidamente che quasi sussultò quando gli fui ad una spanna dal viso. «Dove l’hai preso?» gli domandai incredulo, osservando quella patacca come se non credessi alla sua esistenza. Grande quanto un doblone, sopra vi era raffigurata una tigre e, intorno ad essa, vi erano incise delle scritte in aramaico 
[1] che non avevo mai tradotto. Quello era l’unico esemplare di un antico tesoro che mio padre aveva rubato tempo addietro nelle Bermuda, ne ero certo. Perché diamine ce l’aveva quel moccioso?
    Lui si strinse nelle spalle, chinando lo sguardo per fissare con fare afflitto i legacci dei suoi stivali. «Quando sono arrivato a Porto Rico l’avevo già con me», mi rispose, evitando di guardarmi come se avesse fatto una brutta cosa. «L’ho sempre considerato un portafortuna».
    «Hai detto che mastro Garrington ti ha trovato e ti ha accolto, giusto? Che altro ricordi di quel giorno?» indagai, fissandolo attentamente come se cercassi di sondare la sua anima semplicemente facendolo. C’era qualcosa che non quadrava, in quella storia, e avrei fatto luce su di essa in un modo o nell’altro.
    «Senta, Capitano, ma questo che importanza ha?»
    «Rispondi alla mia domanda e basta, ragazzo».
    «Ti conviene fare come dice», si intromise Cid, che fino a quel momento se n’era rimasto in disparte a lucidare la sua cara pistola. Era seduto sulle casse gettate lì nella stiva con una gamba ciondoloni, e il suo viso esprimeva un’indifferenza tale e una noia così profonda che avrebbero anche potuto dirgli che l’Olandese volante
 [2] si aggirava nei pressi del porto senza che battesse ciglio minimamente. «Potrebbe continuare a farti la stessa domanda in eterno, e alla fine per non sentirlo l’unica cosa che vorresti fare sarebbe puntargli una pistola alla testa e fargli saltare le cervella».
    Alla faccia del compagno che avevo! «Grazie, Cid, tu sì che mi sei d’aiuto», ironizzai, vedendolo però sollevare un angolo della bocca in un sorriso e farmi un cordiale cenno del capo con il cappello piumato che indossava.
    «Quando vuole, oh mio Capitano», mi prese in giro a sua volta, tornando ad occuparsi della propria arma e lasciando finalmente a me il compito di occuparmi del ragazzo. Era già difficile farlo parlare chiaro senza che ci si mettesse anche il mio vice a fare dell’ironia.
    «Ricominciamo da capo, Patrick», mi sforzai di essere cordiale, chiamandolo persino per nome invece di usare altri appellativi. Mi ero anche seduto, quasi potesse realmente servire. «Cosa ricordi di quel giorno?»
    Lui si grattò dietro la testa e cominciò a guardarsi intorno, lanciando di tanto in tanto delle occhiate furtive a Cid come se volesse cercare in qualche modo il suo aiuto. Restio a parlare, al principio, decise finalmente di spiegarsi solo dopo che iniziò a giocherellare con il doblone, rigirandolo fra le dita. «Vedevo rosso ovunque», disse sottovoce, quasi temesse di star dicendo la cosa sbagliata. «Però è difficile dire di cosa si trattasse davvero. Non so se fosse semplicemente il tramonto riflesso sul mare o qualcosa che andava a fuoco». Si interruppe, però io mi ritrovai a sgranare ancora una volta gli occhi. Le coincidenze erano troppe, davvero troppe. Ma ero sicuro quasi al cento per cento che la persona che conoscevo io fosse scomparsa sei anni prima, e avevo creduto alle voci che lo davano ormai per morto. Quel ragazzo non poteva essere chi credevo che fosse. Allora perché il mio cuore si ostinava a sperarlo? «Ricordo anche la nausea che mi aveva provocato l’oscillazione di una nave in balia delle onde», continuò, riscuotendomi. «Sono stato trovato sulla riva, poco distante dal porto, e sono quasi certo che ero imbarcato su una nave. Ma oltre a questo non ricordo altro, a parte qualche parola confusa».
    «Chi era colui che le pronunciava? E cosa diceva?» insistetti, venendo ammonito da Cid che mi lanciò contro lo straccio che aveva usato fino a quel momento per pulire la sua pistole.
    «Dagli tempo, dannazione», sbottò tranquillo. «Se fai tutte queste domande insieme lo confondi, quel povero ragazzo».
    Assottigliai lo sguardo nella sua direzione. «Tu vedi di farti gli affari tuoi».
    «Ehi, Cid, Capitano», ci richiamò subito Patrick. «Non c’è bisogno di discutere, sul serio. Ho solo sentito qualcuno che canticchiava una bassa nenia, qualcosa tipo “L’alba non c’è ancora” o simile».
    A quel suo dire stornai bruscamente lo sguardo su di lui per fissarlo attentamente con tanto d’occhi, spalancando la bocca con fare incredulo. «“L’alba è ancor lontana, ma la notte non ci fa paura”... era una cosa del genere?»
    Gli occhi di Patrick si illuminarono. «Aye, proprio quella!» esclamò tutto contento, ma io lo osservai basito e dilatai gli occhi, non credendo alle mie orecchie. Mi alzai così velocemente che rivoltai la sedia all’indietro e feci sussultare sia Cid sia Patrick, che mi fissarono come se si stessero chiedendo cosa mi fosse preso così all’improvviso.
    Troppo scombussolato, però, diedi loro le spalle e corsi come una furia fuori dalla cabina, seguito dalla voce di Cid che mi urlava di tornare lì. Non mi presi la briga di voltarmi né tanto meno di rispondere, salendo svelto sul ponte per rifugiarmi dietro al cassero, portandomi le mani alla testa per intrecciare le dita fra i capelli. Mi lasciai scivolare a terra a gambe spalancate, fissando basito un punto indefinito. Tutte quelle conferme, le parole del ragazzo, quella patacca proveniente dalle Bermuda... nay, non potevano essere solo coincidenze, tanto meno la canzone che soleva cantare mia madre quando mio padre prendeva il largo per mesi e mesi.
    Me ne restai lì fuori ad osservare il cielo nero trapunto di stelle per chissà quanto tempo, con l’alone argentato della luna che rendeva il legno della nave quasi spettrale. Persino le vele, che si gonfiavano con il vento che soffiava da ovest, erano simili ad enormi e spaventose creature emerse dai fondi più oscuri e terrificanti dell’oceano.
    A distrarmi furono dei pesanti passi sulle assi del ponte, ma non ebbi bisogno di alzare lo sguardo per capire di chi si trattasse. «Gale, idiota», mi apostrofò Cid, «si può sapere che ti è preso? Io e il ragazzo ci siamo spaventati».
    «Il ragazzo», ripetei senza guardarlo, nascondendomi il viso con il palmo di una mano. Avevo anche chiuso gli occhi, come se servisse. «Dobbiamo riportare il ragazzo a Porto Rico, Cid. Non può più venire con noi».
    Sentii il più completo sconcerto nella sua voce quando infine parlò, «Pochi giorni fa dicevi l’esatto contrario», annotò. «Per non parlare poi del tempo che impiegheremo nel cambiare rotta. Ma perché pensi questo, adesso?»
    Strinsi i denti, imprecando. «Voglio che scenda da questa nave. Immediatamente. Il triangolo delle Bermuda è un posto pericoloso, per il ragazzo».
    «Ma che diamine ti prende?» Lo sentii avvicinarsi maggiormente a me a passi pesanti e veloci, e fu lui stesso ad allontanarmi la mano dal viso per costringermi a guardarlo. «Anch’io mi sono un po’ affezionato al ragazzo, Gale, ma venire con noi è stata una sua scelta», mi fece notare. «Che diritto hai di prendere decisioni al suo posto? E’ un uomo, per la miseria».
    Che diritto avevo? Eh, avevo più diritti di quel che credessi anch’io al principio, il che non era cosa da poco. Così trassi un sospiro, socchiudendo le palpebre per non guardare né lui né tanto meno la luce della luna che si frammentava sulle onde dell’oceano. «Quel ragazzo... credo che non si chiami Patrick, Cid», cominciai, dando finalmente voce alla mia ipotesi. Forse farlo mi avrebbe convinto che non stavo sognando. «Il doblone che ha con sé, il bagliore rosso che dice di aver visto, la canzone che ricordava... quella era la canzone che mia madre cantava a me e a mio fratello».
    «E questo cosa diavolo centrerebbe con...» iniziò, interrompendosi tutto d’un tratto quando la sua mente realizzò ciò che avevo tentato di dirgli. Attraverso l’orlo delle ciglia lo vidi sgranare gli occhi, sgomento, sbattendo poi le palpebre più e più volte mentre boccheggiava. «Credi... credi sul serio che quel ragazzo sia Jim?» mi chiese con fare guardingo, con voce bassa e appena percettibile da orecchio umano. «Gale, amico... non puoi aver semplicemente preso un abbaglio?»
    «So quel che dico, Cid, dannazione», scompigliandomi furente i capelli prima di aprire gli occhi e fissarlo con attenzione in viso. «Non riuscivo a crederci neanche io, però...» mi interruppi, lasciando sfumare la voce ed abbassando ancora una volta la testa. Volevo aggrapparmi alla speranza che fosse davvero come credevo, ma al tempo stesso non volevo farmi illusioni su quella mia stramba supposizione se essa si fosse rivelata sbagliata.
    Avevo perso mio fratello Jim sei anni prima, quando la cittadina in cui vivevamo era stata presa di mira da una flotta di pirati che era sempre stata contro mio padre. Prima che morisse in mare era difatti stato il più grande pirata che avessi mai conosciuto, ed era stato anche per quel motivo che io avevo deciso di seguire le sue orme e salpare alla volta dei sette mari.
    Quel giorno di sei anni addietro mi stavo per l’appunto apprestando ad intraprendere quel lungo viaggio. Avevo radunato le mie cose e, salutati mio fratello e mia madre, avevo lasciato la nostra abitazione con un sorriso, attraversando le vie della città in direzione del porto. Era stato proprio in quel mentre che si era scatenato l’inferno in terra: il cupo suono dei cannoni e il sinistro sibilo dei colpi aveva infranto la quiete notturna del luogo, svegliando la popolazione e gettandola in preda al panico; l’odore della polvere da sparo si era diffuso ovunque, e ben presto le strade erano state ghermite da centinaia di pirati travestiti da uomini della marina, ognuno armato di spada e pistola. Chi tentava di scappare veniva subito trucidato, e a nulla era valso tentare di combatterli. Gli uomini del villaggio si erano comunque muniti di armi per scacciare gli invasori, e anch’io avevo preso parte alla rivolta tentando di portare con me più pirati possibili. Se fossi morto nel tentativo di difendere la mia gente, quei filibustieri mi avrebbero fatto compagnia all’inferno. Peccato però che, mentre ero intento a salvaguardare la parte bassa della città, i pirati avessero raggiunto i quartieri residenziali, razziando case e rapendo donne e bambini. Mio fratello era stato tra questi.
    Quando tutto era finito e i pirati avevano lasciato il villaggio, ero corso a casa così in fretta che le gambe avevano cominciato a farmi male; dinanzi alla porta, però, mi ero accasciato a terra lasciando cadere la spada, fissando il corpo privo di vita di mia madre, il cui viso insanguinato era stato sinistramente illuminato dalle fiamme arancioni che divoravano le abitazioni. E da quel momento avevo creduto che anche il mio fratellino fosse morto o stato venduto come schiavo, convinto persino dalle voci che si sentivano in giro riguardo quella stessa nave pirata che ci aveva attaccati. Sapere adesso che quel Patrick poteva essere in realtà Jim, sebbene stentassi ancora a crederlo, alimentava almeno in parte la fiamma di speranza che si era affievolita in me esattamente sei anni prima.
    «Non farne parola con il ragazzo», raccomandai infine a Cid a mezza voce, ostinandomi a guardare le assi di legno di cui era composto quel ponte trasandato.
    Lui trasse un lungo sospiro, quasi avesse voluto aggiungere altro, ma si limitò semplicemente ad annuire prima di chinarsi di poco verso di me, alzandomi il viso con due dita e poggiando appena le labbra sulle mie, con un tocco leggero e quasi inesistente. «Sta’ tranquillo, Gale», sussurrò. «Gli uomini morti non raccontano storie
 [3]».
 

 

[1] Lingua semitica che vanta circa 3.000 anni di storia. In passato fu lingua di culto religioso e lingua amministrativa di imperi. E’ la lingua in cui furono in origine scritti il Talmud e parte del Libro di Daniele e del Libro di Esdra. Essa era una lingua parlata correntemente in Palestina ai tempi di Gesù. Attualmente, l’aramaico è utilizzato nei villaggi di Ma’lula, Jabadin e Bakha, in Siria.

[2] Secondo il folklore nord-europeo, l’olandese volante è una nave fantasma che solca i mari in eterno senza una meta precisa, e a cui un destino avverso impedisce di tornare a casa. Viene spesso avvistata da lontano, avvolta in una nebbia o emanante una luce spettrale. I marinai della nave sono fantasmi, che tentano a volte di comunicare con le persone sulla terraferma.

[3] Tipica espressione piratesca utilizzata come scusa per non lasciare sopravvissuti.
Richiamando anche il titolo del capitolo stesso, motivo per cui non è stato segnato precedentemente fra le note, in questo caso sta solo ad indicare che Cid si tapperà la bocca come se fosse un uomo morto.
C’è anche un secondo motivo di fondo che si chiarirà andando avanti con la storia.


