Tschüss, Faust

di My Pride
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** [ Atto I: St. Louis › Luglio, 2008 ] Occhi di tigre nel volto d'un uomo ***
Capitolo 2: *** [ Atto II: St. Louis › Luglio, 2008 ] Avvenimenti impensabili e strane fantasie ***
Capitolo 3: *** [ Atto III: St. Louis › Luglio, 2008 ] Patto col Diavolo o semplice suggestione? ***
Capitolo 4: *** [ Atto IV: St. Louis › Luglio, 2008 ] Messaggeri dall'oltretomba ***
Capitolo 5: *** [ Atto V: Chicago › Luglio, 2010 ] Epilogo inaspettato ***



Capitolo 1
*** [ Atto I: St. Louis › Luglio, 2008 ] Occhi di tigre nel volto d'un uomo ***


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[ Prima classificata al contest «Origami di carta» indetto da Fe85 ]
[ Vincitrice del Premio grammatica al contest «Voglie estive di gustose letture» indetto da aturiel ]


Titolo:
Tschüss, Faust
Autore: My Pride
Fandom: Originali › Sovrannaturale
Tipologia: Racconto breve
Genere: Drammatico, Sentimentale, A tratti vagamente introspettivo, Malinconico, Sovrannaturale
Rating: Giallo / Arancione
Beta Reader: No
Avvertimenti: Slash, Probabilmente non per stomaci delicati, Vagamente - o forse anche troppo - nonsense
Nota: Nel corso della storia potrebbero essere presenti espressioni come “Aye” e “Nay”, che significano rispettivamente “Sì” e “No” in italiano, e “Och”, che è un rafforzativo del “Sì”. Esse non sono un errore, bensì una scelta personale dell’autore, ormai affezionatasi a tale dicitura.
Piscina dei prompt: Originale, Sovrannaturale, Illusioni psicologiche

Eventuali Credits: Credits presenti nelle “Precisazioni e curiosità” alla fine della fanfiction
Note dell’autore: Note presenti alla fine della fanfiction



DISCLAIMER:
All rights reserved © I personaggi presenti in questa storia sono tutti maggiorenni e mi appartengono, dal primo all'ultimo. Sono comunque frutto di pura immaginazione. Ogni riferimento a cose e persone realmente esistite e/o esistenti è puramente casuale.
This work is licensed under a Creative Commons Attribution-Noncommercial-No Derivative Works 3.0 License.



TSCHÜSS, FAUST [1]
 
Ho veduto più di quanto io stesso abbia mai voluto vedere.
Desideri, sogni, promesse ed incubi: per quanto apparisse orribile,
tutto ciò era meraviglioso.


