Tschüss, Faust di My Pride (/viewuser.php?uid=39068)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** [ Atto I: St. Louis › Luglio, 2008 ] Occhi di tigre nel volto d'un uomo ***
Capitolo 2: *** [ Atto II: St. Louis › Luglio, 2008 ] Avvenimenti impensabili e strane fantasie ***
Capitolo 3: *** [ Atto III: St. Louis › Luglio, 2008 ] Patto col Diavolo o semplice suggestione? ***
Capitolo 4: *** [ Atto IV: St. Louis › Luglio, 2008 ] Messaggeri dall'oltretomba ***
Capitolo 5: *** [ Atto V: Chicago › Luglio, 2010 ] Epilogo inaspettato ***
Capitolo 1 *** [ Atto I: St. Louis › Luglio, 2008 ] Occhi di tigre nel volto d'un uomo ***
Tschuess_1
[
Prima classificata al contest «Origami
di carta» indetto da Fe85 ]
[ Vincitrice del Premio grammatica al contest
«Voglie estive di gustose letture»
indetto da aturiel ]
Titolo:
Tschüss, Faust
Autore: My
Pride
Fandom:
Originali › Sovrannaturale
Tipologia: Racconto
breve
Genere:
Drammatico, Sentimentale, A tratti
vagamente introspettivo, Malinconico, Sovrannaturale
Rating:
Giallo / Arancione
Beta Reader: No
Avvertimenti:
Slash, Probabilmente non per
stomaci delicati, Vagamente - o forse anche troppo - nonsense
Nota: Nel
corso della storia potrebbero essere presenti
espressioni come “Aye” e “Nay”,
che significano rispettivamente “Sì” e
“No” in
italiano, e “Och”, che è un rafforzativo
del “Sì”. Esse non sono un errore,
bensì una scelta personale dell’autore, ormai
affezionatasi a tale dicitura.
Piscina dei prompt:
Originale, Sovrannaturale, Illusioni
psicologiche
Eventuali Credits:
Credits presenti nelle
“Precisazioni e curiosità” alla fine
della fanfiction
Note
dell’autore: Note presenti alla fine della
fanfiction
DISCLAIMER:
All rights reserved
©
I
personaggi presenti in questa storia sono tutti maggiorenni e mi
appartengono, dal primo all'ultimo. Sono comunque frutto di pura
immaginazione. Ogni riferimento a
cose e persone realmente esistite e/o esistenti è puramente
casuale.
This work
is licensed under a Creative
Commons Attribution-Noncommercial-No Derivative Works 3.0 License.
Ho veduto più di
quanto io stesso abbia mai voluto vedere.
Desideri, sogni,
promesse ed incubi: per quanto apparisse orribile,
tutto ciò era
meraviglioso.
ATTO I: ST.
LOUIS › LUGLIO 2008
OCCHI DI
TIGRE NEL VOLTO D’UN UOMO
Guardavo
svogliatamente i fogli bianchi dinanzi a me e il solo farlo mi faceva
sentire
patetico.
Erano tre giorni che tentavo
inutilmente di buttare giù due righe, ma, ogni qual volta mi
sedevo alla mia
scrivania, sentivo come uno spasmo allo stomaco e mi bloccavo, venendo
assalito dal panico. Avevo
sì scritto qualcosa, però
avevo buttato via il foglio non appena mi ero ritrovato a rileggere
quelle
poche parole che non mi avevano per niente convinto. E io mi reputavo
uno
scrittore? Un ciarlatano, ecco cos’ero.
«Hai fatto
progressi?» Al suono di
quella voce, mi voltai in direzione della porta,
vedendo il mio coinquilino entrare nello studio con un semplice
asciugamano legato alla
vita. Beh, perfetto. Butch
Morrison aveva appena infranto con la sua
sola
presenza la già poca concentrazione che avevo. Alto un metro
e novanta scarso, Butch
era una specie di sosia di Will Smith dal fisico del lottatore di boxe
e, con
quelle goccioline d’acqua che luccicavano sul petto,
riusciva di sicuro a catturare la mia più completa
attenzione. Diamine, come
pretendeva che facessi progressi con quel dannato libro se si
presentava così?
Distolsi lo sguardo
a fatica, sbuffando sonoramente prima di poggiare un gomito sul
bordo
della scrivania e sorreggermi il viso sul dorso della mano.
«Per niente», borbottai,
picchiettando con due dita della sinistra il legno. «Ho
buttato giù due righe, ma
non mi convince».
«Dai qua, fa’
vedere»,
esordì
Butch,
allungando una mano verso di me mentre con l’altra si
sorreggeva l’asciugamano. Riluttante, mi chinai a raccogliere
il foglio appallottolato che avevo
lanciato
nel cestino nemmeno un’ora addietro, consegnandolo poi nel
suo palmo aperto
prima che lui lo srotolasse senza tanti preamboli. Cominciò
a leggere ad alta
voce, sapendo bene quanto la cosa mi snervasse.
«“Quando
il sole batté contro le
finestre del suo ufficio, quel mattino,
il detective Montgomery pensò che non avrebbe potuto
continuare con
quell’andazzo”», mi
scoccò
un’occhiata, ma continuò, sollevando un angolo
della bocca in quello che mi sembrò un mezzo sorriso.
«“Aveva
passato l’intera nottata chino
sulla documentazione di Sawyer il
Macellaio, ma, per quanto avesse tentato di venire a capo di quel
complicato
caso, non ne aveva cavato un ragno dal buco”».
Aggrottò
la fronte, poi alzò rapidamente lo sguardo da quel foglio
stropicciato per
fissare me. «Hai in mente di fare un seguito di
“Blood and Gunfire”, per caso?»
Annuii piano, molto
piano. «L’intenzione era
quella», confessai afflitto,
lasciandomi sfuggire un piccolo colpo di tosse, «ma stenta ad
ingranare la
marcia».
«Quello di cui hai bisogno
adesso
è una bella serata tra amici, Jake». Mi si
avvicinò e mi diede una pacca su una
spalla, sorridendo. «Vedrai che dopo un paio di bicchieri ti
sembrerà andare
tutto alla grande».
Malgrado tutto, sorrisi
anch’io. «Per
te ogni scusa è buona per farmi bere, eh?» lo
presi in giro, sentendolo
ridacchiare sottovoce. Non sarebbe mai cambiato, poco ma sicuro. Ero
praticamente cresciuto con lui, se la si voleva mettere su quel piano.
Entrambi
orfani, avevamo vissuto in un orfanotrofio situato alla periferia di St
Louis, in compagnia di molti altri bambini con cui ormai avevamo perso
i contatti.
Sin da piccolo, Butch mi aveva protetto dalle angherie dei ragazzi
più grandi,
poiché ero sempre stato un bambino gracilino senza una gran
spina dorsale; a
complicare le cose ci si era messo anche il mio stato di salute
cagionevole sin
dalla nascita, e non avevo mai saputo difendermi da solo. Le cose erano
cambiate intorno ai quindici anni, certo, ma avevo sempre provato una
sorta di
gratitudine nei confronti di Butch; con il tempo, la nostra
secolare
amicizia si era pian piano evoluta, ed erano ormai quattro anni che ci
frequentavamo come coppia di fatto. Non ero neanche sicuro che fosse
giusto
chiamarlo amore, però, fino a quel momento, le cose
fra noi erano andate
a gonfie vele ed era questo ciò che interessava ad entrambi.
A noi stava bene
così.
Butch si chinò verso di me e
mi
sfiorò una guancia con le labbra, ravvivandomi i capelli
all’indietro dopo aver
poggiato il foglio stropicciato sullo
scrittoio. A quanto sembrava,
aveva
intenzione di farmi continuare da lì, ma io non ne ero poi
così sicuro. «Vado a
vestirmi, tu intanto aspettami in macchina», mi disse,
raddrizzando la schiena.
«Cinque minuti e sarò da te».
Lo seguii con lo sguardo mentre si
allontanava, approfittandone anche per lanciare un’occhiata
al suo sedere sodo.
Era magnifico anche con quell’asciugamano, e quasi mi faceva
venir voglia di
cestinare l’idea della serata tra amici e passare invece le
restanti ore serali
a rotolarmi nel letto con lui. Scossi immediatamente il
capo e
mi battei il palmo di una mano sulla fronte, alzandomi. In teoria avevo
una
scadenza da rispettare, dunque non potevo mettermi a pensare a cose
come il
sesso per quanto esse mi tentassero.
Mi umettai le labbra e
rimisi al proprio posto la sedia, gettando un’ultima occhiata
sulla scrivania prima di
uscire finalmente
dallo studio; attraversai il disimpegno adorno di fotografie - alcune
erano persino state scattate a nostra insaputa, e ritraevano noi due a
pomiciare sul divano; mi ero un po' arrabbiato, al principio, ma poi
avevo deciso di tenerle - e andai
verso
l’ampio ingresso, arraffando le chiavi della macchina dalla
bacheca in cui le
custodivamo. L’auto di Butch era un’Impala del
’67 [2]
dalla carrozzeria nera e luccicante, e, per
quanto gli avessi
più volte ripetuto che avrebbe magari potuto cambiarla con
qualcosa di più
moderno, lui non aveva mai voluto saperne. Finché funzionava
l’avrebbe tenuta,
aveva detto, e quando si metteva in testa una cosa era difficile farlo
tornare
indietro.
Attesi per ben quindici minuti che
Butch mi raggiungesse, senza però accomodarmi sul sedile
anteriore: l’estate a
St. Louis era terribile, dunque quella macchina sarebbe solo diventata
una
trappola simile ad una fornace anche con tutti i finestrini aperti. Non
tirava
un filo di vento nonostante fosse quasi sera, e avrei di sicuro dato di
matto
se la figura di Butch non si fosse finalmente stagliata sulla soglia di
casa.
Chiuse la porta e trotterellò verso di me, facendomi cenno
di lanciargli le
chiavi. Non appena lo feci, lui le prese al volo ed aprì la
portiera, sedendosi
al posto di guida.
«Cinque minuti, eh?»
lo sfottei,
entrando in macchina dopo di lui.
Chiuse l’auto e mi
gettò un’occhiata, inserendo le chiavi nel quadro
d’accensione per mettere in moto la
sua bambina,
come tanto soleva
chiamarla. «Ho chiamato i ragazzi», mi
informò semplicemente. «Ci aspettano al Sub Zero [3]
tra mezz’ora».
Beh, perfetto. Aveva davvero
intenzione di passare una serata tra amici. E io che mi ero illuso
fosse solo
una scusa per portarmi fuori, per una volta che aveva il giorno libero
dal
lavoro! Sbuffai e alzai lo sguardo verso il tettuccio, incrociando le
braccia
al petto senza dargli a vedere quanto la cosa mi irritasse. In fin dei
conti
voleva solo fare una cosa carina per me, comportarmi come una ragazzina
non
sarebbe servito a niente.