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Capitolo 6
*** [ Atto VI: Cruises Fear, Ponte di comando › Mar dei Caraibi, 1768 ] Yo-ho-ho! ***


Oceani_6 ATTO VI: CRUISES FEAR, PONTE DI COMANDO › MAR DEI CARAIBI, 1768
YO-HO-HO!
[1]
 
    Perdemmo il conto dei giorni che passammo in mare, nelle settimane che seguirono.
    L’ago della nostra bussola aveva continuamente girato a vuoto come se fosse impazzito, ed era stato difficile orientarsi senza avere una rotta esatta da seguire. Ovunque guardassimo c’era solo un’enorme distesa di acqua salata, e lo scorgere di un misero angolo di vegetazione mi sembrava ormai un’utopia. Mi massaggiai stancamente gli occhi con due dita, appostato nei pressi della polena; era ormai da parecchie ore che non abbandonavo quella postazione, forse nella vana speranza di scorgere almeno un lembo di terra su cui attraccare. Le provviste e l’acqua scarseggiavano, e non ero certo di sapere quanto tempo ancora avremmo potuto resistere in quelle condizioni.
    Cid aveva passato le ultime tre notti al timone e alla barra, incaricando Patrick di occuparsi delle vele ogni qual volta ne veniva richiesta l’occasione. Capitava difatti molto spesso che il clima variasse, e durante quella nostra traversata ci eravamo imbattuti in ben quattro temporali che avevano quasi rischiato di distruggere l’albero maestro e strappare le vele. Per quanto in quel momento il mare fosse una tavola piatta e calma che si increspava solo al nostro passaggio, sapevo che bisognava tenere gli occhi aperti per non rischiare di imbattersi in spiacevoli e improvvise sciagure. L’oceano non risparmiava nessuno.
    Lo stridente richiamo di un gabbiano mi fece alzare lo sguardo verso il cielo terso sopra di noi, riaccendendo un barlume di speranza in tutto il mio essere; non dovevamo essere ancora molto distanti dalla terra ferma se quell’uccello si era spinto a caccia fin lì. Dovevamo dunque cercare di resistere ancora per un po’, per quanto sembrasse che vagassimo alla cieca fra quei mari.
    Mi stavo finalmente apprestando ad allontanarmi da lì quando la nave compì una brusca virata, e poco ci mancò che finissi a gambe all’aria; riuscii a mantenermi appena in tempo alla balaustra e ad avere al contempo una visione piuttosto ravvicinata di uno dei cannoni sottostanti. Cid aveva insistito con il prepararli se mai la marina ci avesse inseguiti, e non me l’ero proprio sentita di dargli torto. Dopo l’ultima volta eravamo diventati tutti un po’ guardinghi quando si trattava di certe cose.
    La Cruises virò bruscamente ancora una volta e caddi rovinosamente all’indietro; rotolai sul ponte prima di andare a sbattere con la schiena contro l’albero di mezzana, imprecando a denti stretti. Che diavolo stava combinando quell’idiota di Cid? Mi rialzai a fatica e cercai di raggiungere la cabina al di sotto del cassero, così da potermi accertare io stesso delle condizioni del timone e della barra.
    Arrivato infine alla porta la spalancai di malagrazia, ed fui più che pronto a sbottare contro il mio vice degli insulti quando mi resi conto che non era lui a manovrare la nave, bensì Patrick: cercava di ruotare il timone lottando contro le correnti che trascinavano la Cruises, con la fronte imperlata di sudore e le sopracciglia aggrottate dalla concentrazione. «Che diamine stai facendo, ragazzo?» lo richiamai con uno sbuffo, vedendolo sussultare.
    Rischiò di mollare il timone ma si affrettò a rinserrare la presa, riconcentrandosi sulla navigazione come avrebbe fatto un vero timoniere. «Cid non riusciva più a tenere gli occhi aperti, quindi l’ho sostituito», mi informò, asciugandosi il sudore con la manica della camicia. «Però è più difficile di quanto pensassi».
    Alzai lo sguardo al soffitto, avvicinandomi a lui per scansarlo di malo modo e afferrare il timone con una mano. «La prossima volta che succede vieni a chiamarmi, ragazzo», borbottai, gettandogli una rapida occhiata. «Potevamo rischiare grosso». E l’oscillazione della Cruises ne era stata la prova lampante. Lo vidi annuire con la coda dell’occhio e ficcarsi le mani nelle tasche, non prima di essersi grattato dietro la nuca in preda all’imbarazzo.
    Sbuffai. Quel ragazzino faceva sorgere un lato di me che odiavo, forse perché, in fondo in fondo, rivedevo me stesso alla sua età. Ma di cosa mi stupivo? Seppur da poco, avevo scoperto che Patrick era in realtà mio fratello, per quanto ancora non riuscissi a credere davvero a ciò che io stesso avevo formulato nell’ascoltare la sua testimonianza. «Va’ immediatamente a svegliare quell’idiota invece di ciondolare, Patrick», gli ordinai in tono schietto, così da provare al tempo stesso ad allontanare la sensazione che mi aveva investito. «Digli di occuparsi delle vele e poi sali di vedetta; appena scorgi anche un solo sputo di terra, urla con tutto il fiato che hai nei polmoni».
    Non ne fui realmente certo, ma i suoi occhi sembrarono illuminarsi di un qualcosa che non riuscii a comprendere appieno. «Signorsì, signor Capitano!» esclamò raggiante prima di scattare fuori dalla cabina, e la cosa mi lasciò interdetto. Chi l’avrebbe mai detto che persino i lavori più insignificanti e umili l’avrebbero mandato in fermento; dava proprio l’impressione di essere un mocciosetto alla continua ricerca di qualche avventura e modo per rendersi utile, poco importava che dovesse raggiungere il suo scopo in modi ben poco ortodossi.
    Sorrisi appena e scossi il capo, ruotando il timone di altri venticinque gradi. Le cose sarebbero state diverse se il nostro villaggio non fosse stato attaccato, ne ero certo: crescendo, forse, Patrick avrebbe deciso di intraprendere la vita del pirata come avevo fatto io seguendo le orme di mio padre, e mio nonno prima di lui; ci saremmo imbarcati insieme e avremmo avuto un luogo a cui fare ritorno, non un cimitero costellato da sentieri impervi e rocce appuntite. Ma ben sapevo che continuare a rimuginare sul passato era inutile, dunque dovevo mettermi il cuore in pace; niente sarebbe stato più come un tempo, forse nemmeno se avessi raccontato a Patrick la verità sulla sua identità.
    «Capitano!» La voce improvvisa di Patrick, che tra l’altro aveva fatto un po’ troppo in fretta a tornare su, sembrò penetrarmi nel cervello, e pochi attimi dopo entrò in cabina come una furia, sbattendo la porta senza rendersene pienamente conto. Respirava a fatica e sembrava trafelato, quasi avesse corso fin lì senza fermarsi un attimo.
    «E adesso che cosa c’è, ragazzo?» sbottai, ruotando il timone di settanta gradi senza prendermi la briga di voltarmi. «Ti avevo dato degli ordini, mi sembra».
    Si grattò un braccio, come se fosse incerto sul da farsi. «Riguarda Cid, Capitano», mi informò in un mormorio sordo, e forse fu a causa dell’urgenza che avvertii nel tono della sua voce che stornai bruscamente lo sguardo su di lui.
    Mi accigliai. «Cid?» ripetei, vedendolo umettarsi le labbra.
    «Non so che cos’abbia, ma appena gli ho sfiorato una spalla per svegliarlo si è lamentato», esalò tutto d’un fiato, mordicchiandosi il labbro inferiore.
    Dal canto mio, imprecai a denti stretti non appena assimilai con esattezza quelle parole. Se avevo visto giusto, c’entrava qualcosa lo scontro che aveva avuto con il Commodoro un po’ di tempo addietro. «Quel dannato idiota», borbottai fra me e me, allontanandomi. «Tieni il timone, Patrick, e cerca di mantenere costantemente questa rotta», gli intimai senza preamboli. «Se siamo fortunati è quella giusta».
    Ciò detto lasciai tutto nelle sue mani e mi affrettai a raggiungere la cabina sottocoperta, sicuro più che mai che Cid si fosse rintanato lì per riposare. Avanzai a grandi falcate nel lungo corridoio in penombra, giungendo a destinazione così in fretta che quasi faticai ad avvedermene; spalancata la porta trovai il mio vice seduto sulla branda, con il petto nudo coperto di graffi e lividi. Una sottile linea di sangue gli correva lungo il braccio destro, e, sebbene l’avesse lavata con dell’acqua e del rum, la ferita frastagliata provocata dal colpo di pistola appariva gonfia e rossa, come se stesse andando in suppurazione. «Avrei dovuto immaginarlo», sbottai, richiudendomi la porta alle spalle.
    Cid non si degnò di guardarmi, limitandosi soltanto a bagnare la ferita con un panno. Stringeva i denti dal dolore, e con essi si mordeva il labbro inferiore per non lasciarsi sfuggire nemmeno il più piccolo lamento. «Non è niente», rimbeccò, abbandonando il panno sulla branda prima di allungare l’altro braccio verso i suoi piedi, dove aveva riposto ago di balena, spago e bende. «Ho incassato colpi peggiori di questo».
    La cosa avrebbe forse dovuto rassicurarmi? Sollevai un sopracciglio con aria scettica, sbuffando e poggiandomi contro il muro di legno della cabina. «Och, non ne dubito. L’ho sempre saputo che hai la pellaccia dura», ironizzai.
    «Allora fammi il favore di piantarla», replicò immediatamente senza cogliere il sarcasmo delle mie parole, infilando lo spago nella cruna prima di farci un nodo all’estremità; portò poi la punta dell’ago verso la candela accesa sulla cassa riposta alla sua destra, sterilizzandolo ben bene. Quando tempo addietro avevamo viaggiato a bordo della Conqueror aveva imparato dal medico di bordo le basi della medicina, ed era stata una vera e propria fortuna, a ben pensarci. Non ci saremmo mai aspettati un ammutinamento da parte della ciurma, e quei giorni passati da soli su quella sottospecie di barchetta sarebbero stati un sicuro inferno se uno di noi due si fosse ammalato senza che l’altro sapesse cosa fare.
    Decisi di non prestargli attenzione, andando a prender posto sulla cassa ormai vuota delle vivande. Osservai, poi, Cid apprestarsi a suturare la ferita, infilando la punta dell’ago nella carne per ricucire i lembi; imprecò a denti stretti lanciando insulti a mezza voce, ma fu difficile dire a chi o che cosa si stesse riferendo e soprattutto contro chi li stesse lanciando. Quando alla fine terminò, raccattò le bende e bofonchiò, «Non guardarmi in quel modo, Gale. Mi fascio la ferita e torno al timone; la nave balla che è una meraviglia», soggiunse, e fui più che certo che il suo fosse sarcasmo. Beh, se riusciva a scherzare significava che tutto sommato stava alla grande.
    Alzai lo sguardo e sbuffai. «Non cambierai mai, razza di idiota», replicai esasperato. «Tu e il tuo fottutissimo orgoglio».
    Per la prima volta da quando avevamo preso il largo, Cid sorrise. Sembrava che il buon umore fosse tornato sul suo viso come se qualcuno ce l’avesse appena appiccicato sopra, visto il repentino cambiamento che aveva avuto. «Non ti piaccio forse per questo?» scherzò, distogliendo la sua attenzione da me per applicare la fasciatura; ne afferrò un lembo con i denti e strinse il più possibile, così da evitare che potesse sciogliersi.