ATTO I: ST. LOUIS › LUGLIO 2008
OCCHI DI TIGRE NEL VOLTO D’UN UOMO
 
    Guardavo svogliatamente i fogli bianchi dinanzi a me e il solo farlo mi faceva sentire patetico.
    Erano tre giorni che tentavo inutilmente di buttare giù due righe, ma, ogni qual volta mi sedevo alla mia scrivania, sentivo come uno spasmo allo stomaco e mi bloccavo, venendo assalito dal panico. Avevo sì scritto qualcosa, però avevo buttato via il foglio non appena mi ero ritrovato a rileggere quelle poche parole che non mi avevano per niente convinto. E io mi reputavo uno scrittore? Un ciarlatano, ecco cos’ero.
    «Hai fatto progressi?» Al suono di quella voce, mi voltai in direzione della porta, vedendo il mio coinquilino entrare nello studio con un semplice asciugamano legato alla vita. Beh, perfetto. Butch Morrison aveva appena infranto con la sua sola presenza la già poca concentrazione che avevo. Alto un metro e novanta scarso, Butch era una specie di sosia di Will Smith dal fisico del lottatore di boxe e, con quelle goccioline d’acqua che luccicavano sul petto, riusciva di sicuro a catturare la mia più completa attenzione. Diamine, come pretendeva che facessi progressi con quel dannato libro se si presentava così?
    Distolsi lo sguardo a fatica, sbuffando sonoramente prima di poggiare un gomito sul bordo della scrivania e sorreggermi il viso sul dorso della mano. «Per niente», borbottai, picchiettando con due dita della sinistra il legno. «Ho buttato giù due righe, ma non mi convince».
    «Dai qua, fa’ vedere», esordì Butch, allungando una mano verso di me mentre con l’altra si sorreggeva l’asciugamano. Riluttante, mi chinai a raccogliere il foglio appallottolato che avevo lanciato nel cestino nemmeno un’ora addietro, consegnandolo poi nel suo palmo aperto prima che lui lo srotolasse senza tanti preamboli. Cominciò a leggere ad alta voce, sapendo bene quanto la cosa mi snervasse. «“Quando il sole batté contro le finestre del suo ufficio, quel mattino, il detective Montgomery pensò che non avrebbe potuto continuare con quell’andazzo”», mi scoccò un’occhiata, ma continuò, sollevando un angolo della bocca in quello che mi sembrò un mezzo sorriso. «“Aveva passato l’intera nottata chino sulla documentazione di Sawyer il Macellaio, ma, per quanto avesse tentato di venire a capo di quel complicato caso, non ne aveva cavato un ragno dal buco”». Aggrottò la fronte, poi alzò rapidamente lo sguardo da quel foglio stropicciato per fissare me. «Hai in mente di fare un seguito di “Blood and Gunfire”, per caso?»
    Annuii piano, molto piano. «L’intenzione era quella», confessai afflitto, lasciandomi sfuggire un piccolo colpo di tosse, «ma stenta ad ingranare la marcia».
    «Quello di cui hai bisogno adesso è una bella serata tra amici, Jake». Mi si avvicinò e mi diede una pacca su una spalla, sorridendo. «Vedrai che dopo un paio di bicchieri ti sembrerà andare tutto alla grande».
    Malgrado tutto, sorrisi anch’io. «Per te ogni scusa è buona per farmi bere, eh?» lo presi in giro, sentendolo ridacchiare sottovoce. Non sarebbe mai cambiato, poco ma sicuro. Ero praticamente cresciuto con lui, se la si voleva mettere su quel piano. Entrambi orfani, avevamo vissuto in un orfanotrofio situato alla periferia di St Louis, in compagnia di molti altri bambini con cui ormai avevamo perso i contatti. Sin da piccolo, Butch mi aveva protetto dalle angherie dei ragazzi più grandi, poiché ero sempre stato un bambino gracilino senza una gran spina dorsale; a complicare le cose ci si era messo anche il mio stato di salute cagionevole sin dalla nascita, e non avevo mai saputo difendermi da solo. Le cose erano cambiate intorno ai quindici anni, certo, ma avevo sempre provato una sorta di gratitudine nei confronti di Butch; con il tempo, la nostra secolare amicizia si era pian piano evoluta, ed erano ormai quattro anni che ci frequentavamo come coppia di fatto. Non ero neanche sicuro che fosse giusto chiamarlo amore, però, fino a quel momento, le cose fra noi erano andate a gonfie vele ed era questo ciò che interessava ad entrambi. A noi stava bene così.
    Butch si chinò verso di me e mi sfiorò una guancia con le labbra, ravvivandomi i capelli all’indietro dopo aver poggiato
il foglio stropicciato sullo scrittoio. A quanto sembrava, aveva intenzione di farmi continuare da lì, ma io non ne ero poi così sicuro. «Vado a vestirmi, tu intanto aspettami in macchina», mi disse, raddrizzando la schiena. «Cinque minuti e sarò da te».
    Lo seguii con lo sguardo mentre si allontanava, approfittandone anche per lanciare un’occhiata al suo sedere sodo. Era magnifico anche con quell’asciugamano, e quasi mi faceva venir voglia di cestinare l’idea della serata tra amici e passare invece le restanti ore serali a rotolarmi nel letto con lui. Scossi immediatamente il capo e mi battei il palmo di una mano sulla fronte, alzandomi. In teoria avevo una scadenza da rispettare, dunque non potevo mettermi a pensare a cose come il sesso per quanto esse mi tentassero.
    Mi umettai le labbra e rimisi al proprio posto la sedia, gettando un’ultima occhiata sulla scrivania prima di uscire finalmente dallo studio; attraversai il disimpegno adorno di fotografie - alcune erano persino state scattate a nostra insaputa, e ritraevano noi due a pomiciare sul divano; mi ero un po' arrabbiato, al principio, ma poi avevo deciso di tenerle - e andai verso l’ampio ingresso, arraffando le chiavi della macchina dalla bacheca in cui le custodivamo. L’auto di Butch era un’Impala del ’67
 [2] dalla carrozzeria nera e luccicante, e, per quanto gli avessi più volte ripetuto che avrebbe magari potuto cambiarla con qualcosa di più moderno, lui non aveva mai voluto saperne. Finché funzionava l’avrebbe tenuta, aveva detto, e quando si metteva in testa una cosa era difficile farlo tornare indietro.