Partimmo alla volta di Lafayette
Park e sfrecciando nei colori del crepuscolo, vedendo pian piano la
città
inghiottita dalla notte. Impegnato com’ero nel guardare fuori
dal finestrino, non mi accorsi che Butch stava armeggiando con lo
stereo, e ben
presto le
note della canzone Eye
of the Tiger [4],
sparata d’improvviso a tutto volume, mi fecero sobbalzare.
Stornai lo sguardo
verso Butch per fissarlo con tanto d’occhi, vedendolo
canticchiare qualche
strofa come se nulla fosse. «Quando ti deciderai a cambiare
canzone?» gli
domandai, senza ricevere nessuna occhiata. Però sorrise.
«È
la mia preferita, perché
dovrei?»
«Potresti almeno abbassare il
volume?»
Sbuffò. «Andiamo,
Jake, sembri una
vecchia checca isterica, oggi».
Socchiusi gli
occhi e mi massaggiai la fronte. Aveva ragione, purtroppo. Quella sera
stavo
dando di matto e mi stavo comportando come un cretino.
«Scusa, Butch, è che questa
faccenda del libro non mi da’ pace.
Forse dovrei semplicemente smetterla di fingermi uno scrittore e
cercarmi un
altro lavoro».
«A me sembra che i tuoi libri
abbiano venduto milioni di copie», rimbeccò,
degnandosi finalmente di guardarmi
per un breve istante prima di tornare a fissare la strada.
Io, invece, tornai a guardare
fuori, perdendomi nell’oscurità che imperversava.
«Era un solo libro, Butch»,
precisai, «e stiamo parlando di “Blood and
Gunfire”».
«Però alla gente
è
piaciuto».
Già. Alla gente era piaciuto.
“Blood and Gunfire” era stato il mio primo e solo
libro in una carriera
cominciata due anni addietro. Le avventure del detective Montgomery
Jane
avevano fatto breccia nel cuore delle persone di ogni fascia di
età, nonostante
si fosse trattato di un thriller pesante. Non mi ero difatti
risparmiato nel
raccontare fatti di cronaca nera e i cruenti massacri di
quell’assassino
sociopatico che avevo creato e che portava il nome di Sawyer il
Macellaio. Mi
ero rifatto alla storia di Jack lo Squartatore e l’avevo
riveduta in tutt’altra
chiave, dando vita ad un best seller che aveva scalato le vette
editoriali.
Venirne a conoscenza mi aveva riempito di gioia, ma da quel momento in
poi non
ero più riuscito a scrivere una sola parola di quella storia
o di altre. Blocco
dello scrittore, lo chiamavano. Beh, diamine, quel mio blocco durava
ormai da
un bel pezzo e la cosa era snervante.
Fu continuando a guardare fuori
che borbottai, «Possiamo tagliar corto, Butch? Non sono in
vena, sul serio».
Mi giunse in risposta un lungo
sospiro. «D’accordo, Jake. Fa’ finta che
non abbia minimamente aperto bocca»,
replicò schietto, e nella sua voce mi parve di sentire una
nota vagamente
offesa. Och, fantastico! Ci mancava soltanto quello. Però in
fin dei conti non
potevo dargli tutti i torti. Con le sue parole voleva soltanto cercare
di
spronarmi e le sue intenzioni erano state quindi più che
buone, ero io che
forse diventavo un po’ troppo isterico quando si toccava quel
determinato
argomento.
«Ehi, Butch», provai
a chiamarlo
per scusarmi ancora una volta, ma lui non sembrò per niente
intenzionato ad
ascoltarmi. Lasciai dunque perdere con un sospiro, tornando a fissare
fuori
mentre le note della canzone non facevano altro che martellarmi la
testa e
farmela dolere all’impazzata. Per quanto gli piacesse sul
serio, la verità era
che Butch continuava a metterla nella speranza che Eye of the Tiger mi
desse la grinta di cui necessitavo. Sembrava
veramente stupido da dire, ma lui credeva davvero che qualche parola
buttata in
mezzo a della musica rock potesse servire a dare la carica giusta.
Però non era
forse anche per questa sua ingenuità che mi ero innamorato
di lui?
I quarantacinque minuti che ci
separarono dal locale li passammo in seguito nel più
completo silenzio,
escludendo unicamente la musica che permeava l’abitacolo.
Eravamo passati dal
rock al jazz senza che nessuno dei due se ne fosse accorto
immediatamente,
troppo presi dai nostri pensieri e dal tenerci il broncio a vicenda. Su
quel
punto non eravamo affatto cresciuti: eravamo esattamente come
all’orfanotrofio,
due stupidi mocciosi grandi e grossi. Fu solo quando vedemmo finalmente
il Sub
stagliarsi dinanzi ai nostri
occhi che riacquistammo un po’ di tranquillità,
sorridendoci persino. Butch
parcheggiò sulla destra del marciapiede e scese per primo
dopo aver inserito la
sicura, facendomi cenno di fare svelto lo stesso mentre si infilava in
tasca le
chiavi della sua preziosa auto. Attraversammo la strada pullulante di
macchine
e persone guardando a destra e a sinistra, non volendo rischiare che
qualche
tizio ubriaco ci sbalzasse in aria proprio a pochi passi dal locale.
L’interno
di esso era chiassoso come al solito, e una canzone dei Linkin Park [5]
di cui non conoscevo il titolo rumoreggiava in
ogni angolo come se
ci si trovasse ad udire il frastuono delle onde contro gli scogli.
Forse non
era stata una così buona idea andare lì, quella
sera. Il locale era stracolmo e
la musica a palla fracassava i timpani.
«Vado a cercare i
ragazzi!» mi
informò Butch, alzando la voce per far sì che lo
sentissi al di sopra di quel
baccano. «Tu aspettami al bancone, Jake, altrimenti finisce
che ci perdiamo!»
Non gli risposi, ma alzai il
pollice in segno di okay
ed annuii con il capo, vedendolo allontanarsi con
difficoltà nella ressa del locale, mentre spintonava per
farsi spazio fra quella
calca di membra sudate e ricevendo a sua volta spintoni. Io mi diressi
al lato
opposto, dove la clientela scarseggiava poiché la maggior
parte di essa si
trovava in pista a ballare. Mi guardai intorno e mi sedetti al primo
posto
libero che riuscii a trovare, ordinando un semplice whisky con ghiaccio
prima
di poggiarmi contro il bancone. Da un po’ di tempo a quella
parte, mi annoiavo
di fare ogni cosa, forse proprio perché non riuscivo a dare
un senso a quel mio
lavoro. Scrivere era sempre stata la passione di tutta la mia vita, sin
da
quando ero un ragazzino e scrivevo semplici temi durante le ore di
studio
all’orfanotrofio. In quegli anni, le storie che prediligevo
erano incentrate su
cavalieri e dame da salvare, e ne avevo persino scritta qualcuna che
adesso si
trovava stipata nella capsula del tempo che avevo sepolto nel giardino
a dodici
anni. Con essa era custodita gelosamente anche la foto di mia madre,
morta di
cancro quando avevo soltanto tre anni. Mio padre non l’avevo
mai conosciuto.
Forse era anche per quel motivo che avevo smesso di scrivere storie
fantasy e
mi ero invece concentrato in maniera quasi ossessiva sui thriller:
rispecchiavano quella che era ormai diventata una vera e propria
realtà nella
città di St. Louis.
«Pensieroso, signor
scrittore?»
Colto alla sprovvista, sussultai, voltandomi nella direzione da cui
proveniva
quella voce. Un uomo alto, forse sulla trentina e con i capelli scuri,
si era seduto accanto a me
senza che me ne accorgessi, e mi squadrava adesso con quei suoi occhi
profondi
e... cazzo, erano sul serio dorate, quelle iridi? Nay, doveva trattarsi
per
forza di lenti colorate.
Umettandomi le labbra, chiesi
stupidamente, «Come fa a sapere che sono uno
scrittore?»
Quell’uomo misterioso rise di
gusto, ammiccando. «Lei è Jacob Randall, giusto?
Ho visto la sua foto
nell’inserto del suo best seller».
Giusto, che stupido. Come avevo
fatto a non pensarci prima? La cosa sarebbe dovuta essere piuttosto
ovvia. Beh,
forse il motivo di quella mia dimenticanza era che non mi reputavo
più uno
scrittore famoso proprio dall’uscita di quel libro.
«Aye, sono io», decretai
svogliato, ringraziando poi il barista quando tornò con il
mio whisky. Ne bevvi
un sorso, scoccando un’occhiata a quel nuovo arrivato.
«Però non faccio
autografi, se è questo ciò che vuole».
«Och, niente autografi,
tranquillo»,
rimbeccò in tono sagace. Sorrise e si accucciò
contro il bancone di legno del
bar, apparendo ai miei occhi come un grosso felino compiaciuto. E
quegli occhi
che possedeva accentuarono quel paragone. «Piuttosto, ti
piacerebbe riuscire a
dar vita a ciò che immagini, scrittore?» mi
domandò, lasciando cadere le
formalità iniziali.
Ma non fu quello ad accigliarmi,
bensì le sue parole. Sbattei dunque le palpebre, incredulo.
«Ti sembra forse
che io abbia scritto fesso in faccia, amico?»
A quel mio dire si alzò e mi
girò
intorno, fermandosi dietro di me come una presenza costante e
pericolosa. Si
chinò poi verso il mio viso, poggiandomi le mani sulle
spalle. «È
proprio
perché sei intelligente che te lo propongo, caro il mio signor scrittore»,
sussurrò al mio orecchio, con voce così bassa e
carica di tensione che riuscì a
farmi rabbrividire. «Sono certo che tu saresti in grado di
fare grandi cose».
Ogni sua parola sembrava colma di
promesse e continui successi, calda come il sole che sorgeva ad
irradiare le
terre sottostanti. Non seppi se fu per il tono ammaliante con cui le
pronunciò
o per ciò che continuò a dirmi in seguito, ma in
un primo momento quasi gli
credetti. Sarebbe davvero stato possibile diventare un vero scrittore,
uno
scrittore con la esse maiuscola, se avessi deciso di fidarmi di quello
sconosciuto? Oh, quanto mi sarebbe piaciuto se fosse stato vero.
Però il tempo
in cui avevo creduto alle favole era finito da un pezzo, e dubitavo che
sarebbe bastato così poco per riuscire a far di nuovo
breccia nel cuore di
milioni di persone con un mio scritto.
«Ti basterà pensare
e scrivere,
signor scrittore», mormorò ancora, suadente.
