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di AlexisLestrange
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Proprietà privata ***
Capitolo 3: *** Visite sgradite ***
Capitolo 4: *** Lettere e testamento ***
Capitolo 5: *** Il Tè delle Otto ***
Capitolo 6: *** Questioni di legge ***
Capitolo 7: *** Libertà provvisoria ***
Capitolo 8: *** Parenti serpenti ***
Capitolo 9: *** Due in una ***
Capitolo 10: *** Favole della notte ***
Capitolo 11: *** Maryanne ***
Capitolo 12: *** Sale e fuoco ***
Capitolo 13: *** All'ultimo minuto ***
Capitolo 14: *** Questione di sandwich ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Pioveva.
 
La casa si stagliava alta nel paesaggio grigio, seminascosta dagli alberi contorti che
avevano oramai perso tutte le foglie, quasi invisibile nel buio della sera.

Aveva un'aria di antica eleganza, anche se le pareti di legno bianco erano rovinate e
scheggiate, e sulle colonne davanti al portone di ingresso c'erano numerose crepature:
l'intera costruzione pareva stramente in bilico, come se dovesse cadere da un
momento all'altro, eppure, nello stesso momento, era imponente, e vagamente
inquietante.

Tutto era immerso nel buio, dentro, e dalle grandi vetrate al pianterreno, appannate e
bagnate di pioggia, non si intravedeva nulla.

Eppure, a guardare meglio, in una stanzetta al piano superiore una fieve e tremolante
luce sembrava vibrare attraverso una stretta finestra, illuminando appena una figura
minuta là affacciata.

Da così lontano, con tutto quel buio, e quell'acqua, era impossibile osservarla con
chiarezza, eppure anche così si distinguevano il viso sottile e i lunghi capelli biondi,
che ne incorniciavano il corpicino magro.

La bambina chiuse gli occhi.

È nostra, lo sai?

Tremò appena, percorsa da un brivido, e si strinse debolmente le braccia intorno al
corpo, come a volersi riparare da un freddo improvviso.

È nostra. Mia e tua. E lo sarà per sempre.

La figura attese qualche istante, poi si allontanò dalla finestra; pochi secondi dopo era
scomparsa all'interno della casa oscura.

«Lo so».

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Capitolo 2
*** Proprietà privata ***


La pioggia schizzava forte contro i vetri semiaperti della finestra, sulla quale,
comodamente acciambellato sul cornicione, stava seduto un ragazzo, fermo a fissare il
paesaggio fangoso appena fuori dall'hotel, completamente immerso nei suoi pensieri.

«Dean, stai facendo piovere dentro»

La voce del fratello, che lo guardava a metà tra il divertito e il seccato, lo riportò in
fretta alla realtà: balzando giù dalla sua posizione, Dean Winchester richiuse la
finestra, per poi buttarsi malamente su uno dei due letti della stanza, afferrando un
pacchetto di patatine dal comodino lì accanto.

Quella dannata pioggia lo stava facendo impazzire.

Erano tre giorni che stavano dentro quell'hotel, in una sperduta strada non lontana
dalla ancora più sperduta cittadina di Ashland, senza nulla da fare a parte girarsi i
pollici e cercare di abbordare qualche bella cameriera.

O almeno per quanto lo riguardava.

Sam, infatti, sembrava essere sempre parecchio occupato. Se ne stava tutto il giorno
attaccato al portatile, o a sfogliare il diario del padre. La nullafacenza pareva dare più
fastidio a lui che a Dean: per quanto il mondo pullulasse di crimini e omicidi d'ogni
tipo, riuscire a scovare qualcosa che li potesse riguardare non era facile. Proprio per
niente.

Quanti giornali lasciavano esplicitamente intendere l'intervento di forze sovrannaturali
nei così normali delitti di tutti i giorni? No, per individuare il caso giusto servivano
tempo, pazienza, e un occhio molto attento. Tutte cose che a Dean parevano mancare.

Pensò nostalgicamente al padre. Lui sì che era una forza: riconosceva la situazione,
sceglieva come agire, e dopo un paio di giorn, la storia era già chiusa, ed era pronto a
ricominciare. Lui sapeva sempre cosa fare. Lui non sarebbe rimasto tre giorni nel bel
mezzo del nulla.

Sam, ad ogni modo, era un valido sostituto. Davvero ottimo nel svolgere tutto quel
tremendo lavoro di ricerca che inorridiva il fratello al solo pensiero.

«Trovato niente?» fece Dean, con la bocca mezza piena. Era il suo ritornello
quotidiano, o meglio, la domanda che non mancava di fare ogni dieci minuti,
nonostante le continue intimazioni di Sam a tacere e a lasciarlo lavorare in pace,
come minimo.

Ma questa volta la sua risposta fu diversa.

«Credo di sì» gli disse, volgendo lo schermo del portatile verso di lui, che si drizzò
subito a sedere, in ascolto. «Sta a sentire questo articolo: ''Una casa abbandonata
terrorizza gli abitanti di Ironwood''. Dopo la morte dei precedenti proprietari, sono
scomparse tre persone che ne rivendicavano la proprietà... l'edificio sembra
irrangiungibile... in tutta la cittadina si parla di spettri...' cosa ne dici?» domandò,
alzando lo sguardo verso il fratello.

«Dico che finalmente c'è un bel lavoro per noi» commentò Dean con un sorrisetto,
ingoiando un'altra manciata di patatine in una volta sola. «Ironwood... non è lontana
da qui, vero?»

Sam scosse la testa. «Solo un paio di ore di viaggio» aggiunse, prima di richiudere il
portatile con un mezzo sospiro, gettando lo sguardo oltre la finestra. Fuori la pioggia
sembrava non volere dare loro tregua, e batteva più forte che mai, in uno scroscio
apparentemente infinito.

«Andiamo» conlcuse un attimo dopo, e seguì Dean fuori dalla porta, pronto a ripartire
per l'ennesima volta.

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Capitolo 3
*** Visite sgradite ***


«Quanto manca all'arrivo, caro?» domandò la donna osservando con aria critica il suo
riflesso in uno specchietto.

«Pochi minuti, Susanne, tesoro» le rispose l'uomo al suo fianco, in tono esausto,
senza smettere di osservare la strada bagnata attraverso l'andirivieni dei tergicristalli.

«Meno male, il viaggio è stato terribile, terribile! Con tutta questa pioggia...» si
lamentò quella: tacque il tempo necessario per sistemarsi il rossetto, che era di un
rosa fin troppo acceso, sulle labbra, per poi ricominciare a parlare con voce squillante.

«Proprio in questo posto fuori dal mondo doveva venire ad abitare mia sorella,
pover'anima, le avevo detto mille volte di trasferirsi in città, sarebbe stato più comodo
per tutte e due, ma lei è sempre stata così testarda...» s'interruppe di nuovo per
sistemarsi il fard sulle guance, ma il pesante trucco non servì a nascondere le
numerose rughe che indicavano chiaramente l'età avanzata della proprietaria.

«Lo hai già detto, tesoro» commentò l'altro alzando gli occhi al cielo. La moglie lo
ignorò.

«Spero che la bambina non sia come lei, o non saprei come regolarmi. Credi che sarà
contenta di vederci, Bill?» domandò ansiosamente.

«Ne sono assolutamente certo, chi potrebbe fare a meno della compagnia di una
donna deliziosa come te?» le rispose lui, con un filo d'ironia che Susanne non
intercettò.

«Oh, sei sempre stato un galant'uomo, caro. Infondo non puoi che avere ragione,
qualsiasi bimba della sua età è felice di avere un adulto responsabile al suo fianco...
oh, siamo arrivati?» esclamò sorpresa, vedendo che il marito rallentava. «Sì, ho visto
la casa, santo cielo, è davvero orribile! Chissà come avrà fatto quella povera creatura
tutto questo tempo, e... cos'è stato?» strillò all'improvviso.

Tutto d'un tratto, la macchina aveva tremato, come scossa da qualcosa.

«Non lo so, tesoro» fece Bill, preoccupato. «Forse è un...»

L'automobile vibrò di nuovo, questa volta più forte: non c'erano dubbi, la spinta non
veniva dall'interno, ma da fuori.

«Mio Dio, Bill, fa qualcosa!» gridò terrorizzata Susanne, rannicchiandosi sul sedile.

Ci fu una terza scossa, che non finì più.

Sotto di loro, la terra si squarciò in due, e cominciò ad aprirsi, franando. La macchina
tremò, scivolando sulle spaccature: qualcosa d'indefinibile, molto simile ad un ramo, o
ad un artiglio, venne fuori da sotto, avvolgendo l'automobile. Un ultimo scossone, e
iniziarono a sprofondare inesorabilmente verso il basso.

Susanne strillava terrorizzata, sbattendo le mani contro il finestrino, cercando di
uscire, ma l'auto era già per metà conficcata nella terra, e scendeva sempre più: al
suo fianco, Bill si lasciò scivolare sul sedile, ad occhi chiusi, il cuore a mille.

Proprio nella grande casa di fronte, ad assistere al tremendo spettacolo, c'era una
bambina, nascosta dietro ad una finestra. Teneva le mani premute sulle orecchie, per
non sentire le grida della donna, ma sul volto non c'era traccia né di sorpresa, né di
timore: semmai, sembrava pervaso una cupa rassegnazione.

La scena non durò molto: pochi istanti dopo la carrozzeria rosso acceso della
macchina era già stata inghiottita dal terreno. Un altro istante, e venne
completamente sepolta dal fango, mentre la pioggia ed il vento ne cancellavano
qualsiasi traccia.

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Capitolo 4
*** Lettere e testamento ***


«Arrivati» commentò Dean, parcheggiando la macchina con una manovra altamente
improbabile, che fece sobbalzare due o tre pedoni dal marciapiede accanto.

Sam alzò gli occhi al cielo, ma non disse nulla, evidemente rassegnato all'idea che il
fratello non avrebbe mai cambiato stile di guida; quando vide dov'è che si erano
fermati, però, si accigliò.

«Alla stazione di polizia?» domandò, sorpreso. «Non andiamo a dare un'occhiata alla
casa?»

«C'è tempo per tutto» rispose tranquillamente Dean. «Prima andiamo a chiedere
qualche informazione. La prudenza prima di tutto, non è così?» aggiunse, lanciandogli
un'occhiata divertita.

«E il tuo piano per ottenere queste informazioni?» s'informò cauto Sam.
«Assolutamente illegale come al solito, immagino».

«Immagini bene» fece il fratello: estrasse dalla tasca due dei suoi numerosi tesserini
falsi, e gliene lanciò uno.

Sam lo afferrò al volo, esaminandolo. «Quindi io divento questo signor Dodge?» lesse,
alzando le sopracciglia. «Certo la fantasia non ti manca».

«Diciamo che l'inventiva è necessaria per due novelli poliziotti come noi» replicò lui
con un sorriso compiaciuto. «Forza, vieni dentro».

Nemmeno un minuto dopo si trovavano già nell'ufficio del capitano Redstone, che,
seduto comodamente in una poltroncina nera, davanti alla sua scrivania, stava
esaminando i loro tesserini, dubbioso.

«Agenti Jason Turles e William Dodge?» chiese, squadrandoli attentamente. «E venite
da...?»

«Dal distretto di Winconsin» rispose immediatamente Dean, che sembrava essersi
studiato per bene la sua parte. «Ci hanno mandato per indagare sulla scomparsa di...
Albert Dalloway e di Charles e Tina Wocks, visto che sembra che le ricerche, qui, non
abbiano avuto alcun risultato positivo».

Il suo tono era fin troppo intimidatorio, almeno secondo Sam, che si sentì in dovere di
pestargli un piede per ricordargli di essere più gentile; vide il fratello strizzare gli occhi
e trattenere un'imprecazione e non riuscì a reprimere un sorrisetto.

«Effettivamente non siamo riusciti a risalire alla causa» ammise il capitano,
fortunatamente troppo impegnato ad esaminare alcune carte davanti a lui per notare
l'accaduto. «Tuttavia, potete riferire al distretto di Winconsin che siamo perfettamente
in grado di gestire la situazione da soli».

«Ai nostri superiori non sembra proprio» commentò Dean, con quasi una velata
minaccia. «Pensano...»

«Loro pensano che potrebbe esservi utile una mano in più, per quello ci hanno chiesto
di venire» lo interruppe Sam, intervenendo prima che la situazione precipitasse.

«Ironwood non fa nemmeno parte del vostro Stato» borbottò il capitano, piccato.
«Siamo nel Michigan, qui»

«Oh... ehm... ci siamo molto vicini, però» replicò Sam, lanciando un'occhiataccia a
Dean. La geografia, pensò, non era un'opinione. «Senta, ci interesserebbe davvero
tanto poterla aiutare. Noi...»

«Uno tra gli scomparsi, Albert Dallowey, era nostro amico» improvvisò il fratello,
assumendo un'aria sofferta davvero convincente. «Per quello abbiamo chiesto di poter
gestire il caso, ma se non volete...»

«Oh, beh, questo cambia tutto» farfugliò spiazzato Redstone, cambiando
completamente atteggiamento. «Se c'è un legame affettivo... non posso negarvi di...
avreste dovuto dirlo subito».

«Ero sicuro che ci avrebbe capito» continuò Dean, rincarando la dose. «Ora, se
potrebbe dirci qualcosa di più sulla questione...»

«Ma certo... ma certo... accomodatevi» fece il capitano, indicandogli due sedie.
«Dunque, che cosa vorreste sapere?»

«Notizie su quell'edificio, se possibile» rispose Sam in fretta. «Di chi era? Come vi
erano collegate le persone scomparse?»

«Bene, allora... la casa» cominciò Redstone, torcendosi le mani. «Apparteneva ad una
coppia sposata, i signori William e Katherine Everlyne. Vivevano lì da circa sette anni,
loro e la loro bambina, Jane. Non hanno mai avuto nessun tipo di problema... la loro
casa è fuori città, ma si recavano abitualmente a Ironwood per le loro compere, e
avevano un ottimo rapporto con tutti. Poi, circa un anno fa, sono deceduti entrambi».

«In che modo?» domandò subito Dean.

«Un brutto incidente» spiegò Redstone scuotendo la testa. «Erano nella mansarda di
casa loro, quando una delle travi ha ceduto, e sono rimasti sepolti nelle macerie».

Il capitano fece un sospiro. «La casa era pericolante... il vostro amico Albert, come
certo saprete» fece una pausa, e i due si affrettarono ad annuire con aria saputa «era
un tecnico edilizio, e venne mandato a sequestrare la proprietà, ma... a quanto pare,
non è mai arrivato alla casa. Sono spiacente» aggiunse, e Dean abbassò lo sguardo,
con un'espressione così afflitta che Sam arrivò a chiedersi se il fantomatico Albert
Dalloway fosse stato veramente suo amico.

«Per quel che riguarda Charles e Tina Wocks... erano due lontani parenti di William, e
circa un mese dopo la sua morte si recarono alla casa con l'intenzione di trasferirvisi
per prendere in affidamento la figlia, Jane, ma anche di loro non si ha più notizia»
continuò quello. «E infine, proprio questa stamattina, c'è stato un nuovo sviluppo».