    Attesi per ben quindici minuti che Butch mi raggiungesse, senza però accomodarmi sul sedile anteriore: l’estate a St. Louis era terribile, dunque quella macchina sarebbe solo diventata una trappola simile ad una fornace anche con tutti i finestrini aperti. Non tirava un filo di vento nonostante fosse quasi sera, e avrei di sicuro dato di matto se la figura di Butch non si fosse finalmente stagliata sulla soglia di casa. Chiuse la porta e trotterellò verso di me, facendomi cenno di lanciargli le chiavi. Non appena lo feci, lui le prese al volo ed aprì la portiera, sedendosi al posto di guida.
    «Cinque minuti, eh?» lo sfottei, entrando in macchina dopo di lui.
    Chiuse l’auto e mi gettò un’occhiata, inserendo le chiavi nel quadro d’accensione per mettere in moto la sua bambina, come tanto soleva chiamarla. «Ho chiamato i ragazzi», mi informò semplicemente. «Ci aspettano al Sub Zero
 [3] tra mezz’ora».
    Beh, perfetto. Aveva davvero intenzione di passare una serata tra amici. E io che mi ero illuso fosse solo una scusa per portarmi fuori, per una volta che aveva il giorno libero dal lavoro! Sbuffai e alzai lo sguardo verso il tettuccio, incrociando le braccia al petto senza dargli a vedere quanto la cosa mi irritasse. In fin dei conti voleva solo fare una cosa carina per me, comportarmi come una ragazzina non sarebbe servito a niente.
    Partimmo alla volta di Lafayette Park e sfrecciando nei colori del crepuscolo, vedendo pian piano la città inghiottita dalla notte. Impegnato com’ero nel guardare fuori dal finestrino, non mi accorsi che Butch stava armeggiando con lo stereo, e ben presto le note della canzone Eye of the Tiger
 [4], sparata d’improvviso a tutto volume, mi fecero sobbalzare. Stornai lo sguardo verso Butch per fissarlo con tanto d’occhi, vedendolo canticchiare qualche strofa come se nulla fosse. «Quando ti deciderai a cambiare canzone?» gli domandai, senza ricevere nessuna occhiata. Però sorrise.
    «
È la mia preferita, perché dovrei?»
    «Potresti almeno abbassare il volume?»
    Sbuffò. «Andiamo, Jake, sembri una vecchia checca isterica, oggi».
    Socchiusi gli occhi e mi massaggiai la fronte. Aveva ragione, purtroppo. Quella sera stavo dando di matto e mi stavo comportando come un cretino. «Scusa, Butch, è che questa faccenda del libro non mi da’ pace. Forse dovrei semplicemente smetterla di fingermi uno scrittore e cercarmi un altro lavoro».
    «A me sembra che i tuoi libri abbiano venduto milioni di copie», rimbeccò, degnandosi finalmente di guardarmi per un breve istante prima di tornare a fissare la strada.
    Io, invece, tornai a guardare fuori, perdendomi nell’oscurità che imperversava. «Era un solo libro, Butch», precisai, «e stiamo parlando di “Blood and Gunfire”».
    «Però alla gente è piaciuto».
    Già. Alla gente era piaciuto. “Blood and Gunfire” era stato il mio primo e solo libro in una carriera cominciata due anni addietro. Le avventure del detective Montgomery Jane avevano fatto breccia nel cuore delle persone di ogni fascia di età, nonostante si fosse trattato di un thriller pesante. Non mi ero difatti risparmiato nel raccontare fatti di cronaca nera e i cruenti massacri di quell’assassino sociopatico che avevo creato e che portava il nome di Sawyer il Macellaio. Mi ero rifatto alla storia di Jack lo Squartatore e l’avevo riveduta in tutt’altra chiave, dando vita ad un best seller che aveva scalato le vette editoriali. Venirne a conoscenza mi aveva riempito di gioia, ma da quel momento in poi non ero più riuscito a scrivere una sola parola di quella storia o di altre. Blocco dello scrittore, lo chiamavano. Beh, diamine, quel mio blocco durava ormai da un bel pezzo e la cosa era snervante.
    Fu continuando a guardare fuori che borbottai, «Possiamo tagliar corto, Butch? Non sono in vena, sul serio».
    Mi giunse in risposta un lungo sospiro. «D’accordo, Jake. Fa’ finta che non abbia minimamente aperto bocca», replicò schietto, e nella sua voce mi parve di sentire una nota vagamente offesa. Och, fantastico! Ci mancava soltanto quello. Però in fin dei conti non potevo dargli tutti i torti. Con le sue parole voleva soltanto cercare di spronarmi e le sue intenzioni erano state quindi più che buone, ero io che forse diventavo un po’ troppo isterico quando si toccava quel determinato argomento.
    «Ehi, Butch», provai a chiamarlo per scusarmi ancora una volta, ma lui non sembrò per niente intenzionato ad ascoltarmi. Lasciai dunque perdere con un sospiro, tornando a fissare fuori mentre le note della canzone non facevano altro che martellarmi la testa e farmela dolere all’impazzata. Per quanto gli piacesse sul serio, la verità era che Butch continuava a metterla nella speranza che Eye of the Tiger mi desse la grinta di cui necessitavo. Sembrava veramente stupido da dire, ma lui credeva davvero che qualche parola buttata in mezzo a della musica rock potesse servire a dare la carica giusta. Però non era forse anche per questa sua ingenuità che mi ero innamorato di lui?
    I quarantacinque minuti che ci separarono dal locale li passammo in seguito nel più completo silenzio, escludendo unicamente la musica che permeava l’abitacolo. Eravamo passati dal rock al jazz senza che nessuno dei due se ne fosse accorto immediatamente, troppo presi dai nostri pensieri e dal tenerci il broncio a vicenda. Su quel punto non eravamo affatto cresciuti: eravamo esattamente come all’orfanotrofio, due stupidi mocciosi grandi e grossi. Fu solo quando vedemmo finalmente il Sub stagliarsi dinanzi ai nostri occhi che riacquistammo un po’ di tranquillità, sorridendoci persino. Butch parcheggiò sulla destra del marciapiede e scese per primo dopo aver inserito la sicura, facendomi cenno di fare svelto lo stesso mentre si infilava in tasca le chiavi della sua preziosa auto. Attraversammo la strada pullulante di macchine e persone guardando a destra e a sinistra, non volendo rischiare che qualche tizio ubriaco ci sbalzasse in aria proprio a pochi passi dal locale. L’interno di esso era chiassoso come al solito, e una canzone dei Linkin Park