«Il potere delle parole non ha
limiti, credimi». E con un ultimo sorriso, mi
sfiorò appena una guancia con la
punta delle dita, facendomi correre un brivido simile ad una scossa
elettrica lungo
la schiena. Si allontanò in silenzio così
com’era apparso, rassettandosi la
cravatta e ravvivandosi all’indietro i capelli scuri dopo
avermi rivolto un
cenno di saluto, lasciandomi nuovamente solo al bancone.
Scosso, accigliato e vagamente
incredulo, faticai a riprendermi anche quando finalmente Butch e gli
altri mi
raggiunsero. «Con chi stavi parlando?» mi
domandò lui, sollevando un
sopracciglio prima di accomodarsi accanto a me. A quanto sembrava non
l’aveva
visto, ma che potevo dirgli? Non ne ero certo neanche io.
Così scrollai semplicemente
le
spalle. «Non so, Butch», risposi, guardando dietro
di me come se mi aspettassi
di vederlo tra la folla che si agitava nel locale. «Un fan,
credo», soggiunsi
distratto, non potendo ancora sapere che quell’uomo avrebbe
presto portato alla
mia più completa disfatta.
[1] Titolo
di una doujinshi
del circolo Ninekoks, il cui significato in tedesco è
“Ciao, Faust”.
Esso sembra quasi
buttato lì a caso, ma il suo significato si
capirà meglio nel corso della
storia, o almeno questa è l’intenzione.
[2] Omaggio
a Supernatural, serie
televisiva statunitense
creata da Eric Kripke nel 2005 e prodotta dalla Warner Bros. Racconta
le vicende di due
fratelli, Sam e Dean
Winchester, cacciatori di demoni e creature sovrannaturali. Il
fratello maggiore,
Dean, ha per l’appunto una Chevrolet Impala del 1967.
[3] Il
Sub Zero Vodka Bar è
uno dei locali situati nel
“Central West End” di St. Louis, a North Euclid
Avenue.
È famoso
per il suo
poter offrire più di trecento tipi diversi di vodka.
[4] Cantata
dai Survivor, Eye of the Tiger fu usata come brano
della colonna sonora del
famoso film Rocky III, interpretato da Silvester
Stallone. È dunque
per l’appunto
un omaggio a tale film e ad una clip inserita nel telefilm
Supernatural, stagione quattro episodio sei, in cui l'attore Jensen
Ackles (che interpreta Dean Winchester) si diverte a farne un playback.
[5] Gruppo
rock statunitense formatosi
a Los Angeles nel
1996. Come band di maggior successo dell’ultimo decennio,
possono vantare nei
vari premi vinti un disco di diamante per uno dei loro album, due
Grammy Awards e vari dischi
d’oro e di platino.
Le
loro canzoni sono
inoltre state utilizzate come colonna sonora per vari film e videogames.
Messaggio No Profit
Dona l'8% del tuo tempo
alla causa pro-recensioni.
Farai felici milioni di
scrittori.
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Capitolo 2 *** [ Atto II: St. Louis › Luglio, 2008 ] Avvenimenti impensabili e strane fantasie ***
Tschuess_2
ATTO II: ST.
LOUIS › LUGLIO 2008
AVVENIMENTI
IMPENSABILI E STRANE FANTASIE
Il
sole che batteva contro la finestra della camera da letto fu un vero e
proprio
pugno nello stomaco, il mattino dopo. La notte addietro avevo bevuto
così tanto
che a stento ricordavo chi ero, figurarsi quindi in che condizioni mi
trovavo
in quell’esatto momento.
Girando la testa sul
cuscino, mi accorsi che Butch non era lì con me, dunque le
cose erano due: o era
già andato a
lavoro, oppure era in doccia a prepararsi. Non sentivo,
però,
lo scrosciare
dell’acqua, allora fui propenso a prendere per valida la
prima opzione. Con un
po’ di fatica, mi drizzai a sedere e mi tenni il capo con
entrambe le mani,
mugolando a causa del rimbombare che sentivo nella mia testa. Mi
sembrava di
avere un’intera orchestra che si divertiva a suonare il mio
cervello anziché
gli strumenti, e non era una gran bella sensazione. Il lato positivo
era che
non mi veniva da vomitare. Un gran bel passo avanti, dovevo ammetterlo.
Avevo
però bisogno di un caffè forte, così
mi alzai e mi diressi con cautela in
cucina a piedi nudi, prendendomela comoda. In fondo non c’era
fretta, no?
Sbadigliai e mi sgranchii collo e
spalle, sciogliendo i muscoli delle braccia. Avevo la
schiena a
pezzi e non riuscivo a capirne il motivo, a meno che Butch non mi
avesse
caricato sulle spalle a mo’ di sacco di patate per riportarmi
a casa. Beh,
conoscendolo, era più che probabile. Passando dinanzi al
mobiletto,
gettai un’occhiata alle medicine che avevo abbandonato
su di esso
qualche sera addietro. Per quanto Butch continuasse a ripetermi che
dovevo
pensare alla mia salute e prendere dunque quelle medicine, io non lo
facevo
quasi mai; sapevo bene anche da me che quegli antipiretici facevano
parte della
mia terapia contro la laringite da cui ero affetto da un po’
di tempo, però ero
davvero troppo stanco per quella maledetta situazione.
Allungai una mano per afferrare il
flacone
con un certo disappunto, portandomele dietro anche quando mi diressi in
cucina;
lì mi preparai alla svelta un caffè, consumandolo
in fretta per andare a
prepararmi. Non avevo intenzione di starmene con le mani in mano,
bensì avrei fatto un salto in biblioteca per prendere in
prestito qualche libro
di psicologia e medicina forense che avrebbe potuto essermi utile per
il mio
libro. Odiavo scrivere senza sapere di cosa parlavo.
E una quindicina di minuti dopo,
in macchina nonostante il caldo asfissiante che aveva imperlato
già la mia
fronte, guidai ininterrottamente fino alla Rock Hill Public
Library, la
biblioteca in cui mi rifornivo abitualmente. Era un gran
bell’edificio
dall’architettura moderna, d’un bel colore azzurro
che si riusciva a vedere
anche al di là della strada. Non era esattamente grande,
come biblioteca, però
era sempre meglio che sfacchinare in auto per due ore per raggiungere
l’altro
lato della città. E poi, beh... finché trovavo
ciò che mi occorreva, per me
andava più che bene.
Era stato proprio quello il luogo
in cui avevo scoperto le mie prime letture. Da ragazzi, io e Butch ci
eravamo
trovati da quelle parti quasi per caso, sfuggendo all’occhio
attento delle
suore per poter godere di qualche attimo di libertà fuori
dall’orfanotrofio.
Sarebbe stato più giusto dire che alla fine ci eravamo persi
e che avevamo
trovato rifugio in quella biblioteca, giacché quel lontano
giorno aveva
cominciato a piovere a dirotto. Per passare il tempo, avevamo iniziato
a vagare
fra gli scaffali lì presenti, stupendoci della
varietà di libri che quella
piccola biblioteca possedeva; era stato proprio in
quell’occasione che mi ero
innamorato dei racconti di Hemingway, delle meravigliose atmosfere dei
romanzi
di Scott e delle trame spaventose che caratterizzavano i romanzi di
King, abbeverandomi delle loro parole come un assetato in un'oasi nel
deserto. Era
stato anche grazie a quegli scrittori se avevo deciso di coltivare la
mia
passione. Non ero per niente al loro livello - anzi, probabilmente
“Blood and
Gunfire” non ci si avvicinava nemmeno, non peccavo di tale
presunzione -, ma sapere che il mio
nome fosse
comunque conosciuto e che una buona fetta di persone mi riconoscesse,
beh, era
lo stesso una gran bella soddisfazione.
Rincorrendo quei pensieri, nemmeno
mi accorsi di essere arrivato nei pressi della biblioteca. Dal
finestrino,
gettai appena uno sguardo a quella costruzione, spegnendo il motore
dopo aver
accostato vicino al marciapiede; sfilate le chiavi dal quadro e
chiusa
l’auto una volta uscito, mi assicurai di aver parcheggiato
bene prima di
entrare nell’edificio. Giacché il più
delle volte era Butch quello che guidava
- anche perché, a dirla tutta, l’auto era sua e
guai se avesse trovato qualche graffio sulla sua figliola -,
io dovevo ancora prenderci la
mano. Da quando avevo preso la patente, avevo guidato relativamente
poco, e le
volte si potevano letteralmente contare sulla punta delle
dita. Mi stavo apprestando ad aprire la
porta della biblioteca quando avvertii come la sgradevole sensazione di
uno
sguardo penetrante alla nuca, e volsi immediatamente gli occhi nella
direzione
in cui mi era sembrato di sentire quella bizzarra occhiata; non
c’era però
nessuno, lì fuori, e la sola cosa che vidi fu
un’infinita distesa di asfalto e
i bassi edifici che si innalzavano dall’altro lato della
strada, intermezzati
da file di alberi dalle foglie verdi.
Scossi il capo, dando la
colpa di tutto alla stanchezza e al caldo. Probabilmente era stata solo
una mia
impressione, tutto qui. Però un basso ringhio
richiamò nuovamente la mia
attenzione: a poca distanza da me, fermo esattamente accanto ad una
vecchia
berlina blu, vidi distintamente la figura di un grosso cane nero che
sembrava
fissarmi con aria famelica con i suoi occhi rossastri, effetto
probabilmente
dovuto dal riflesso del sole in essi. Deglutii e indietreggiai, ma lui
non
diede segno di volersi muovere; restò semplicemente
seduto lì, con le enormi zampe scure
unite fra loro, quasi mi stesse tenendo
d’occhio. Non persi un solo minuto di tempo
in più: mi affrettai ad entrare in biblioteca, chiudendomi
quasi violentemente
la porta di vetro alle spalle prima di gettare un’occhiata
fuori; il cane
sembrava ormai scomparso, e fu umettando le labbra che mi ritrovai a
scuotere
ancora una volta la testa, cercando di scacciare quelle sensazioni di
terrore
che stavo cominciando a provare. Era
soltanto uno stupido cane,
accidenti! Non
potevo spaventarmi persino per un grosso cane nero, per quanto esso mi
avesse
orribilmente ricordato quello presente nel romanzo di Arthur Conan Doyle [1].