«Davvero? E cosa?» chiese Sam, sorpreso.

Il capitano Redstone allungò verso di loro le foto di una coppia di mezz'età.
La donna, notò Dean con una smorfia, andava un po' troppo pesante col trucco.

«Bill e Susanne Ottar» spiegò il poliziotto «lei era la sorella della defunta Katherine, e
anche loro, saputo dell'avvenimento, volevano accertarsi che Jane fosse sotto il
controllo di adulto responsabile. Sono partiti ieri sera per raggiungere la villa, ma sono
scomparsi nel nulla».

«Ma... questa figlia, Jane» cominciò Sam, confuso «dov'è? Voglio dire, dopo la morte
dei genitori...?»

«Anche lei, scomparsa» rispose, secco, Redstone. «Nessuno l'ha più vista da allora. E
dire» aggiunse, più a bassa voce «che è proprio lei la legittima proprietaria della
casa...»

«Davvero?» esclamò sorpreso Dean.

«Il testamento dei signori Everlyne» borbottò il capitano «lasciava la casa in proprietà
della loro primogenita, in caso di loro morte naturale... o al suo tutore».

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Capitolo 5
*** Il Tè delle Otto ***


«Ricapitoliamo» fece Sam per l'ennesima volta, mentre al suo fianco Dean sospirava
esasperato. «Morti i genitori, la casa va alla figlia, che però scompare, e chiunque vi si
avvicini sparisce improvvisamente nel nulla».

«Esatto» annuì stancamente il fratello, che aveva sentito quel discorso circa un
migliaio di volte da quando erano partiti dalla stazione di polizia.

«E noi dove stiamo andando, adesso?» domandò ancora Sam, accennando con la
testa alla strada asfaltata attraverso il parabrezza sul quale ancora batteva incessante
la pioggia.

«Proprio in quella casa, ovviamente» rispose Dean, ghignando appena. «Magari
spariremo anche noi, chi lo sa?»

Sam non capiva cosa ci fosse di tanto divertente nell'intera situazione, eppure lasciò
perdere e si limitò a commentare, a bassa voce: «Stà attento».

Dean lo ignorò, anzi, premette ancora di più sull'acceleratore, alzando il volume della
radio con aria tranquilla: il fratello non sarebbe mai riuscito a capire come facesse ad
essere così rilassato, sempre.

Il viaggio continuò in silenzio: Sam rileggeva gli appunti che aveva preso durante il
colloquio con Redstone, sfogliando di tanto in tanto il diario del padre, come a
prenderne spunto; Dean, invece, stava canticchiando tranquillamente a mezza bocca.

Solo dopo un paio di minuti quest'ultimo di decidette a parlare.

«Ci siamo quasi» avvertì, e indicò una grande villa poco lontana da loro: anche da
quella distanza, l'edificio aveva un che di imponente e maestoso che non piaque per
nulla a Sam. «Strano, fino ad adesso non abbiamo avuto nessun problema».

«Non parlare troppo presto» gli suggerì quello, che non riusciva a non sentirsi
vagamente in pericolo.

Eppure Dean aveva ragione: non successe assolutamente nulla, neppure quando si
fermarono di fronte all'antica villa, parcheggiando al centro di un grande spiazzale di
terra e fango, costellato qua e là da grandi alberi nodosi.

Scesero dalla macchina, riparandosi appena dalla pioggia con le giacche: non poterono
evitare di rimanere qualche istante a contemplare la costruzione. Era davvero molto
vecchia, fatta quasi completamente di un legno che una volta era stato bianco; sia al
piano terra che a quello superiore, numerose finestre davano su altrettante stanze
buie.

«Da brivido, non è vero?» fece Dean, con un sorrisetto. «Andiamo, forza».

Si avvicinarono al portone di ingresso, superando i due o tre consumati gradini del
porticato. Sam alzò la mano e bussò.

«Ma che cosa fai?» esclamò il fratello, accigliandosi incredulo. «È una casa
abbandonata, e tu bussi

Sam sospirò. «Guarda là, Dean. C'è una luce accesa; ci dev'essere qualcuno, dentro».

L'altro evitò di replicare, perchè effettivamente, c'era una piccola luce proveniente da
una delle stanze al pianterreno. E a conferma delle parole di Sam, una vocina sottile
risuonò dall'ingresso.

«Avanti!»

I due spinsero la porta, che risultò essere già aperta, e attraversarono uno stretto
corridoio, in direzione della luce che proveniva da una stanza poco pià lontano: senza
bisogno di consultarsi, la raggiunsero e vi entrarono.

Si trovavano dentro quella che sembrava una piccola cucina: e là, seduta ad un tavolo
di legno bianco, intenta a sorseggiare una tazza di tè, c'era la bambina più strana che
avessero mai visto.

Era pallida, innaturalmente pallida: il viso sottile faceva risaltare gli enormi occhi
azzurri, cerchiati da numerose occhiaie; aveva i capelli di un biondo sporco, che le
ricadevano disordinatamente lungo tutta la schiena. Era vestita in una strana maniera,
anacronistica: tutto sommato, l'impressione che dava era quella di un'antica,
inquietante bambola saltata fuori da un negozio di vecchi giocattoli.

La bambina alzò lo sguardo verso di loro. Abbassò la tazza fino ad appogiarla sul
tavolo, e sorrise, inclinando appena la testa.

«Buonasera» disse, con una voce delicata, ma decisa. «Potrei sapere chi siete?»

Erano talmente sbalorditi che impiegarono parecchi secondi a mettere insieme una
risposta comprensibile.

«Io... io sono Sam, e lui è mio fratello Dean» rispose, senza riuscire a toglierle gli
occhi di dosso.

La bambina sembrò non farci caso. «Io mi chiamo Jane Everlyne» rispose tranquilla, e
a quelle parole i due si scambiarono un'occhiata eloquente.

Calò il silenzio: Sam aveva il cervello che lavorava febbrilmente, cercando di capire,
mentre Dean era ancora rimasto a fissare la bimba sbalordito.

Fu di nuovo Jane a parlare.

«Sapete, io non ho mai avuto molti ospiti, quindi non me ne intendo di pratiche di
cortesia» disse, lentamente. «Ma immagino che ora dovrei quantomeno invitarvi a
sedere. Accomodatevi» aggiunse, indicando loro due sedie di fronte alla sua.

I due fratelli si affrettarono ad obbedire.

«Allora... ehm... Jane» cominciò incerto Sam. «Sei qui... tutta sola soletta?».

Lei attese qualche attimo prima di rispondere. «Sì, diciamo di sì» concluse, alla fine.

«E non c'è nessun adulto che badi a te? Nessun tutore, con cui possiamo parlare?»
chiese ancora quello.

La bambina scosse la testa. «No, ci sono solo io» aggiunse con forza, come se volesse
chiarire una volta per tutte il concetto.

«E i tuoi.... i tuoi genitori?» fece Dean, e a quelle parole Sam gli tirò un calcio da sotto
il tavolo. I tuoi genitori? Che razza di domanda era, se già sapevano che erano morti
appena un anno prima?

Jane, tuttavia, mantenne uno sguardo fermo. «Non credo che i miei genitori possano
più tornare» disse, ma la sua voce tremava appena.

«Mi dispiace» si affrettò a dire Sam, allungando una mano per accarezzarla, o
comunque toccarla, ma quella si scansò.

«Anche a me» replicò. «Di nuovo, non vorrei sembrare scortese, ma potrei chiedervi
di evitare certi argomenti?»

Sam e Dean annuirono subito. «Sì, scusaci» fece il primo, a testa bassa, sbalordito
dalla capacità che la bimba aveva di tenerli buoni.

«Di nulla» Jane tornò a sorseggiare il suo tè, ma si bloccò, pensierosa. «Le buone
maniere dicono che non è educato bere mentre voi siete lì senza avere nulla da
mettere sotto bocca, non è vero? Vi offrirei del tè, ma c'è n'è così poco che basta
appena per me»

«Ah, non ti preoccupare» commentò Dean, agitando una mano con noncuranza. «E
senti, come fai a vivere qui senza nessuno che badi a te?»

«Come tutti quanti, suppongo» la bambina fece un sorriso storto. «Mangio, bevo,
dormo... le solite cose»

«E non hai mai pensato di... di avere bisogno di qualcuno? Qualcuno che ti segua, che
ti stia dietro?» chiese Sam.

Jane non li guardava più. Finì di bere il suo tè ed appoggiò la tazzina sul tavolo:
quando parlò, la sua voce aveva un che di irato che non piacque a nessuno dei due.

«Davvero, non vorrei essere maleducata con le sole persone che mi capitano davanti
in tutto questo tempo» sentenziò, e i suoi occhi chiari lampeggiarono. «Ma siete a
casa mia, e questo fa di voi i miei ospiti. E dato che state cominciando ad infastidirmi,
vi pregherei di andarvene». Fece una piccola pausa, poi aggiunse: «Ovviamente se
non sono troppo scortese».

«Oh, sì, certo, ce ne andiamo, ce ne andiamo» fece Dean, alzandosi in piedi e facendo
per allontanarsi, ma Sam, che lo aveva subito raggiunto, lo bloccò afferrandolo per un
braccio.

«Che cosa fai, hai intenzione di lasciarla qui?» gli domandò, stupito, a bassa voce.

«Beh, tu cosa proponi?» bisbigliò di rimando lui, inarcando le sopracciglia.

«Io... non lo so, qualsiasi cosa! Non possiamo andarcene, è troppo piccola per vivere
da sola!» protestò Sam.

«Dai, è sopravvisuta fino ad oggi, continuerà a fare a meno di noi» replicò Dean,
scettico.

«E il caso? Le persone scomparse?»

«Sam, continuando a stare qui non faremo che infastidirla ancora di più, e non mi
sembra il modo migliore di ottenere la sua fiducia!» sussurrò il fratello, irritato.

«Hai ragione» mormorò Sam, meravigliandosi delle sue stesse parole, per poi voltarsi
verso Jane. «Ora... ora noi andiamo, ma chissà, magari ci rivedremo» continuò,
sorridendole incoraggiante.

La bambina non sembrò troppo entusiasta.

«E... non che hai bisogno di qualcosa, vero?» aggiunse Sam dopo un attimo di
riflessione.

A quelle parole, Jane saltò immediatamente giù dalla sedia e gli si avvicinò.

«Oh, sì!» esclamò, accesa. «Cibo! Qui non c'e n'era molto, ed è già finito...»

«Perchè, cosa hai mangiato per tutto questo tempo?» domandò Dean, sorpreso.

«Le riserve che stavano nella stanza sottoterra» rispose la bimba, e alla loro
espressione confusa insistette: «Ma sì, la stanza sottoterra, quella dove si va se c'è un
terremoto o un ciclone... mamma e papà l'avevano riempita di cose da mangiare, ma
ora sono tutte finite. È rimasto solo il tè, sono due giorni che non mangio altro».

Dean era semplicemente stupefatto: evidemente l'idea di un'essere umano che poteva
sopravvivere a bustine di tè per due giorni, non rientrava nella sua comprensione.

«D'accordo, cercheremo di portarti tutto il possibile» fece Sam, senza riuscire a
nascodere la sua preoccupazione.

«Grazie mille» fece lei, e per la prima volta un vero sorriso radioso le illuminò il viso.
«E... oh, aspettate!»

Jane corsa via dalla stanza, e ritornò pochi secondi dopo, portando con sé una piccola
scatolina di porcellana, simile ad un piccolo scrigno. L'aprì, e ne estrasse un paio di
banconote da cento.

«Per le vostre spese» spiegò, allungandole ad un più che incredulo Dean.

«Io non capisco, Jane» disse Sam, guardandola confuso. «I soldi non ti mancano...
perchè non sei andata a comprarti da sola qualcosa da mangiare?»

Il sorriso sul volto della bambina svanì.

Jane richiuse lo scrigno con movimenti lenti, e solo quando lo ebbe sistemato in cima
ad uno scaffale alzò di nuovo lo sguardo verso i due fratelli.

«Io non posso uscire di casa» disse, funerea. «Ed ora, andatevene, e arrivederci».

E, risedutasi sul tavolo, non disse più una parola finchè i due non si riuchiusero la
porta dell'ingressso alle spalle.

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Capitolo 6
*** Questioni di legge ***


Erano già in macchina da qualche minuto, camminando sulla strada silenziosa, quando
smise di piovere. Pian piano, il sole fece capolino dalle nuvole grigie e l'asfalto
cominciò ad asciugarsi, sfrigolando piacevolmente al loro passaggio.

«Allora?» domandò Sam dopo un po'. Era la prima volta che uno dei due apriva bocca
da quando erano usciti da quella casa.

«Allora cosa?» fece Dean, distratto.

«Cosa ne pensi?» chiese il fratello, osservando attento la sua reazioe.

Lui alzò le spalle, senza rispondere nulla.

«Sappiamo ancora troppo poco» disse semplicemente, anche se non sembrava
particolarmente preoccupato dalla questione.

«E adesso dove stiamo andando?» domandò ancora Sam, vedendo che erano ormai
arrivati in città.

«In hotel, naturalmente» ribatté l'altro, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
«Dove vuoi andare, a quest'ora della sera, e senza aver neppure cenato?
Riprenderemo le cose domattina».

Sam lo guardò sorpreso. «Non sono nemmeno le nove!» esclamò, accigliandosi.
«Abbiamo ancora tempo per esaminare la...»

«Non so tu, ma io ho una gran fame» lo interruppe il fratello. «E non voglio esaminare
nient'altro che non sia un gran hamburger. E poi non...» si bloccò di colpo. «No, e
adesso cosa vogliono?» sbuffò, esasperato.

«Di che stai parlando?» fece confuso Sam, sporgendosi dal finestrino, e comprese
subito la situazione.

Davanti la porta dell'hotel dove dormivano, erano ferme due automobili della polizia;
sperò con tutto sé stesso che non fossero lì per loro, ma fu inutile: non appena
avvistarono la loro macchina, da una delle due auto uscì il capitano Redstone, che fece
loro segno di fermarsi.

Alzando gli occhi al cielo, Dean accostò, per poi scendere dalla macchina con la
massima naturalezza possibile.

«Agente, c'è qualche problema?» chiese, tranquillo.

«Voi due siete il problema» ringhiò Redstone, avvicinandosi con una decina di poliziotti
al suo seguito, che subito andarono a circondarli. «Con chi credevate d'avere a che
fare, eh? Nomi falsi! Tessere contraffatte! Dichiarazioni infondate ad un pubblico
ufficiale!»

«Dean, non dirò che te lo avevo detto, ma...» cominciò Sam a mezza bocca.

«...Me lo avevi detto» borbottò per lui il fratello, per poi rivolgersi al capitano. «Senta,
possiamo spiegare tutto, davvero».

«Non mi interessano le vostre spiegazioni! Seguitemi in caserma, tutti e due» ordinò
Redstone, guardandoli furenti. A quanto pareva, era davvero arrabbiato.

Lasciando la loro auto là, ferma in mezzo al vialetto, salirono entrambi sul retro di una
di quelle della polizia, che si mise subito in moto.