 [5] di cui non conoscevo il titolo rumoreggiava in ogni angolo come se ci si trovasse ad udire il frastuono delle onde contro gli scogli. Forse non era stata una così buona idea andare lì, quella sera. Il locale era stracolmo e la musica a palla fracassava i timpani.
    «Vado a cercare i ragazzi!» mi informò Butch, alzando la voce per far sì che lo sentissi al di sopra di quel baccano. «Tu aspettami al bancone, Jake, altrimenti finisce che ci perdiamo!»
    Non gli risposi, ma alzai il pollice in segno di okay ed annuii con il capo, vedendolo allontanarsi con difficoltà nella ressa del locale, mentre spintonava per farsi spazio fra quella calca di membra sudate e ricevendo a sua volta spintoni. Io mi diressi al lato opposto, dove la clientela scarseggiava poiché la maggior parte di essa si trovava in pista a ballare. Mi guardai intorno e mi sedetti al primo posto libero che riuscii a trovare, ordinando un semplice whisky con ghiaccio prima di poggiarmi contro il bancone. Da un po’ di tempo a quella parte, mi annoiavo di fare ogni cosa, forse proprio perché non riuscivo a dare un senso a quel mio lavoro. Scrivere era sempre stata la passione di tutta la mia vita, sin da quando ero un ragazzino e scrivevo semplici temi durante le ore di studio all’orfanotrofio. In quegli anni, le storie che prediligevo erano incentrate su cavalieri e dame da salvare, e ne avevo persino scritta qualcuna che adesso si trovava stipata nella capsula del tempo che avevo sepolto nel giardino a dodici anni. Con essa era custodita gelosamente anche la foto di mia madre, morta di cancro quando avevo soltanto tre anni. Mio padre non l’avevo mai conosciuto. Forse era anche per quel motivo che avevo smesso di scrivere storie fantasy e mi ero invece concentrato in maniera quasi ossessiva sui thriller: rispecchiavano quella che era ormai diventata una vera e propria realtà nella città di St. Louis.
    «Pensieroso, signor scrittore?» Colto alla sprovvista, sussultai, voltandomi nella direzione da cui proveniva quella voce. Un uomo alto, forse sulla trentina e con i capelli scuri, si era seduto accanto a me senza che me ne accorgessi, e mi squadrava adesso con quei suoi occhi profondi e... cazzo, erano sul serio dorate, quelle iridi? Nay, doveva trattarsi per forza di lenti colorate.
    Umettandomi le labbra, chiesi stupidamente, «Come fa a sapere che sono uno scrittore?»
    Quell’uomo misterioso rise di gusto, ammiccando. «Lei è Jacob Randall, giusto? Ho visto la sua foto nell’inserto del suo best seller».
    Giusto, che stupido. Come avevo fatto a non pensarci prima? La cosa sarebbe dovuta essere piuttosto ovvia. Beh, forse il motivo di quella mia dimenticanza era che non mi reputavo più uno scrittore famoso proprio dall’uscita di quel libro. «Aye, sono io», decretai svogliato, ringraziando poi il barista quando tornò con il mio whisky. Ne bevvi un sorso, scoccando un’occhiata a quel nuovo arrivato. «Però non faccio autografi, se è questo ciò che vuole».
    «Och, niente autografi, tranquillo», rimbeccò in tono sagace. Sorrise e si accucciò contro il bancone di legno del bar, apparendo ai miei occhi come un grosso felino compiaciuto. E quegli occhi che possedeva accentuarono quel paragone. «Piuttosto, ti piacerebbe riuscire a dar vita a ciò che immagini, scrittore?» mi domandò, lasciando cadere le formalità iniziali. Ma non fu quello ad accigliarmi, bensì le sue parole. Sbattei dunque le palpebre, incredulo.
    «Ti sembra forse che io abbia scritto fesso in faccia, amico?»
    A quel mio dire si alzò e mi girò intorno, fermandosi dietro di me come una presenza costante e pericolosa. Si chinò poi verso il mio viso, poggiandomi le mani sulle spalle. «
È proprio perché sei intelligente che te lo propongo, caro il mio signor scrittore», sussurrò al mio orecchio, con voce così bassa e carica di tensione che riuscì a farmi rabbrividire. «Sono certo che tu saresti in grado di fare grandi cose».
    Ogni sua parola sembrava colma di promesse e continui successi, calda come il sole che sorgeva ad irradiare le terre sottostanti. Non seppi se fu per il tono ammaliante con cui le pronunciò o per ciò che continuò a dirmi in seguito, ma in un primo momento quasi gli credetti. Sarebbe davvero stato possibile diventare un vero scrittore, uno scrittore con la esse maiuscola, se avessi deciso di fidarmi di quello sconosciuto? Oh, quanto mi sarebbe piaciuto se fosse stato vero. Però il tempo in cui avevo creduto alle favole era finito da un pezzo, e dubitavo che sarebbe bastato così poco per riuscire a far di nuovo breccia nel cuore di milioni di persone con un mio scritto.
    «Ti basterà pensare e scrivere, signor scrittore», mormorò ancora, suadente. «Il potere delle parole non ha limiti, credimi». E con un ultimo sorriso, mi sfiorò appena una guancia con la punta delle dita, facendomi correre un brivido simile ad una scossa elettrica lungo la schiena. Si allontanò in silenzio così com’era apparso, rassettandosi la cravatta e ravvivandosi all’indietro i capelli scuri dopo avermi rivolto un cenno di saluto, lasciandomi nuovamente solo al bancone.
    Scosso, accigliato e vagamente incredulo, faticai a riprendermi anche quando finalmente Butch e gli altri mi raggiunsero. «Con chi stavi parlando?» mi domandò lui, sollevando un sopracciglio prima di accomodarsi accanto a me. A quanto sembrava non l’aveva visto, ma che potevo dirgli? Non ne ero certo neanche io.
    Così scrollai semplicemente le spalle. «Non so, Butch», risposi, guardando dietro di me come se mi aspettassi di vederlo tra la folla che si agitava nel locale. «Un fan, credo», soggiunsi distratto, non potendo ancora sapere che quell’uomo avrebbe presto portato alla mia più completa disfatta.