Marge, la vecchia bibliotecaria
che stanziava sempre nei pressi del bancone, si trovava stavolta seduta
ad uno
dei tavoli poco distanti con un libro fra le mani; sollevando un
sopracciglio, mi lanciò un’occhiata severa
attraverso gli spessi occhiali
che indossava, portandosi un dito ossuto alle labbra per impormi
silenzio. Mi scusai frettolosamente con lei
con un cenno del capo, allontanandomi il più in fretta
possibile dalla vetrata
per addentrarmi fra gli scaffali; lanciai giusto uno sguardo a Marge
solo per
vederla sistemare qualche ciocca bianca nella crocchia ordinata in cui
portava
legati i capelli, e trassi poi un lungo sospiro per cercare di calmarmi
il più
possibile. Tutte quelle scenate per un cane... diamine, dovevo essere
davvero
stressato se anche una cosa così semplice mi faceva un
effetto del genere.
Avevo programmato di passare la
maggior parte della giornata lì dentro, però fu
quasi in fretta e furia che
presi in prestito i libri che mi servivano e scappai via, fiondandomi
in
macchina come se avessi il Diavolo alle calcagna. Sia Marge sia alcuni
clienti
che conoscevo solo a vista mi avevano guardato storto - e non li avrei
biasimati, visto il modo in cui ero fuggito -, però avevo
davvero poco tempo
per preoccuparmi di idiozie del genere. Mi era già bastata
la strana sensazione
che mi aveva provocato quel grosso sacco di pulci.
Fortunatamente non me lo ritrovai
in attesa che uscissi, e la cosa riuscì a rasserenarmi non
poco. Ma potei dirmi
realmente tranquillo solo quando, una volta parcheggiato nel vialetto,
mi
fiondai immediatamente dentro casa, chiudendo la porta con una doppia
mandata.
Okay, okay, paranoia inutile... ma non me ne importava un accidenti di
niente. Però per calmarmi avevo bisogno di
una doccia, dunque non persi ulteriormente tempo; quando entrai in
camera
arraffai tutto ciò che mi serviva e mi diressi in bagno,
accostando soltanto la
porta senza pensare a chiuderla. Tanto in casa c’ero soltanto
io, e anche se
fosse tornato Butch - cosa di cui dubitavo non poco, giacché
il suo turno non
si sarebbe concluso se non a serata inoltrata - non ci sarebbero stati
problemi. Del mio corpo aveva visto praticamente tutto.
Fu una vera e propria delizia
starsene a mollo sotto il getto d’acqua fredda, qualche
minuto dopo. Vi passai
una buona mezz’ora senza che me ne rendessi conto, venendo
richiamato solo da
un rumore proveniente al di là della porta socchiusa.
Accigliato, visto che in
casa avrei dovuto essere solo, aprii piano un occhio e sbirciai
attraverso la
tenda dopo aver chiuso l’acqua, sbattendo le palpebre nel
vedere che non c’era
assolutamente niente. Uscii dalla doccia e mi coprii con
l’accappatoio, per quanto fossi ancora all’erta.
Con gli occhi fissi sulla
soglia mi passai poi una mano fra i capelli bagnati, sospirando
pesantemente. Ero
un vero e proprio stupido. Dovevo piantarla con quella storia,
dannazione.
Non seppi esattamente quanto tempo
me ne restai chiuso in bagno seduto sulla tazza del water, con un solo
asciugamano a coprirmi in vita e con la consapevolezza di essere stato,
tanto
per cambiare, un vero e proprio idiota. Mi stavo facendo prendere dal
nervosismo e la cosa non giovava né alla mia salute
né tanto meno al mio
lavoro, che stentava già di suo ad ingranare la marcia. Se
poi contavamo anche
la mia vita privata ormai praticamente nulla, beh... avevo decisamente
fatto
tombola, in quanto pessime esperienze. Una volta vestitomi, uscii dal
bagno e feci per dirigermi in soggiorno quando il telefono
squillò, facendomi
accigliare e trasalire. Lo guardai per un lungo istante, quasi mi
stessi rendendo
conto solo in quel momento della sua esistenza, arraffando la cornetta
solo
all’ottavo squillo. «Pronto?» domandai,
udendo di sottofondo solo un crepitio
prima che qualcuno dall’altro capo del telefono espirasse
rumorosamente.
«È giunta
l’ora,
scrittore»,
sussurrò subito dopo una voce. Era bassa e roca, piuttosto
simile a quella di
un sociopatico. E io ne avevo ascoltati tanti, mentre studiavo per il
mio racconto. «È giunta
l’ora».
Sentii un brivido corrermi lungo
la spina dorsale, e dovetti deglutire un paio di volte prima di
riuscire a
spiccicare qualche parola. «Pronto?» ripetei con
una vaga nota isterica,
lasciandomi sfuggire un altro colpo di tosse prima di continuare.
«Chi è che
parla?»
In risposta, sentii unicamente lo
scatto del ricevitore e poi il fastidioso suono del segnale perduto, e
fu
quindi con un po’ di paura che riagganciai come quel
misterioso individuo,
facendo qualche passo indietro. Mi umettavo le labbra in gesti nervosi
mentre
continuavo a guardare il telefono, senza riuscire a capire che cosa
fosse
successo con l’esattezza. Qualcuno aveva forse voluto farmi
uno scherzo
telefonico? Magari uno dei ragazzi? Dio, speravo vivamente che fosse
così.
Mi trascinai nel mio studio con un
po’ di fatica, e solo dopo che furono passati ben
altri cinque
minuti. Quella telefonata mi aveva scosso profondamente, e avrei
preferito che
con me ci fosse Butch, in quel momento. Una volta chiusa la porta,
cominciai a
far vagare lo sguardo in giro, osservando i vari fogli appallottolati e
i libri
gettati a terra come se potessero fornirmi un punto
d’appoggio in quel caos che
era ormai diventata la mia vita. Peccato che non vedessi altro che un
mucchio
di cartastraccia. Mi sedetti alla scrivania e
scansai penne e matite per tenerla sgombra, spostando anche il
portatile sulla
destra. Usare quello mi avrebbe facilitato il lavoro, certo,
però ero della
vecchia scuola e non ero neanche sicuro che sarei riuscito a scrivere
davvero
qualcosa dopo quella strana telefonata. Stavo diventando paranoico,
maledizione. Guardai il foglio che Butch aveva poggiato su quelli
bianchi con
il naso arricciato, non avendo alcuna intenzione di riprendere da
lì. Forse
avrei fatto meglio a lasciar perdere e ad aspettare Butch, parlandogli
magari
della telefonata che avevo avuto e aspettandomi che dicesse che era
stato uno
dei nostri amici. Lì per lì mi sarei arrabbiato,
però alla fine mi sarei fatto
una gran bella risata e avrei archiviato il tutto per rimettermi
tranquillamente a lavoro.
Nemmeno mi resi conto di essermi
incantato a fissare il foglio stropicciato per chissà quanto
tempo, in seguito.
Avevo poggiato i piedi sul bordo della sedia e mi ero portato le gambe
al petto,
il mento poggiato sulle ginocchia e gli occhi puntati sulla scrivania,
come se
in realtà non avessi visto niente fino a quel momento. Mi
risvegliò solo un
bussare leggero alla porta, e sbattendo le palpebre velocemente, quasi
mi fossi
appena destato da un sogno, mi voltai nella sua direzione, ritrovandomi
ad
osservare il viso ancora un po’ sporco di cenere di Butch. Se
ne stava poggiato
contro lo stipite della porta a braccia conserte, apparendo quasi
bizzarro con
quella sua tuta ignifuga nera e gialla che indossava ancora. Non ero
abituato a
vederlo così. «Ero sicuro di trovarti
qui», asserì poi a mezza voce. «Potresti
almeno andare a letto, quando ti stanchi».
Prima ancora che il mio cervello
potesse mandare qualunque segnale ai muscoli, mi ritrovai a scattare in
piedi e
a correre verso di lui, abbracciandolo stretto in vita senza proferir
parola
nonostante odorasse ancora del vago sentore della cenere. Sentii
distintamente
l’incertezza che si impadronì di tutto il suo
corpo, certo, ma anziché
allontanarsi o scansarmi da sé mi cinse a sua volta i
fianchi con un braccio,
passandomi una mano fra i capelli come se si stesse occupando di un
bambino. «Ehi,
Jake, che diamine hai? Mi sembri un moccioso che ha appena visto un
mostro
sotto al letto», ironizzò con un mezzo sorriso, e
se si fosse trattato di un
altro momento gli avrei di sicuro scoccato un’occhiataccia.
Ma ero scosso,
frustrato e anche un po’ impaurito - e forse stupidamente,
c’era da aggiungere
-, dunque per quella volta l’avrebbe scampata. Anche
perché, beh, forse un
fondo di verità c’era, nelle sue parole.
Mi limitai semplicemente a
sussurrare, «Razza di idiota», lasciandolo
finalmente andare. Lui, dopo uno sbuffo
vagamente divertito, mi diede una pacca su una spalla e mi fece cenno
di
seguirlo, diretto probabilmente in camera nostra. Prima di farlo aprii
la bocca
per raccontargli anche di quella strana telefonata che avevo ricevuto,
ma
decisi ben presto di lasciar perdere. Magari quello era stato davvero
un
semplice scherzo e, se ne avessi parlato, Butch si sarebbe preoccupato
inutilmente e mi avrebbe detto per l’ennesima volta che era
colpa del mio non
prendere quelle benedette medicine. Come se potesse realmente centrare
qualcosa, poi.
Mentre uscivo nel corridoio, però,
notai con la coda dell’occhio un’ombra fuori dalla
finestra, o almeno mi sembrò
che fosse così. Diedi la colpa alla stanchezza e alla strana
sensazione che mi
aveva trasmesso nel pomeriggio quella telefonata, e fu dunque scuotendo
il capo
che mi diressi a mia volta in camera, trovando Butch intento a
spogliarsi per
andare a farsi una doccia. Lo imitai ben presto, coricandomi prima di
lui e
augurandogli la buona notte una decina di minuti dopo non appena
ritornò.
Non ero sicuro che sarei riuscito
a chiudere occhio, ma di una cosa ero certo: dormire avrebbe di sicuro
portato
ad una nottata popolata da incubi e deliri.
[1] Riferimento
al “Black Dog” presente nel romanzo
“Il
mastino dei Baskerville” citato dal protagonista tramite
l’utilizzo del nome
dell’autore.
Il
Cane nero è una creatura notturna presente nel folklore
della Gran Bretagna, e
le storie relative a questi fantasmi mostruosi sono diffuse in tutto il
territorio, dalla Scozia al Galles, dall’Inghilterra alle
Isole.
I
Cani Neri sono descritti come esseri soprannaturali dalla forma di
grossi cani,
con occhi fiammeggianti e pelo irsuto, dal colore nero o verde
fosforescente. Sono
fantasmi ritenuti messaggeri dell’oltretomba, quindi di
cattivo augurio. Secondo
le descrizioni, si muovono compiendo lunghi balzi sui sentieri di
campagna,
durante la notte. Gli occhi, che rosseggiano nel buio, indicano la
ferocia
della bestia. Chi incontra questa creatura anche solo di sfuggita, o
sente l’odioso
scalpiccio delle sue zampe, sa che la sua fine è vicina.