    Io restai lì per lì scombussolato da quanto aveva appena detto, sbattendo persino le palpebre con fare perplesso. Bofonchiai poi qualcosa fra me e me, forse vagamente imbarazzato, affrettandomi a dargli le spalle e a riaprire la porta. «Non sparare cazzate, pirata», sbottai al suo indirizzo, uscendo dalla cabina con la sua risata al seguito. Ero appena salito per raggiungere Patrick quando quella furia del mio vice mi sorpassò in fretta - senza che io me ne rendessi conto, tra l’altro -, e lo sentii esclamare «Virare a prua!» nel momento esatto in cui mi affrettai ad entrare anch’io; forse fu di riflesso che Patrick eseguì e ruotò il timone velocemente, sebbene avesse brevemente sussultato. Di certo non si era aspettato quell’ordine improvviso, e neanch’io, a dirla tutta.
    «Che succede?» gli chiesi quindi trafelato, vedendolo sporgersi quel tanto che bastava per osservare il mare. Alzò di sfuggita lo sguardo verso lo scorcio di cielo che si vedeva e, umettandosi un dito, controllò con esso la direzione del vento, scoccandomi un’occhiata.
    «Torno al timone, tu occupati delle vele, Patrick», disse semplicemente, afferrando da una tasca un qualcosa che solo in seguito capii essere una bussola. «L’ago finalmente indica una direzione, però punta a nord-ovest; dobbiamo cambiare rotta, o rischiamo di continuare a vagare in mare senza una meta».
    Patrick si scansò immediatamente e lasciò tutto nelle mani di Cid, annuendo per un breve istante prima di scattare ed eseguire gli ordini appena ricevuti. Lo seguii con lo sguardo finché non sparì del tutto dalla mia visuale, tornando a fissare il mio vice: l’ebrezza che l’aveva sempre animato era tornata prepotentemente sul suo viso, rendendolo luminoso come quello di un bambino che aveva appena ricevuto un nuovo giocattolo; nonostante la ferita appariva pimpante e pieno di energie, e fu sorridendo che mi invitò a svolgere i miei incarichi di Capitano prima di tornare a concentrarsi sulla navigazione.
    Calò la sera senza che ce ne rendemmo conto, presi com’eravamo dalle nostre rispettive mansioni. Il livello del mare sembrava essersi abbassato, simbolo che non mancava molto al raggiungimento della terra ferma; il cielo si era tinto di un cupo violetto frammentato solo dal grigiore di alcune nuvole di passaggio, e il solo suono che si udiva era il lieve cigolare della chiglia della Cruises. Avevamo lasciato che fosse il vento a guidare la nave a dritta, e ci eravamo finalmente concessi qualche attimo di riposo. Cid aveva persino trasportato sul ponte l’ultimo barilotto rimasto e quel poco cibo avanzato, insistendo con il dire che c’era bisogno di festeggiare. E per una volta eravamo stati pienamente d’accordo con lui.
    Tra risate e schiamazzi avevamo consumato la cena e bevuto, dilettando Patrick con i racconti delle nostre avventure. Gli avevamo parlato di quella volta in cui ci eravamo ritrovati ad affrontare una flotta di navi pirata nel Golfo del Messico, e di come avevamo rischiato di lasciarci le penne a causa delle lame avvelenate con cui l’equipaggio ci aveva fronteggiati; di quando eravamo giunti per la prima volta nei pressi del porto di Tortuga, godendo dei mille piaceri che essa riservava prima di rifornire i nostri bastimenti truffando un vecchio commerciante d’armi nei guai con la marina; gli avevamo parlato persino di quando avevamo solcato le coste del lontano Adriatico con la nostra Conqueror, che aveva infranto più onde di quante ne ricordassimo e affrontato più viaggi di quanto non fosse possibile. Patrick ci aveva ascoltati con stupore e meraviglia, assimilando quelle informazioni e chiedendoci maggiori dettagli, gli occhi luminosi e vogliosi di sapere. Appariva come un bambino a cui stavano narrando una fiaba, e la cosa mi aveva fatto sorridere non poco. Mi rammentava i giorni in cui, quando il nostro villaggio era ancora un luogo rigoglioso e pieno di vita, era la nostra compianta madre a raccontare le gesta di nostro padre, facendo sì che la leggenda che era stato continuasse; Jim, il cui nome era adesso Patrick, aveva in viso la stessa espressione che mi stava mostrando in quell’esatto momento.
    Il momento migliore della serata - o peggiore, a detta di Patrick stesso - fu quando Cid, dopo essersi bevuto ben più di metà barilotto ed essersi alzato in piedi con fare ciondolante, ebbe la brillante idea di intrattenerci con delle canzoni. Stonato come una campana e con il boccale colmo fino all’orlo ben stretto in una mano, Cid cominciò ad intonare “Hoist the colours
[2]” con voce gracchiante, ridendo come un matto a causa del liquore ormai in circolo sebbene quella canzone fosse tutt’altro che allegra. «Yo, ho, haul together, hoist the Colors high. Heave, ho, thieves and beggars, never say we die [3]!» Il suo schiamazzare sguaiato si diffuse nel silenzio della notte, perdendosi nella vastità dell’oceano. «E voi perché ve ne state zitti? Cantiamo e balliamo fino alla fine del viaggio!»
    Beh, aveva decisamente bevuto troppo. Però per una volta lo lasciai fare, comprendendo l’entusiasmo che lo animava. Il nostro viaggio stava andando a gonfie vele, dunque non avrei frenato quella sua voglia di festeggiare né avrei permesso che lo facesse qualcun altro. Andava bene anche così.
    «Quando beve sembra un’altra persona», costatò Patrick, lo sguardo fisso su Cid come se il boccale che aveva in mano non esistesse. Sorrideva, come se, in fondo in fondo, quella situazione lo divertisse. E dovevo ammettere che divertiva parecchio anche me.
    Gli diedi una pacca su una spalla, tornando a guardare il mio vice. Non aveva smesso un secondo di cantare quella dannata canzone, a parte quando si bagnava la gola con il liquore. Ancora mi chiedevo come facesse a non riversarlo completamente sul ponte, visto il modo in cui continuava a sbracciarsi. «Tranquillo, è uno spettacolo che fortunatamente non si ripete spesso», lo informai, sentendolo sospirare di sollievo. «Quell’idiota preferisce essere vigile e sobrio».
    «E scommetto che lo fa soprattutto per il suo bene, Capitano», replicò semplicemente, al che io mi accigliai non poco per quelle sue parole. Riuscii a vedere l’espressione sgomenta che mi si era dipinta in viso riflessa negli occhi di Patrick, che mi osservava con estrema attenzione. «Quando eravamo a Roseau e ha visto che lei non tornava... si è agitato talmente tanto che non ci ha pensato due volte a correre a cercarla. Cid ha piena fiducia in lei, Capitano. E’ un uomo che farebbe di tutto per proteggerla».
    Boccheggiai come un pesce fuor d’acqua, probabilmente stupito da quelle sue costatazioni. Con poche e semplici parole aveva colto i passaggi essenziali del legame che avevo con Cid, rapporto che andava ben oltre a quello che mostravamo agli altri e persino a noi stessi. Feci dunque per rispondere, ma il peso di una grossa mano sulla mia testa richiamò la mia attenzione; il cappello piumato che portavo mi venne schiacciato sul capo e una risata mi riempì le orecchie, prima che quell’idiota di Cid si chinasse verso di me e mi cingesse le spalle con un braccio. «Fatti un bel goccio», parve ordinarmi con voce gracchiante, agitando il proprio boccale e facendo sì che la maggior parte del liquore in esso contenuto gli si riversasse addosso. «Allenterà anche i tuoi nervi, credimi».
    Lo allontanai da me con uno sbuffo sotto lo sguardo parecchio divertito di Patrick. «Vedi piuttosto di piantarla tu, idiota ubriacone», ironizzai, sentendo il suo fiato caldo sul collo e il suo ansimare; raggelai nell’avvertire la pressione delle sue labbra contro la pelle e il suo insistente avvicinarsi, ma fu soprattutto nel vedere l’espressione incuriosita e al contempo stralunata del ragazzo che mi sentii sbiancare. Aveva sollevato un sopracciglio e incurvato un po’ le labbra verso il basso, come se si stesse domandando cosa diavolo stesse succedendo.
    Mi alzai così in fretta che Cid, che nel frattempo aveva provato ad accostare il suo petto alla mia schiena, crollò con la faccia sul ponte della nave, lamentandosi per la botta ricevuta e imprecando al mio indirizzo; aveva anche lasciato andare il boccale di liquore, che era rotolato sulle assi di legno rovesciando il poco contenuto rimasto. Non diedi minimamente peso all’espressione contrariata con cui mi osservò, dando le spalle ad entrambi per dirigermi a grandi falcate verso il ponte, sentendo però i passi di qualcun altro far eco ai miei.
    «L’ha proprio messo di cattivo umore», mi disse in tono vagamente divertito Patrick. Gli gettai appena una veloce occhiata prima di stornare lo sguardo in direzione di Cid, che si era sdraiato sul ponte di schiena a braccia e gambe spalancate, gli occhi annebbiati rivolti verso il cielo sopra di lui.
    Giocherellando con il mio capello, replicai, «Che dormisse, quell’idiota. Almeno le nostre orecchie saranno salve fino alla sua prossima bevuta».
Patrick inclinò la testa di lato, grattandosi dietro al collo. «Non si arrabbi, Capitano. Non vede com’è ubriaco? Probabilmente non si rendeva nemmeno conto di ciò che faceva».
    Ah, beata innocenza. Quello stupido del mio vice lo sapeva fin troppo bene ciò che faceva, in qualsiasi momento e in qualsiasi modo. Era impensabile il contrario, piuttosto. E il modo in cui aveva tentato di agire parlava da solo.
    «Posso farle una domanda, comunque?»
    Bofonchiai qualcosa fra me e me, per niente propenso ad ascoltarlo. Però gli chiesi in tono scorbutico, «Sarebbe?»
    «Perché è diventato un pirata, Capitano?» Si poggiò a braccia conserte contro il parapetto della Cruises, guardando oltre esso. Sembrava assorto nell’osservare l’incresparsi del mare, che appariva come una vasta distesa nera illuminata solo parzialmente dalla luce della luna, i cui raggi facevano timidamente capolino dalle nubi che ci sovrastavano.
    «Per realizzare un mio sogno», risposi in tono schietto e immediato, vedendolo con la coda dell’occhio portare la sua attenzione su di me.
    «E si è avverato?»
    A quella domanda sorrisi inconsciamente, non sapendo cosa rispondere con l’esattezza. Forse si era avverato per davvero, quel mio sogno, sebbene io stentassi ancora a crederci. Optai dunque per una mezza verità, adagiandomi a mia volta contro la balaustra. «Chi lo sa».
    Patrick alzò un angolo della bocca, divertito. «Sa, Capitano, a volte stento a credere che lei sia davvero un pirata», buttò lì, richiamando la mia attenzione.
    «E cosa te ne fa dubitare?»
    «Il fatto che non avesse una nave e che quando l’ha ottenuta non ha neanche tentato di metter su un equipaggio», disse distrattamente, alzando finalmente lo sguardo verso il cielo. «Ha soltanto Cid, che ci fa da navigatore, cuoco e, purtroppo, anche da musicista», soggiunse, enfatizzando con tono ilare l’ultima mansione.
    Sbuffai appena, allontanandomi da lì il più in fretta possibile. «Un giorno capirai il perché della mia decisione. Credimi, ragazzo».
    Sentii il suo sguardo puntato sulla mia schiena, come se mille pugnali mi stessero trafiggendo senza pietà. «Un giorno, forse, ma non oggi».
    Non mi voltai, limitandomi solo a calcarmi il cappello sulla testa mentre mi incamminavo verso il cassero. «Già», replicai semplicemente. Però, dentro di me, qualcosa mi dava la certezza che il giorno in cui avrei dovuto spiegargli la verità si stesse avvicinando sempre di più
.
 