   

[1] Titolo di una doujinshi del circolo Ninekoks, il cui significato in tedesco è “Ciao, Faust”.
Esso sembra quasi buttato lì a caso, ma il suo significato si capirà meglio nel corso della storia, o almeno questa è l’intenzione.


[2] Omaggio a Supernatural, serie televisiva statunitense creata da Eric Kripke nel 2005 e prodotta dalla Warner Bros. Racconta le vicende di due fratelli, Sam e Dean Winchester, cacciatori di demoni e creature sovrannaturali. Il fratello maggiore, Dean, ha per l’appunto una Chevrolet Impala del 1967.

[3] Il Sub Zero Vodka Bar è uno dei locali situati nel “Central West End” di St. Louis, a North Euclid Avenue. È famoso per il suo poter offrire più di trecento tipi diversi di vodka.

[4] Cantata dai Survivor, Eye of the Tiger fu usata come brano della colonna sonora del famoso film Rocky III, interpretato da Silvester Stallone. È dunque per l’appunto un omaggio a tale film e ad una clip inserita nel telefilm Supernatural, stagione quattro episodio sei, in cui l'attore Jensen Ackles (che interpreta Dean Winchester) si diverte a farne un playback.

[5] Gruppo rock statunitense formatosi a Los Angeles nel 1996. Come band di maggior successo dell’ultimo decennio, possono vantare nei vari premi vinti un disco di diamante per uno dei loro album, due Grammy Awards e vari dischi d’oro e di platino. Le loro canzoni sono inoltre state utilizzate come colonna sonora per vari film e videogames.


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Capitolo 2
*** [ Atto II: St. Louis › Luglio, 2008 ] Avvenimenti impensabili e strane fantasie ***


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ATTO II: ST. LOUIS › LUGLIO 2008
AVVENIMENTI IMPENSABILI E STRANE FANTASIE
 