Dean sembrava semplicemente annoiato, come se stesse seguendo una normale
routine: Sam non riusciva a smettere di guardarlo, a metà tra lo sbalordimento e la
rabbia.

Arrivati alla stazione di polizia, Redstone li sbatté in una stanza completamente
bianca, facendoli sedere entrambi ad un tavolo mentre lui, in piedi, a fissarli torvo,
continuava a bombardarli di domande.

«Che cosa avete in mente? Che affari avete in questa città? Come mai vi interessa
tanto quella casa?». Sbraitava tanto, che probabilmente se avessero voluto rispondere
non gli avrebbe neppure sentiti.

Forse Dean sarebbe riuscito a cavarsela, con la sua faccia tosta, ma Sam non riusciva
a nascondere un'espressione colpevole che gli stava praticamente stampata in volto.

Alla fine, quando il capitano Redstone si fermò a riprendere fiato, Dean riuscì a
interromperlo.

«Jane Everlyne si trova ancora a casa sua, non è sparita» dichiarò tranquillamente,
come se si trattasse di una notizia qualunque.

A quelle parole, Redstone parve sgonfiarvi. «Co-cosa?» farfugliò confuso. «E voi come
fate a saperlo?»

«Ci siamo stati» intervenne subito Sam. «Proprio poco fa. E... abbiamo anche parlato
con lei, sta bene, vive da sola dalla morte dei genitori».

Il poliziotto sembrava non sapere dove guardare. Alla fine, dopo aver borbottato a
lungo tra sé e sé, si affacciò fuori dalla porta, e chiamò: «Agente Stonehead!».

Un giovanotto di nemmeno vent'anni si precipitò dentro, sull'attenti. «Comandi,
signore!» esclamò, gonfiando il petto.

«Recati immediatamente nella vecchia villa degli Everlyne, dove tutt'ora risiede una
bambina di nome Jane, e portala subito qui... di forza, se necessario!» ordinò
Redstone.

«No!» intervenne Sam, senza riuscire a trattenersi.

Il capitano si voltò a guardarlo con furia. «Come sarebbe a dire?» domandò, tagliente.

Sam si ritrovò con tutti gli occhi puntati addosso, compresi quelli di Dean, che non
sembrava aver capito più degli altri. Si rivolse a Redstone, osservandolo negli occhi.

«Non lo faccia andare in quella casa, è pericoloso. Scomparirà, proprio come hanno
fatto tutti gli altri» disse. Nello stesso momento in cui pronunciò quelle parole, capì
che nessuno gli avrebbe creduto.

E infatti Redstone scoppiò in una risata aspra. «E sapresti dirmi perchè a voi due non
è successo nulla, invece? Cos'avete di tanto speciale?» gli chiese, con gli occhi che
scintillavano maligni.

Lui avrebbe voluto avere la risposta pronta. Purtroppo, si stava facendo la stessa
identica domanda da quando erano usciti dalla villa.

«Sai cosa penso io?» continuò il capitano, minaccioso. «Penso che voi due stiate
cercando di nasconderci qualcosa. Stonehead, vada... e già che c'è, dia un'occhiata in
giro!».

Trionfante, rise di nuovo, e non appena il ragazzo uscì, si rivolse di nuovo ai due
fratelli: «Quanto a voi due, resterete qui finchè non vi deciderete a dirmi qualcosa di
vero sul vostro conto! Posso essere molto paziente, se voglio» aggiunse, minaccioso.

Scoccandogli un'ultima occhiata, se ne andò, chiudendo loro la porta alle spalle.

Quando Redstone sparì dalla loro vista, Dean si accasciò sul tavolo. «Beh, Sammy,
sembra che avremo tanto tempo per rifletterci su» commentò, ad occhi chiusi.

«Non scherzare» ribattè quello, serio. «Non possiamo perdere tempo, è una questione
urgente. Quell'agente, Stonehead... chissà che fine farà, se non lo fermiamo!»

«Forse, allora, Redstone si renderà conto che avevamo ragione» fece l'altro, tranquillo.

«Dean!»

«Bene, allora» il fratello alzò la testa e lo fissò, attento. «Quando trovi un modo per
uscire da qui, fammelo sapere. Nel frattempo, buonanotte».

E detto questo, si appoggiò di nuovo sul tavolo, e, sbadigliando, richiuse gli occhi.

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Capitolo 7
*** Libertà provvisoria ***


«Dean! Dean, svegliati!»

Sam scosse per la terza volta il fratello, che, stiracchiandosi a bella posta, si tirò su
dal tavolo.

«Mmm... dove siamo?» domandò quello confusamente, evidentemente ancora perso
nel mondo dei sogni.

«Alla stazione di polizia».

A quelle parole, Dean sembrò svegliarsi di botto, e si guardò intorno, furibondo.

«No» fece, e i suoi occhi lampeggiarono. «Non dirmi che quel bastardo ci ha davvero
tenuti qui dentro tutta la notte».

«L'ha fatto» ribatté stancamente Sam, che non aveva una gran voglia di discutere
dopo una notte passata in bianco.

«Sei stato sveglio tutto il tempo?» gli chiese Dean sorpreso, che sembrava averlo
notato.

«No... no, ho dormito» si affrettò a rispondere il fratello. «Un pò» aggiunse, vedendo
lo sguardo scettico dell'altro.

Dean sbadigliò. «Beh, spero si degnino di portarci da mangiare, almeno, visto che ieri
il capitano non ci ha fatto neppure cenare... oh, guarda, parli del diavolo ed eccotelo
davanti!» esclamò, vedendo che Redstone si avvicinava.

Il poliziotto entrò nella stanza e li osservò a lungo, con un sorrisetto stampato sulle
labbra che irritò notevolmente entrambi.

«Allora» disse, soddisfatto. «Avete passato una buona nottata?»

«Meravigliosa» rispose sarcastico Dean. «Certo, l'alloggiamento non è proprio dei
migliori, ma il personale è ottimo».

Per un istante sembrò che il capitano gli volesse rispondere a tono, ma a quanto pare
ci ripensò, perchè proseguì dicendo: «Chissà, magari ora vi è venuto in mente
qualcosa da dirmi».

Sam sospirò. «Che cosa vuole sapere?» domandò, esasperato.

«Qualcosa di vero su voi due. Cosa ci fate qui? Perchè vi interessa questo caso? Che
affari avete in quella villa?» Restone fece un pausa, fissandoli dritti negli occhi.

«Lasciate che vi faccia io una domanda, invece» intervenne Dean, tagliente. «Quel
ragazzo, Stonehead, è arrivato a destinazione?»

Il capitano sembrò essere preso alla sprovvista.

«Lui... ecco, veramente... ha avuto dei problemi, ed è tornato indietro» farfugliò,
imbarazzato.

«Che genere di problemi?» s'informò subito Sam.

«Interferenze con la radio... malfunzionamento dell'auto, abbiamo preferito non
rischiare, e... ma questo non c'entra nulla!» s'interruppe, quasi adirato. «La vostra
situazione non ha nulla a che vedere con quella villa!»

«E invece sì» insistette Sam. «Capitano, quella casa è pericolosa, nessuno deve
avvicinarsi! Possibile che non se ne renda ancora conto? Tutte quelle persone
scomparse... non sono coincidenze! A quell'agente stava per succedere qualcosa, e lei
lo sa!»

«Sciocchezze!» esclamò furioso Redstone. «L'automobile di Stonehead era fuori uso, e
questo è tutto! Nel pomeriggio ripartirà e porterà qui quella bambina, che lo vogliate o
no!»

Dean e il fratello si scambiarono un'occhiata.

«Senta, lei deve...» cominciò il primo, ma venne nuovamente interrotto.

«Non voglio stare ad ascoltare più le vostre storielle» fece il poliziotto. «Quando
sarete disposti a raccontarmi la verità, allora vi farò uscire da qui. Non ho nient'altro
da dire».

«Questa è la verità» fece Sam, ora non meno furente dell'altro. «E se lei non vuole
crederci, le conseguenze ricadranno su quel ragazzo innocente!»

«Basta!» Redstone sbatté il pugno sul tavolo. «Voi due mi state davvero facendo
perdere la pazienza! Spero che qualche altra ora di reclusione vi faccia cambiare
atteggiamento!»

«Ma noi...» cominciò Dean, ma il capitano se n'era già andato, sbattendo la porta.
«Perfetto» sibilò, adirato. «Davvero perfetto. E adesso cosa facciamo?»

«Dobbiamo uscire da qui» mormorò Sam per tutta risposta, ricominciando a
camminare su e giù per la stanza. «Se solo ci fosse un modo...»

Ma un modo non c'era.

La stanza presentava due enormi vetrate che davano proprio sull'ufficio di Redstone, e
non c'erano finestre. La porta era chiusa a chiave, e anche sfondandola si sarebbero
fatti immediatamente notare dai poliziotti che lavoravano lì; sembravano non esserci
vie di fuga, e Dean e Sam vi rimasero rinchiusi per tutto il resto del pomeriggio.

Le ore passavano con incredibile lentezza. Due volte venne loro portato da mangiare,
e altre due volte Redstone andò a trovarli, continuando ad insistere perchè gli
raccontassero particolari di loschi affari in cui li immaginava coinvolti.

Dean non riusciva a trattenersi, e gli rispondeva a tono tutte le volte: Sam cercava di
essere più collaborativo, ma era difficile, specie quando cercano di farti confessare
crimini che non hai commesso.

La situazione sembrava sempre più disperata. Erano circa le otto di sera, e non
avevano ricevuto più visite dal capitano da parecchio tempo: Dean stava
giocherellando con i resti del loro ultimo pasto, quando il fratello venne a chiamarlo.

«Dean, vieni a vedere qui» fece, indicandogli una delle due vetrate, dalla quale si
vedeva il resto della stazione di polizia.

Era il trambusto più totale. C'era chi discuteva ad alta voce, chi si scambiava in fretta
e in furia fascicoli e fogli, mentre Redstone stava seduto su una sedia, il volto coperto
dalle mani, apparentemente esausto.

«Dev'essere successo qualcosa...» mormorò Sam.

«Che occhio» commentò Dean con un mezzo sorriso, ma sembrava preoccupato.

Proprio in quello stesso momento, una giovane donna si avvicinò al capitano e gli
sussurrò qualcosa all'orecchio. Redstone volse lo sguardo verso loro due, con aria
rassegnata: la donna annuì, e lui si alzò in piedi, dirigendosi verso la stanza nella
quale erano rinchiusi.

«E adesso cosa vorrà?» domandò Dean, accigliandosi.

«Non lo so, ma tu cerca di essere più disponibile, o non usciremo più da qui» ribatté
Sam a bassa voce, e il fratello sbuffò.

Proprio in quel momento entrò il capitano: aveva un'espressione così afflitta che Sam
sentì passare di colpo tutta la rabbia verso di lui.

«Devo parlarvi» esordì Redstone. Non sembrava affatto a suo agio: teneva lo sguardo
basso e giocherellava con il cappello, passandoselo da una mano all'altra.

«Ci dica» annuì Sam, sedendosi davanti a lui.

«Io credo... credo di dovervi fare delle scuse» farfugliò il poliziotto, e Dean non riuscì
a trattenere uno sbuffo a metà tra la meraviglia e l'impazienza.

«Ma davvero?» commentò inarcando le sopracciglia.

Sam gli scoccò un'occhiataccia, e poi si rivolse di nuovo a Redstone: «Che cos'è
successo?»

«Avevate ragione» ammise il capitano. «Il giovane Stonehead è partito più di sei ore
fa per la villa degli Everlyne, e non ne abbiamo più notizie. Nessuno vuole andare a
controllare sul posto, anche perchè...» deglutì appena prima di proseguire «l'ultimo
messaggio che abbiamo ricevuto da lui è decisamente preoccupante».

«Possiamo ascoltarlo?» domandò cauto Sam.

Redstone annuì. «È che non c'è molto da ascoltare, in realtà. Sentite» e detto questo,
estrasse una ricetrasmittente dalla tasca, appoggiandolo sul tavolo. «Gli avevamo
chiesto di inviarci un messaggio ogni mezz'ora per poter... controllare meglio la...» gli
mancò la voce e s'interruppe, avviando invece la registrazione.

Dalla ricetrasmittente partì una voce maschile.

«Qui Simon Stonehead, parlo alla stazione di polizia di Ironwood» cominciò. «La
situazione è tranquilla, sono arrivato nei pressi della villa, mi sto avvicinando... sono
proprio di fronte alla casa, tutte le luci sono spente tranne un...».

La sua voce venne interrotta da un rumore forte e secco, come di uno schianto.
Per un attimo non si sentì altro suono che il respiro affannoso dell'agente, poi il suono
si ripeté.

«Qui Simon Stonehead, la macchina sta precipitando!» si sentì poi gridare
affannosamente. «C'è una scossa, io non capisco che...»

Il resto delle sue parole venne coperte da un altro rumore, identico al precedente.
Sembrò che tutto, al di là della ricetrasmittente, stesse tremando... si sentì un urlo,
poi il silenzio più totale.

Redstone alzò lo sguardo verso i due: era incredibilmente pallido, e quando parlò, la
sua voce era stranamente roca.

«Voi pensate... pensate di poter fare qualcosa?» domandò, e nel suo tono c'era
un'irriconoscibile nota di supplica che lasciò senza parole Dean.

«Certo» annuì Sam, ma anche lui sembrava preoccupato.

«Io vi rimetto in libertà» concluse il capitano, guardandoli fissi negli occhi. «E passo
sopra a tutta la storia dei documenti falsi, ma voi dovete scoprire cos'è successo a
Stonehead e agli altri. Affare fatto?»

«Affare fatto» fece Dean, allungando la mano per stringerla a Redstone.

Il capitano li guardò un ultima volta, con una strana luce negli occhi, poi si alzò in
piedi e aprì loro la porta, senza dire più una parola.

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Capitolo 8
*** Parenti serpenti ***


Note dell'autrice:

Ok, io di solito non scrivo mai le note. E non voglio nemmeno stare qui ad annoiarvi con tutti i miei discorsi sulla fanfiction... insomma, è il capitolo qui sotto l'importante, e vi lascerò liberi di leggerlo tra un istante.

La storia è arrivata a metà, o forse un pò di più, e io vorrei dire, davvero, grazie a tutti quelli che la stanno seguendo.
Grazie ha chi l'ha aggiunta alle seguite, a chi l'ha messa tra i preferiti, e anche a chi non ha fatto niente di tutto questo, ma ha continuato a leggerla, volta per volta.
Grazie a Chambertin, che mi ha aiutato a scriverla :)
Grazie a AcklesEd, che anche se non si fa sentire da un pò, spero si faccia viva presto ^^
E un grazie enorme a elekus483, che fin dall'inizio ha seguito la storia, lasciandomi sempre un commento, facendomi sempre sapere il suo parere!
Davvero, non sapete quanto significhi per me tutto questo. E adesso basta, vi lascio al capitolo.
Sperando di riuscire a continuare ad emozionarvi sempre,

Relya



Erano di nuovo in macchina: Dean si godeva la libertà appena ritrovata con i finestrini
aperti e la musica a tutto volume, schizzando rapido sulla strada deserta.