 

[1] Esclamazione tipicamente associata ai pirati.
La scelta sarà chiara andando mano a mano avanti con il capitolo, o almeno è questa l’intenzione.


[2] La traduzione letterale sarebbe “Issa i colori”, sebbene in questo contesto si intenda la bandiera; il titolo, dunque, diventa per l’appunto “Issa la bandiera”.
La canzone è il tema principale del film “Pirati dei Caraibi: Ai confini del mondo”, e oltre a rappresentare i pirati stessi e la loro ideologia di libertà, racconta di come Calypso venne imprigionata in un corpo umano dal Re dei Pirati.


[3] Strofa della canzone “Issa la bandiera”.
La scelta di lasciarla in inglese è voluta, e tradotta reciterebbe: “Yo, ho, trasportare insieme, issare la bandiera. Solleva, ho, ladri e accattoni, non dite mai che moriremo”.
C’è inoltre un altro motivo di fondo per cui è stata scelta proprio questa frase, ma esso sarà intuibile solo alla fine della storia, o almeno questa è l’intenzione.



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Capitolo 7
*** [ Atto VII: St. George's, Piazza cittadina › Mar dei Caraibi, 1768 ] Scourge of the seven seas ***


Oceani_7 ATTO VII: ST. GEORGE’S, PIAZZA CITTADINA › MAR DEI CARAIBI, 1768
SCOURGE OF THE SEVEN SEAS
[1]