La scelta di tale
animale sarà spiegata meglio nel corso della storia.
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Capitolo 3 *** [ Atto III: St. Louis › Luglio, 2008 ] Patto col Diavolo o semplice suggestione? ***
Tschuess_3
ATTO III: ST. LOUIS ›
LUGLIO 2008
PATTO COL
DIAVOLO O SEMPLICE SUGGESTIONE?
L’orologio
che avevo al polso segnava esattamente le undici e mezza del mattino.
Non me l’ero sentita di fare
colazione a casa da solo, dunque ero uscito per dirigermi
alla caffetteria
nei pressi di Park Avenue, aperta fino alle dieci di sera nei
giovedì come
quello. A dirla tutta non andavo pazzo per la Gooey butter cake [1]
che
servivano lì - dovevo ammettere a me
stesso, però, che la White Chocolate
Blueberry era piuttosto invitante -, ma il caffè era il
massimo e valeva
davvero la pena guidare fin lì per gustarselo.
Me ne stavo seduto ad un tavolo in solitudine, con
una bella tazza fumante in una mano e una stilo in un’altra.
Con il cappuccio
della penna, picchiettavo distratto i fogli miseramente bianchi di un
block
notes mentre lo sguardo vagava svogliato sulla restante clientela come
se essa,
in qualche modo che non comprendevo, potesse scuotermi da quel bizzarro
stato
di inerzia. Forse ciò che mi aspettavo
realmente era che mi dessero l’ispirazione di cui avevo
bisogno. Il guaio,
però, era che essa non si decideva ad arrivare. La strana
sensazione che
sentivo ogni qual volta tentavo di abbozzare qualcosa era
indescrivibile: le
idee ronzavano nella mia testa come un alveare di api al sole,
sfrecciando
contro le pareti del mio cervello ad una velocità pazzesca e
a dir poco
insostenibile; per quanto ciò accadesse, però,
non appena tentavo di poggiare
la punta della penna sul foglio, esse si volatilizzavano come fumo.
Quando riuscivo a scendere a
patti con me stesso, la situazione era ancor peggiore. Avvertivo dentro
di me
come una sorta di vuoto, una sensazione sgradevole simile a quella di
un
attacco di panico, giacché ogni qual volta provavo anche
solo ad abbozzare
qualcosa, persino la cosa più stupida che potesse venirmi in
mente, venivo
colto da uno stato d’ansia difficile da scacciare, sentendo
come se mi mancasse
in seguito il respiro o stessi per precipitare inesorabilmente nel
vuoto. Era
la parte peggiore del mio lavoro, quella, anche perché il
mio cuore cominciava
a battere velocemente e a farmi dolere il petto. Secondo il medico
quello era
soltanto un sintomo dettato dalla mia testa, una semplice suggestione,
insomma.
Non avevo assolutamente niente che non andasse, almeno a livello
cardiaco.
Il suono della sirena dei pompieri
si fece largo fra i miei pensieri, richiamando così la mia
più completa
attenzione. Volsi lo sguardo verso la vetrata nel momento stesso in cui
l’autovettura sfrecciò dinanzi ad essa, diretta
verso l’East St. Louis. Un
altro incendio, maledizione. Da quando l’estate era iniziata,
capitava così
spesso che Butch, facente parte della terza unità dei vigili
del fuoco, passava
più tempo in servizio che a casa. Per
quella settimana la sua serata libera se l’era già
giocata alla grande, ed io
non ero poi stato di così gran compagnia.
«A quanto pare le coincidenze
esistono, signor scrittore». Al suono di quella voce, alzai
lo
sguardo con fare
interdetto, sbattendo più volte le palpebre nel ritrovarmi a
fissare gli occhi
dorati del tipo che avevo conosciuto al Sub
Zero. Sorrideva affabile come non mai, simile ad una
persona che aveva
appena rivisto un vecchio e carissimo amico che non incontrava ormai da
anni. «Non
è cosa da tutti i giorni trovare scrittori piuttosto famosi
come lei in un
posticino come questo, d’altronde».
Incredulo, abbandonai la tazza di caffè
sul tavolino;
guardai poi a destra e
a manca, quasi non credessi alla sua presenza, vedendolo accomodarsi
dinanzi a
me senza che io gli dessi il permesso di farlo. «Chi
è lei?» riuscii infine a
chiedere in un soffio, e lui si accigliò, scoppiano in
seguito a ridere
divertito.
«Ha ragione, come sono
sbadato».
Si portò una mano al petto con fare elegante, sfiorandoselo
appena con due dita
affusolate; con esse si toccò poi la fronte e
chinò di poco il capo, sorridendo
maggiormente. «Connor Barnes, signor Randall. Più
che lieto di fare la sua
conoscenza».
Adesso avevo un nome, almeno. Ma
ciò non spiegava ancora niente. «Cosa vuole
esattamente da me, signor Barnes?»
chiesi poi. «L’altra sera, al Sub Zero...
ha detto che il potere delle parole non ha limiti. Che cosa intendeva
dire?»
«Deve solo cominciare a
credere a
ciò che lo ho detto, signor scrittore»,
rimbeccò in tono affabile.
«Se cominciasse a crederci, tutto le risulterebbe
più facile di quanto non sia
adesso, e comprenderebbe anche in pieno le mie parole». Si
sporse verso
di me, poggiando i gomiti sul bordo del tavolino come se volesse
sorreggere il
peso del proprio corpo. «Tenga conto anche di ciò
che le succede intorno,
signor scrittore. Quell’incendio che i vigili stavano
correndo a spegnere, ad
esempio... lo prenda in considerazione». Lo vidi gettare un
rapido sguardo al
mio block notes prima di riportare lo sguardo su di me, sorridendo
cordiale nel
momento stesso in cui si alzò. «Non punti ad un
seguito di un suo precedente
racconto, signor scrittore. Dia soltanto vita ad una storia
completamente nuova
ed entusiasmante».
Troppo intento nel vederlo
aggirare il tavolino e allontanarsi, ci misi un po’ a
rendermi conto di ciò che
aveva appena detto. Sgranai gli occhi e mi alzai in piedi a mia volta,
sbattendo entrambe le mani sul tavolino inconsciamente; così
facendo feci
tremolare la tazza, e ci mancò poco che il caffè
si rovesciasse. «E lei come fa
a sapere queste cose?» gli gridai contro, richiamando in
questo modo
l’attenzione della restante clientela. Non me ne curai,
concentrato unicamente
su quel tipo che, voltandosi di poco, si limitò a
sorridermi.
«Scriva, signor scrittore,
scriva»,
replicò. «Le risposte arriveranno
presto».
Ciò detto, mi
salutò con un cenno
del capo, incamminandosi tranquillo fuori dal locale sotto il mio
sguardo
sbigottito. Boccheggiai e tornai a sedere, fissando i fogli bianchi
senza
curarmi dei borbottii sconnessi che avevano cominciato a risuonarmi
nelle orecchie.
Che cosa diavolo stava succedendo? Era mai possibile che dal momento in
cui
avevo incontrato quell’uomo per la prima volta, intorno a me
stessero accadendo
cose impensabili?
Mi infilai una mano in tasca e
tirai fuori il mio flacone di medicinali, stringendolo forte nel palmo
pima di
socchiudere di poco gli occhi. Non poteva essere a causa
dell’interruzione
dell’assunzione del farmaco, mi rifiutavo di crederlo. Stava
succedendo
qualcosa, lì, sebbene non sapessi ancora che cosa. Ma avrei
cercato di capirlo
al più presto, a cominciare dall’apparizione di
Connor Barnes.
Tornai a casa solo dopo le sei e
mezza passate. Avevo trascorso tutto il sacrosanto giorno fuori, certo
che non
avrei comunque trovato nessuno ad attendere il mio ritorno. La prima
cosa che
avevo fatto era stato ascoltare la segreteria telefonica, trovando un
messaggio
di Butch in cui mi diceva che, sorpresa, sarebbe tornato solo a sera
tarda
poiché avrebbe fatto il doppio turno. Mi ero poi diretto in
camera per prendere
un cambio, facendomi una doccia veloce prima di chiudermi nel mio
studio. Ed
ero lì seduto alla mia solita postazione, adesso, con il
computer
miracolosamente acceso.
Non sapevo nemmeno da dove
cominciare, ad essere sincero. Avevo aperto un foglio Word e avevo
guardato per
tutto il tempo la tastiera, l’orecchio teso nel caso di uno
squillo del
telefono. Ammettevo che avevo ancora il timore di ricevere
un’altra strana
chiamata come sere addietro, ma fortunatamente dopo quella volta non
era più
successo. Potevo quindi concentrarmi senza problemi sul mio racconto,
però ero
ancora bloccato. Dannazione, era difficile anche solo andare avanti.
Sbuffai e, mettendo finalmente
mano alla tastiera, pigiai i tasti per scrivere almeno la prima
parte del racconto che avevo su carta, imprecando a
denti stretti già alla seconda riga. Selezionai tutto con il
mouse e premetti
backspace per cancellare, tornando a fissare con un certo
disappunto
quella maledetta barra lampeggiante. Avrei forse dovuto prendere in
considerazione le parole di quel tipo, Connor, e scrivere davvero
tutt’altra
trama? Non lo sapevo, ma lasciai semplicemente che fossero le mie dita
a
guidarmi e a decidere per me.
Era affascinante assistere al tripudio di dorato e arancio che si
levava da quell’abitazione in fiamme.
Mi fermai di botto e
sbattei più
volte le palpebre, accigliandomi. Perché avevo davvero
cominciato con un
incendio? Non seppi darmi una risposta ancora una volta,
però provai
comunque su quella strada. Ripresi a scrivere, ignorando ogni
rumore che
sembrava librarsi intorno a me.
Il
terribile fetore della plastica bruciata si mescolava con quello del
legno
massello e del grasso umano, scendendo in gola come fuoco vivo; le urla
delle
persone intrappolate in quel maledetto inferno squarciavano la notte,
sovrastando
il suono delle sirene e le grida disarticolate dei vigili del fuoco. E
lui, lì
nascosto in mezzo alla restante folla che assisteva con il
cuore in
gola e un grido strozzato intrappolato fra le labbra, osservava
compiaciuto la
grandiosa opera che aveva realizzato, quel quadro degno di un
impressionista, quel
palazzo che si accartocciava su se stesso come carta, portando con
sé
vite innocenti.
Le dita volavano sulla tastiera
senza che io le comandassi, libere come non lo erano mai state.