Sam, al contrario, guardava fuori dal vetro, sovrappensiero.

«Che cosa ne pensi?» domandò dopo qualche istante.

Il fratello alzò lo sguardo al cielo, esasperato, senza rispondere.

«Dai, ti conosco, Dean» insistette Sam. «È impossibile che tu non abbia ancora
un'idea di quel che può essere successo...»

«Forse» rispose quello, alzando appena le spalle.

«So qual è la tua opinione» aggiunse l'altro, scrutandolo attentamente. «Pensi che
dietro tutta questa storia ci sia Jane».

«Se sai già così tante cose, perchè mi fai tutte queste domande?» replicò Dean,
leggermente infastidito, ma il fratello lo ignorò.

«Ci ho riflettuto anch'io, ma non ne sono sicuro» continuò Sam, come se non fosse
mai stato interrotto. «Voglio dire... è solo una bambina, no? Come avrebbe potuto
fare... far scomparire tutte quelle persone?»

«Non sarebbe la prima volta che ci capita qualcosa del genere» ribatté Dean, scettico.
«E comunque no, se fosse solo un bambina non ce l'avrebbe potuta fare... ma devi
ammettere c'è qualcosa di strano in lei».

«Qualcosa di sovrannaturale?» fece Sam con un sorrisetto.

«Esatto» annuì lui, restando serio. «Che sia una demone, un fantasma o qualsiasi
altra cosa, non vuole che nessuno si avvicini alla casa».

«Ma noi... perchè noi siamo riusciti ad entrare?» domandò lentamente l'altro.

Dean non rispose. Sterzò bruscamente e per qualche istante parve troppo assorbito
dalla guida per parlare. Alla fine, disse: «Tutti gli altri... gli zii, i parenti, e quello
Stonehead... tutti volevano prendere possesso della casa... o portare via Jane. Noi,
invece, non volevamo nulla né da lei, né da quella villa».

«Credi che sia per questo?» fece il Sam, sinceramente colpito dall'intervento del
fratello, che annuì. «E adesso puoi dirmi un'altra cosa? Perchè ti sei voluto fermare a
tutti i costi al supermarket?»

Dean ridacchiò. «Beh, avevamo detto a Jane che le avremmo portato qualcosa da
mangiare, no? E anch'io avevo un certo languorino... dalla polizia non si mangia certo
molto bene!»

Sam fece per rispondergli, ma la fatica gli venne risparmiata dalla vista della villa
proprio davanti a loro.

«Arrivati!» esclamò Dean, e scesero in fretta dalla macchina.

Fuori era già buio, e non si vedeva ad un palmo dal naso: anche la casa era immersa
nel'oscurità, fatta eccezione per la luce di una finestra, la stessa della prima volta.

Stavano camminando, uno a fianco all'altro, quando Dean inciampò e cadde disteso a
terra.

Si rialzò, imprecando, mentre Sam gli si avvicinava ridacchiando. «Hai bisogno di una
mano?» domandò, canzonatorio, il fratello.

«C'è qualcosa per terra!» ribatté Dean, piccato. «Guarda... che roba è?»

Indicò per terra, da dove spuntava, fuori dal terreno, qualcosa che assomigliava ad un
grande bicchiere rovesciato di un blu acceso.

Sam lo osservò a lungo. «Ho una brutta sensazione... hai una pala?» domandò, e

Dean annuì, allontanandosi; dopo pochi secondi, era tornato dalla macchina e gliene
porse una.

Sam cominciò a scavare intorno all'oggetto, dove la terra non solo era bagnata dalla
recente pioggia, che la rendeva umida e fangosa, ma sembrava anche smossa, come
se qualcuno l'avesse rivoltata da poco.

L'oggetto cilindrico risultò essere attaccato ad una lamiera di metallo bianca,
rettangolare, che a suo volta faceva parte di...

«...Un'auto!» fece Sam, allibito. «Dean, qui sotto c'è un'auto!»

Il fratello si avvicinò e, senza dire una parola, cominciò a scavare a uno dei lati,
intorno ad un ipotetico finestrino, fino a che non si bloccò di colpo, sbalordito.

«Cosa c'è?» esclamò Sam, subito avvicinandosi, ma non gli ci volle molto per capire:
osservò il finestrino della macchina e vide l'interno, dove, senza vita, era steso Simon
Stonehead, gli occhi ancora spalancati, il terrore sul volto.

«È pazzesco» mormorò Dean, spiazzato. «Che cosa... che cosa può essere stato?».

«Dobbiamo parlarne con Jane, subito» replicò l'altro, pallidissimo. «Magari lei sa... lei
ha visto qualcosa».

Senza più parlare, si avvicinarono alla casa, e bussarono due volte sul portone di
legno. Non rispose nessuno.

«Jane!» chiamò Dean ad alta voce, ma la casa sembrava deserta: con un brutto
presentimento, si abbattè sulla porta, che risultò essere già aperta, ed entrambi si
precipitarono dentro.

Raggiunsero la stessa stanza dove erano stati la volta scorsa, e rimasero bloccati sulla
soglia: distesa per terra, in un angolo della stanza, stava Jane, apparentemente priva
di sensi, il volto coperto da due lunghi graffi.

Corsero subito da lei, e cercarono di farla rinvenire, chiamandola e scuotendola: al
quarto tentativo, la bambina aprì debolmente gli occhi, volgendo lo sguardo da uno
all'altro.

«Sam... Dean...» mormorò, riconoscendoli.

«Jane, come stai?» domandò Sam, scrutandola in ansia.

«Ho fame...» momorò la bimba, socchiudendo di nuovo gli occhi.

«Fame? Va tutto bene, Jane, ti abbiamo portato qualcosa noi, stai sveglia, ok?» la
scosse ancora lui, facendo cenno a Dean di tirare fuori qualcosa.

Il fratello estrasse da una tasca un panino e lo porse alla bambina: nel vederlo, Jane
parve tornare in sé e vi si avventò, quasi famelica, cominciando a mangiarlo in fretta.

«Hai appetito, vedo» commentò ironicamente Dean, ma anche lui sembrava sollevato.

Jane sorrise appena, senza smettere di madare giù grossi bocconi. Quando ebbe
finito, sulle sue guance pallide comparve un velo di colore, e si rivolse ai due fratelli,
osservandoli attentamente.

«Avevate detto che sareste venuti presto» mormorò, e nella sua voce, per quanto
stanca, risuonò una nota di rimprovero. «Perchè ci avete messo tanto?»

«Abbiamo avuto dei problemi, Jane» rispose Sam. «Cosa ti è successo?».

La bambina abbassò lo sguardo.

«Avevo fame» sussurrò, gli occhi azzurri puntati verso il pavimento di legno. «Avevo
fame, e mi sentivo stanca. Non riuscivo più a fare nulla, e voi non arrivavate, e io
volevo mangiare... non ce la facevo più, e poi...»

«E poi?» insistette Dean, impaziente. «Chi ti ha ferito così?».

Jane tremava, come alle prese con qualcosa di troppo grande per lei. «Io volevo solo
andare a prendere da mangiare» farfugliò, e la sua voce era esitante. «Volevo solo
andare a prendere da mangiare... ma io non posso uscire di casa, mai...» le lacrime
cominciarono a rigarle il viso.

Sam e Dean si guardarono, incerti su come procedere. Il primo provò ad accarezzarle
un braccio sottile, mormorando: «Va tutto bene, Jane, sta tranquilla, ci siamo noi,
adesso...»

La bimba tremava e piangeva in silenzio, e sembrava non ascoltare nemmeno le sue
parole. Il suo sguardo era pieno di un terrore acuto che sembrava paralizzarla
dall'interno, un'angoscia tutta sua, che la riempiva, tagliandola fuori dal mondo
esterno.

«Sam, che cosa facciamo?» fece Dean a mezza bocca, ma le sue preucazioni erano
inutili, dato che Jane sembrava non fare caso a quello che succedeva intorno a lei.

«C'è qualcos'altro qui dentro» mormorò il fratello, e fece per alzarsi in piedi.
«Dobbiamo scoprire cosa...»

«Non mi lasciate sola!» strillò la bambina tutto d'un tratto, e la sua voce acuta fece
sussultare i due, che si voltarono a guardarla, stupefatti.

Jane non era mai stata così pallida. Gli occhi erano spalancati, enormi, sul volto
ceruleo, facendola sembrare quasi folle.

Sam si affrettò a riavvicinarsi.

«Non ti lasceremo, tranquilla, staremo qui, d'accordo?» gli disse, nel tono più
rassicurante che riuscì a trovare.

Dean, invece, sembrava preoccupato da altro. S'inginocchiò davanti alla bimba,
guardandola fisso.

«Jane» fece, serio. «Chi è che ti spaventa tanto?»

Lei alzò lo sguardo terrorizzata, ma quando incrociò i suoi occhi, sembrò prenderne
quasi coraggio.

«Lei non vuole che io esca di casa» sussurrò, come rapita. «Lei non vuole che io
esca... e io oggi volevo andarmene, solo per un po', e poi tornare, ma lei non voleva,
e mi ha... mi ha....»

«Lei chi, Jane?» la interruppe Dean, irrequieto.

La bambina aveva smesso di piangere; inclinò la testa, osservandolo a fondo. Per un
istante, i suoi occhi azzurri lampeggiarono, e sembrò non avesse la forza di parlare:
teneva le labbra serrate e si poteva sentire solo il suo respiro, appena trattenuto.

Poi, finalmente, rispose, e la sua voce suonò stranamente roca.

«Mia sorella».

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Capitolo 9
*** Due in una ***


«Cosa facciamo?»

Sam parlò a bassa voce, affinchè Jane non sentisse. La bambina si trovava dal lato
opposto della stanza, seduta contro al muro, le braccia che abbracciavano le
ginocchia, e dondolava sul posto con gli occhi spalancati; sembrava quasi impazzita.

Dean lo guardò, con un misto di impazienza e preoccupazione nella voce.

«Il punto è che Jane non ha una sorella!» esclamò. «Ce l'avrebbero detto, no?
Redstone e gli altri...»

«Forse è una sorella di cui nessuno sa l'esistenza» ipotizzò esitante il fratello.

«Perfetto» Dean alzò gli occhi al cielo. «Davvero perfetto, sarà ancora più facile da
rintracciare».

Sam si costrinse a riflettere. Dopotutto, era impossibile che ci fosse qualcuno di che
nessuno sapesse esistere... qualcuno doveva pur averla vista...

«Il medico!» fece trionfante dopo qualche secondo.

Il fratello si accigliò, senza capire.

«Qualcuno l'avrà fatta nascere, quella bambina, no? E forse... e forse gli Everlyne
avevano un medico di famiglia, o qualcosa del genere, che l'ha vista crescere» spiegò
Sam, lentamente.

Dean annuì. «Andiamo a cercarlo?» propose, impaziente.

«Un momento... non possiamo lasciare Jane qui da sola, hai visto in che situazione è?
E se le succcedesse di nuovo qualcosa?» replicò, serio, Sam, lanciando un'occhiata alla
bambina, che pareva non accorgersi di nulla, persa nel suo terrore.

«E allora come facciamo?» ribatté ancora l'altro, esasperato.

«Ci dividiamo» decise Sam. «Io vado all'ospedale a rintracciare il medico che ha
assistito la signora Everlyne, e tu rimani qui e badi a Jane».

«Un momento... perchè devi essere tu a prenderti tutto il divertimento mentre io sto a
fare il babysitter?» si oppose contrariato il fratello, incrociando le braccia davanti al
petto.

Sam ghignò. «Perchè io sono il secchione che fa le ricerche, ricordi?» rispose, con un
sorrisetto. «E a te non piacevano i bambini?»

«Cosa...?»

«E dai, è solo per stasera. Tra un paio d'ore sarò già qui» insistette Sam, infilandosi la
giacca per uscire. «Buon divertimento, Dean».

E lasciando il fratello solo e contrariato, uscì dalla casa.

Una volta rimasto solo, salì nella preziosa macchina di Dean, e non ebbe neppure il
tempo di riflettere su quanto fosse strano essere lì a guidarla da solo, che era già
partito.

La strada era già buia, e non sembrava esserci anima viva: Sam guidava piano, con
cautela, la mente persa nelle riflessioni, tanto che quasi non si accorse di essere
arrivato dentro Ironwood.

Seguì le indicazioni per l'ospedale, e dopo un paio minuti era già arrivato: era un
edificio non troppo grande, completamente bianco, che dava un'idea di moderna
solidità.

Parcheggiò e si preparò ad entrare; nonostante fossero quasi le otto di sera, c'erano
ancora molte persone che andavano e venivano, e Sam si fece largo per arrivare fino
al banco della segreteria.

La signora di mezza età che vi stava seduta gli lanciò una mezza occhiata, e poi
commentò: «Spiacente, ragazzo, l'orario delle visite è già finito da un pezzo».

«Oh, ma io non sono qui per visitare qualcuno» si affrettò a spiegare Sam. «Sto
cercando un dottore...»

«Non hai l'aria molto malata» commentò acida la segretaria.

«Non sono io che ne ho bisogno, cioè, sì, ma non per...»

«Lascia stare, Rosie, qui ci penso io».

Una voce femminile interruppe il farfugliare di Sam, e voltandosi, il ragazzo vide
avvicinarsi una donna, che riconobbe come la stessa che aveva parlato con Redstone
alla stazione di polizia.

Era alta, con i capelli scuri legati in uno stretto nodo dietro alla testa; portava un paio
di occhiali rettangolari, e squadrò per un attimo Sam prima di aggiungere, secca:

«Seguimi».

Lui si affrettò ad obbedirle, dopo un breve cenno di saluto alla segretaria, che lo
ignorò bellamente. Raggiunse la donna, e mentre camminavano fianco a fianco per i
lunghi corridoi bianchi, lei gli domandò: «Di che cosa hai bisogno?».

«Informazioni» rispose subito Sam. «Sopra gli Everlyne, e la loro famiglia. Vorrei
vedere il medico che si è occupato di loro, e della bambina, Jane».

La donna spalancò un attimo gli occhi, sorpresa, ma si ricompose subito. «Sono stata
io. Che cosa vuoi sapere?».

Anche lui rimase meravigliato, ma cercò di non darlo a vedere, e cominciò a parlare
con difficoltà.

«Beh, è una questione difficile da spiegare...» fece, imbarazzato.

La donna sospirò. «Vieni dentro, nel mio ufficio» gli disse, mostrandogli una porta
davanti a loro.

Entrarono e si sedettero, uno di fronte all'altro, e fu di nuovo lei a prendere la parola.

«Prima di tutto, chi sei tu?» gli domandò, osservandolo con sguardo intenso.

«Io... io mi chiamo....»

«Non c'è bisogno che tenti di ricordarti i nomi scritti sul tuo tesserino, so che erano
falsi» lo interruppe lei severamente, ma sul suo volto passò l'ombra di un sorriso.

«Come fai a...?» cominciò Sam, stupito, e lei lo interruppe di nuovo.