    Giungere sulla terra ferma mi era parso come un sogno.
    Dopo tutto quel tempo passato in mare, e con le scorte di cibo ormai ridotte all’osso, l’unica cosa che riuscivo a pensare era il poter rifornire la stiva. La testa mi doleva ancora a causa di tutto il liquore che mi ero scolato, ma gli effetti della sbronza erano fortunatamente scomparsi. Di quel che avevo fatto o detto non ricordavo assolutamente nulla, ma l’espressione di Gale mi aveva fatto capire che qualsiasi cosa fosse stata non gli era per piaciuta per niente. Chi sembrava rilassato e tranquillo, invece, era Patrick. Con il sorriso sulle labbra e quell’aria divertita dipinta in viso, si guardava intorno assorto e meravigliato, assimilando ogni dettaglio della nuova città in cui ci eravamo ritrovati.
    Dal canto mio, invece, quello era uno scenario già visto e rivisto, forse perché per me ogni città appariva uguale alla precedente. Ognuna di esse rappresentava semplicemente un luogo dove poter rifornire la nave, nient’altro, e non avevo dunque bisogno di ricordare con l’esattezza ogni minimo particolare.
    «Cerchiamo di passare il più inosservati possibile», disse d’un tratto Gale, e gettandogli una rapida occhiata lo vidi guardarsi intorno con fare guardingo, quasi stesse controllando i dintorni. Si era persino liberato di quel suo ridicolo cappello piumato, lasciando che qualche ciuffo di capelli castani ricadesse a nascondergli parzialmente gli occhi.
    Mi passai una mano sulla testa, scompigliandomi la zazzera bionda. «Siamo ricercati, non credo sarà così facile», gli tenni presente, e, per quanto il fatto che avessi ragione gli desse fastidio, si ritrovò ad annuire. «Vediamo di comprare l’essenziale e di svignarcela».
    In risposta ricevetti solo qualche vago suono d’assenso prima che cominciassimo ad incamminarci nel centro della città, dove le strade pullulavano di mercanti che strillavano a destra e a manca, nel tentativo di richiamare le persone che passeggiavano fra quelle vie. Ovunque si guardasse c’erano mercanzie d’ogni tipo, esattamente come a Porto Rico, ma non ci feci caso poi più di tanto, poiché la cosa mi interessava relativamente poco.
    Ciò che catturò la mia attenzione fu invece un gruppetto di donne che guardava con aria assorta una di quelle bancarelle trasandate, ridacchiando fra loro per motivi astrusi. Una di esse intercettò il mio sguardo e mi sorrise, scostandosi i capelli rossi dal viso per ravvivarseli dietro alle orecchie in un gesto invitante e provocatorio, giacché nel farlo aveva scoperto una buona porzione di pelle all’altezza del seno.
    La salutai con un gesto della mano e ricambiai il sorriso, ricevendo subito dopo una gomitata nelle costole. «Ricorda l’avvertimento che ti ho fatto a Porto Rico, Cid», disse Gale con voce divertita, ma si vedeva lontano un miglio che in realtà non stava affatto scherzando. L’avrebbe fatto sul serio, ed era dunque meglio non dargli nessun incentivo per fargli mettere in atto quella minaccia. Fu quindi con un certo dispiacere che mi costrinsi a distogliere lo sguardo, vedendo però Patrick gettare un’occhiata in direzione della combriccola e soffermarsi soprattutto sulla bionda. Quel moccioso aveva decisamente capito tutto della vita.
    La giornata cominciò a farsi uggiosa mano a mano che le ore passavano. L’umidità nell’aria era diventata intensa, quasi pesante, molto simile ad una gelida coperta che si posava lievemente sulla pelle; le persone che avevano affollato avevano cominciato a disperdersi a poco a poco, urtando l’una contro l’altra per raggiungere in fretta le proprie abitazioni. Le nuvole sopra di noi erano cariche di pioggia, e avrei scommesso che, se non subito, avrebbero sicuramente riversato sulle nostre teste tutta l’acqua che trasportavano. Forse era soltanto una mia impressione, ma quell’improvvisa precipitazione non mi piaceva per niente. Sapevo che il tempo, in quel periodo dell’anno, era instabile, ma avevo come l’impressione che ci fosse sotto qualcos’altro. Scossi il capo, cercando di allontanare da me quegli stupidi pensieri. Tutto ciò che era successo mi aveva rimescolato il cervello, non c’era altra spiegazione.
    Superammo una taverna già chiusa nonostante l’ora, e ci dirigemmo verso la piazza cittadina, convinti che avremmo così trovato altre locande per rifocillarsi e un negozio per alimentare le scorte della stiva. Avevo anche la ferma intenzione di comprare da bere, ma mi sarei ben guardato dal tracannare un barilotto intero di liquore, stavolta.
    Quando la raggiungemmo, trovammo la piazza quasi completamente vuota, e la cosa mi apparve quanto meno strana. Per quanto il tempo promettesse pioggia, essa non era ancora caduta ad abbattersi sulla città, dunque non vedevo il motivo di quello sfollamento. Giusto qualche madre indaffarata si intratteneva ancora in essa, tirandosi dietro i figli. Un bambino di circa tre anni dai vivaci capelli rossi ci venne in contro e, regalandoci una linguaccia, ci sorpassò come se nulla fosse, lasciando dietro di sé la genitrice che lo richiamava e lo inseguiva. La donna corse verso di noi, ma non si degnò di gettarci neanche un’occhiata, pensando probabilmente che fosse più saggio non immischiarsi; raggiunto il figlio lo riacciuffò in fretta e lo trascinò via, ignorando i suoi piagnistei per aumentare soltanto il passo.
    Non ci volle molto prima che la piazza fosse del tutto sgombra, e fu sbuffando che Gale ci fece cenno di seguirlo in direzione delle stradine laterali, più che intenzionato a sbrigare le nostre faccende ed andarcene. E, beh, su quel punto ero perfettamente d’accordo con lui. Non avevamo tempo da perdere, e finalmente quell’idiota l’aveva capito. Fu nello svoltare l’angolo che sentii correre un brivido lungo la schiena, poi un fruscio e un veloce suono di passi. «Credevate di potermi sfuggire, pirati?»
    Mi si gelò il sangue nelle vene nel capire a chi appartenesse quella voce. Mi voltai nella direzione da cui proveniva quasi a rallentatore, aprendo la bocca senza che da essa uscisse alcun suono. Il Commodoro Waine, per quanto apparisse deperito e pallido in viso, era esattamente a pochi metri di distanza da noi, con il volto stravolto da una tale soddisfazione che mi ricordò un falco che aveva appena adocchiato la sua cena. Come poteva essere possibile che fosse ancora vivo? Sgranai gli occhi quando lo vidi puntare la pistola verso Gale, e non ci pensai due volte: mi parai dinanzi a lui a braccia spalancate, sentendo un dolore lancinante bruciare al fianco destro. Mi accasciai su me stesso, sentendo nelle orecchie le grida di Patrick e i suoi passi veloci; un altro colpo di pistola risuonò nell’aria, e non ci misi molto a rendermi conto che era stato proprio Gale a sparare verso il Commodoro.
    «Dannazione!» imprecò, facendo fuoco ancora una volta. Premendomi una mano sul fianco mi rialzai faticosamente in piedi, vedendo il Commodoro armeggiare con la propria arma; sembrava che la pistola gli si fosse inceppata, ma anche Gale non se la passava meglio.
    Pronto a lanciarsi contro l’ufficiale munito solo d’arma bianca, mi frapposi nuovamente davanti a lui e drizzai la schiena, ansimando. «Vattene, Gale», soffiai a bassa voce, osservando ogni minimo movimento del Commodoro. Aveva estratto a sua volta la spada e, sebbene faticasse a respirare, appariva più che determinato a non farsi scappare l’occasione di ammazzarci.
    «Non ti lascio qui, idiota», sbottò, ma nel vedere con la coda dell’occhio il viso stralunato di Patrick, che se ne stava in disparte per non restare coinvolto, non ci pensai due volte; afferrai Gale per il colletto del giaccone e lo allontanai di malo modo, ignorando le sue imprecazioni per sguainare la mia spada.
    «Che diavolo stai aspettando, Gale?» dissi poi. «Porta via il ragazzo!» gli urlai contro, lo sguardo puntato ostinatamente sull’avversario che avevo dinanzi. Sapevo che se avessi distolto gli occhi anche solo per un secondo sarebbe stato tutto perduto.
    Con la coda dell’occhio, vidi il suo viso trasfigurarsi in una smorfia, ma fu socchiudendo gli occhi che imprecò a denti stretti e afferrò Patrick per un braccio, lanciandomi un grido d’avvertimento che, nonostante tutto, mi fece abbozzare un sorriso sarcastico. Quell’idiota. Era in pericolo quanto me e si preoccupava delle mie condizioni.
    Deglutii sonoramente, aggrottando la fronte con la mia arma in pugno. «E ora a noi, Commodoro».
    Intorno a me avevo notato che il silenzio era diventato così fitto da apparire quasi irreale, dovuto anche all’aria satura di pioggia che ci circondava. Non avevo ancora mosso un solo muscolo, troppo impegnato a tener d’occhio il mio avversario e a concentrarmi sui passi sempre più rapidi di Gale e Patrick, nella speranza che si allontanassero il più in fretta possibile da quel luogo.
    Puntavo la lama della spada verso il Commodoro, che brandiva a sua volta un’arma bianca di notevoli dimensioni. Aveva il respiro pesante e sembrava stare in piedi a malapena, ma neanch’io ero messo meglio: la ferita al fianco che mi ero procurato per proteggere Patrick e Gale mi doleva in modo pazzesco, e a causa della gran quantità di sangue che avevo perso la mia vista era sfocata. Ma non mi sarei mai fatto battere da quel marinaretto da quattro soldi, non con tutta l’esperienza che mi portavo dietro. Prima di conoscere Gale non mi era mai capitato di imbarcarmi in un’avventura del genere, e l’avrei vissuta fino all’ultima goccia prima del raggiungimento della nostra meta. Il momento era ormai giunto, e io non avevo il potere di rimandarlo ancora per molto.
    Trassi un lungo respiro e, sebbene sentissi il furente pulsare del sangue nelle orecchie e il respiro affannoso e irregolare, alzai il braccio con cui reggevo la spada quel tanto che bastava per portarmi la lama piatta dinanzi al viso, incurvando un po’ la schiena e allargando le gambe, così da mettermi in posizione d’attacco. Il Commodoro, seppur con movimenti più lenti, gettò via la propria pistola e mi imitò, squadrandomi con aria battagliera. Anche da quella distanza potevo leggere nei suoi occhi l’ira e la sfrontatezza, quasi avesse la certezza di uscire vittorioso da quel nostro scontro. Beh, si sbagliava di grosso. Non gli avrei permesso di fare più un passo, anche a costo di ammazzarci a vicenda.
    Prima ancora che potessi rendermene pienamente conto, però, mi fu addosso con una velocità sorprendente, compiendo un affondo nel tentativo di trapassarmi lo stomaco; riuscii a fermare quel colpo appena in tempo con la mia spada, e il cozzare delle due lame risuonò nell’aria come un sinistro tintinnio. Ci guardammo per un istante prima di scattare all’indietro nello stesso momento, sforzando l’aria con colpi che si susseguivano ad intervalli sempre più irregolari; con un grido rabbioso mi gettai contro di lui e lo costrinsi a scartare di lato, venendo subito contrattaccato prima di riuscire a colpirlo, anche se di striscio, alla guancia. Il viso del Commodoro si trasfigurò in una maschera iraconda e, con il sangue che cominciava a stillare dalla ferita, sporcandogli la pelle, mi colpì con il dorso della spada sulla schiena, facendomi barcollare; indietreggiai di qualche passo per cercare di ristabilire le distanze iniziali, ma il Commodoro mi venne dietro e, con una rapida scoccata, mi ferì al braccio, poco al di sotto del punto in cui settimane prima mi aveva centrato con la pistola. Sibilai dal dolore, e mi sarei anche portato una mano alla ferita se non fossi stato costretto a scartare velocemente di lato per evitare un altro affondo.
    Parai la lama che mirava al mio cuore con rapidità e scioltezza, ma ormai avevo come la netta sensazione che ciò non bastasse. L’acciaio delle lame cozzò ancora una volta, sprizzando scintille; l’umidità nell’aria sembrava appesantire i nostri vestiti e impedire i nostri movimenti, o forse era soltanto un’illusione provocata dalla stanchezza che dilaniava i nostri corpi.
    Flettendo le gambe provai a colpire il Commodoro ad un fianco, ma lui, ruotando il polso con cui sorreggeva la spada, parò facilmente il colpo e contrattaccò, piroettando di lato prima di piegare le ginocchia; non ebbi il tempo di rendermi conto delle mie intenzioni che sentii un dolore acuto alla coscia destra, cadendo riverso di schiena quando venni spinto in terra dal mio avversario.
    Tentai di rimettermi in piedi il più in fretta possibile, ma prima ancora che potessi farlo una manciata di terriccio mi accecò, costringendomi a strofinarmi furentemente gli occhi nel tentativo di vedere; le sagome intorno a me apparivano sfocate, e dovetti sbattere violentemente le palpebre per cercare di riacquistare la vista. Non riuscii a capire immediatamente cosa fosse ciò che mi si stava avvicinando a velocità sorprendente che un peso mi si poggiò sul petto, mozzandomi il respiro; con la coda dell’occhio catturai la fugace e distorta visione di una lama che veniva infilata nel terreno, tra l’altro molto vicino alla mia faccia, prima che il Commodoro piantasse lo stivale in mezzo alle mie costole, togliendomi quel poco fiato che mi era rimasto nei polmoni. «Sei stato un osso duro, pirata», sussurrò ansimante, e attraverso le palpebre socchiuse potei vederlo sorridere con fosca soddisfazione, «ed è per questo che ti renderò onore infliggendoti immediatamente il colpo di grazia. Un vero peccato che in questo modo la tua taglia sarà dimezzata, ma ci penserà quella del tuo amichetto a compensare il vuoto».
    Boccheggiai, afferrandogli la caviglia prima di stringere la presa intorno alla mia spada; provai ad alzare il braccio il più velocemente possibile, ma il Commodoro parve intuire le mie intenzioni e si allontanò compiendo un salto all’indietro, stupendomi. In vita mia non avevo mai visto tale abilità, e la cosa, seppur si trattasse di un nemico, riuscì a sorprendermi positivamente. «Sei più tenace di quel che credessi, pirata», disse con fare vagamente divertito, puntando la lama contro di me. «Ma questi giochetti non funzionano con il sottoscritto».
    «Va’ all’inferno!» biascicai, poggiando una mano a terra per rimettermi in piedi, ma nel momento esatto in cui ci provai il Commodoro ritornò all’attacco, approfittando della debolezza che stavo dimostrando. Riuscii a rotolare via per un soffio, sentendo il tonfo sordo della lama nel punto in cui pochi istanti prima mi ero trovato io; alzai la mia arma per fronteggiare il Commodoro da quella posizione, indietreggiando ogni qual volta mi era concesso. Più tentavo di scappare più gli affondi divenivano rapidi e precisi, e non ebbi più via di scampo quando la mia schiena andò a sbattere contro un muro.
    Alzai lo sguardo per puntarlo sul viso del Commodoro, scorgendo nei suoi occhi il mio riflesso. Apparivo teso e stralunato come non lo ero mai stato, e la cosa mi spaventava. Io, che avevo sempre avuto il controllo sul mondo che mi circondava e sulle mie azioni, mi sentivo adesso come un bambino sperduto... era impensabile. Non mi sarei però arreso, avrei combattuto fino alla fine senza risparmiare un solo colpo. E fu proprio a quei pensieri che tentai ancora una volta di colpire il mio avversario, mirando dritto al cuore; ebbi appena il tempo di vedere la sua espressione confusa prima che con un movimento fulmineo della sua spada intercettasse la mia e la scansasse, facendomi allentare la presa.
    Fu con orrore che la vidi roteare in aria prima che si piantasse a terra, esattamente a pochi metri di distanza da me. Inerme e disarmato, con il sangue che già cominciava a coagularsi intorno alle mie ferite, l’unica cosa che riuscii a fare fu stringere forte le palpebre e serrare le labbra nel tentativo di bloccarlo a mani nude, prima che la lama del Commodoro mi si conficcasse nelle carni, riducendo il mio mondo ad una macchia di sangue.
    L’ultima cosa che sentii fu «Ci sono già stato all’inferno», poi... più niente
.
 

 

[1] Letteralmente significa “Flagello dei sette mari”.
Rappresenta un pirata noto per la sua natura estremamente violenta e brutale.
La scelta del titolo sarà chiara mano a mano che si procederà con la lettura del capitolo, o almeno questa è l’intenzione.

 
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Capitolo 8
*** [ Atto VIII: St. George's, Nei pressi del porto › Mar dei Caraibi, 1768 ] Give no quarter ***


Oceani_8 ATTO VIII: ST. GEORGE’S, NEI PRESSI DEL PORTO › MAR DEI CARAIBI, 1768
GIVE NO QUARTER
[1]