Sembrava quasi
che non dovessi soffermarmi a pensare, che esse sapessero
già cosa stesse
dettando loro il mio cervello prima ancora che potessi saperlo io
stesso. Il
ticchettio insistente dei polpastrelli sui tasti era ormai divenuto
come una bassa
melodia, una melodia che aveva riempito le mie orecchie e cancellato
tutto il
resto.
Un
boato fendette l’aria, provocando un’esplosione
che fece vibrare le
pareti infuocate come fossero di cartapesta; al piano di sotto, Trevor
ebbe
appena il tempo di alzare lo sguardo prima che una trave...
Un momento.
Volevo davvero far morire uno dei buoni sin dal principio, per di
più in quel
modo? Ci riflettei un po’ su, con le mani sospese a
mezz’aria sulla tastiera
lucente e la fronte aggrottata. Beh, di certo la cosa avrebbe dato quel
fondo
di verità alla trama. I pompieri rischiavano la loro vita
ogni singolo giorno,
e, per quanto mi dispiacesse, avevo bisogno di scrivere tutto nel
minimo
dettaglio. Dunque qualche sacrificio si poteva anche fare, se la trama
avrebbe
in seguito decollato come volevo. La cosa assurda era la nitidezza con
cui mi
sembrava di vedere le immagini mentre scrivevo, e ne approfittai
più che potei
prima che l’ispirazione, donna infida e voltagabbana, mi
abbandonasse.
Al piano di sotto, Trevor ebbe appena il
tempo di alzare
lo sguardo prima che una trave
gli cadesse addosso.
«Trevor!» gridò Chris, correndo verso di
lui nel tentativo di aiutarlo.
Il fumo gli annebbiava la vista e gli infiammava la gola, ma,
più delle
ustioni, a fargli male fu vedere le fiamme divampare dinanzi ai suoi
occhi,
avvolgendo Trevor inesorabilmente.
Fu difficile capire con esattezza
quanto tempo passai lì seduto a scrivere, quella sera. Era
come se
l’ispirazione che mi ero tenuto dentro fino a quel momento
fosse uscita tutta
insieme, permettendo così che quella nuova storia prendesse
vita a poco a poco,
surclassando la mia idea di scrivere un seguito su Montgomery Jane. E
mi resi
conto di aver scritto ben sette capitoli solo quando lo squillo del
telefono mi
fece sobbalzare.
Il cuore cominciò a pompare a
mille e quasi mi mancò il respiro, ma mi diedi
immediatamente dell’idiota e
cercai di rilassarmi, alzandomi con circospezione anche per abituare le
gambe
ormai anchilosate. Non dovevo farmi prendere dal panico per ogni minima
cosa,
accidenti. Dovevo piantarla e darmi una calmata.
Raggiunsi il telefono al quinto
squillo, e, alzando la
cornetta,
fui lieto di sentire che quella era la voce di Butch.
«Jake». Mi resi ben
presto conto che il tono con cui aveva pronunciato il mio nome era
lugubre e
teso, e persi un battito prima ancora che potesse dirmi altro.
Perché avevo
come la sgradevole sensazione che fosse successo qualcosa?
«Stasera non... non
torno a casa, okay? Passerò la serata in ospedale. Mike e
Tom sono... loro... oh, cazzo».
Il crepitio della cornetta fu come il
graffiante suono di unghie contro la lavagna. «Mike e Tom
sono rimasti
gravemente feriti».
Deglutii sonoramente, sentendomi
mancare. Mio Dio... Mike e Tom? «Dimmi in che ospedale li
hanno portati, Butch,
vi raggiungo subito», replicai di slancio, quasi non
riuscissi a credere a
ciò che mi aveva appena detto. Sapevo che in quel lavoro non
c’era mai niente
di certo, ma mi rifiutavo di pensare che fosse successo qualcosa
proprio a
loro.
«Kenneth Hall Regional
Hospital,
sulla 129a nell’East St. Louis»,
sussurrò con voce
tremante, senza darmi
ulteriori informazioni. Ma già il semplice fatto che si
trovassero oltre il
fiume voleva dire troppo. «Reparto terapia
intensiva».
«Sono... così
gravi?» pigolai,
sentendo solo un suono simile a vetro spezzato.
«Lo saresti anche tu con
ustioni
di secondo grado e un’asta d’acciaio conficcata
nello stomaco, Jake», disse
solo in tono duro, riagganciando subito dopo.
Io, però, a quella scoperta
lasciai cadere pesantemente la cornetta senza nemmeno rimetterla a
posto, sbarrando gli occhi. Il terzo
capitolo
del mio racconto si concludeva proprio in quel modo. Era... era
impossibile,
maledizione. Non poteva essere successa realmente una cosa del genere.
Mi sentii le gambe deboli e mi
accasciai sul pavimento, portandomi una mano al petto nel sentire il
respiro
velocizzato. Boccheggiai alla ricerca d’aria, dovendo frugare
nelle tasche per
cercare le mie medicine, così da evitare complicanze. Era
stata colpa mia. Era stata solo
colpa mia se Michael e
Thomas
erano in ospedale. Non poteva trattarsi di una
semplice
coincidenza, non era umanamente possibile che capitasse una cosa del
genere proprio quando io stesso avevo ricominciato a scrivere. Il potere delle parole non ha
limiti, mi aveva detto quel tipo. Dannazione!
Con le lacrime agli occhi per la
frustrazione, la rabbia e il dolore, in quel momento desiderai solo di
sparire.
[1] Tipo
di dolce tradizionale nella città di St. Louis.
Generalmente è servito
come un tipo di torta da caffè e non come un dolce
qualsiasi.
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Capitolo 4 *** [ Atto IV: St. Louis › Luglio, 2008 ] Messaggeri dall'oltretomba ***
Tschuess_4
ATTO IV: ST. LOUIS ›
LUGLIO 2008
MESSAGGERI
DELL’OLTRETOMBA
Aveva
cominciato a piovere a dirotto, quel tardo pomeriggio.
Contro ogni previsione, contro
ogni logica, aveva cominciato a piovere. Grandi gocce d’acqua
si infrangevano
sul parabrezza della mia autovettura, diminuendo drasticamente la
visibilità.
Appena ripreso il controllo di me stesso, mi ero immediatamente
fiondato fuori e
messo al volante, guidando ininterrottamente fino a che un improvviso
temporale
estivo non aveva arrestato la mia folle corsa, cogliendomi alla
sprovvista.
Nervoso com’ero, in
realtà, non
avrei dovuto nemmeno pensare di entrare in macchina e sfrecciare sulle
strade.
Le mani mi tremavano e, nonostante fossi più calmo rispetto
ad
una ventina di
minuti prima, avevo ancora il cuore che batteva all’impazzata
per
la notizia ricevuta. Stentavo tuttora a credere che fosse tutto vero,
ma ciò che
Butch mi aveva detto al telefono non lasciava spazio a fraintendimenti.
Ero
stato io a descrivere quella scena. Ero stato io colui che, dando
ascolto alle parole di quello sconosciuto
incontrato per caso, aveva deciso di considerare il suo discorso
veritiero. E
quello, forse, era stato il mio più madornale errore.
Dovetti fermarmi più volte
per
evitare incidenti imprevisti, non riuscendo ancora a controllare bene i
miei
riflessi a causa della strana ansia che aveva cominciato ad
attanagliarmi lo
stomaco. Mi sentivo come se stesse per succedere
qualcos’altro di terribile, ma
cosa c’era di più spaventoso che vedere due cari
amici lottare strenuamente per
la propria vita? In quel momento non riuscivo per niente a pensare a
qualcosa
di peggio.
Fu con il cuore in gola e il
fremente pulsare del sangue nelle orecchie che raggiunsi il Kenneth
Hall
Regional Hospital, quarantacinque minuti dopo. Non dovetti nemmeno
domandare a
qualche inserviente dove avessero portato Mike e Tom, trovando Butch
nella sala
d’attesa. Se ne stava con lo sguardo rivolto al lucido
pavimento di finto marmo
e le mani congiunte all’altezza dello stomaco, estraneo a
tutto ciò che lo
circondava. In tutti quegli anni che lo conoscevo, non
l’avevo mai visto così
sconvolto. Ma in fin dei conti che cosa mi aspettavo, dannazione? Due
suoi
colleghi, due cari amici con cui aveva condiviso gli ultimi quattro
anni, si
ritrovavano in bilico tra la vita e la morte, e lui non avrebbe potuto
fare
praticamente nulla per aiutarli. Poteva solo starsene lì,
inerme e fragile come
un bambino, a pregare che andasse tutto per il meglio.
«Butch», lo chiamai
piano non
appena fui ad una distanza accettabile da lui, cercando di non alzare
troppo la
voce per non urtarlo. Come in una scena a rallentatore nel peggior film
di
serie B, lo vidi alzare impercettibilmente il capo per fissarmi con
occhi vacui
e spenti, tornando ben presto ad incassare la testa nelle spalle dopo
essersi
lasciato sfuggire un suono simile ad un sospiro strozzato.
«Ciao, Jake»,
sussurrò
stancamente, non battendo minimamente ciglio nemmeno quando mi
avvicinai per
poggiargli una mano su una spalla. Sembrava che la mia presenza non gli
fosse
per niente d’aiuto, anzi; avevo come la netta sensazione che
fossi soltanto di
peso, in quel momento.
Avrei voluto dirgli «Mi
dispiace»,
ma a che cosa sarebbe servito? Conoscendolo, si sarebbe soltanto
arrabbiato,
poiché avrei solo messo nero su bianco il fatto che non
potesse far nulla per
salvare in qualche modo i propri amici. Sapevo che avrebbe voluto
combattere,
lottare con tutte le proprie forze nel tentativo di cambiare le sorti
di Mike e
Tom, ma, in quanto essere umano, anche lui conosceva i propri limiti.
Doveva
solo aspettare pazientemente, per quanto quella situazione lo snervasse
e
pesasse nel profondo del suo animo.
«I medici non mi hanno ancora
fatto sapere niente», disse di punto in bianco, interrompendo
il flusso dei
miei più disparati pensieri. Non aveva alzato lo sguardo, ma
potei capire
dall’inclinazione della sua voce che aveva gli occhi serrati,
quasi fosse
sull’orlo delle lacrime. «Sono passate quasi due
ore e non mi hanno ancora fatto
sapere niente, dannazione».
Mi sedetti al suo fianco con un
sospiro, passandogli un braccio dietro la schiena per attirarlo un
po’ verso di
me. Stavolta dovevo essere io a dimostrarmi forte per entrambi, non il
contrario. «Sono sicuro che andrà tutto per il
meglio, Butch», lo rassicurai a
bassa voce, come se temessi che dire quelle parole potesse far
scoppiare le
nostre speranze come una bolla di sapone. «Quei due hanno la
pellaccia dura, lo
sai fin troppo bene, no?» Mi sforzai di abbozzare un sorriso
sincero e
raggiante, vedendo lui ricambiare goffamente prima di riportare lo
sguardo
verso il basso per tornare a fissare il pavimento con finta attenzione.