    Il sole che batteva contro la finestra della camera da letto fu un vero e proprio pugno nello stomaco, il mattino dopo. La notte addietro avevo bevuto così tanto che a stento ricordavo chi ero, figurarsi quindi in che condizioni mi trovavo in quell’esatto momento.
    Girando la testa sul cuscino, mi accorsi che Butch non era lì con me, dunque le cose erano due: o era già andato a lavoro, oppure era in doccia a prepararsi. Non sentivo, però, lo scrosciare dell’acqua, allora fui propenso a prendere per valida la prima opzione. Con un po’ di fatica, mi drizzai a sedere e mi tenni il capo con entrambe le mani, mugolando a causa del rimbombare che sentivo nella mia testa. Mi sembrava di avere un’intera orchestra che si divertiva a suonare il mio cervello anziché gli strumenti, e non era una gran bella sensazione. Il lato positivo era che non mi veniva da vomitare. Un gran bel passo avanti, dovevo ammetterlo. Avevo però bisogno di un caffè forte, così mi alzai e mi diressi con cautela in cucina a piedi nudi, prendendomela comoda. In fondo non c’era fretta, no?
    Sbadigliai e mi sgranchii collo e spalle, sciogliendo i muscoli delle braccia. Avevo la schiena a pezzi e non riuscivo a capirne il motivo, a meno che Butch non mi avesse caricato sulle spalle a mo’ di sacco di patate per riportarmi a casa. Beh, conoscendolo, era più che probabile. Passando dinanzi al mobiletto, gettai un’occhiata alle medicine che avevo abbandonato su di esso qualche sera addietro. Per quanto Butch continuasse a ripetermi che dovevo pensare alla mia salute e prendere dunque quelle medicine, io non lo facevo quasi mai; sapevo bene anche da me che quegli antipiretici facevano parte della mia terapia contro la laringite da cui ero affetto da un po’ di tempo, però ero davvero troppo stanco per quella maledetta situazione.
    Allungai una mano per afferrare il flacone con un certo disappunto, portandomele dietro anche quando mi diressi in cucina; lì mi preparai alla svelta un caffè, consumandolo in fretta per andare a prepararmi. Non avevo intenzione di starmene con le mani in mano, bensì avrei fatto un salto in biblioteca per prendere in prestito qualche libro di psicologia e medicina forense che avrebbe potuto essermi utile per il mio libro. Odiavo scrivere senza sapere di cosa parlavo. E una quindicina di minuti dopo, in macchina nonostante il caldo asfissiante che aveva imperlato già la mia fronte, guidai ininterrottamente fino alla Rock Hill Public Library‎, la biblioteca in cui mi rifornivo abitualmente. Era un gran bell’edificio dall’architettura moderna, d’un bel colore azzurro che si riusciva a vedere anche al di là della strada. Non era esattamente grande, come biblioteca, però era sempre meglio che sfacchinare in auto per due ore per raggiungere l’altro lato della città. E poi, beh... finché trovavo ciò che mi occorreva, per me andava più che bene.
    Era stato proprio quello il luogo in cui avevo scoperto le mie prime letture. Da ragazzi, io e Butch ci eravamo trovati da quelle parti quasi per caso, sfuggendo all’occhio attento delle suore per poter godere di qualche attimo di libertà fuori dall’orfanotrofio. Sarebbe stato più giusto dire che alla fine ci eravamo persi e che avevamo trovato rifugio in quella biblioteca, giacché quel lontano giorno aveva cominciato a piovere a dirotto. Per passare il tempo, avevamo iniziato a vagare fra gli scaffali lì presenti, stupendoci della varietà di libri che quella piccola biblioteca possedeva; era stato proprio in quell’occasione che mi ero innamorato dei racconti di Hemingway, delle meravigliose atmosfere dei romanzi di Scott e delle trame spaventose che caratterizzavano i romanzi di King, abbeverandomi delle loro parole come un assetato in un'oasi nel deserto. Era stato anche grazie a quegli scrittori se avevo deciso di coltivare la mia passione. Non ero per niente al loro livello - anzi, probabilmente “Blood and Gunfire” non ci si avvicinava nemmeno, non peccavo di tale presunzione -, ma sapere che il mio nome fosse comunque conosciuto e che una buona fetta di persone mi riconoscesse, beh, era lo stesso una gran bella soddisfazione.
    Rincorrendo quei pensieri, nemmeno mi accorsi di essere arrivato nei pressi della biblioteca. Dal finestrino, gettai appena uno sguardo a quella costruzione, spegnendo il motore dopo aver accostato vicino al marciapiede; sfilate le chiavi dal quadro e chiusa l’auto una volta uscito, mi assicurai di aver parcheggiato bene prima di entrare nell’edificio. Giacché il più delle volte era Butch quello che guidava - anche perché, a dirla tutta, l’auto era sua e guai se avesse trovato qualche graffio sulla sua figliola -, io dovevo ancora prenderci la mano. Da quando avevo preso la patente, avevo guidato relativamente poco, e le volte si potevano letteralmente contare sulla punta delle dita. Mi stavo apprestando ad aprire la porta della biblioteca quando avvertii come la sgradevole sensazione di uno sguardo penetrante alla nuca, e volsi immediatamente gli occhi nella direzione in cui mi era sembrato di sentire quella bizzarra occhiata; non c’era però nessuno, lì fuori, e la sola cosa che vidi fu un’infinita distesa di asfalto e i bassi edifici che si innalzavano dall’altro lato della strada, intermezzati da file di alberi dalle foglie verdi.