    Stavo correndo a perdifiato quando un dolore acuto all’altezza del petto mi paralizzò, mozzandomi il respiro.
    Caddi in ginocchio con le mani convulsamente chiuse a pugno, portandomele al cuore mentre tentavo di riportare a fatica il fiato nei polmoni. Eravamo quasi nei pressi del porto, e si poteva benissimo udire lo scrosciare delle onde contro le chiglie delle navi lì ormeggiate; però quel dolore aveva arrestato la mia corsa, facendo sì che Patrick mi distanziasse. Provai ad aprire la bocca per richiamarlo, ma un’altra fitta mi rubò il respiro, e dovetti accasciarmi su me stesso nella vana speranza che tutto cessasse presto.
    Sollevai di poco il capo giusto in tempo per vedere il ragazzo fermarsi e voltarsi verso di me, essendosi forse accorto che non lo seguivo più; si affrettò a corrermi in contro e a chinarsi, cingendomi la schiena con un braccio. «Tutto bene, Capitano?» mi chiese apprensivo, aiutandomi ad alzarmi nonostante non avessi la forza per farlo. Avevo come il presentimento che fosse appena accaduto qualcosa di spiacevole, e la conferma mi giunse quando il dolore al petto dilagò come un fiume in piena, costringendomi a piegarmi a mezzo busto contro Patrick.
    «Cid», sussurrai d’un tratto, sgranando gli occhi. «È successo qualcosa a Cid».
    «Come può esserne sicuro?» mi domandò in risposta, ma non c’era tempo per le spiegazioni. Sapevo quel che dicevo, e il dolore che avevo cominciato a provare me ne dava la più assoluta conferma. La sorte di Cid era anche la mia e viceversa, e ciò significava che avremmo dovuto tornare sui nostri passi per aiutarlo prima che fosse troppo tardi.
    Ogni respiro mi provocava una fitta di acuta sofferenza, ma provai comunque a drizzare la schiena per incamminarmi velocemente a ritroso, scansando Patrick da me; lui, però, mi afferrò per un braccio, strattonandomi. «Dove crede di andare?» sbottò. «Cid ci ha raccomandato di andarcene, non può tornare lì solo per una sensazione!»
    Lo allontanai di malo modo, mantenendomi in piedi per chissà quale miracolo quando indietreggiai. «Che cosa ne puoi sapere, tu?» sibilai adirato, traendo un lungo sospiro che mi bruciò la gola come fuoco vivo. «Cosa diavolo ne puoi sapere? Non ne sai niente di noi!»
    «Sia ragionevole, Capitano!» esclamò di rimando, riattaccandosi al mio braccio. «Cosa spera di ottenere, tornando indietro? Niente! Non otterrà un accidente di niente!»
    Strinsi i pugni e imprecai a denti stretti, spingendolo violentemente a terra. Se non voleva capire con le buone, l’avrebbe fatto con le cattive. «Stammi a sentire, moccioso». Ogni parola che usciva dalle mie labbra era aspra e severa, accentuata soprattutto dal dolore che mi attanagliava il petto in una morsa. «Questa è una faccenda che non ti riguarda, quindi vedi di starne fuori». Indietreggiai senza perderlo d’occhio mentre lo vedevo rimettersi in piedi, già pronto a fermarmi ancora una volta. Ma non gliel’avrei mai permesso.
    Tirai fuori dalla fondina la pistola e, pur sapendo che non avevo più colpi, la puntai verso di lui, vedendolo sussultare dalla sorpresa. «Non azzardarti a seguirmi, Jim», gli soffiai contro, dandogli le spalle per correre nella direzione da cui eravamo venuti. Il petto mi doleva in modo pazzesco, e la vista aveva cominciato ad indebolirsi sempre di più. Mancava poco. Molto poco. Con i richiami furenti del ragazzo nelle orecchie e il sibilo lontano del vento, corsi con tutta la forza che mi era rimasta nelle gambe, sentendole cedere ad ogni passo; più correvo più i polmoni mi si incendiavano, ma dovevo continuare sulla mia strada ancora e ancora, senza fermarmi.
    Quando giunsi al luogo in cui avevo lasciato Cid, raggelai nel vedere la scena che mi si era parata dinanzi agli occhi. Il mio vice giaceva riverso di fianco in una pozza di sangue, la bocca spalancata in un grido senza voce e gli occhi socchiusi, persi in un punto indefinito; inginocchiato accanto a lui, intento a frugare nelle sue tasche, c’era il Commodoro Waine, la cui spada orribilmente macchiata di rosso pendeva inerme alla sua cintola.
    Boccheggiai incredulo e, prima ancora che il mio cervello mandasse segnali ai nervi, sguainai la mia arma e gli corsi incontro, furioso. «Che cosa gli hai fatto, bastardo!» strillai fuori di me, e fu solo a quel punto che il Commodoro, sgranando gli occhi, si accorse della mia presenza; con una velocità impressionante riuscì a scansare il fendente con cui avevo tentato di ferirlo, rotolando di lato prima di impugnare la propria spada ancora una volta.
    Il sorriso che gli si dipinse immediatamente in viso, però, non mi lasciò presagire niente di buono. Raddrizzò la schiena e, dopo aver scoccato una rapida occhiata al corpo inerme di Cid, indietreggiò di qualche passo per evitare il mio nuovo colpo, fermando la mia lama con la sua. «Adesso mi è tutto chiaro, pirata», esordì, fissandomi fra i fili delle nostre spade. «Oh, eccome se mi è tutto chiaro. L’ho capito incrociando la lama con quel tipo», soggiunse, accennando appena con il capo al mio vice prima di fare forza con il braccio e spingere la spada, così da costringermi ad indietreggiare a mia volta. «Tu e il tuo amichetto non dovreste essere qui. Tanto meno io».
    Feci leva sulla punta dei piedi per contrastarlo, sferzando un colpo per allontanarlo da me e distanziarlo a mia volta, adocchiando Cid. Non si muoveva, e al solo pensiero di essere arrivato tardi mi morsi con rabbia il labbro inferiore. «Se deve perdere tempo in chiacchiere parli chiaro, Commodoro, perché in combattimento lo sbaglio peggiore è distrarsi», replicai, partendo ancora una volta all’attacco senza nemmeno aspettare che mi spiegasse il significato delle sue parole. In quel momento me ne importava relativamente poco.
    Le lame si sfiorarono ancora una volta quando ci muovemmo in simultanea, provocando un lieve tintinnio metallico prima che ritornassimo entrambi in posizione d’attacco, con le armi inclinate da un lato e impugnate a due mani. Ci lanciammo nuovamente l’uno contro l’altro, scontrandoci violentemente fra sibili d’acciaio e sguardi. Un attacco fulmineo, un fendente; le nostre gambe si muovevano ritmicamente, quasi stessimo seguendo dei passi di danza che solo noi potevamo conoscere, i nostri corpi compivano movenze eguali creando archi invisibili al suono delle armi.
    Provando a colpirmi al petto, il Commodoro tentò un affondo laterale subito dopo, ma io riuscii a indietreggiare rapidamente, rinserrando la presa sulla mia spada. Guardai il mio avversario, traendo lunghi sospiri. «Tu sei come noi, vero, Commodoro?», dissi di punto in bianco, deglutendo prima di riprendere fiato. Non mi occorse una sua risposta, giacché l’espressione che si era dipinta sul suo viso parlò per lui. E sorrisi, aggiungendo, «Avrei dovuto immaginarlo. La tua presenza mi aveva fatto venire qualche dubbio, dato ciò che è accaduto a Roseau».
    Aggrottò la fronte, portandosi la lama contro il petto. «Taci, pirata», sibilò velenoso, lo sguardo ardente di furia omicida. Flettendo le gambe si gettò nuovamente all’attacco, compiendo una stoccata così veloce che faticai non poco a scansarmi; mi colpì al viso con la lama e sibilai dal dolore nell’avvertire l’intenso bruciore che si appropriò della mia guancia qualche istante dopo, tentando di restituirgli quell’affondo con il doppio della potenza. Riuscii solo a tagliargli una ciocca di capelli, complice il terreno fangoso e la mia debolezza che diveniva pian piano maggiore.
    Anche il Commodoro, però, sembrava far fatica a respirare. Il sangue gli sporcava in più punti la divisa, difficile dire se per i colpi che gli erano stati inferti o per l’essersi inginocchiato accanto a Cid alla sicura ricerca della mappa. Ma non persi tempo a soffermarmi su particolari del genere, approfittando di quel momento per cercare di colpirlo allo stomaco.
    «Capitano Gale!» venni richiamato in quello stesso istante, e fu con orrore che mi resi conto che Patrick, disubbidendomi, era tornato a sua volta indietro. A conti fatti, però, la cosa sarebbe anche potuta risultare utile.
    In un altro frangente mi sarei difatti arrabbiato, ma in quel momento l’arrivo di Patrick era stato davvero provvidenziale. «Prendi la pistola di Cid, ragazzo, presto!», gli urlai senza preoccuparmi di vedere dove fosse con l’esattezza, gettandomi a terra per evitare l’affondo del Commodoro. Con un salto all’indietro mi allontanai il più possibile da lui, vedendolo con la coda dell’occhio venirmi incontro per concludere il proprio lavoro. Imprecando a denti stretti lanciai finalmente un’occhiata a Patrick, vedendolo tirar fuori con incertezza la pistola di Cid dalla fondina, prima che alzasse lo sguardo per localizzarmi.
    «Capitano!» mi chiamò ancora, caricando il braccio per lanciarmela; dovetti correre in quella direzione per afferrarla al volo, affrettandomi ad impugnarla nel lato giusto prima di mirare verso il mio avversario, che sgranò gli occhi alla vista della bocca della pistola.
    Tentò di sottrarsi alla mia linea di tiro per mettersi al riparo, ma prima ancora che potesse farlo premetti immediatamente il grilletto, centrandolo in pieno petto. Boccheggiando, tossì più volte e sputò sangue, accasciandosi su se stesso e crollando in ginocchio, con una mano premuta convulsamente sul punto colpito. «B-bastar...do», biascicò a mezza voce, gli occhi ingigantiti dalla confusione erano puntati su di me, che mi trovavo esattamente a pochi passi da lui. Potei vedere riflesso in essi il mio volto, impassibile e distaccato, quasi non me ne importasse nulla di ciò che stava accadendo. E a dirla tutta era davvero così.
    Mi avvicinai maggiormente a lui e con un calcio gli feci mollare la presa della mano dall’elsa che ancora sorreggeva, fissandolo. «Ci si vedrà presto all’inferno, Commodoro», sembrai promettergli, puntando la canna della pistola prima di far fuoco. Cadde riverso a terra con un buco in fronte, la bocca socchiusa e gli occhi spalancati, fissi su un punto indefinito dinanzi a lui che non avrebbe mai più potuto vedere.
    Io me ne restai lì ad osservarlo, completamente estraniato dal mondo. Mi sembrava di essere uno spettatore ignaro che si era ritrovato ad assistere suo malgrado a quella scena, giacché non provavo assolutamente niente. Né gioia per la vittoria, né amarezza, né tanto meno tristezza per la fine che quel bastardo aveva fatto fare a Cid. Assolutamente niente. E avrei continuato a starmene fermo in quel punto se un richiamo, basso e ovattato come se provenisse da molto lontano, non mi si fosse insinuato insistente nelle orecchie, quasi cercasse di farmi tornare con i piedi per terra.
    Fu difatti con una certa fatica che mi voltai nella direzione da cui proveniva, vedendo Patrick intento a strapparsi la camicia per una ragione che, sul momento, non compresi; quando lo vidi premere i pezzi di stoffa sul petto ormai nudo di Cid, mi sembrò come se qualcuno avesse appena riafferrato la mia razionalità, facendo sì che mi aggrappassi a quella speranza. «Cid», sussurrai a mezza voce, barcollando nella loro direzione prima di accasciarmi a mia volta lì di fianco; il petto gli si abbassava e gli si alzava a ritmi lenti e irregolari, ma respirava. Respirava, dannazione!
    «Che diavolo sta facendo, Capitano?!» sbottò Patrick, strattonandomi un braccio. «Mi aiuti ad arrestare l’emorragia, presto!»
    Non me lo feci ripetere due volte, afferrando i lembi di stoffa che il ragazzo mi stava porgendo in fretta e furia per stringerli intorno al torace di Cid; per quanto ci fosse concesso avremmo almeno potuto impedire di farlo morire dissanguato, ma avevamo necessariamente bisogno di molto di più di qualche straccio.
    Senza riflettere, quindi, mi issai il mio vice sulle spalle, allontanandomi il più in fretta possibile. Non c’era un solo minuto da perdere. «Non morire, razza di idiota!» esclamai, aumentando il passo per quanto concessomi dal dolore lancinante che aveva ormai invaso il mio petto. «Abbiamo un compito da portare a termine, te lo sei scordato? L’hai detto tu che è troppo importante per fermarsi a metà strada!»
    Mi sentivo il petto in fiamme e, sebbene avvertissi dietro di me la presenza costante di Patrick, mi sembrava quasi di essere solo. Tutto il mio mondo si era momentaneamente ridotto al peso di Cid che mi portavo sulle spalle e ai suoi respiri lievi e spezzati, sentendo la sua sofferenza dilaniare anche le mie carni.
    «Non. Morire», continuai a ripetere all’infinito, accasciandomi su me stesso e avanzando solo grazie alla mia forza di volontà. Il peso di Cid divenne d’un tratto più leggero, e faticai non poco a rendermi conto che Patrick si era accostato a me per sorreggere a sua volta il corpo del mio vice.
    Lo guardai confuso, probabilmente troppo stravolto per capire con esattezza ciò che mi capitava intorno; Patrick, però, si limitò ad aiutarmi senza dire niente, quasi avesse finalmente compreso il mio stato d’animo. Grazie al suo aiuto riuscii a trasportare Cid senza grandi difficoltà, concentrato sul ritmo del suo respiro e sui battiti furenti del mio cuore; non avevo trovato pace neanche per un attimo, e forse era stata solo fortuna l’essere in seguito incappati in una locanda sgangherata dalla quale provenivano suoni confusi e schiamazzi.
    Io e Patrick ci facemmo forza e, issando meglio Cid in modo da poter camminare liberamente, aprimmo la porta per entrare all’interno, dove il caldo proveniente dal camino ci scaldava le ossa e l’odore di carne arrosto si disperdeva nell’aria, entrando nelle narici e facendo brontolare lo stomaco. «Occupati di Cid per qualche minuto, Patrick», gli sussurrai, lasciandogli quel fardello per dirigermi in fretta e furia verso il locandiere, gesticolando e indicando alla svelta la direzione in cui avevo lasciato entrambi i membri della mia ciurma.
    Per quanto il mio aspetto trasandato sembrasse portare ormai impressa la parola “guai”, non appena gli mostrai un sacchetto colmo di dobloni il locandiere sembrò farsi più interessato, gettando un’occhiata verso la ressa del locale prima di aggirare il bancone e farmi cenno di seguirlo. Superò Patrick senza degnarlo di uno sguardo, cominciando a salire le scale che portavano al piano di sopra. Raggiunto il ragazzo lo aiutai a trascinare Cid su per i gradini, e ci inoltrammo in compagnia di quel vecchio in un lungo corridoio illuminato da qualche lanterna, sorpassando le porte di varie camere prima di raggiungere quella a noi destinata.
    «Ciò che posso darvi sono soltanto delle bende e qualche medicinale, pirati, a patto che ve ne andiate poi in fretta», bofonchiò in tono burbero una volta aperta la camera. «La marina pattuglia la zona da giorni, e l’ultima cosa che voglio è che trovino dei bucanieri; non si fanno affari del tutto legali, qui dentro».
    Nonostante tutto mi ritrovai a sorridere in modo stentato. «Sarà come se non esistessimo», lo rassicurai, sapendo in cuor mio che in fin dei conti, quella, era l’assoluta verità. Non appena ci ebbe mostrato dove trovare tutto ciò che ci occorreva, si richiuse la porta alle spalle e ci lasciò soli, così che potessimo occuparci una volta per tutte di Cid. Con l’aiuto di Patrick disinfettai le sue ferite e, anche se con ben poca dimestichezza, gli fasciammo braccia e torace, distendendolo poi sul letto al centro della stanza.
    Afferrai la sedia posta contro il muro e mi sedetti al suo fianco, sia per controllare la regolarità del suo respiro, sia per placare le lievi fitte che sentivo ancora al petto. Il dolore si era placato, in verità, e ciò avrebbe dovuto essere un buon segno.
    D’un tratto sentii Patrick trarre un lungo sospiro, prima di guardarmi attentamente in viso. «Perché mi ha chiamato Jim, prima?», mi domandò, e io raggelai. L’avevo chiamato Jim? Quando, con l’esattezza? Faticai non poco a ricordare il momento esatto in cui l’avevo fatto, quasi fossi caduto in un bizzarro stato di semi-incoscienza che non riuscivo ad identificare.
    Imprecai a denti stretti non appena lo rammentai, ravvivandomi i capelli all’indietro prima di incassare la testa nelle spalle. «Forse è arrivato il momento di dirti tutto, ragazzo», cominciai, decidendo di guardare insistentemente il capezzale di Cid anziché lui. Non volevo ancora affrontare la realtà di quel discorso, forse perché io stesso avevo ancora qualche dubbio al riguardo. Ma fu traendo un lungo sospiro che cominciai a raccontargli con gran dovizia di particolari ciò che era accaduto anni addietro nel mio villaggio, cogliendo con la coda dell’occhio i cambiamenti del suo viso. Dapprima apparve confuso, quasi non avesse capito perché avessi deciso di parlargli di tutte quelle cose, sgranando pian piano gli occhi quando, una volta arrivato a narrargli dell’attacco che aveva sconvolto la quiete della nostra isola, parve rammentare qualcosa di quella situazione.
    La parte peggiore fu dirgli la verità sulle sue origini. Con lo sguardo ancora fisso su Cid, che aveva cominciato a respirare con maggiore regolarità, cercai di farmi forza e di spiegargli per filo e per segno come stessero le cose. Quando conclusi, però, il modo in cui Patrick mi guardò sembrò a dir poco sconvolto. «E tu», cominciò con voce fremente, quasi si stesse trattenendo dall’alzare il tono, «me l’hai tenuto nascosto per tutto questo tempo?»
    Trassi un lungo sospiro, annuendo. «Ho dovuto», soffiai, vedendolo portarsi una mano alla testa come se faticasse ancora a credere a ciò che avevo appena detto. E come dargli torto? Anch’io non riuscivo a farci i conti, per quanto sapessi che fosse la pura e semplice verità.
    «Mio fratello», mormorò poi a mezza voce, lasciandosi cadere seduto a gambe incrociate sul pavimento, osservando un punto indefinito dinanzi a sé. Lo lasciai fare, non ritenendo necessario richiamarlo. L’avevo sconvolto abbastanza, per quel giorno, e si meritava almeno un attimo di tregua.
    Per l’ultimo addio ci sarebbe stato tempo
.
 