Dovevamo pensare positivo, ecco
cosa dovevamo fare. Ma... dannazione, farlo era così
difficile. La
consapevolezza di quanto accaduto non riusciva a stabilizzare i nostri
animi, e
al solo pensiero che potesse essere stata realmente colpa mia, beh, mi
sentivo
doppiamente male. Avrei voluto parlarne con Butch, spiegargli la mia
frustrazione e la mia angoscia, però aveva già
quel dolore insostenibile da
sopportare senza che mi ci mettessi anch’io con quelle che,
con molta probabilità,
erano soltanto stupide paranoie e coincidenze. O almeno era
ciò che tentavo
inutilmente di credere con tutto me stesso.
Persi il conto dei minuti che
passai nello starmene appollaiato su quella sedia, le palpebre pesanti
per le
poche ore di sonno che mi ero concesso. Avevo consigliato a Butch di
riposarsi
almeno per un po’, assicurandogli che lo avrei svegliato non
appena ci fosse
stata comunicata qualche novità riguardo le condizioni dei
nostri due amici.
Era trascorso parecchio tempo, e di medici non se n’era vista
nemmeno
l’ombra.
Mi lasciai sfuggire un lungo
sbadiglio, strofinandomi gli occhi come avrebbe fatto un bambino; mi
issai poi
in piedi e, passando il peso del mio intero corpo da una gamba
all’altra nel
vano tentativo di sgranchirle e di far affluire al più
presto il sangue nelle
vene, lanciai una rapida occhiata verso Butch, il cui respiro era
simile ad uno
spiffero di vento. Dalle occhiaie che aveva in viso, tra
l’altro, doveva aver
dormito male e poco, in quel lasso di tempo.
Lo coprii con uno dei plaid che
gli infermieri erano stati così gentili da procurarci,
decidendo di lasciarlo
riposare ancora per un po’. Per quanto mi riguardava, invece,
nonostante il
sonno, avevo assolutamente bisogno di una boccata d’aria
fresca, e fu proprio
con quel pensiero nella testa che mi diressi fuori
dall’ospedale, attraversando
il lungo cortile lastricato per giungere nei pressi del grande giardino
poco
distante.
Nel giungere al di sotto di uno
dei lampioni, però, sentii un brivido correre lungo la mia
spina dorsale. La
temperatura esterna si aggirava intorno ai trentotto gradi, dunque era
quanto
meno impossibile lo strano freddo che aveva cominciato ad impossessarsi
del mio
corpo; scossi il capo e cercai di restare calmo, giacché non
c’era assolutamente
nulla di cui preoccuparsi. Ma fu proprio in quel mentre che
risuonò nelle mie
orecchie lo scalpiccio di quelle che sembrarono grosse zampe che
affondavano
nel terreno bagnato.
«Avresti fatto meglio a
continuare
a fare ciò che ti era stato consigliato, signor
scrittore».
Nel sentire quella voce alle mie
spalle, raggelai e il mio cuore parve perdere un battito. Deglutii, o
almeno mi
sembrò di farlo, non ne fui poi così sicuro;
seppi solo che fu con lentezza
estenuante che volsi la mia attenzione nella direzione in cui avevo
udito la
voce di Connor Barnes, l’uomo che avevo conosciuto al Sub
Zero e con cui avevo poi intrattenuto una bizzarra
conversazione quella stessa mattina. Che diavolo stava a significare la
sua
presenza lì?
Prima ancora che potessi anche
solo aprire bocca per dire qualcosa, al suo fianco apparve un grosso
animale
che mi squadrò dall’alto in basso con fare
rabbioso - quasi fosse stata una
persona consenziente -, ringhiandomi contro e mostrandomi la dentatura
aguzza.
Non c’erano dubbi: quello era il cane che avevo visto fuori
alla Rock Hill
Public Library, non poteva essere confuso con nessun altro. Quei suoi
grandi
occhi fiammeggianti, occhi che in un primo momento avevo creduto
fossero di
quel colore solo a causa dell’effetto della luce del sole, mi
fissavano con ira
spropositata e aria famelica, impedendomi quasi di respirare
regolarmente come
avrei voluto. Buon Dio... cosa stava succedendo?
Deglutii ancora senza poterne fare a
meno, stornando bruscamente lo sguardo per puntarlo nuovamente sul viso
di
Barnes. Appariva composto e tranquillo come la prima volta che
l’avevo visto,
come se per lui non ci fosse assolutamente nulla che stonasse in tutta
quella
situazione che, per me, appariva quanto meno assurda. Forse pensarlo
era alquanto stupido,
ma avevo come la netta sensazione che quel tipo non fosse lì
per una visita
amichevole a qualche conoscente infortunato. Se fosse stata
l’aria che aveva
dipinta in viso, oppure semplicemente a causa del brivido freddo che
avevo
avvertito nel rendermi conto della sua vicinanza, beh, non potevo
saperlo. La
sola cosa che sapevo con certezza era che avrei fatto meglio ad
andarmene da lì
alla svelta.
Senza perdere d’occhio
né lui né
tanto meno il suo cane, indietreggiai quel tanto che bastava per
mettere una
distanza considerevole tra noi, cercando al contempo di trovare una
rapida via
di fuga che mi avrebbe permesso di
tornare all’ospedale. Lì davanti, però,
c’era proprio lui a sbarrarmi la
strada. Non avrei potuto sperare di riuscire a svicolare senza che lui
mi
riacciuffasse in un lampo, se avessi provato a gettarmi contro di lui
per
raggiungere in fretta l’edificio e chiedere rinforzi. Mi
pentivo amaramente di
essere uscito, adesso.
Non persi altro tempo a
riflettere, dandogli immediatamente le spalle; corsi con tutta la forza
che
avevo nelle gambe, ignorando le proteste dei miei polpacci per quello
sforzo
avvenuto senza la benché minima preparazione. Ma non avevo
tempo per pensare a
sciocchezze del genere, e il ritmico e prepotente pulsare del sangue
nelle
orecchie mi dava ulteriore conferma che avrei dovuto svignarmela da
lì il più
in fretta possibile.
Non mi accertai nemmeno se mi
stesse seguendo sul serio e se ciò che avevo pensato fino a
quel momento fosse
soltanto una stupida paranoia, inoltrandomi nell’immenso
giardino che
costeggiava l’edificio; scansai i rami di qualche piccolo
cespuglio prima di
gettarmi a capofitto verso i cancelli di ferro, oltrepassandoli alla
svelta per
dirigermi così oltre il piazzale.
Con il fiato ormai corto, mi
fermai per qualche istante e mi accasciai su me stesso, respirando
profondamente dalla bocca per poter riportare l’aria nei
polmoni in fiamme e
riprendere quella mia folle corsa. Ma non potevo scappare in eterno,
dovevo
fare qualcosa. Qualunque
cosa. L’unico pensiero coerente che stava
cominciando a farsi largo nella mia testa, però,
era solo quello di chiamare aiuto.
«Farlo non ti
servirà a niente,
signor scrittore», replicò tranquillamente Barnes,
quasi avesse udito ciò a cui
avevo dato voce soltanto nel mio cervello. Mi aveva raggiunto in un
lampo e, al
contrario di me, non appariva minimamente affaticato; sembrava quasi
che non
avesse risentito per niente di quello sforzo, come se fino a quel
momento non
avesse fatto altro che passeggiare tranquillamente in quel giardino. Ad
un suo rapido e deciso cenno
della mano, il grosso cane che si portava dietro spiccò un
balzo e mi atterrò,
poggiando le sue enormi zampe sul mio petto e mozzandomi quel poco
fiato che
ero riuscito a recuperare con così tanta fatica.
Cercare di togliermelo di dosso fu
letteralmente inutile, giacché premette maggiormente contro
lo sterno,
arricciando il muso per mostrarmi le zanne esangui; ringhiò,
facendo sì che
dalla sua bocca colasse un rivolo di bava che ricadde sul mio viso,
scivolando
lentamente lungo il collo fino a perdersi all’interno della
maglietta che
indossavo. «Che cosa diavolo vuole da me!» esclamai
in tono isterico e
atterrito, sentendo contro la mia faccia il respiro rovente di
quell’animale.
Barnes sorrise, o almeno così
mi parve
dalla posizione in cui mi trovavo. «Più di quanto
tu creda, Jacob Randall»,
sussurrò in risposta con tono soave e quasi allegro,
indietreggiando senza che
io ne capissi la ragione.
La lingua di quel cane, quasi gli
fosse stato appena ordinato, sguizzò fino a leccarmi il
collo, e non potei
trattenere un brivido di disgusto quando scese fino alla clavicola
sinistra,
strappandomi con le zanne anteriori la maglia; sgranai gli occhi,
allibito,
alzando le braccia per affondare le mani nella sua voluminosa pelliccia
e
tentare ancora una volta di scansarlo via da me, divincolandomi per
quanto
concessomi dal suo enorme peso.
Prima ancora che potessi anche
solo provare a muovere le gambe, però, il respiro mi si
spezzò nel momento
stesso in cui le fauci strapparono i lembi di pelle
all’altezza del deltoide
sinistro. Gridai con tutto il fiato che avevo in gola, allentando la
presa e
lasciando che le braccia inerti ricadessero sul terreno bagnato dagli
innaffiatoi.
«Complimenti, signor
scrittore». La
voce gorgogliante di Connor Barnes risuonò alle mie orecchie
come una sinistra
melodia, le cui note stridenti sembravano rimbalzare senza remore
contro le
pareti del mio cervello e dilaniare ferocemente quella poca
lucidità che mi era
ancora rimasta, quasi si fosse trattato di una grossa bestia famelica.
«Ha
completato il suo ultimo capolavoro... può ritenersi
soddisfatto, non le pare?»
Non risposi. Non potei farlo.
Tutto il mio mondo venne risucchiato dal dolore e
avvolto dalle mie urla atterrite, mentre le zanne di quel cane
affondavano
senza remore nel mio corpo e straziavano la mia pelle, spezzando le
vertebre
con morsi feroci. Potei sentire nelle orecchie il sinistro scricchiolio
delle
ossa contro il tessuto, lo spasmo violento che mi contrasse i muscoli e
il
suono viscido delle membra che venivano dilaniate, quasi stessi
assistendo a
tale scempio anziché subirlo di persona; fu orribile
rendersi conto che il
calore che avevo cominciato ad avvertire lungo il braccio destro altro
non era
che il mio stesso sangue, e ancor più terrificante fu riuscire a vedere
il momento stesso in cui quel cane, levando lo
sguardo fiammeggiante al cielo buio per ululare alla luna nascosta
dalle nubi,
squarciò ferocemente i miei fianchi con i suoi grossi
artigli affilati,
strappandomi un urlo più altisonante dei precedenti quando
affondò il muso nel
mio stomaco, divorando le mie carni e strappando con i denti il mio
intestino.