«Stai parlando con la dottoressa Josephine Redstone, sono la figlia del capitano»
spiegò, tendendogli la mano.

«Sam Winchester» si presentò lui, affrettandosi a stringerla.

«Come sta la piccola Jane?» domandò subito dopo lei. «So che siete riusciti a
incontrarla».

«Sì, lei sta bene» fece Sam, esitante. «È molto sola, ovviamente, e avrebbe bisogno di
qualcuno che la badasse... ora c'è mio fratello con lei».

Josephine annuì, e sembrò sollevata. «Di cosa hai bisogno, allora?» domandò di
nuovo, e i suoi occhi neri sembravano più penetranti che mai.

«So che può sembrarle una domanda strana» cominciò Sam, alzando lo sguardo per
incrociare il suo. «Io e mio fratello abbiamo bisogno di sapere... se Jane aveva una
sorella».

Questa volta la donna non riuscì a mascherare il proprio stupore e spalancò gli occhi.
Per qualche istante sembrò non sapere cosa dire, poi farfugliò: «No... non mi risulta...
Jane era figlia unica, dovreste saperlo».

«Ne è assolutamente sicura?» insistette Sam, deciso. «È importante... è per il bene di
Jane, mi deve credere».

Josephine chinò la testa, senza parlare. Il ragazzo non osò aggiungere altro, per non
forzarla troppo; eppure faticava a trattenere la propria impazienza. Sapeva che c'era
qualcosa, in quella storia, che non andava per niente bene, e voleva scoprire cos'era.

«Noi medici siamo vincolati dalla segretezza professionale» mormorò la donna.

«Anche quando chi l'ha voluta non c'è più? Anche quando c'è di mezzo la sicurezza di
un'altra persona?» domandò Sam, cercando di essere il più convincente possibile; era
cosciente di avere solo un'occasione. «Le assicuro che non glielo chiederei, se non
fosse davvero necessario».

Per qualche altro lungo, interminabile secondo, lei non disse nulla. Alla fine, alzò gli
occhi e rispose: «E va bene, ti racconterò tutto. Ma devi promettermi che...»

«...manterrò il segreto, glielo assicuro» concluse per lei Sam, impaziente di sapere il
seguito.

«Bene». Josephine si schiarì la voce, in imbarazzo. «Quando mi chiedi di una sorella...
per quello che ne so, Jane non aveva nessuna sorella, nel vero senso del termine. Ma
quello che dovresti sapere... quello che c'è di strano nella sua famiglia... è che la
madre di Jane, Katherine... quando doveva nascere Jane, intendo... non aspettava
solo una bambina, ma due gemelle».

Sam trattenne il fiato, stupefatto.

«Due gemelle...» ripetè la donna a bassa voce. «Purtroppo, la gravidanza aveva grossi
problemi. Ho seguito personalmente il caso, all'epoca... tutto il nutrimento materno,
tutto quello che Katherine donava alle sue figlie, passava quasi del tutto ad una sola
delle due gemelle. L'altra, cresceva malsana, malata... non c'era nulla da fare»
aggiunse in fretta, come se desiderasse togliersi il prima possibile il pensiero. «Se non
aspettare il giorno del parto».

«E cosa avvenne?» domandò cautamente Sam.

Josephine deglutì. «Le due bambine nacquero in casa, su volere del padre. Fui proprio
io ad andare da loro, quel giorno... La prima a nascere fu quella malata. Fu qualcosa
di... qualcosa di abominevole. Era deforme, storpia... non resistette nemmeno un paio
di minuti alla nascita. Morì tra le mie braccia, quando non fui capace di fare nulla per
salvarla».

Lei aveva preso a tremare: sul suo volto non c'era più traccia della donna forte e
intransigente di qualche minuto prima.

«Il padre... era sconvolto» continuò, quasi balbettando. «Per la moglie era stato un
parto difficile, e lui credeva che la colpa... la colpa fosse dell'altra bambina. Disse che
non voleva più vedere un mostro del genere... la... la fece seppellire sotto le assi di
legno del pavimento, in quello stesso istante... e poi, fece sempre finta... che l'altra
non fosse mai esistita».

«È una cosa crudele» mormorò Sam, allungando il braccio per consolarla.

Josephine si asciugò gli occhi, rossi e lucidi. «Poi nacque Jane. Lei era... p-perfetta,
sanissima, e non ha mai saputo del gesto del padre...»

Il ragazzo annuì. Si sentiva anche lui frastornato da quell'assurdo racconto, eppure, in
qualche modo, tutto prendeva ad avere più senso.

La donna sembrava aver perso ogni briciolo di compostezza. Se ne stava chinata in
avanti, il volto bagnato dalle lacrime, e teneva stretta la mano che Sam gli aveva
porso.

«Ancora oggi... qualche notte... mi sogno lo sguardo dell'altra bambina» mormorò, più
a sé stessa che a lui. «Il suo sguardo prima di morire. Aveva due occhi così pieni
d'odio... ed era solo... una neonata. E io credo... che quello che succeda nella villa...
sia colpa sua... e mia».

Sam si alzò in piedi. Per quanto gli dispiacesse lasciare Josephine in quel momento di
debolezza, c'erano questioni più urgenti da trattare.

«Sistemerò tutto» le promise, guardandola negli occhi. «Io e mio fratello... fermeremo
quello che sta succedendo in quella casa».

Josephine lo guardò a lungo. «Simon Stonehead» disse, a bassa voce. «Era il mio
fidanzato. Sono stata io a convincere mio padre a liberarvi, dopo aver visto cosa gli
era successo... pensavo che avreste potuto fare qualcosa».

«Possiamo» le assicurò lui, stringendole la mano. «Davvero, possiamo. Mi lasci solo
fare delle ricerche, e...»

«Vengo con te» sussurrò Josephine, e lui non ebbe il coraggio di replicare.

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Capitolo 10
*** Favole della notte ***


Dean sospirò, esasperato. Da quando Sam se n'era andato, tra l'altro con la sua
macchina, Jane non aveva ancora detto una parola.

Aveva pazientemente aspettato che si riprendesse dallo shock evidentemente subito,
ma tutto aveva un limite. E lo aveva già superato alla grande.

Non c'era bisogno di aggiungere che era quasi ora di cena, e lui aveva una gran fame:
presa una decisione, si avvicinò alla bimba e gli si inginocchiò accanto.

«Allora, Jane, andiamo a mangiare?» gli domandò, sperando di risultare il più
invitante possibile.

Lei alzò la testa per guardarlo, e i suoi occhi azzurri erano talmente spalancati e pieni
di terrore, che persino Dean ne rimase spaventato.

Senza sapere cosa fare, allungò una mano in avanti e le accarezzò un braccio: Jane
ebbe un brivido.

«Di che cosa hai paura?» mormorò lui, più a sé stesso che a lei.

La bimba, tuttavia, gli rispose.

«Lei mi verrà a prendere. Lei è dappertutto» sussurrò Jane, e i suoi occhi si mossero
intorno, come a controllare di non essere spiata da qualcuno. «Vuole venirmi a
prendere...»

Ebbe un fremito e riaffondò il viso tra le sottili braccia bianche.

«Ascolta, Jane» fece Dean, serio. «Non c'è nulla di cui preoccuparsi, davvero. Ci sono
io... tra poco arriverà anche Sam, e insieme ti proteggeremo. Non ti accadrà nulla di
male, finche siamo qui con te, d'accordo?»

Jane alzò la testa, piegandola appena di lato, come per osservarlo meglio. «Me lo
prometti?» gli disse, piano, tendendogli un mignolo.

«Promesso» Dean cercò di sorriderle, stringendoglielo. «E adesso, che ne dici di fare
un bel gioco, noi due?»

«Un gioco?» mormorò lei, rapita.

«Già, un gioco» fece Dean, chiedendosi in che razza di guaio si stava per cacciare.
Aveva fatto presto, Sam, a lasciarlo lì... lui non sapeva proprio come prenderli, i
bambini!

Jane continuava a guardarlo, con sguardo curioso.

«Dunque» riprese lui, cercando disperatamente ispirazione. «In questo gioco tu... tu
sei una...»

Cosa diavolo poteva essere, un'inquietante bambina di nove anni?

«...una... principessa, ti va?» concluse Dean, quasi disperato.

Jane annuì. «Una principessa che vive in un grande castello tutto suo» specificò, e a
quelle parole il volto le divenne di nuovo triste.

«Sì, un grande castello... e... e ad ogni principessa, serve per forza un principe»
aggiunse lui, senza sapere come andare avanti.

La bimba lo squadrò da cima a fondo. «Sam è il principe» decretò, decisa.

«Sam?» Dean alzò le sopracciglia, incredulo. Possibile che anche quando non fosse
presente, il fratello dovesse rubargli la parte migliore? «E io chi sono, allora?»

Jane impiegò un po' di tempo, prima di rispondere.

«Tu sei il mio papà» mormorò dopo un po', senza guardarlo negli occhi.

L'affermazione sorprese Dean, che impiegò qualche secondo a riprendersi. «Quindi
io... sono il re, giusto? Il re del castello» aggiunse, perplesso. Magra consolazione,
dopotutto...

Jane fece di nuovo cenno di sì con la testa, e un lieve sorriso le illuminò appena il viso.

«Allora» Dean si alzò in piedi, tendendo una mano alla bimba per aiutarla. «Si
comincia. Questa principessa viveva in un castello tutto suo con il padre, e loro...» si
schiarì la voce, quasi imbarazzato «loro erano felici e contenti, perchè in quel castello
si stava bene, e non c'era mai nulla di cui avere paura...»

Potè intravedere il labbro di Jane tremare, e questo lo spinse ad andare avanti.

«Un giorno, la principessa e il re stavano aspettando la visita di un principe, un
principe molto importante che doveva venire a cena da loro...» Dean parlò con un
accento ironico che per fortuna Jane non colse. «E dato che erano soli loro due,
dovevano prepare una bella cenetta per tutti e tre, altrimenti il nostro principe si
sarebbe trovato a mani vuote... che dici, ti va di aiutarmi?»

La bimba sorrise appena e mormorò di sì. Gli prese la mano -Dean si meravigliò per il
suo tocco freddo e delicato- e lo guidò attraverso le stanze, fino a quella che pareva
una sala da pranzo.

Senza dire una parola, tirò fuori dal cassetto di una credenza una tovaglia bianca e
cominciò lentamente ad apparecchiare la tavola per tre, con un incredibile cura di tutti
i dettagli, le posate, i bicchieri dello stesso servizio, disposti ordinatamente, uno
accanto all'altro.

Dean aprì la sporta della spesa che lui e Sam avevano fatto prima di andare da Jane,
e dovette ammettere che non era molto, giusto il bastante per un paio di panini, e si
mise al lavoro anche lui, preparandone un paio dei suoi a grandezza innaturale.

Dopo un paio di minuti trascorsi così, in silenzio, il ragazzo si voltò e vide che Jane era
già seduta immobile al suo posto, con una postura davvero da reale, e lo fissava, in
attesa.

Sentendosi incredibilmente in imbarazzo sotto il suo sguardo penetrante, Dean si
schiarì la voce e le porse uno dei panini che aveva appena fatto: la bambina si limitò a
metterlo al centro del piatto, e osservarlo, senza battere ciglio.

Fu in quel momento che il cellulare di Dean squillò, con suo grande sollievo. Era Sam.

«Pronto?»

«Dean, sei tu? Senti, non credo di tornare stasera, sono ancora in giro, e farò tardi...»

«Che cosa hai scoperto?» chiese frettolosamente Dean.

«Molte cose, la sorella effettivamente c'è, ma è morta pochi minuti dopo la nascita, e
il padre l'ha fatta sepellire...»

«Cosa...?»

«Senti, non ho molto tempo, adesso» replicò Sam, interrompendolo. «Tra poco sarò a
parlare con un'amica della famiglia, e domattina ho un appuntamento con uno dei
medici che ha seguito Jane...»

«E stanotte, dove dormi?»

«Josephine... una dottoressa, la figlia di Redstone, mi ospita a casa sua»

Il fratello fischiò.

«Smettila, idiota» tagliò corto Sam, e Dean avrebbe giurato che era arrossito. «Così
avremo più tempo per confrontare le nostre teorie e...»

«Sì, certo, come dici tu» sogghignò l'altro. «Allora ci sentiamo domattina, d'accordo?»

«Sta attento a Jane».

«E tu sta attento alla tua amica» commentò Dean, e Sam gli chiuse il telefono in
faccia.

Quando mise via il cellulare, si accorse che Jane lo stava ancora fissando, quasi
preoccupata.

Dean si schiarì per l'ennesima volta la voce. «Il nostro principe, Sam mi ha fatto
sapere che non si recherà da noi questa sera, ma che sarà presente alla nostra
colazione di domani» spiegò, sarcastico.

«Non viene?» ripeté la bambina, delusa.

«Sai com'è, i principi sono molto occupati, no?» Dean alzò gli occhi al cielo. «Che ne
dici di consumare questa bella cenetta da soli?»

Jane annuì, ma non gli parve molto convinta; non appena lui si fu seduto a tavola,
comunque, afferrò il suo panino e cominciò a mangiarlo voracemente, ad una velocità
impressionante.

Scuotendo la testa con un ghigno divertito, anche Dean si mise a cenare, e data la
velocità di entrambi, in pochi minuti ebbero finito.

«E adesso» commentò, sempre cercando di mantenere un tono allegro, e sentendosi
allo stesso tempo un completo idiota «un bel sonno di bellezza, d'accordo,
principessa?».

Jane sorrise triste e si alzò dalla tavola; Dean la seguì su per una scalinata, fino alla
camera dove la bambina dormiva.

Era grande, forse un po' troppo, per una bimba così piccola: al centro stava un grande
letto a baldacchino, che però era vecchio e rovinato, e dava all'ambiente un'aria
ancora più deprimente. Le tende tutt'attorno erano sgualcite, e la luce vi filtrava
attraverso, da una grande finestra che occupava quasi tutta una parete, creando
strani giochi di ombre sul muro opposto.

Sempre senza dire una parola, Jane si diresse verso una porticina in un angolo, e
seguendola, Dean vide che portava ad un piccolo bagno.

La bambina si sciaquò ordinatamente il viso e i denti, e tirò fuori dal cassetto di un
piccolo comò una specie di camicia da notte.

«Chiudi gli occhi, per favore» gli domandò educatamente; e lui si dovette trattenere
dal ridere mentre si copriva il volto con le mani, divertito dal tono serio e computo,
così adulto, di Jane.

Quando riaprì gli occhi, lei era già pronta, e si andò ad infilare nel lettone. Quando si
fu coperta tutta, fino all'estremità del collo sottile, il suo sguardo azzurro andò a
fissarsi su Dean.

«E tu?» gli sussurrò, piano, e la sua voce tremava appena.

«Io...» lui, in realtà, non ci aveva ancora pensato. «Beh, andrò a dormire da qualche
parte, adesso, c'è un'altra camera dove posso...?»

«Non lasciarmi da sola!» esclamò Jane, spalancando gli occhi e Dean sussultò.