 

[1] Espressione che in termini stretti significa “Non mostrare alcuna pietà”.
La scelta del titolo sarà chiara durante la lettura del capitolo, sebbene già dalle prime righe si possa evincerne il motivo.



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Capitolo 9
*** [ Atto IX: St. George's, Locanda › Mar dei Caraibi, 1768 ] No prey, no pay ***


Oceani_9 ATTO IX: ST. GEORGE’S, LOCANDA › MAR DEI CARAIBI, 1768
NO PREY, NO PAY
[1]

    Quando riaprii gli occhi mi resi conto che il grigiore che stavo osservando altro non era che il soffitto sopra di me.
    Mi sentivo la testa pesante e il mio intero corpo doleva da impazzire, come se fossi appena finito sotto gli zoccoli di un cavallo; un brusio sconnesso sembrava inoltre risuonarmi nelle orecchie come una bassa nenia, e mi ci volle un po’ per riuscire a capire di cosa si trattasse. Volsi la testa verso la direzione da cui provenivano quelle voci, vedendo due sagome sfocate in piedi vicino a quella che aveva tutta l’aria di essere una porta. Faticavo a capire che cosa stessero dicendo, e altrettanto difficile era cercare di ricordare che cosa fosse successo con esattezza. Tutto ciò che ricordavo era l’immagine del Commodoro dinanzi a me e la sua lama che mi trafiggeva le carni, poi soltanto un freddo intenso, quasi mi fossi ritrovato d’un tratto nel gelido abbraccio del mare.
    Assottigliai le palpebre per mettere a fuoco le due figure, riconoscendo ben presto l’alta sagoma vestita di rosso che altri non poteva essere che Gale; al suo fianco c’era un uomo anziano e grassoccio che non conoscevo, ma dal tono animato con cui stavano discutendo sembravano piuttosto in confidenza. Quanto tempo ero rimasto svenuto su quel dannato letto?
    Provai a drizzarmi a sedere, ma ci rinunciai ben presto quando avvertii una fitta al petto. La ferita a quanto sembrava non era ancora guarita, dunque non dovevano essere passati più di tre o quattro giorni da quando ero stato portato lì. Con una colorita imprecazione a mezza voce mi portai una mano all’altezza del cuore, sfiorando la fasciatura con due dita; riuscivo a sentire il calore della mia pelle attraverso di essa, e la cosa mi stupì. Ero stato più che certo che sarei morto, lasciando in sospeso il mio incarico.
    «Oh, ti sei svegliato?» domandò una voce tonante, e sussultai appena prima di gettare un’occhiata nella direzione da cui proveniva. Gale e quell’uomo mi stavano osservando con assoluta attenzione, quasi fossi stato una qualche creatura mitologica. E, beh, non erano poi così lontani dalla verità, quei due.
    Socchiusi gli occhi, come se la cosa potesse aiutarmi a pensare. «Dove sono?» sussurrai in tono rauco e aspro, tossendo per schiarirmi almeno in parte la voce.
    «Le domande a dopo, idiota. Ora torna a sdraiarti», sbottò Gale, e le sue parole sembrarono rimbombarmi nel cervello con la stessa violenza di grosse catene di ferro che venivano trascinate sul ponte di una nave.
    L’uomo grassoccio ridacchiò, avvicinandosi al letto per farmi adagiare lui stesso sul materasso, giacché non davo segno di volermi muovere da solo. «Fa’ come dice il tuo amico, pirata», diede man forte, e data la vicinanza potei sentire il forte odore di tabacco che lo avvolgeva come una nuvola di profumo. «Noi abbiamo parecchie cosa da discutere al piano di sotto».
    Gli scoccai un’occhiataccia ma non gli diedi peso, tenendo ancora la mano poggiata al petto. «Che cosa significa, Gale?» gli domandai, accorgendomi solo in quell’istante che mancava qualcuno all’appello, in quella stanza. «E dov’è Patrick?»
    «Il ragazzo sta alla grande, pensa a te stesso», tagliò corto, aprendo la porta senza tanti preamboli per incamminarsi per primo. L’uomo lì a fianco mi diede una leggera pacca sulla schiena e si diresse a sua volta verso l’uscita, raccomandandomi ancora di riposare prima di oltrepassare la soglia e richiudersi la porta alle spalle.
    Rimasto finalmente solo affondai la testa sul cuscino, traendo un lungo sospiro prima di cominciare ad osservare distrattamente il soffitto sopra di me. In quella stanza non c’era granché che richiamasse la mia attenzione, a parte una grande finestra dalle pesanti tende grigiastre che affacciava sulle mura dell’edificio a fianco. A parte quella e il letto sui cui mi trovavo non c’era altra mobilia.
    Socchiusi gli occhi, portandomi una mano alla fronte. Che fine aveva fatto il Commodoro, se io mi trovavo in quella squallida camera? Non lo sapevo, ma ciò di cui ero certo era che quell’idiota di Gale c’entrava sicuramente qualcosa con quella situazione. Nonostante le mie raccomandazioni era tornato indietro per aiutarmi, ma anziché rendermi felice quella cosa mi mandava letteralmente in bestia. Aveva una missione da portare a termine prima della fine e quel bastardo perdeva il suo tempo a starmi dietro. Sbuffai. Non sarebbe dovuto venire da me, ciò era indiscutibile, e gliene avrei dette quattro non appena fossi riuscito ad uscire da quel maledetto letto e a raggiungerlo di sotto.
    Volsi lo sguardo in direzione della porta, dietro la quale si udivano i rumori che provenivano dal piano di sotto. Il vociferare allegro e chiassoso della clientela aveva cominciato a martellarmi insistentemente nelle orecchie, facendomi dolere la testa; ad esso si era anche aggiunto il suono vivace di un piano e le parole di una canzone che non comprendevo, ma il ritmo mi riportava alla mente il periodo in cui avevo vissuto a San Salvador. Eh, erano passati solo sei anni dal giorno in cui me n’ero andato, eppure a me sembravano un’eternità.
    Imprecando a denti stretti poggiai una mano sul materasso e tentai di issarmi a sedere, sibilando quando una fitta di dolore mi sconquassò, lasciandomi paonazzo e senza fiato. Che umiliazione. Ridotto in quello stato pietoso da uno stupido ufficiale della marina. Mi passai una mano fra i corti capelli sudati, e ci volle tutta la mia forza di volontà per riuscire a gettare i piedi oltre il bordo del letto e alzarmi, riuscendoci per chissà quale miracolo.
    Rantolai e deglutii, umettandomi le labbra secche. La distanza che mi separava dalla porta non era molta, dunque avrei anche potuto farcela senza intoppi. Strascicando i piedi barcollai faticosamente in quella direzione, rischiando più volte di perdere l’equilibrio; dovetti abbassare e rialzare le palpebre in ben diverse occasioni a causa della vista ormai sfocata, ma una volta raggiunta la porta mi aggrappai alla maniglia come se essa rappresentasse la mia ancora di salvezza. Essere arrivati fin lì era un bel traguardo, però non ero del tutto sicuro del fatto che sarei riuscito a scendere anche nella locanda, dalla quale le voci si erano fatte più alte e divertite.
    Sbattei il pugno dell’altra mano contro il muro e aprii la porta senza tanti preamboli, restando accecato dalla forte luce delle lampade ad olio appese ai muri. Mi ci volle un po’ per abituarmi, e quasi feci per incamminarmi quando i miei occhi intercettarono una figura raggomitolata contro la parete, le cui palpebre abbassate tremolavano lievemente. Mi accigliai non appena mi resi conto che si trattava di Patrick. Che diavolo ci faceva lì?
    In quel mentre si lasciò sfuggire un lamento e, con lentezza, aprì gli occhi, sbattendo più volte le palpebre per abituarli alla luce. E forse fu proprio nel vedere la mia ombra stagliarsi sul pavimento che alzò lo sguardo, aprendo la bocca per la sorpresa. «Cid!» esclamò con una contentezza che rasentava l’impossibile, scattando in piedi come un grillo per abbracciarmi stretto. A quel fare mi lasciai sfuggire un lamento sommesso e lui, rendendosi conto di ciò che aveva appena fatto, allentò immediatamente la presa, allontanandosi da me. «Mi spiace!» farfugliò, guardandomi con tanto d’occhi. «Sei... sei ferito, non dovevo!»
    Non c’erano dubbi, era sicuramente imparentato con Gale. La stupidità era di famiglia. Nonostante il dolore provai ad abbozzare un sorriso, dandogli una pacca su una spalla. «Tranquillo, ragazzo», bofonchiai, umettandomi le labbra subito dopo. «Portami da quell’idiota del nostro Capitano, piuttosto».
    Per tutta risposta, lui scosse il capo. «Gale ha detto che devi riposare», replicò in tono autoritario, quasi volesse farsi valere. E nemmeno feci caso al fatto che avesse chiamato quell’idiota di un Capitano per nome, in quel mentre. Ero troppo impegnato ad imprecare contro tutti e tutto.
    Aggrottai la fronte e, sbuffando, decisi di incamminarmi da solo; Patrick mi afferrò subito per un braccio, approfittando della terribile debolezza che scorreva nel mio corpo come veleno. Soffocai una colorita imprecazione, costatando che, aye, in fondo quel moccioso ne aveva di forza. «Smettila di comportarti come un idiota, Cid», replicò, e in quel momento quasi mi parve che fosse stato Gale a parlare. «Sei stato gravemente ferito, è già un miracolo che tu ti regga in piedi».
    Gli scoccai un’occhiataccia, strattonando il braccio. E me ne pentii amaramente quando mi investì un’altra fitta di dolore. Fui costretto a socchiudere gli occhi e ad appoggiarmi al muro con una mano sulla ferita, stringendo i denti. «Tu non hai la benché minima idea di cosa significhi essere ferito gravemente, ragazzo», rimbeccai in un soffio. «Questi sono dannatissimi colpi di striscio, e il nostro stupido Capitano lo sa bene».
    Ciò detto gli diedi nuovamente le spalle e mi allontanai il più velocemente possibile da lui, almeno per quanto le mie gambe e le mie condizioni me lo permettessero. Non prestai neanche ascolto ai suoi richiami, né tanto meno al fatto che mi stesse seguendo passo dopo passo nel tentativo di farmi desistere dal mio intento. In quello era in tutto e per tutto identico a Gale: un completo idiota.
    «Cid», mi chiamò ancora una volta con un lamento, accostandosi a me senza però trattenermi come aveva tentato di fare fino a quel momento. Camminando contro il muro mi muovevo sfruttando la forza dell’unico braccio ancora sano, e fu con una certa diffidenza che lanciai una rapida occhiata a Patrick, pur non aprendo minimamente bocca. Già mi innervosiva il semplice fatto di farmi vedere ridotto in quel modo... il suo insistente seguirmi era la goccia che faceva traboccare il vaso.
    Socchiusi gli occhi e tornai a guardare dritto dinanzi a me, trascinandomi contro la parete. «Se non intendi portarmi da Gale, ragazzo, smettila di seguirmi», abbaiai. «Non abbiamo tempo da perdere in questa topaia».
    «Ma Gale ha detto...» riprovò, ma lo interruppi con un brusco gesto della mano.
    «Non mi interessa che cosa ha detto, Patrick», sbottai, sorpassando la porta di una camera dalla quale provenivano bassi sussurri. «Dobbiamo andarcene da qui alla svelta, sono stato chiaro?»
    Con la coda dell’occhio lo vidi annuire di controvoglia, atteggiando il viso ad un’espressione alquanto contrariata prima di superarmi e piazzarsi davanti a me, quasi volesse bloccarmi il passaggio. Aveva persino allargato le braccia, fissandomi agguerrito. «Capisco la tua fretta, Cid, ma come credi di poter governare una nave se sei ridotto in quelle condizioni?» replicò in tono aspro, quasi adulto, e stonava non poco con la figura mingherlina che mostrava. «Perché diavolo non puoi attendere qualche giorno?»
    Chiusi una mano a pugno e la abbandonai lungo un fianco, poggiandomi con la schiena al muro. Trassi persino un lungo respiro, quasi volessi calmarmi, picchiando lievemente il capo contro la parete. «Se te lo dicessi non capiresti, ragazzo», soffiai in risposta. «E’ per questo che devi portarmi immediatamente da Gale. Non abbiamo un minuto da perdere. Per noi ogni istante è prezioso». Mi ravvivai i capelli all’indietro, sentendoli umidi sotto le dita. «E il fatto che la marina ci dia la caccia c’entra ben poco».
    «Tu e Gale non mi dite mai niente, siete sempre così misteriosi», rimbrottò, accostandosi a me prima di cingermi i fianchi e afferrare al tempo stesso un mio braccio per passarselo dietro alle spalle. A quel fare mi ritrovai a dilatare gli occhi, incredulo a dir poco. Che cosa diavolo aveva in mente, quel moccioso? Si vedeva lontano un miglio che faticava a sorreggere il mio peso, e anche quando mosse qualche passo malfermo confermò la mia costatazione. «Non ho idea del perché voi due idioti teniate tutto per voi, ma mentre ti portavamo qui mio fratello ha accennato ad una cosa importante che dovete fare».
    Feci per aprire bocca e rispondergli per le rime quando mi resi realmente conto di ciò che aveva appena detto, sgranando gli occhi. «Tuo fratello?» ripetei stralunato. «Gale ti ha... ti ha raccontato tutto?» Non lo credevo possibile, giacché quello stupido Capitano mi aveva espressamente pregato di tenere la bocca chiusa riguardo quella situazione. Venire dunque a conoscenza del fatto che fosse stato proprio lui a cantare mi sembrava più che bizzarro.
    Patrick, o forse avrei fatto meglio a dire Jim, si limitò semplicemente ad annuire, continuando a guardare dritto dinanzi a sé mentre faceva leva con le ginocchia, così da poter sorreggere almeno in parte il mio peso senza problemi. Giacché non aveva avuto la benché minima intenzione di aprire bocca e di aggiungere qualcosa, lasciai semplicemente cadere lì il discorso e mi limitai a fissare a mia volta il corridoio parzialmente illuminato, sforzandomi di camminare anche senza il suo aiuto. Stavo cominciando ad odiare ogni secondo di più quella stramaledetta situazione, ma se volevo rispettare la mia tabella di marcia dovevo ingoiare il rospo e farmi dare una mano da quel moccioso.
    Il percorso che ci separò dalla rampa di scale che portava di sotto parve protrarsi all’infinito. A causa delle mie condizioni procedemmo a passi lenti e moderati, e potei trarre un lungo sospiro di sollievo solo quando Patrick, attraversando un piccolo disimpegno dalle pareti di legno, svoltò a destra fino a portarmi dinanzi ad una porta borchiata, picchiettando due volte le nocche contro di essa. Aprendosi rivelò la figura dell’uomo di mezza età che avevo visto in compagnia di Gale, e adocchiandomi si accigliò, quasi si stesse domandando il perché della mia presenza. «Cosa diavolo ci fa qui?» chiese a Patrick, additandomi come se io non fossi presente.
    In quel mentre fece capolino anche la testa di Gale, che sgranò gli occhi non appena mi vide. Si alzò in un lampo dalla sedia su cui era accomodato, raggiungendoci a grandi falcate prima di fermarsi a pochi passi da noi, infuriato a dir poco. «Tu, maledetto idiota, tornatene di sopra e vedi di restarci», sibilò inviperito, scoccando un’occhiataccia a Patrick. «Perché credi che ti abbia lasciato lì fuori a fare la guardia, Jim?» sbottò, ricevendo una pacca su una spalla dall’uomo al suo fianco.
    «Te l’avevo detto che il ragazzo non sarebbe riuscito a tenerlo fermo, pirata», rimbeccò in tono vagamente ilare. «Il tuo amico è proprio una testa calda, e vi converrebbe filarvela finché siete in tempo».
    «Finalmente qualcuno che dice qualcosa di sensato», sbottai, rimediandoci ben due occhiatacce. Però non vi diedi peso, sforzandomi di restare in piedi sulle mie sole gambe, scansandomi con ben poco garbo da Patrick. «Il vecchio ha ragione, Gale, lo sai bene anche tu», soggiunsi, guardando con attenzione il mio Capitano. Aveva assunto un’espressione tutt’altro che accondiscendente, ma si vedeva benissimo che, volente o nolente, conveniva anche lui su quanto era stato appena detto.
    Fu dunque con un lungo sospiro che si voltò verso l’uomo, accennando un saluto con il capo. «Ti ringrazio per l’aiuto, Josh», sembrò quasi bofonchiare, lungi dal voler intraprendere il viaggio con me in quelle condizioni. «Mi porto via questo mentecatto una volta per tutte, tanto sarebbe inutile tentare di convincerlo».
    «Diamoci una mossa, piuttosto», mi intromisi, cominciando ad incamminarmi da solo senza darmi pena di aspettarli. Dietro di me sentii giusto gli ultimi convenevoli e saluti veloci prima che quei due mi raggiungessero; sebbene avessi già percorso un buon tratto di strada con le mie sole forze, Patrick mi passò nuovamente un braccio intorno ai fianchi, e probabilmente fu solo per sfinimento che lo lasciai fare, non avendo la forza di combattere né con lui né tanto meno con Gale. Mi bastava difatti la sua espressione poco convinta per capire che non era per niente contento della decisione che avevo preso. Ma, al diavolo! Volevo andarmene da lì e riprendere il mare il più in fretta possibile.
    Mi lasciai sfuggire un’imprecazione soffocata quando persi parzialmente l’equilibrio, e fui costretto a piegarmi a mezzo busto, mantenendomi in piedi solo grazie al pronto intervento di Patrick, che mi sorresse immediatamente nonostante avesse rischiato di cadere a sua volta. «E’ tutto okay, Cid?» mi domandò, però mi limitai a rispondere soltanto con un basso grugnito d’assenso.
    Superare il mare di gente che affollava la locanda ed uscire fuori nella fresca brezza serale fu un vero e proprio toccasana, per me. Dopo aver respirato quell’olezzo pestilenziale di whisky scadente e sudore fino a quel momento, inspirare aria salmastra e umida sembrò far scoppiare di gioia i miei polmoni, che riempii avidamente come se avessi appena imparato a respirare. Non mi pesò neanche il dover attraversare le stradine affollate e festose, dove gente indaffarata scalpicciava e gridava allegramente, ebbri di vino e di felicità.
    Fu possibile avere un po’ di silenzio solo quando giungemmo nei pressi del porto, e una volta saliti a bordo mi affrettai di dare ordine a Patrick di occuparsi delle vele, vedendolo atteggiare il viso ad un’espressione contrariata prima di ubbidire senza proferir parola, bofonchiando però qualcosa a mezza voce riguardo alla mia salute. Ah, dannato ragazzino impiccione. La mia salute stava alla grande, erano loro che non volevano capirlo.
    Mi diressi sottocoperta per capire da solo in che condizioni ero, ignorando prontamente l’occhiata che mi lanciò Gale. Non volevo affrontare nessun discorso con lui, o almeno non in quel momento. Così, per quanto concessomi, mi affrettai a raggiungere la cabina e ad entrarci dentro, liberandomi della parte superiore dei miei vestiti con una piccola smorfia sofferente. Braccia e torace erano nascoste da una grossa fasciatura sporca di rosso in più punti, e fu dunque con uno sbuffo che cominciai a disfarla pian piano, in modo tale da poterla cambiare e vedere al tempo stesso com’ero ridotto. Fui alquanto sorpreso nel costatare che era meno peggio di quel che mi aspettassi, forse perché la ferita aveva già cominciato a rimarginarsi. Beh, tanto meglio così. Non avevo bisogno di perdere tempo con idiozie del genere.
    «Cid». Impegnato com’ero nell’occuparmi delle mie ferite, ci misi un po’ a rendermi conto che Gale mi aveva chiamato, e fu solo quando riuscii ad afferrare un lembo di garza con i denti che gli scoccai appena un’occhiata.
    «Cosa c’è?» domandai, sebbene in cuor mio conoscessi già la risposta.
    «Ho un ultimo favore da chiederti», rispose difatti, traendo un lungo sospiro. «Prima della fine... facciamo rotta verso San Andres, te ne prego».
    Sollevai un sopracciglio, non prima di aver stretto il nodo al braccio. Gale che si abbassava a pregarmi? Doveva essere per un motivo veramente serio se si spingeva a tanto, non c’era altra spiegazione. Non alzai dunque lo sguardo verso di lui, forse per timore di vedere l’ansia distruggere i lineamenti del suo viso, limitandomi ad osservare la fasciatura già intrisa di sangue. «È per il ragazzo, giusto?» rimbeccai senza mezzi termini, sentendo rumoreggiare dentro di me un qualcosa di paragonabile solo alla gelosia. In tutti quegli anni non avevo mai provato niente di simile per un essere vivente, donna, uomo, vecchio o bambino che fosse; avevo sempre svolto il mio incarico con rapidità e scioltezza, senza intrattenere nessun tipo di rapporto con nessuno di loro. Con Gale, invece, era stato diverso, e a volte me ne rammaricavo terribilmente.
    «Ti chiedo solo questo, Cid», insistette con voce tremante, e fu quello il motivo per cui alzai finalmente gli occhi per osservarlo. Aveva chiuso le mani a pugno e rilasciato le braccia lungo i fianchi, con in viso un’espressione rammaricata e addolorata. «Voglio che Jim sia al sicuro».
    Imprecai a denti stretti, maledicendomi; avrei dovuto mettere la parola fine quando ne avevo avuto l’occasione invece di attendere tutto quel tempo. Adesso mi ero affezionato troppo a quell’idiota di un Capitano, e non sapevo se la cosa mi snervasse o no. «Sappi che non lo faccio per il ragazzo, ma per te», ci tenni a precisare infine, alzandomi in piedi per fronteggiarlo. «San Andres sarà la nostra prossima meta».
    Gale sorrise tristemente, abbracciandomi per darmi due pacche sulla schiena. «E poi dritti verso il fondo dell’oceano, come da accordo»
.
 