Spalancai la bocca e reclinai il
capo all’indietro, non riuscendo più ad emettere
suono. Ebbi solo il tempo di
fissare un’ultima volta quell’edificio lontano,
quell’edificio che mai come in
quel mentre appariva irraggiungibile, prima che le palpebre pesanti
sulle quali
il sangue si era ormai raggrumato si abbassassero del tutto, oscurando
il mio
mondo nonostante la sofferenza che ancora provavo.
Con quel capitolo avevo scritto la
parola fine alla storia della mia vita. Il racconto si era concluso.
Messaggio No Profit
Dona l'8% del tuo tempo
alla causa pro-recensioni.
Farai felici milioni di
scrittori.
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Capitolo 5 *** [ Atto V: Chicago › Luglio, 2010 ] Epilogo inaspettato ***
Tschuess_5
ATTO V: CHICAGO ›
LUGLIO 2010
EPILOGO
INASPETTATO
Il
filo di fumo azzurrognolo che si levava dalla sigaretta che reggevo con
due
dita mi dava una certa soddisfazione. Accanto al mio portatile, avevo
abbandonato un bicchiere di bourbon e un piatto contenente uva e
pesche, e
avrei consumato il tutto non appena finito di fumare per festeggiare la
notizia
ricevuta poche ore addietro. Il mio racconto, terminato non
più di due mesi
prima, era stato scelto per apparire in una raccolta di storie stese da
vari
scrittori esordienti, e la cosa non avrebbe potuto rendermi
più felice. Era dai
miei quindici anni che aspettavo un avvenimento simile, e adesso, a
ventiquattro anni compiuti, quasi non riuscivo a crederci. Era...
inverosimile,
accidenti. Un sogno diventato realtà.
Gettai un’occhiata veloce
verso la
cesta della mia gatta, posta esattamente sotto la finestra per far
sì che
stesse al fresco; acciambellata pigramente al suo interno, si muoveva
di tanto
in tanto per cambiare posizione, sbadigliando sonoramente. Lei
sì che non aveva
preoccupazioni, però era anche un piacere vederla
così tranquilla, dovevo
ammetterlo.
Trassi un’altra lunga boccata
e
sorrisi, reclinandomi all’indietro; stando attento che
non cascassi dalla sedia sulla quale ero accomodato, picchiettai
ritmicamente con
le dita
sul bordo della scrivania. Chissà cosa avrebbe detto Josh
non appena gliene
avessi parlato. Mi aveva seguito per tutta la durata di quella storia
in cui mi
ero gettato, facendomi da critico ed eliminando lui stesso gli errori
di
battitura che commettevo nel trascrivere al computer. Io e quello
stupido pezzo
di ferraglia non eravamo mai andati molto d’accordo - a
stento sapevo cosa
fosse quello che veniva chiamato “processore
grafico”, dannazione -, e l’aiuto
di Josh era stato una vera e propria manna dal cielo. Gli avevo
sì fatto
passare continue notti in bianco - e il poco dormire non
c’entrava per niente,
dovevo ammetterlo - per quasi tre settimane, ma non si era mai
lamentato,
sapendo quanto contasse per me riuscire a raggiungere
quell’obiettivo che mi
ero prefissato anni addietro. E adesso che ci ero riuscito volevo
festeggiare
in sua compagnia quella mia personale vittoria... magari con spicchi
d’arancia
e champagne a letto, perché no. In fin dei conti ce lo
meritavamo entrambi.
Non passò molto tempo prima
che
sentissi la porta dell’appartamento aprirsi, e subito dopo
fece la sua comparsa
in soggiorno Josh, completamente sudato nel suo vestito elegante. Per
il troppo
caldo si era tolto la giacca pesante e allentato la cravatta, che
adesso
pendeva come un serpente finto intorno al suo collo. Faceva
l’avvocato, e
quell’abbigliamento era praticamente d’obbligo.
Poco importava morire di caldo,
a quanto sembrava. «È un fottutissimo forno,
là fuori». Mi salutò così,
senza
tanti preamboli né normali “Ciao”.
Però ormai non mi stupivo più, anzi, sarebbe
stato strano se avesse cominciato a salutarmi con frasi stucchevoli da
coppia
sdolcinata.
Mi limitai ad alzare di poco lo
sguardo al soffitto, tirando un’altra boccata nociva.
«Tra poco ti
rinfrescherai come si deve, credimi», ironizzai, riuscendo
però a catturare la
sua più completa attenzione.
Si passò una mano fra i corti
capelli castani e arraffò un fazzoletto, tamponandosi la
fronte prima di avviarsi verso il divano; con ben
poca accortezza, scansò i fumetti di Spiderman e i manga che
avevo lasciato
proprio lì qualche ora addietro - per lui erano poco
più che cartastraccia e
non capiva perché sperperassi i miei soldi in quel modo -,
lasciandosi cadere pesantemente
a sedere. «A meno che tu non riesca a far apparire
magicamente un iceberg, c’è
davvero poco che possa rinfrescarmi, adesso».
Guardò la cesta con la coda
dell’occhio, sbuffando prima di arraffare distrattamente una
rivista sportiva
che era capitata nel mucchio chissà come. «Persino
quella palla di pelo sta
meglio di me».
Beh, su quello gli davo ragione.
La mia Robin [1]
stava
sicuramente più fresca di noi
due messi insieme, sotto quella finestra.
Con il tiraggio che c’era, sarebbe stato strano il contrario.
«Neanche una
doccia con me potrebbe rinfrescarti?» gli domandai
sarcastico, gettandogli
un’occhiata birichina per valutare la sua espressione.
Dapprima scettico e
confuso, l’aria stravolta che gli si era stampata in viso
lasciò ben presto
spazio ad un sorriso malizioso.
«Oh, Robert, una doccia con te
farebbe l’effetto opposto», rispose ammiccando. Poi
aggrottò le sopracciglia,
come se si fosse appena ricordato di qualcosa.
«Dov’è la fregatura?» chiese
difatti in tono guardingo. «E’ quasi un mese che
non mi proponi cose del
genere».
Mi ritrovai a ridacchiare.
«Di’
addio alle notti in bianco, Josh», lo presi in giro.
«Da oggi hai davanti a te
uno dei dieci scrittori esordienti selezionati per la raccolta
“Desideri
proibiti e sogni infranti”».
La sua bocca spalancata in una o muta fu una vera
soddisfazione.
Sembrava quasi che faticasse a credere a quel che aveva appena udito
con le sue
orecchie, e come dargli torto? Quella notizia, per quanto fosse felice
di
quella vittoria che avevo ottenuto con fatica e sudore - e
letteralmente, visto
il caldo che aveva investito la città negli ultimi mesi -,
per lui significava
innanzitutto niente più notti d’astinenza e
più sesso. Che pervertito di merda.
Diede libero sfogo alla sua
gioia, lanciando in aria la cravatta prima di venire verso di me per
afferrarmi, quasi rischiando di farmi cadere con tutta la sedia e di
farmi
ingoiare quel poco di sigaretta che mi era rimasta. «Ma
è meraviglioso!»
esclamò raggiante, prendendo la cicca con due dita per
spegnerla lui stesso nel
posacenere. Il suo grido disturbò Robin, che
aprì gli occhi e, soffiandoci contro con ben poco garbo,
miagolò, tornando però
ben presto ad acciambellarsi senza più prestarci attenzione,
decidendo di
lasciare noi poveri esseri umani alle nostre faccende.
Josh l’aveva appena degnata di
una
rapida occhiata, ignorandola immediatamente per guardare me negli
occhi. «E tu
che credevi che non sarebbe piaciuto a nessuno!»
Già, gli avevo riempito la
testa di preoccupazioni per timore della critica, giacché
non ero mai stato
pienamente convinto delle mie capacità. E non lo ero
tuttora, per quanto fosse
stato solo per merito di Josh se ero andato avanti nella stesura,
altrimenti
non avrei mai completato il racconto. Il suo incoraggiamento era
servito davvero
allo scopo. «Come hai deciso di chiamarlo?»
A quella sua domanda, sorrisi
radioso e mi sporsi per sfiorargli le labbra con le mie,
così che potesse
assaporare l’aroma della sigaretta, per quanto lo detestasse.
Gli cinsi poi i fianchi
con entrambe le
braccia prima di sussurrare al suo orecchio, con tono provocante e
vagamente
malizioso: «Tschüss,
Faust».
TSCHÜSS, FAUST
FINE
[1] Piccolo
omaggio - egoisticamente
voluto - a Nico
Robin, personaggio facente parte del manga “One
Piece” di Eiichiro Oda.
Non
viene tra l’altro
accennato nella storia da nessuna parte, ma è anche uno dei
manga gettati nel
mucchio insieme ai fumetti della Marvel.
_Note conclusive (E
inconcludenti) dell'autrice
Questa
storia è stata scritta per il contest
“Origami di
carta” indetto
da Fe85, e si
è
classificata Prima su
quattordici storie, il che è una vera soddisfazione, visto
che non me lo sarei mai aspettata.
È stato un vero piacere
scriverla, sul serio. I luoghi presenti nella storia,
comunque, non sono inventati proprio perché
ci tenevo ad essere il più precisa possibile su una
città realmente esistente.
Bar, pub, caffetterie e ospedali, dunque, sono frutto di parecchio
tempo speso
nel cercarli.
Mi auguro comunque che si sia
capita la fine, anche se per non rischiare la spiego lo stesso, visto
che in
questo periodo sono un tantino confusionaria. Allora, in parole povere
la
storia raccontata nei precedenti quattro capitoli - ed ambientata a St.
Louis -
altro non era che un racconto scritto da Robert, il reale protagonista
e scrittore.
Ma credo che si fosse capito anche senza spiegazione, no? Comunque sia,
Jacob era
l’unico a poter vedere Connor, in quanto frutto della sua
immaginazione per
quanto fosse in realtà una sorta di demonio con cui,
inconsapevolmente, aveva
stretto un accordo. E alla fine quel patto gli è costato per
l’appunto la vita.
Spero comunque che la storia sia in qualche modo
piaciuta, e ne approfitto per fare pubblicità alle storie Oceani
in burrasca e Karyūkai:
il mondo del fiore e del salice
Alla prossima. ♥
_My Pride_
Messaggio No Profit
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alla causa pro-recensioni.
Farai felici milioni di
scrittori.
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