«D'accordo, d'accordo!» si affrettò a chiarire, e si avvicinò per accarezzarle i lunghi
capelli. La bimba stava rabbrividendo.

Dean si guardò intorno, e vide una sedia proprio accanto a lui. La avvicinò al letto e vi
si accomodò sopra.

«Starò qui, va bene?» disse, prevedendo una nottataccia e maledicendo mentalmente
Sam. «Starò qui e controllerò che non ti succeda niente. E adesso ascoltami, Jane...»

La bambina lo fissò talmente intensamente da sembrare volerlo perlustrare con gli
occhi.

«Non c'è nulla da temere. Davvero. Devi stare tranquilla, solo questo» cercò di
suonare convincente, ma Jane scosse la testa.

«Lei viene di notte» mormorò, senza smettere di guardarlo. «Viene di notte e... mi
sussurra delle cose»

«Che genere di cose ti sussurra?» chiese Dean, il più delicatamente possibile.

La bambina abbassò talmente tanto la voce che fu costretto ad avvicinarsi per
sentirla.

«Lei mi sussurra che la casa è nostra. Che è sia mia che sua, e che vivremo sempre
insieme. Mi dice che non mi lascerà mai e che...» Jane ebbe un tremito «che non devo
mai uscire di casa, mai».

«E ti dice anche perchè?» mormorò Dean.

«Dice che se esco di casa... se esco di casa io...» Jane fece un respiro profondo. «Dice
che se esco di casa io... muoio»

I suoi occhi sembrarono inumidirsi e Dean, terrorizzato dalla prospettiva di dover
consolare una bambina in lacrime, su affrettò ad accarezzarle di nuovo i capelli.

«Sono tutte bugie, Jane» le disse, senza neppure sapere che cosa stava dicendo.
«Non può succederti nulla di male, va bene? Stai tranquilla... dormi...»

Dean continuò a parlarle piano, abbassando sempre di più il tono, e Jane, cullata dalla
sua voce, chiuse gli occhi.

«Mi proteggerai sempre, Dean?» mormorò poi, in tono lamentoso, già impastato di
sonno.

«Tutta la notte» rispose lui, senza riuscire a trattenere un sorriso.

«Grazie... papà» sussurrò lei, e si addormentò del tutto, lasciando Dean confuso e
frastornato, la gola presa da uno strano bruciore.

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Capitolo 11
*** Maryanne ***


I primi, pallidi raggi dell'alba penetravano appena dalla finestra, gettando sul muro
una luce smorzata dalle tende bianche.

Nella stanza era il silenzio più assoluto, interrotto solo dal leggero respiro della
bambina che dormiva sul letto, e da quello, più pesante, di Dean, che sonnecchiava,
seduto sulla sedia.

Le assi di legno del pavimento scricchiolarono piano.

Il rumore era sottile, continuo: si udiva a malapena, ma si faceva sempre più forte;
Jane, avvolta nelle coperte, si agitò appena nel sonno.

Qualcosa di scuro parve emergere direttamente da terra, in un angolo. Gli scricchiolii
aumentavano, man mano che l'ombra diventava qualcosa di più definito.

Quella che ora assomigliava ad una figura sbilenca si alzò, e trascinò i suoi passi fino
alla bambina addormentata, che, come accortasi nel sonno del pericolo, rabbrividì.

La creatura si chinò su Jane, e il movimento la fece apparire ancora più deforme di
quanto già non fosse. Avvicinò il volto a pochi centimentri da quello della bimba, e non
appena il suo repiro affannoso le sfiorò la pelle, Jane spalancò gli occhi.

Sembrava troppo terrorizzata per muoversi, parlare, o fare qualsiasi altra cosa.

Rimase immobile, lo sguardo fisso verso il vuoto, mentre le labbra della figura si
muovevano lentamente, sussurrandole parole strascicate all'orecchio; erano talmente
vicine da poterla quasi toccare.

Jane rimase ferma ad ascoltare, ma dai suoi occhi si capiva che avrebbe solo voluto
alzarsi e fuggire: il suo sguardo azzurro si posò su Dean, addormentato, e in un
attimo un lampo di speranza le attraversò il viso.

«Dean…» sussurrò, piano.

La creatura chinata su di lei prese a parlarle ancora più forte, e ancora più veloce.


«Dean…» chiamò ancora Jane, disperata, ma lui non la udì.

Per un istante ci fu il silenzio; persino l’altra si era zittita. Dal piano di sotto, parvero
risuonare nuovi scricchiolii nel legno.

La creatura si avvicinò ancora di più alla bambina, e le sussurrò le ultime parole, più
forte, con una furia quasi disperata.

Jane strillò.

Il suo urlo acuto, prolungato, risvegliò immediatamente Dean: vide la bambina, la
creatura, e per un attimo non seppe cosa fare.

Prima che lui potesse decidersi, accaddero molte cose contemporaneamente: la
creatura si allontanò da Jane con un balzò all’indietro, la bambina si ritrasse nelle
coperte, inorridita, e dalle scale si udirono rumori di passi frettolosi.

«Jane!» fece Dean, scattando in piedi.

«Jane!»

Nello stesso istante, comparve sulla porta Sam, trefelato.

La creatura osservò prima uno, poi l’altro: per un istante, sembrò che ghignasse. Poi,
d’improvviso com’era arrivata, sembrò sprofondare nel pavimento di legno, e
scomparve dalla loro vista.

Dean si avvicinò subito alla bambina, che era pallida e sudata.

«Come stai, Jane?» le domandò, in ansia. La sentì tremare: quando lui la sfiorò per
accarezzarla, la bambina prima si ritrasse, come per evitare il suo tocco; poi, dopo un
attimo d’indecisione, ci ripensò, e si gettò tra le sue braccia.

Dean si ritrovò sorpreso ad abbracciarla, e fu una sensazione strana, l’avere quel
corpicino stretto al suo petto.

Sam si avvicinò, con un sorrisetto stampato sul volto, nonostante l’ansia e la paura di
pochi istanti prima.

«Non te la cavi male come babysitter, sai?» lo canzonò allegramente.

«Sta zitto, Sammy» lo rimproverò a mezza bocca il fratello, senza smettere di
accarezzare la bimba. Quando lei parve essersi calmata e alzò lo sguardo, le disse:
«Hai visto chi è arrivato, Jane? Sua Altezza il Principe».

La bambina gli sorrise debolmente. Era già qualcosa.

«Andiamo a fare colazione, dai» le propose ancora, incoraggiante, Dean, e la bambina
si alzò per seguirli fino alla cucina.

«Sua Altezza il Principe? Però…» commentò sottovoce Sam, senza smettere di
sorridere.

«Senti un po’, non potevi rimandare di un altro paio di giorni il tuo ritorno? Si stava
una meraviglia qui, senza di te» ribatté Dean, esasperato.

«Ho visto» replicò il fratello, inarcando le sopracciglia. «Non sei stato capace di tenerla
d’occhio una sola notte… A proposito, cerca di allontanare Jane per un attimo, il
Principe qui presente deve conferire con te».

Dean sbuffò, ma si voltò subito per chiedere alla bambina di cominciare a preparare la
tavola senza di loro.

Non ci volle molto perché Sam aggiornasse delle ultime novità il fratello.

«E così quella roba che ha aggredito Jane prima era il fantasma della sua defunta
sorella?» riassunse Dean, e quando il fratello annuì, continuò: «Beh, in questo caso
non sarà complicato toglierla di mezzo, no? Cerchiamo il corpo, e lo mettiamo a sale e
fuoco».

Sam scosse la testa. «Non credo sia così semplice, questa volta».

Dean sbuffò. Il fratello era sempre il solito guastafeste: peccato che la maggior parte
delle volte avesse anche ragione.

«Che cosa c’è, stavolta?»

«Non è un normale fantasma » cominciò Sam, lentamente. «Questa creatura non può
uscire di casa, perché vi è legata, e questo è normale: ma perché vietarlo anche a
Jane? La dottoressa ha detto che durante la gravidanza, parte del nutrimento
destinata una finiva nell’altra. E se nello stesso modo, la vita di una si sia riversata
nell’altra? Questo creerebbe un legame indissolubile tra le due gemelle: se una muore,
anche l’altra farà la stessa fine».

L’altro era semplicemente sconvolto. «Ne sei sicuro? Non ho mai sentito niente del
genere…» domandò, con la voce più roca del solito.

Sam annuì. «Ho sentito dei conoscenti della famiglia. Jane non è mai uscita di casa.
C’era qualcosa che glielo ha sempre impedito… scommetto che è stata la sorella.
Questo vuol dire che anche Jane è legata all’abitazione, e che uscendo…»

«…morirebbe» concluse per lui il fratello.

«O meglio, morirebbe la parte della creatura dentro di lei. Non so cosa succederebbe a
Jane» lo corresse Sam.

Dean alzò le spalle. Non è che la situazione cambiasse, poi, di molto…

«Alla fine, ha senso, no?» aggiunse il fratello, leggermente esitante, e Dean lo fulminò
con lo sguardo. «Voglio dire… altrimenti, perché lasciare in vita Jane? Ti ricordi le
parole di Redstone? La casa apparteneva alla primogenita. E la primogenita, in questo
caso, è l’altra».

«Quindi quella cosa fa tutto quello che può per riprendersi la villa, che considera di
sua proprietà?» fece Dean, sbalordito.

«Ma allo stesso tempo non può far fuori Jane, perché rischierebbe di venire distrutta a
sua volta» assentì Sam. «E poi… pensa all’incidente con cui sono morti i suoi genitori…
la casa gli è crollata addosso. Non può essere stata una coincidenza».

«No, assolutamente» convenne l’altro, sbalordito. «E anche la maniera con cui uccide
le sue vittime… le seppellisce vive».

«Proprio come i suoi genitori seppellirono lei» concluse Sam. «Sembra che riesca a
controllare la casa… come ho detto, sembra che questa creatura riesca a controllare la
villa, come fosse una cosa viva».

Per un attimo regnò il silenzio.

Dean si era accasciato su una sedia, e guardava fisso davanti a sé. Il fratello lo
osservava preoccupato, come aspettando una sua reazione che tardava ad arrivare.

«Dean… che cosa facciamo?» chiese infine Sam.

Il fratello alzò lo sguardo.

«Distruggiamo quella cosa» disse, e gli occhi gli brillarono per un istante di gioia
maligna. «Prima bruciamo il corpo. Poi penseremo alla casa. Dobbiamo tirare fuori
Jane da questo faccenda».

«E se fosse pericoloso per…»

«No!»

Il grido di Jane li fece sobbalzare entrambi. La bambina si era intrufolata nella loro
stessa stanza, e ora li guardava, furiosa.

«Pensavo di potermi fidare di voi! Pensavo che avreste…»

La bimba non riuscì ad andare avanti e deglutì, gli occhi lucidi che lampeggiavano di
rabbia.

«Jane, che cosa stai dicendo?» fece Dean, tra lo stupito e il confuso.

«Vi ho sentiti, tutti e due!» rispose con uno strillo lei, voltando lo sguardo da uno
all’altro. «Avete detto che le avreste fatto del male! Avete detto che ucciderete
Maryanne!»

La bambina si voltò e scappò via, correndo su per le scale di legno.

«Mary… chi?» chiese Dean, ancora scioccato dalla situazione.

«È il nome che i genitori volevano dare alla sorella» spiegò Sam, lentamente. «Ma non
capisco perché Jane se la sia presa così tanto…»

Prima che potesse finire di parlare, Dean era già corso dalla bambina, inseguendola
lungo le scale fino alla camera da letto dove lei si era rintanata.

La trovò in un angolo della stanza, abbracciata alle proprie ginocchia come il giorno
prima: questa volta, però, teneva la testa alta, e negli occhi azzurri c’era uno sguardo
fiero e orgoglioso che per un attimo lo lasciò interdetto.

Si avvicinò, e, inginocchiato davanti a lei, cominciò a parlare.

«Jane, non capisco» fece, nel tono più gentile che gli uscì in quel momento. «Io
pensavo che tu non volessi stare con tua sorella. Credevo che lei ti spaventasse… che
non volessi più averla intorno, no?»

La bimba non parlava, limitandosi a guardarlo con fare altezzoso.

«Jane, il motivo per cui Sam e io abbiamo parlato di… cacciare via Maryanne, è perché
pensavamo che lei ti disturbasse e che ti facesse paura. Se tu non vuoi, noi non la
toccheremo nemmeno con un dito. Ma dopotutto, ti avevo promesso di proteggerti,
no?» Dean cercò di sorridere.

Lo sguardo fermo di Jane vacillò un poco. «Tu u-uccideresti qualcuno solo per
proteggermi?» domandò, sbalordita.

«Certo» confermò lui. «Non lascerei mai che qualcosa ti faccia del male. E poi, Jane,
non posso uccidere Maryanne, e sai perché? Perché lei è già morta. Lei non esiste
davvero, è solo… un fantasma».

«Lo sapevo che non era normale» sussurrò la bambina, persa nei suoi pensieri. «Però,
è mia sorella, e a una sorella o a un fratello bisogna volere bene lo stesso, no? Anche
se non c’è più. Perché anche la mia mamma e il mio papà non ci sono più, ma di loro
non c’è neppure il fantasma. E allora, non è meglio stare con una sorella fantasma,
che rimanere da sola? In fondo, è l’unica famiglia che mi è rimasta. Meglio di niente,
no?».

Per un attimo Dean credette di non essere in grado di rispondere.

Pensò a lui, e a che cosa avrebbe fatto nella situazione di Jane: poi, però, si accorse
che lui in quella situazione c’era già. Almeno un pò.

Si schiarì la voce.

«No, Jane» ribatté piano, guardandola dritto negli occhi azzurri. «Non è meglio. Io lo
so che è triste, ma se la tua mamma e il tuo papà non ci sono più, niente potrà farli
tornare indietro. Niente. E, Jane… Maryanne non è veramente tua sorella. Lei non ti
vuole bene. Non sarà mai la tua famiglia, perché non vuole esserlo».

Si accorse che Jane aveva gli occhi lucidi, e questo non poté certo aiutarlo a
continuare. Allungò una mano e le accarezzò una ciocca di capelli biondi.

«Sai, Jane, anch’io ho perso la mia mamma, tanti anni fa. E adesso anche il mio papà
se n’è andato» Dean si costrinse ad andare avanti senza che la voce tremasse. «Io
capisco che è difficile pensare di essere soli, perché io, se non ci fosse Sam…»

Si maledisse per aver cominciato un discorso tanto complicato, e decise di andare
avanti per un’altra strada.

«Però non è con Maryanne che ti sentirai meno sola. Lei ti vuole accanto a sé solo
perché ne ha bisogno per continuare ad esistere. Se tu te ne vai, lei scomparirà. Per
quello non ha mai voluto che tu uscissi di casa, lo sai?»

Una lacrima scese lungo la guancia bianca di Jane, ma non fu seguita da nessun’altra.

Dei passi lungo le scale preannunciarono l’arrivo di Sam, che rimase sulla soglia, come
se non volesse interrompere nulla.