    Scossi il capo, dando la colpa di tutto alla stanchezza e al caldo. Probabilmente era stata solo una mia impressione, tutto qui. Però un basso ringhio richiamò nuovamente la mia attenzione: a poca distanza da me, fermo esattamente accanto ad una vecchia berlina blu, vidi distintamente la figura di un grosso cane nero che sembrava fissarmi con aria famelica con i suoi occhi rossastri, effetto probabilmente dovuto dal riflesso del sole in essi. Deglutii e indietreggiai, ma lui non diede segno di volersi muovere; restò semplicemente seduto lì, con le enormi zampe scure unite fra loro, quasi mi stesse tenendo d’occhio. Non persi un solo minuto di tempo in più: mi affrettai ad entrare in biblioteca, chiudendomi quasi violentemente la porta di vetro alle spalle prima di gettare un’occhiata fuori; il cane sembrava ormai scomparso, e fu umettando le labbra che mi ritrovai a scuotere ancora una volta la testa, cercando di scacciare quelle sensazioni di terrore che stavo cominciando a provare. Era soltanto uno stupido cane, accidenti! Non potevo spaventarmi persino per un grosso cane nero, per quanto esso mi avesse orribilmente ricordato quello presente nel romanzo di Arthur Conan Doyle
 [1].
    Marge, la vecchia bibliotecaria che stanziava sempre nei pressi del bancone, si trovava stavolta seduta ad uno dei tavoli poco distanti con un libro fra le mani; sollevando un sopracciglio, mi lanciò un’occhiata severa attraverso gli spessi occhiali che indossava, portandosi un dito ossuto alle labbra per impormi silenzio. Mi scusai frettolosamente con lei con un cenno del capo, allontanandomi il più in fretta possibile dalla vetrata per addentrarmi fra gli scaffali; lanciai giusto uno sguardo a Marge solo per vederla sistemare qualche ciocca bianca nella crocchia ordinata in cui portava legati i capelli, e trassi poi un lungo sospiro per cercare di calmarmi il più possibile. Tutte quelle scenate per un cane... diamine, dovevo essere davvero stressato se anche una cosa così semplice mi faceva un effetto del genere.
    Avevo programmato di passare la maggior parte della giornata lì dentro, però fu quasi in fretta e furia che presi in prestito i libri che mi servivano e scappai via, fiondandomi in macchina come se avessi il Diavolo alle calcagna. Sia Marge sia alcuni clienti che conoscevo solo a vista mi avevano guardato storto - e non li avrei biasimati, visto il modo in cui ero fuggito -, però avevo davvero poco tempo per preoccuparmi di idiozie del genere. Mi era già bastata la strana sensazione che mi aveva provocato quel grosso sacco di pulci.
    Fortunatamente non me lo ritrovai in attesa che uscissi, e la cosa riuscì a rasserenarmi non poco. Ma potei dirmi realmente tranquillo solo quando, una volta parcheggiato nel vialetto, mi fiondai immediatamente dentro casa, chiudendo la porta con una doppia mandata. Okay, okay, paranoia inutile... ma non me ne importava un accidenti di niente. Però per calmarmi avevo bisogno di una doccia, dunque non persi ulteriormente tempo; quando entrai in camera arraffai tutto ciò che mi serviva e mi diressi in bagno, accostando soltanto la porta senza pensare a chiuderla. Tanto in casa c’ero soltanto io, e anche se fosse tornato Butch - cosa di cui dubitavo non poco, giacché il suo turno non si sarebbe concluso se non a serata inoltrata - non ci sarebbero stati problemi. Del mio corpo aveva visto praticamente tutto.
    Fu una vera e propria delizia starsene a mollo sotto il getto d’acqua fredda, qualche minuto dopo. Vi passai una buona mezz’ora senza che me ne rendessi conto, venendo richiamato solo da un rumore proveniente al di là della porta socchiusa. Accigliato, visto che in casa avrei dovuto essere solo, aprii piano un occhio e sbirciai attraverso la tenda dopo aver chiuso l’acqua, sbattendo le palpebre nel vedere che non c’era assolutamente niente. Uscii dalla doccia e mi coprii con l’accappatoio, per quanto fossi ancora all’erta. Con gli occhi fissi sulla soglia mi passai poi una mano fra i capelli bagnati, sospirando pesantemente. Ero un vero e proprio stupido. Dovevo piantarla con quella storia, dannazione.