 

[1] Una legge pirata molto comune.
Il senso sarà intuibile durante la lettura del capitolo, o almeno questa è l’intenzione.


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Capitolo 10
*** [ Atto X: Isola di San Andres, Villaggio › Mar dei Caraibi, 1768 ] Davy Jones' Locker ***


Oceani_10 ATTO X: ISOLA DI SAN ANDRES, VILLAGGIO › MAR DEI CARAIBI, 1768
DAVY JONES’ LOCKER
[1]

    Non riuscivo ancora a credere a ciò che i miei occhi mi stavano mostrando. A bocca aperta avevo cominciato a guardarmi intorno sin dal momento in cui avevamo attraccato ed eravamo sbarcati, con le braccia distese lungo i fianchi e le gambe che mi tremavano a causa della bizzarra emozione che mi aveva investito.
    Avevo saputo la verità sulle mie origini da non molto tempo, e, sebbene non ricordassi niente dei momenti passati in quel posto, nell’osservare la vasta distesa verde che avevo dinanzi mi sentivo stranamente nostalgico. Cespugli e rovi sorgevano in ogni dove, e gli alberi, i cui rami ormai spogli oscillavano piano al vento che si era innalzato, apparivano simili a tante sinistre sentinelle poste a protezione di quel luogo senza tempo.
    «San Andres», esordì d’un tratto Gale, lo sguardo puntato a sua volta dritto davanti a sé. «Il luogo dove siamo cresciuti entrambi». Non abbassò gli occhi per guardarmi in viso, però sorrise quasi tristemente. «Bentornato a casa, Jim».
    Mi umettai le labbra, portando la mia attenzione verso le costruzioni in rovina che scorgevo in lontananza. «Casa», ripetei in un soffio, facendo fatica a deglutire. Era davvero casa mia, quella?
    «Stai cominciando a ricordare qualcosa?»
    Scossi il capo, cercando al tempo stesso di fare mente locale. Di quel giorno lontano ricordavo solo le alte fiamme che avevano avvolto il villaggio, il fetore del grasso umano che bruciava e il viaggio che avevo compiuto in seguito in mare a bordo di quella nave pirata; tutto ciò che era avvenuto prima, però, era ancora tutto avvolto da una nebbia che non riuscivo a dissipare, una terribile incognita che sembrava farsi più fitta mano a mano che avanzavo.
    Gale mi diede una pacca su una spalla. «Con il tempo ci riuscirai, vedrai».
    «E gli conviene anche farlo in fretta». Cid, che dopo essersi avvicinato a noi si era intromesso nel nostro discorso, mi lanciò uno sguardo eloquente, riportando poi la propria attenzione sul viso del Capitano. «E’ ormai tempo di andare, Gale», gli disse semplicemente, senza aggiungere nient’altro ma sfiorandosi il petto con due dita, esattamente nel punto in cui era stato ferito.
    Ricevette una rapida occhiata da Gale, che sospirò sconsolato prima di annuire. «Aye, ti raggiungo subito», replicò, passandomi un braccio dietro alle spalle senza che io mi opponessi. Lo shock che mi aveva provocato il ritrovarmi lì era stato grande, e ancora faticavo a credere che quella fosse realmente la mia isola natale. Per anni avevo sognato di riacquistare la memoria e di ricordare così chi fossi e dove avessi vissuto prima di giungere a Porto Rico, ma mai mi sarei sognato di credere che provenissi da una stirpe di pirati. Ma ciò spiegava la sete di avventura che avevo provato sin dalla prima volta che avevo udito i racconti della clientela che stanziava nella locanda, e non mi era più così difficile comprendere perché mi ribollisse ogni qual volta il sangue nelle vene. Viaggiando con Gale e Cid, però, avevo appurato che la vita in mezzo all’oceano non faceva affatto per me: ero goffo, poco attento, non sapevo maneggiare un’arma né tanto meno sapevo governare un vascello... come pirata ero un fallimento, e niente avrebbe potuto cambiare le cose. Forse se fossi cresciuto lì, in quel villaggio di cui adesso stavo osservando le macerie, le cose sarebbero state diverse.
    Seguii Gale fra le erbacce che erano cresciute intorno ai blocchi di pietra crollati a causa delle cannonate, scavalcando travi di legno logorate e annerite dal fuoco; ovunque mi guardassi vedevo oggetti di uso quotidiano sparsi in ogni dove, da cocci rotti a bambole di pezza macchiate di sangue, appartenute molto probabilmente a qualche bambina del villaggio. Alla vista di tutto ciò mi si strinse il cuore: era stata quella la sorte che era toccata a chi non era riuscito a scappare? Vedere i propri cari cadere come mosche prima di venir trucidati a loro volta?
    Strinsi gli occhi con forza, non volendo vedere oltre; ma anche se avessi tenuto le palpebre abbassate per tutto il tragitto non sarebbe servito a niente, giacché la testimonianza di quanto accaduto era proprio lì davanti a me, che lo volessi oppure no. Mi sembrava di sentire il respiro di ogni singola pietra, di ogni filo d’erba o tronco d’albero, persino i sussurri di quel passato che non riuscivo a ricordare con esattezza.
    Cercai dunque di farmi forza e, riaperti gli occhi, continuai a seguire Gale, che mi aveva frattanto lasciato per aumentare da solo il passo; ci fermammo soltanto quando superammo il villaggio e ci ritrovammo nei pressi di una collina erbosa, dove sembrava esserci un cimitero. Il mio sguardo vagò fra quella vasta distesa di lapidi contrassegnate da semplici bastoni legati fra loro a formare una croce, ed erano così marci e scheggiati da darmi l’impressione che potessero collassare su loro stessi in qualsiasi momento. «Quante tombe...» sussurrai, sfiorando la pietra di una di esse e sporcandomi subito dopo le dita. Era umida e imbrattata di terriccio, ed emanava uno strano odore che mi riportò alla mente quello della cenere.
    Il Capitano mi poggiò delicatamente una mano su una spalla. «Appartengono a tutte le persone morte quel giorno», mi spiegò, quasi l’avesse ritenuto necessario. Mi condusse fra la moltitudine di pietre tombali abbandonate a loro stesse e io lo lasciai fare, avvertendo la profonda malinconia che sembrava scaturire dal suo stesso corpo. Avevo davvero vissuto anch’io quella tragedia? Avevo sul serio visto tutte quelle persone morire nel vano tentativo di mandar via i pirati che li avevano così brutalmente attaccati? Non lo ricordavo minimamente e, per quanto Gale mi avesse detto e ripetuto di essere mio fratello per tutto il viaggio e oltre, ancora non riuscivo a rammentare niente di lui o di quanto era accaduto.
    Spronato da Gale, mi chinai verso una delle tombe esterne che avevamo raggiunto, ripulendola dal muschio che la ricopriva con entrambe le mani e ignorando la viscida sensazione che esso mi trasmetteva ogni qual volta le mie dita ne sfioravano la vischiosa consistenza. «Questa... è di nostra madre?» chiesi poi non appena riuscii a leggere il nome inciso sulla pietra, osservandolo quasi con referenziale tristezza. Non ricordavo assolutamente niente di quella donna, e mi sembrava una cosa a dir poco meschina nei suoi confronti, nei confronti di colei che aveva rischiato la propria vita solo per proteggermi.
    Gale annuì appena senza dire una parola, indicando poi la tomba affianco ad essa. Lo osservai e sbattei le palpebre, non riuscendo a capire cosa volesse dire, ma lui mi fece cenno di districare anche quella dal muschio e dalle erbacce che erano cresciute tutt’intorno e che non mi permettevano di leggere il nome, sollevando un sopracciglio quando mi fu finalmente possibile. «Chi era questo Thomas? Porta lo stesso cognome della mamma».
    La risposta che mi diede, con voce così pacata che non sembrò appartenere allo strambo Capitano che avevo imparato a conoscere, mi raggelò seduta stante. «Ero io».
    Sgranai gli occhi e boccheggiai, portandomi una mano fra i capelli come se quel gesto potesse servire a dare un senso a quelle parole. «M-ma... è impossibile», farfugliai, non riuscendo a credere a ciò che le mie orecchie avevano appena sentito. Mi stava forse prendendo in giro? Cosa diavolo voleva intendere? «Questo significherebbe che tu sei...»
    «...morto».
    La cosa stava diventando sempre più strana, specialmente a causa del tono schietto e pacato con cui Gale stava pronunciando quelle parole. Lo vidi persino gettare una rapida occhiata verso Cid, e mi venne spontaneo domandare, «E anche Cid è un...»
    Gale stornò nuovamente lo sguardo su di me, incerto. «Cid?», ripeté, alzando appena un angolo della bocca in un mezzo sorriso. Si lasciò sfuggite uno sbuffo ilare, incrociando subito dopo le braccia al petto. «Och, beh, lui è una sorta di traghettatore, sai», mi confessò, e sebbene il suo tono parve di scherno capii immediatamente che non scherzava. Erano davvero... morti. Erano morti, eppure avevo viaggiato con loro fino a quel momento, avevo vissuto mille avventure, riso, pianto, scherzato... non riuscivo davvero a credere di aver condiviso tutto ciò con due persone che non avrebbero nemmeno dovuto essere lì.
    «Adesso ci credi a quelle vecchie storie di fantasmi che ti raccontavo quand’eri più piccolo, Jim?» mi domandò vagamente spassoso, ma si sentiva benissimo che aveva tentato di usarlo solo per alleggerire la situazione. Mi scompigliò i capelli con fare paterno, ravvivandomeli poi all’indietro prima di chinarsi verso di me. «Stammi bene, ragazzo», soggiunse in un sussurro, raddrizzando la schiena e traendo un sospiro.
    Accennò un altro saluto con il capo, dandomi infine le spalle per cominciare ad incamminarsi nella stessa direzione in cui era già sparito Cid, che aveva deciso di lasciarci soli per concederci un po’ di privacy. Io me ne restai lì ad osservarlo, inerme come una bambola di pezza a cui erano stati appena strappati gli arti, la fronte aggrottata da emozioni che fino a quel momento non avevano mai solcato il mio viso. Non volevo vederlo sparire ancora una volta. Non volevo ritrovarmi di nuovo solo. Perché doveva andare per forza così?
    Sentii le lacrime bruciarmi agli angoli degli occhi. «Non voglio che tu vada, Gale», gracchiai con voce strozzata dal pianto, avvertendo la saliva che mi bloccava la gola. Mi stavo trattenendo per non singhiozzare, però mi fu ancor più difficile farlo quando lui si fermò di botto e si voltò verso di me, osservandomi attento con quei suoi occhi verdi e profondi che esprimevano più di quanto avesse mai potuto dirmi a parole.
    La cosa che mi fece ancora più male fu vedere che sorrideva. Nonostante tutto, nonostante il fatto che dovessimo separarci ancora, lui sorrideva. «Andiamo, ragazzo, cosa sono quei lacrimoni?» mi disse, inclinando un po’ il capo di lato. «Questo non è mica un addio, eh».
    «Lo è, invece», insistetti, passandomi la mano destra su una guancia e tirando su con il naso. Non mi importava niente di star facendo la figura del bambino a cui mancava la madre; avevo bisogno di sfogarmi, di piangere tutte le lacrime che mi ero tenuto dentro in quegli anni, e non riuscivo ancora a capacitarmi del fatto che dovessi lasciar andare una volta per tutte l’unico membro della mia vera famiglia che avevo conosciuto.
    «Affidiamo a te la mappa, Jim», mi disse poi in un mezzo sussurro, prendendomi svelto una mano per far sì che afferrassi saldamente quel pezzo di carta stropicciata che mi stava porgendo con così tanta apprensione. «Fanne buon uso, nascondila oppure distruggila, spetta solo a te decidere il da farsi». Quando alzai gli occhi vidi che sorrideva ancora, e la cosa mi snervò. «Verso ovest c’è una città, dista pochissimo da qui. Alcuni abitanti sono le poche persone sopravvissute all’assalto di sei anni fa, mostra loro il doblone che custodisci e capiranno subito chi sei; ti accoglieranno come un figlio, vedrai».
    Le sue parole, però, anziché rassicurarmi, fecero aumentare il groppo che ormai sentivo in gola. Strinsi la mappa che mi aveva consegnato e abbassai le palpebre talmente forte che sentii la testa scoppiarmi, e dovetti trarre un lungo sospiro per impedirmi di singhiozzare come un moccioso ancora una volta. Ci stavo provando davvero a comportarmi come un uomo degno di tale nome, ma mi sembrava di non esserne all’altezza. Con la coda dell’occhio vidi nuovamente la figura piccola e lontana di Cid, che attendeva nei pressi del vecchio porto con le braccia incrociate al petto; non potevo vederlo con attenzione in viso, ma ero sicuro quasi al cento per cento che la sua espressione fosse impassibile. Tornai dunque a guardare Gale, umettandomi le labbra prima di passarmi di nuovo il dorso della mano sul viso. «Cid ti sta aspettando», ebbi infine il coraggio di mormorare, conscio che se non l’avessi fatto in quel momento non ci sarei più riuscito.
    Lo vidi lanciarsi un’occhiata alle spalle come se volesse controllare la posizione del suo vice, alzando poi un braccio per fare un rapido cenno nella sua direzione. Quando stornò lo sguardo su di me, si tolse il giaccone - quel maledetto giaccone logoro e trasandato di cui non si liberava mai - e me lo poggiò sulle spalle, facendomi sgranare gli occhi, scombussolato. «Ti affido anche questo, ragazzo», esordì con voce lieve. «Vedi di farci attenzione, mi raccomando».
    Guardai lui e poi il giaccone, non riuscendo a capacitarmi del fatto che fosse tremendamente caldo. Mi strinsi dentro di esso, chinando il capo e affondando il viso nella stoffa logora: odorava di tabacco, salsedine e liquore, ma in quel momento mi parve il profumo più bello che avessi mai sentito. «Mi sta grande», pigolai, sforzandomi di fare uscire dal fondo della mia gola una mezza risata, così da alleggerire quella situazione.
    «Ci crescerai dentro, tranquillo», rimbeccò Gale, scompigliandomi ancora una volta i capelli. «Ti porterà fortuna, proprio come il doblone di nostro padre. Ha permesso che ci incontrassimo, no? Custodiscili come farebbe un vero pirata con il proprio tesoro».
    Non gli risposi, però annuii piano, ancora stretto in quel giaccone che odorava di tutte le avventure e scorribande che aveva affrontato insieme al suo precedente possessore. Non ebbi nemmeno il coraggio di alzare lo sguardo quando sentii Gale salutarmi un’ultima volta prima di allontanarsi, concentrandomi unicamente sul rumore dei suoi passi sul terreno umido e fragrante; udii il richiamo di Cid e li sentii parlottare, e fu solo a quel punto che mi decisi ad alzare la testa, vedendoli gettarmi un ultimo sguardo prima di risalire sulla nave, salpando una volta per tutte da quei lidi a vele spiegate.
    Le labbra mi tremarono ancora una volta e, prima ancora che il mio cervello potesse mandare segnali ai nervi, mi strinsi quel giaccone addosso e corsi, corsi come non avevo mai fatto fino a quel momento, con le gambe che mi dolevano ad ogni falcata; arrivai al porto e seguii la rotta della nave dalla terra ferma, osservandola mentre diveniva sempre più piccola e distante, con quelle vele nere che si gonfiavano ad ogni folata di vento e la chiglia che veniva investita dalle onde del mare. Mi fermai solo quando non ebbi più fiato nei polmoni e non riuscii più a vedere nemmeno uno scorcio del veliero, accasciandomi a mezzobusto con le mani poggiate sulle ginocchia e gli occhi ormai gonfi di lacrime, le orecchie colme dello sciabordio delle onde contro le pareti rocciose.
    Alla fine era andata così. Il mare ci aveva divisi e aveva poi fatto sì che ci incontrassimo ancora una volta dopo anni, separandoci definitivamente in seguito senza che potessimo far niente per impedirlo. Thomas Randall, altresì detto Capitan Gale, era entrato nella mia vita come una tempesta e con la stessa furia se n’era andato, lasciandosi trascinare via dalle onde di quell’oceano in tumulto che stavo osservando. Un oceano in burrasca, proprio come il mio cuore
.




OCEANI IN BURRASCA
FINE
 






 

[1] Espressione che, oltre a significare “Lo scrigno di Davy Jones”, è anche un eufemismo per “il fondo dell’oceano”, inteso come luogo in cui riposano i marinai annegati, ovvero “una tomba in fondo al mare”.
La scelta del titolo sarà chiara mano a mano che si procederà con la lettura del capitolo, o almeno questa è l’intenzione.




PRIMA CLASSIFICATA
OCEANI IN BURRASCA





_Note conclusive (E inconcludenti) dell'autrice
Questa storia è stata scritta per il “Pirates Contestindetto da visbs88, e si è classificata Prima per quanto io l'abbia considerata un'assurdità sin dal principio. Ma scriverla è stata un vero piacere, e vedere la posizione mi ha provocato una gioia inimmaginabile.
Siamo comunque finalmente giunti alla fine di questa storia, che ammetto sarebbe dovuta essere molto più lunga di quanto non sia adesso. E’ alquanto diversa da quelle che scrivo di solito, forse perché ho voluto giocare maggiormente la carta dell’avventura e della commedia anziché quella del drammatico...
Mi è piaciuto molto descrivere il rapporto fra Gale e Cid, che sebbene siano compagni non lo dimostrano quasi mai, se non in rarissime situazioni; essendo uomini di mare ho pensato che sarebbe stato assurdo dipingerli come una coppietta felice - e tra l’altro neanche mi piace scrivere storie in cui la coppia in questione è tutta “cicci cicci miao miao”, mi fa davvero venire l’orticaria -, e ho dunque dato al loro rapporto questa tonalità :3
Spendiamo inoltre due parole sull’ultimo capitolo: tutti i piccoli riferimenti che mettevo mano a mano nella storia servivano per arrivare esattamente a questa conclusione, lasciando credere al lettore che Gale si fosse salvato dalla strage avvenuta al suo villaggio e che avesse cominciato a solcare i mari alla ricerca del fratello scomparso. E’ invece morto anche lui e il suo animo non ha trovato pace, vagando come un fantasma corporeo e partendo alla volta di quel vasto oceano, procurandosi persino una ciurma con la quale raggiunge mille e mille luoghi fino all’incontro con Cid, il cui ruolo è anche quello di traghettare le anime. Per farla breve, tutti i precedenti capitoli e tutto ciò che viene raccontato in essi sono stati solo un’avventura fasulla vissuta da un fantasma (Gale) e dal suo Caronte (Cid) fino al raggiungimento del desiderio del fantasma stesso: trovare il fratello e accertarsi che stesse bene, perché in fin dei conti, aye, essere un pirata significa anche inseguire i propri sogni, le proprie ambizioni e i propri ideali *Le sparano perché guarda troppo One Piece*
Ecco anche spiegato il motivo per cui in realtà su quella benedetta nave sono soltanto in tre. Essendo dei fantasmi, beh... la cosa sarebbe risultata alquanto bizzarra. Fino a questo momento non avevo mai scritto una storia di pirati, dunque è stata una bella esperienza; per quanto io abbia visto molti film e letto un paio di libri sull’argomento, avevo un po’ paura a presentare questa storia perché all’inizio non mi convinceva. Però alla fine eccola qui ;)
E’ un po’ incasinata, non lo nego, ma spero comunque che sia stata comprensibile e che, in special modo, sia piaciuta

Alla prossima ♥
_My Pride_



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