Dean si alzò in piedi. «Sta a te scegliere. Se vuoi che ti aiutiamo, noi cacceremo via
Maryanne da questa casa. Se invece preferisci che ce ne andiamo, noi spariremo di
qua e nessuno ti verrà mai più a disturbare, promesso».

La bambina lo guardò a lungo. Il suo sguardo si spostò da lui a Sam, alle pareti di
legno della casa, e alla fine si inchiodò sul pavimento.

Poi rialzò la testa, e negli occhi limpidi lampeggiava una muta richiesta di aiuto.

«Portatela via di qui» sussurrò, e il suono delle sue parole riecheggiò nella stanza
spoglia.

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Capitolo 12
*** Sale e fuoco ***


Dean sbuffò.

«Certo che potresti anche darmi una mano» commentò, in direzione del fratello, che
se ne stava nell'altra stanza a parlare a telefono.

Quello, per tutta risposta, gli fece segno di tacere e continuò a chiaccherare
allegramente, o così almeno gli parve.

«Jane sta bene, è con noi... ora sistemiamo quella faccenda e poi veniamo... sì, ti farò
sapere, Josephine... non ti preoccupare... tutto bene». Era più o meno questo quello
che Dean riusciva a captare dalla loro conversazione.

Scuotendo la testa con un ghigno, si rimise al lavoro, e, una tavola per volta, riprese a
togliere le assi di legno dal pavimento, alla ricerca del punto in cui era stata sepolta
Maryanne.

Sentì dei passettini affrettati alle sue spalle.

«Sei stanco, Dean?» chiese la bambina, apparendogli alle spalle in una maniera
vagamente inquietante.

«Jane!» esclamò lui, sorpreso. «Ti avevo detto di restare nell'altra stanza con Sam,
qui sto lavorando, sai».

«Ma Sam non mi considera!» protestò lei. «E poi sono venuta a portarti da mangiare,
perchè è quasi ora di pranzo e sono sicura che hai fame».

«Oh, beh, io... grazie!» fece Dean, sinceramente colpito.

Jane sorrise, porgendogli un panino. «L'ho fatto uguale al tuo di ieri sera, così sono
sicura che ti piace» precisò, tutta contenta.

«Sei forte» Dean ricambiò il sorriso e posò gli attrezzi che aveva in mano per
cominciare a mangiare. La bimba non smise di fissarlo, attenta.

«Cosa stai facendo?» domandò, dopo qualche minuto.

«Jane, te l'ho già detto non possiamo spiegarti nei dettagli» replicò lui, tornando serio.
«Stiamo cercando di aiutarti, d'accordo?»

Lei annuì. «E perchè Sam non ti da una mano?» chiese ancora.

«Perchè lui è troppo principesco per queste cose» commentò sarcastico, e Jane rise
appena, incerta. «Mi darà una mano più tardi, tranquilla» concluse.

La bambina non disse più nulla e Dean finì di mangiare in fretta: nonostante tutto,
voleva chiudere quella storia il prima possibile.

«Beh, grazie di tutto, Jane» le disse, alzandosi in piedi. «Adesso però io devo
ricominciare qui, e tu devi andartene da questa stanza».

«Ma io...»

«Jane, ci eravamo messi d'accordo su questa cosa fin dall'inizio, giusto?» la interrupe
Dean, fissandola dritto dritto negli occhi azzurri.

Jane sbuffò. «Giusto...» e si allontanò di malavoglia, uscendo dalla stanza.

Dean sorrise. Era davvero forte, quella bambina. Riprese a scoperchiare il pavimento,
mentre la voce di Sam al telefono gli faceva da sottofondo, un sottofondo abbastanza
snervante, a dire la verità.

Stava giusto riflettendo su quante volte il fratello dava dello scansafatiche a lui,
quando una delle assi che tolse risultò nascondere una cavità.

«Sam, vieni, l'ho trovato!» gridò, e dopo pochi istanti lo sentì precipitarsi nella stanza.

Fece scorrere la mano sull'asse successiva, e pian piano, lavorandola tutt'attorno, la
tolse, e dovette trattenere un grido di disgusto.

Davanti a lui, s'intravedeva il volto in decomposizione di una neonata. La pelle era
marcia, quasi del tutto scomparsa, e lasciava intravedere lo scheletro del viso, sporco
di terra e di sangue. Le orbite vuote sembravano quasi fissarlo.

Si portò una mano alla bocca per trattenere l'impulso di vomitare. Anche se aveva
visto dozzine di cadaveri nella sua vita, questo non li rendeva certo più carini da
guardare...

«Hai portato il sale?» domandò a Sam, alle sue spalle, che annuì, per poi chinarsi ad
aiutarlo.

Pezzo dopo pezzo, lentamente, portarono alla luce tutto il corpo di Maryanne: era
minuscolo, rachitico, rannichiato su sé stesso. Sul ventre si intravedevano ancora i
resti del cordone ombelicale, che aveva assunto una strana tonalità di un rosso scuro.

«Muoviamoci, sto per sentirmi male» mormorò Dean, assolutamente inorridito, e si
tastò le tasche della giacca alla ricerca dell'accendino.

Sam, intanto, cosparse abbondantemente di sale tutta la figura, come temendo di
dimenticarne una parte; Dean gli allungò l'accendino e poi si alzò, sentendo che non
ce l'avrebbe mai fatta a vedere il corpicino di Maryanne bruciare.

Aveva appena fatto un passo per allontanarsi, quando un grido lo fece voltare.

«No!»

Davanti a loro era comparso il fantasma della bambina, e questa volta, alla luce del
sole, poterono scorgerne i tratti con orrida precisione.

Aveva il volto e il corpo di una bambina, eppure, sicuramente, quella non poteva
essere una bambina. Era magrissima, anoressica, e stava chinata in avanti, ingobbita:
si potevano contare una ad una tutte le ossa che sporgevano in strane angolazioni da
sotto la lacera veste che indossava.

Doveva aver avuto, un tempo, gli stessi capelli biondi di Jane, ma erano radi, come
quelli di una vecchia, e pendevano lunghi e miseri sulle spalle: gli occhi era circondati
da occhiaie nere, e lo stesso viso sembrava non avere abbastanza pelle da ricoprirlo;
era infossato, marcio. La bocca della figura era tesa in un ghigno che sembrava
poterle strappare le labbra sottili.

La creatura tese una mano verso di loro. La voltò, lentamente, e subito le assi di legno
del pavimento che Dean aveva tolto si alzarono in volo e corsero verso di lui, che si
dovette tuffare di lato per evitarle.

Sam stava per dare fuoco al corpo, ma con un'altro gesto di Maryanne, venne
schiantato contro il muro, e per un attimo perse i sensi.

Dean cercò di rialzarsi, ma il pavimento della casa sembrava essere diventato vivo
sotto il comando del fantasma: emersero dalle fondamenta delle radici lunghe, nere,
che sembravano appartenere alla stessa casa, che cercarono di afferarlo.

Cercò di evitarle, ma erano troppe, e una gli si arrotolò lungo la caviglia, placcandolo e
facendolo cadere in avanti: sentì il sapore del sangue in bocca, e tossì.

Accortasi del rumore, Jane si precipitò nella stanza, ma rimase bloccata sulla soglia,
inorridita.

«Jane, va via!» ringhiò Dean con tutta la voce che aveva in petto, ma la bambina era
troppo terrorizzata o troppo sconvolta per muoversi, e si limitò a fissare Maryanne.

«Lasciali stare!» le gridò debolmente, ma la creatura rise, e nel ridere, di nuovo
sembrò che la pelle sottile del volto stesse per lacerarsi.

Un attimo dopo, il fantasma era accanto a Dean, e lo aveva afferrato per la gola. Per
essere una bambina, o un cadavere, o quel diavolo che era, aveva una forza
sorprendente, e lui si sentì soffocare.

Vide il fratello che si rialzava scombussolato dall'altra parte della stanza, e urlò, con il
poco fiato che aveva: «Sam, brucia quel maledetto corpo!»

Maryanne strinse ancora la presa, infuriata dalle sue parole: Dean stava virando
lentamente al rosso, e sentì che non avrebbe ancora resistito per molto.

Sam fece per gettare l'accendino acceso sul corpo ma si bloccò, come attraversato da
un pensiero improvviso. «Dean, questa casa è di legno

Lui, che aveva raggiunto una tonalità viola, non potè fare altro che urlare: «Muoviti,
idiota!»

Maryanne lo lasciò immediatamente andare per fermare Sam, ma fu troppo lenta: il
cadavere sul pavimento cominciò a emanare un odore di bruciato che dava alla
nausea, e il fantasma cadde a terra, in preda agli spasimi.

Dean si rialzò massaggiandosi la gola e tossendo, e il fratello si affrettò a
raggiungerlo, per aiutarlo.

Dean lo fulminò con lo sguardo. «”Questa casa è di legno”? Ma come ti salta in
mente? Stavo per morire soffocato!»

«Beh, non avevo tutti i torti» mormorò l'altro, e gli indicò la stanza.

Il cadavere in fiamme aveva incendiato anche il pavimento, e l'incendio si propagò a
macchia d'olio, rapido, inesorabile.

I due indietreggiarono, e per un attimo nessuno seppe cosa fare.

Quell'attimo fu troppo. Maryanne si rialzò, tossendo: sembrava esausta, ma il suo
sguardo scintillava di rabbia più che mai. Avanzava arrancando verso di loro, tra le
fiamme, la mano tesa come per afferrarli.

Le assi del soffitto cominciarono a scricchiolare.

«Fuori di qui!» gridò Dean, afferrando la mano di Jane, proprio dietro di lui, per
aiutarla di uscire, ma qualcosa crollò e rischiarono di essere sepolti dalle macerie.

«Via, via!» fece Sam, mentre tutto ciò che era caduto prendeva fuoco, e l'aria si
faceva densa di fumo nero.

Maryanne non la smetteva di avanzare, ma anche lei era in difficoltà: ne
approfittarono per correre via dalla stanza. Percorsero in fretta il corridoio buio e
raggiunsero la soglia.

Sam uscì; Dean lo stava per imitare, portandosi dietro Jane, ma la bambina si bloccò
davanti alla porta.

«Io non posso uscire di casa» mormorò, pallidissima.

Sam e Dean si guardarono, senza sapere cosa fare. Dietro di lei, la casa bruciava, e
Maryanne si avvicinava sempre di più.

«Vieni fuori, Jane» fece Dean, ma non sembrava troppo convinto, e la bambina non lo
ascoltò.

Con un altro schianto, un'asse portante della casa crollò e con lei, tutto il secondo
piano parve precipitare lentamente.

«Vieni fuori, Jane!» ripeté Dean, questa volta urlando. «Andrà tutto bene, te lo giuro,
ma adesso vieni fuori da lì, ti prego!»

Maryanne era arrivata alle spalle di Jane: l'afferrò, e la bambina strillò terrorizzata.

«Non... uscire...» le sussurrò all'orecchio la creatura, gli occhi spalancati da un terrore
folle, cieco.

Jane urlò, e si scansò: Maryanne cercò di afferrarla, e nella lotta la bambina cadde, si
rannicchiò, e quando riaprì gli occhi, era fuori di casa.

Si rialzò in piedi tremante, e Dean la strinse a sé. Poté sentirla tremare, il viso
affondato tra le sue ginocchia.

L'urlo di Maryanne si ripetè, e questa volta fu prolungato, un suono orrendo, di dolore
e disperazione: il fantasma sembrò cadere a pezzi, disfacendosi davanti a loro, e con
lei, tutta la casa ardeva, in un'unica fiamma bruciante, che sembrava inghiottire tutto.

Pochi istanti dopo, di Maryanne non restò più nulla.

Dean e Sam si lanciarono uno sguardo, ma non ebbero neppure il tempo di esserne
soddisfatti, perchè nello stesso istante, Jane cadde a terra, priva di sensi.

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Capitolo 13
*** All'ultimo minuto ***


Dean si gettò sulla bambina, che stava per terra, gli occhi chiusi, apparentemente
priva di coscienza.

«Jane, svegliati, svegliati!» fece, prendendole il volto tra le mani.

La bambina spalancò gli occhi e urlò.

«Jane!» Dean non aveva idea di cosa fare. Stringeva tra le braccia il corpicino della
bimba, che sembrava aver perso totalmente il controllo di sé: gridava e si contorceva,
gli occhi spalancati, fuori dalle orbite, come impazzita.

Sentì Sam avvicinarsi e chinarsi al suo fianco, anche lui pallidissimo, anche lui
sconvolto e senza nessuna idea su come comportarsi: poi, prima che uno dei due
potesse fare qualcosa, rapido com'era iniziato, finì.

La bambina si voltò di lato, rabbrividendo: tossì, e sull'erba comparvero delle macchie
rosse.

«Jane, come stai, cosa hai fatto?» domandò Sam, scrutandola in ansia.

Lei scosse la testa, come per dire che non riusciva a parlare, e tossì di nuovo. Le
chiazze sull'erba si allargarono.

Poi venne ripresa di nuovo dai conati. Jane si rannicchiò su sé stessa, stringendosi
febbrilmente il corpo, e ricominciò a contorcersi dal dolore: si mordeva le labbra per
non gridare, e aveva la pelle più bianca che mai.

Dean avrebbe voluto solo sapere come fare per allievare il suo dolore, e l'impossibilità
di fare qualcosa -qualsiasi cosa- lo fece sentire solo peggio. Strinse a sé la bimba,
accarezzandola rapido, e guardando il suo volto pallido, teso da una sofferenza che
sembrava insopportabile, e non poté che pregare che finisse presto.

Ma non fu così. Per un attimo sembrò che, di nuovo, il peggio fosse passato: Jane alzò
lo sguardo, gli occhi che brillavano, e aprì la bocca esangue quanto bastava per
mormorare: «Dean... aiutami...». Non passarono un paio di secondi, che le fitte
ricominciarono, e Jane strinse il viso in nuove smorfie di dolore, tremando tutta.

La bambina non riuscì più a trattenersi, e scoppiò di nuovo in grida, che echeggiarono,
terribili, nel silenzio tutt'attorno: si mise di nuovo carponi, e sbiancò ancora: sembrava
dovesse cedere da un momento all'altro.

Tossì di nuovo sangue, si contorse, riprese a tossire e a sputare: ebbe un'altro conato,
e tra l'erba comparve una poltiglia di un rosso scuro, mentre Jane sembrava dover
vomitare anche l'anima.

Dean le accarezzò la fronte, ghiacciata, la sostenne, ma più di questo non poteva fare,
e la cosa lo fece impazzire.

Passò anche questo: Jane si rialzò dall'erba, le labbra sporche di sangue, gli occhi
lucidi; lo guardò per un istante, e sembrò sul punto di parlare, poi perse del tutto
conoscenza e cadde.

«Jane!»

Dean le tastò frettolosamente il polso, e sentì il battito che arrivava debole, quasi
impercettibile, e per la prima volta ebbe paura.

«Jane!»

Si avvicinò alla bambina, a quel corpo sottile che sembrava non avere più forze, né
vita dentro di sé, e l'avvertì respirare piano. Pensò che ognuno di quei rapidi soffi
poteva essere l'ultimo, e capì che non ce l'avrebbe fatta a sopportarlo.

«Sam, fa qualcosa, maledizione!» ringhiò, voltando lo sguardo verso il fratello, che
stava a sua volta guardando ancora più in là, sulla linea dell'orizzonte.

Un'auto. Proprio là. E si stava avvicinando.

Dean era, forse, troppo sconvolto, e tutto quello che successe da quel momento in poi
lo visse a velocità raddoppiata, come in un sogno.

Vide la macchina avvicinarsi, e ne vide scendere una donna, che corse da Sam a
chiedere spiegazioni.

La vide avvicinarsi a Jane, allarmata, scansandolo, e poi prenderla in braccio, gridando
qualcosa su un ospedale.

Solo allora riprese la sua lucidità, e, di fretta, senza pensare, corse dalla sua auto,
parcheggiata a pochi passi, vi fece salire Sam e la donna, che teneva in braccio Jane,
e un paio di secondi dopo era già in strada.

Di nuovo, di quel viaggio non ricordava molto.

Era stato senza dubbio molto lungo, e molto pericoloso. Per quanto il suo sguardo
rimase fisso sull'asfalto, si accorse fin troppe volte di non vedere le macchine che
arrivano, e rischiò più di una volta di finire fuori strada.

Premeva sull'acceleratore, mentre dietro di lui sentiva le voci di Sam e della donna
confondersi, senza d'importanza: poi, una costruzione bianca, il parcheggio, e fu tutto
una corsa rapida e priva di dettagli.

Solo quando Jane fu coricata su un lettino bianco, immersa tra i macchinari
dell'ospedale e le lenzuola candide, e quando ebbe la certezza che lei era viva, e che
sarebbe sopravvissuta, si accorse di star tremando.

Si lasciò cadere sulla sedia e chiuse gli occhi, esausto.

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Capitolo 14
*** Questione di sandwich ***


Passarono la notte in ospedale.
 
La sera prima, proprio dopo che Jane fu sistemata e dichiarata fuori pericolo, la
donna, che Sam presentò come la famosa dottoressa Josephine Redstone, aveva
spiegato loro la situazione, e Dean si sorprese della facilità con cui aveva parlato di
fantasmi e mostri con loro.

«Come già sapete, con la scomparsa di Maryanne, la parte di lei presente in Jane è
andata perduta» aveva detto, in tono incredibilmente professionale. «Dopo la già
dolorosa separazione dalla gemella, si è ritrovata di colpo con la metà delle energie,
delle forze, di tutto quello che aveva. È stato un bel colpo per il suo fisico, lo ammetto.
Ma ora deve solo abituarsi a cavarsela con quello che le resta».

Josephine aveva sorriso -a Dean sembrava del tutto fuori luogo, ma sembrava così
tranquilla!

«Quando si rimetterà?» aveva chiesto allora Sam.

«Credo che domani pomeriggio potrà già uscire dall'ospedale, se tutto va bene»
rispose lei, e Dean la interruppe.

«E dove andrà? Non ha più una casa, né qualcuno che si prenda cura di lei». L'idea di
aver dato fuoco alla tanto amata reggia della bambina lo faceva sentire, in qualche
modo, responsabile della sua sistemazione futura.

«La prenderò io con me» sorrise ancora la dottoressa. «Siamo molto legate, ho badato
a lei per molti anni... starà bene, ne sono sicura».

Dean annuì, e non disse più nulla.

«C'è un'altra cosa che dovete sapere, ma questa volta non è una bella notizia»
aggiunse Josephine dopo qualche istante.

I due fratelli si voltarono verso di lei, sorpresi.

«Mio padre, il capitano Redstone... chiede da ore notizie sul caso» fece la donna,
abbassando lo sguardo con aria colpevole. «Io vi sono davvero molto grata per aver
risolto questa storia, ma...»

«...ma nessuno ci crederà mai, giusto?» concluse per lei Sam, alzando gli occhi al
cielo. «Tanto meno Redstone»

«Già» Josephine sorrise dispiaciuta. «Io farò in modo di coprirvi con mio padre, e non
dovrete preoccuparvi di nessuna conseguenza, ma non potete restare ad Ironwood a
lungo, o lui verrà a cercarvi per farvi di persona delle domande».

«Tranquilla, ce ne andremo il prima possibile» fece Sam, annuendo.

«Ce ne andremo non appena avrò visto che Jane sta bene» aggiunse Dean, inarcando
un sopracciglio, e nessuno lo contraddisse.

Fu così che passarono là la notte.

Non c'era molto spazio per loro, e così Dean si ritrovò un'altra volta a dover dormire
su una sedia, proprio accanto al lettino di Jane.

Sam fu invitato ad andare a casa con Josephine, ma rifiutò, e rimase col fratello. La
donna indugiò appena, poi li lasciò soli e se ne andò.

La notte trascorse lunga, infinita, e nessuno dei due riuscì a chiudere occhio. Quando i
primi raggi del sole s'infiltrarono tra le tapparelle bianche fino a dentro la stanza,
erano uno più esausto dell'altro.

Dean si stiracchiò, sbadigliando. Era ancora mezzo addormentato quando notò che
Jane si stava muovendo debolmente: si sentì improvvisamente sveglio e le si avvicinò.

La bambina aprì piano gli occhi e si guardò intorno.

«Dove... dove sono?» momorò, e anche lei sembrava stanchissima.

«Questo è un ospedale, Jane» le rispose Dean, incredibilmente sollevato. «Qui curano
le persone che non si sentono bene... ma non preoccuparti, non ci starai per molto.
Ormai sei guarita, e stasera potrai andare a casa».

Lei sorrise appena. «Quale casa?» fece, fissandolo dritto negli occhi. «La mia non c'è
più».

«Lo so, ma presto ne avrai una nuova» si affrettò a rispondere lui. «Una più bella,
dove non sarai sola... ci sarà la dottoressa Josephine con te, sempre. Lei ti piace, no?
Ti farà da mamma».

«Josephine?» Il volto di Jane si illuminò, ma poi fu come oscurato da un pensiero
improvviso. «E tu? Anche tu rimani a farmi da papà, vero?»

Dean sentì qualcosa di strano che gli si stringeva nel petto.

«Io... mi piacerebbe tanto, Jane, ma devo proprio andare» rispose, e si sentì davvero
crudele. «Sai, ci sono tante altre persone che hanno fantasmi, come quello di
Maryanne, che gli fanno del male. Io e Sam... noi dobbiamo aiutarli».

«Ci può andare solo lui» replicò fredda Jane, lanciando uno sguardo assassino a Sam,
che, seduto dietro di loro, stava facendo del suo meglio per fingere di non ascoltare.
Dean non poté fare a meno di sorridere.

«Ma noi facciamo tutto insieme, sai?» disse, per poi avvicinarsi alla bambina, e
sussurrarle all'orecchio: «E poi Sam non è mica bravo come me a catturare mostri, ha
bisogno che lo aiuti».

Jane capì che stava scherzando e rise appena, incerta.

«Mi mancherai tanto, Dean...» sussurrò, triste. Per un attimo nessuno dei due disse
nulla, e lei rimase a fissare il vuoto con i suoi occhi azzurri, incredibilmente vivi.

Poi, d'un tratto, la bimba sorrise.

Dean la guardò interrogativo, sorpreso da quel rapido cambiamento d'umore.

«Sai a cosa sto pensando?» fece Jane, d'improvviso tutta allegra.

Lui scosse la testa.

«In tutti i libri... nelle storie, e nei film» cominciò Jane, osservandolo attentamente.
«Quando due persone si lasciano per un po' di tempo, ognuna dà all'altra un
oggetto... qualcosa di suo. Così, ogni volta che uno guarda quell'oggetto, pensa a
quella persona, e non ci si dimentica mai».

«È una bella idea» fece Dean, sorridendo, e subito cercò di farsi venire in mente
qualcosa da regalare alla bambina. Purtroppo, riflettendoci, i suoi averi consistevano
in una macchina, una quantità industriale di armi da fuoco, manuali di esorcismo, e
varie tessere e documenti falsi. Nulla che potesse dare una bambina.

Fu una sensazione strana. In vita sua aveva sparato, ucciso, bruciato cadaveri,
mentito, ingannato e molte altre cose, ma fu solo quando pensò di non avere nulla da
regalare alla piccola, e alla delusione di lasciarla a mani vuote, si sentì la persona più
meschina del mondo.

«Jane, mi dispiace... io non ho proprio niente da darti» confessò, con aria colpevole.

Lei non smise di sorridere.

«Neanche io» commentò allegra. «Tutto quello che avevo si sarà ormai distrutto
nell'incendio».

Dean non capiva. «E allora come pensi di risolvere il problema?» domandò, confuso.

«Ti ricordi quel panino che mi hai preparato l'altra sera? Quello che abbiamo mangiato
insieme quando Sam non c'era?» disse, per tutta risposta, Jane.

Lui annuì.

«E poi te l'ho preparato anche il giorno dopo, no?» continuò la bimba, allegra. «Sai,
mi ricordo ancora la ricetta, perchè ti stavo guardando mentre lo preparavi. Una fetta
di pane, maionese, formaggio, prosciutto...»

«...uova, altra maionese, e un'altra fetta di pane, sì» concluse per lei Dean, senza
riuscire a trattenere una risata. «Ma tutto questo cosa c'entra?»

«Stavo pensando» rispose Jane, gli occhi che brillavano «che d'ora in poi, quel panino
mi ricorderà il giorno che l'abbiamo mangiato insieme. Per me sarà un po' come un
panino alla Dean. E così tutte le volte che ne preparerò uno uguale, penserò a te. E
per te sarà lo stesso».

Di nuovo, Dean non riuscì a non scoppiare a ridere. Era un'idea così sciocca, così
infantile... gli piacque subito.

«D'accordo» fece, senza smettere di ridere. «D'accordo, faremo così».

«E adesso avvicinati un po'» gli disse Jane, sorridendo.

Dean, anche se sorpreso, obbedì, e subito le sottili braccia della bambina si
allungarono per abbracciarlo. Avvertì la sua stretta, per quanto debole, la sentì quasi
aggrapparsi a lui, e ricambiò con la maggior delicatezza possibile.

Quando si separarono, Jane aveva gli occhi lucidi.

«Devi proprio andare?» gli domandò, quasi implorante.

Dean annuì. Si voltò a guardare Sam, che si era alzato e stava cominciando a
racimolare le cose che avevano sparso nella stanza durante la notte passata in
ospedale.

«Ehi, Dean!» lo chiamò ancora la bambina, e lui si girò a guardarla. Sorrideva di
nuovo.

«Mi vieni a trovare quando sono più grande?» gli chiese, speranzosa. «Così vedi come
sono cresciuta».

Lui avrebbe voluto dirle che sì, certo, si sarebbero rivisti, ma non sarebbe stato giusto
darle una garanzia che non era certo di mantenere. Troppo pericoloso.

«Ci proverò» rispose, con un mezzo sorriso.

«Non te ne scordare» si raccomandò Jane, e aveva un'aria così severa che Dean quasi
rise di nuovo.

«Non me ne dimentico, tranquilla!» le assicurò. Sam gli fece cenno di andare, e Dean
si voltò un'ultima volta verso di lei. «Ciao, principessa» le disse, sorridendo ancora.

«Ciao, Dean» sussurrò Jane. Fece un cenno con la mano anche a Sam, poi si voltò su
un fianco e chiuse gli occhi, come per dormire.

I due si allontanarono dalla stanza, percorrendo i lunghi corridoi bianchi dell'ospedale.
Uscirono: la macchina era parcheggiata proprio là davanti, e, senza una parola, ci
salirono sopra. Poco dopo erano già sulla strada.

Non avevano una meta precisa, o almeno, Dean non ne aveva. Il fratello, di fianco a
lui, già stava sfogliando uno dei quotidiani locali, che Josephine gli aveva fatto avere il
giorno prima, e di tanto in tanto leggeva ad alta voce le notizie di qualche omicidio
seriale o persone scomparse, interrompendosi, quasi deluso, quando arrivava il
momento della cattura del colpevole.

Per quasi metà mattina andarono avanti così, l'uno parlando, l'altro ascoltando a tutto
volume la musica alla radio: Sam ogni tanto proponeva una destinazione, che veniva
scartata dopo poco.

Non era importante dove andare, dopotutto: bastava lo sfrigolare delle ruote
sull'asfalto a mettere Dean di buonumore.

Fu solo verso mezzogiorno che si fermarono per la prima volta, ormai lontani
chilometri di Ironwood: Dean aveva avvistato un fast food, e si affrettò a parcheggiare
l'auto.

Aveva proprio voglia di un panino alla Jane.


Note dell'autrice:

Accidenti, la storia è finita. Proprio finita finita. E se state leggendo qui, vuol dire che l'avete letta proprio tutta, ben quattordici capitoli, quindi, beh, wow. Grazie. E se avete resistito tutto questo tempo, ce la fate a fermavi due secondi a sentire quello che ho da dire? :)


Bene, prima di tutto devo ASSOLUTAMENTE ringraziarvi per aver letto questa storia. Per averla aggiunta alle preferite, o alle seguite. Per averla recensita.
Ma davvero, soprattutto, per averla semplicemente letta. Siginifica talmente tanto, per me, vedere il numero delle visite crescere di volta in volta, non potete immaginare.
Sì, lo so, sono noiosa :) Passiamo alla prossima notizia?

Mi fate un piacere? Per favore? Sì? Recensite questo ultimo capitolo?
A me di solito non importa molto delle recensioni, ma accidenti, è l'ultimo capitolo, anche solo scrivere "la tua storia è stata molto bella" oppure "no faceva schifo", a me interessa, davvero. Quindi, se avete un secondo di tempo, vi prego, ditemi cosa ne pensate. Grazie :)

Sì, sono ancora noiosa. Vi dico una cosa velocissima: mentre scrivevo questa storia, ho fatto un piccolo collage di foto. Volete vederlo? Basta cliccare qui --> http://browse.deviantart.com/?qh=§ion=&q=home+sweet+home+supernatural#/d4rcioe 
Boh, era solo per dirvelo.

ULTIMA E PIU' IMPORTANTE NOTIZIA!
Pensavate di esservi liberati di me, con questo capitolo? Ahahahahah, poveri illusi.
Signori e signori, sappiate che da oggi questa storia fa parte di una serie, "Supernatural - Season ½" (http://www.efpfanfic.net/viewseries.php?ssid=4252&i=1).
E indovinate un pò? Questa serie ha già una  nuova storia, il cui primo capitolo è appena stato pubblicato. Per cui, se questa fan fic vi è piaciuta, e avete voglia di seguirne un'altro, potete andare a seguire "The Beauty and the Beast", proprio qui ---> http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=983823

E se invece già sentite la mancanza della piccola Jane e vorreste saperne di più, andate a dare un'occhiata a "Un Winchester mantiene sempre la parola", a questo link --> http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=1017048&i=1

Detto questo, vi lascio.

Ancora un grosso grazie a tutti voi.

Un bacio,

Relya

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