    Non seppi esattamente quanto tempo me ne restai chiuso in bagno seduto sulla tazza del water, con un solo asciugamano a coprirmi in vita e con la consapevolezza di essere stato, tanto per cambiare, un vero e proprio idiota. Mi stavo facendo prendere dal nervosismo e la cosa non giovava né alla mia salute né tanto meno al mio lavoro, che stentava già di suo ad ingranare la marcia. Se poi contavamo anche la mia vita privata ormai praticamente nulla, beh... avevo decisamente fatto tombola, in quanto pessime esperienze. Una volta vestitomi, uscii dal bagno e feci per dirigermi in soggiorno quando il telefono squillò, facendomi accigliare e trasalire. Lo guardai per un lungo istante, quasi mi stessi rendendo conto solo in quel momento della sua esistenza, arraffando la cornetta solo all’ottavo squillo. «Pronto?» domandai, udendo di sottofondo solo un crepitio prima che qualcuno dall’altro capo del telefono espirasse rumorosamente.
    «
È giunta l’ora, scrittore», sussurrò subito dopo una voce. Era bassa e roca, piuttosto simile a quella di un sociopatico. E io ne avevo ascoltati tanti, mentre studiavo per il mio racconto. «È giunta l’ora».
    Sentii un brivido corrermi lungo la spina dorsale, e dovetti deglutire un paio di volte prima di riuscire a spiccicare qualche parola. «Pronto?» ripetei con una vaga nota isterica, lasciandomi sfuggire un altro colpo di tosse prima di continuare. «Chi è che parla?»
    In risposta, sentii unicamente lo scatto del ricevitore e poi il fastidioso suono del segnale perduto, e fu quindi con un po’ di paura che riagganciai come quel misterioso individuo, facendo qualche passo indietro. Mi umettavo le labbra in gesti nervosi mentre continuavo a guardare il telefono, senza riuscire a capire che cosa fosse successo con l’esattezza. Qualcuno aveva forse voluto farmi uno scherzo telefonico? Magari uno dei ragazzi? Dio, speravo vivamente che fosse così.
    Mi trascinai nel mio studio con un po’ di fatica, e solo dopo che furono passati ben altri cinque minuti. Quella telefonata mi aveva scosso profondamente, e avrei preferito che con me ci fosse Butch, in quel momento. Una volta chiusa la porta, cominciai a far vagare lo sguardo in giro, osservando i vari fogli appallottolati e i libri gettati a terra come se potessero fornirmi un punto d’appoggio in quel caos che era ormai diventata la mia vita. Peccato che non vedessi altro che un mucchio di cartastraccia. Mi sedetti alla scrivania e scansai penne e matite per tenerla sgombra, spostando anche il portatile sulla destra. Usare quello mi avrebbe facilitato il lavoro, certo, però ero della vecchia scuola e non ero neanche sicuro che sarei riuscito a scrivere davvero qualcosa dopo quella strana telefonata. Stavo diventando paranoico, maledizione. Guardai il foglio che Butch aveva poggiato su quelli bianchi con il naso arricciato, non avendo alcuna intenzione di riprendere da lì. Forse avrei fatto meglio a lasciar perdere e ad aspettare Butch, parlandogli magari della telefonata che avevo avuto e aspettandomi che dicesse che era stato uno dei nostri amici. Lì per lì mi sarei arrabbiato, però alla fine mi sarei fatto una gran bella risata e avrei archiviato il tutto per rimettermi tranquillamente a lavoro.
    Nemmeno mi resi conto di essermi incantato a fissare il foglio stropicciato per chissà quanto tempo, in seguito. Avevo poggiato i piedi sul bordo della sedia e mi ero portato le gambe al petto, il mento poggiato sulle ginocchia e gli occhi puntati sulla scrivania, come se in realtà non avessi visto niente fino a quel momento. Mi risvegliò solo un bussare leggero alla porta, e sbattendo le palpebre velocemente, quasi mi fossi appena destato da un sogno, mi voltai nella sua direzione, ritrovandomi ad osservare il viso ancora un po’ sporco di cenere di Butch. Se ne stava poggiato contro lo stipite della porta a braccia conserte, apparendo quasi bizzarro con quella sua tuta ignifuga nera e gialla che indossava ancora. Non ero abituato a vederlo così. «Ero sicuro di trovarti qui», asserì poi a mezza voce. «Potresti almeno andare a letto, quando ti stanchi».
    Prima ancora che il mio cervello potesse mandare qualunque segnale ai muscoli, mi ritrovai a scattare in piedi e a correre verso di lui, abbracciandolo stretto in vita senza proferir parola nonostante odorasse ancora del vago sentore della cenere. Sentii distintamente l’incertezza che si impadronì di tutto il suo corpo, certo, ma anziché allontanarsi o scansarmi da sé mi cinse a sua volta i fianchi con un braccio, passandomi una mano fra i capelli come se si stesse occupando di un bambino. «Ehi, Jake, che diamine hai? Mi sembri un moccioso che ha appena visto un mostro sotto al letto», ironizzò con un mezzo sorriso, e se si fosse trattato di un altro momento gli avrei di sicuro scoccato un’occhiataccia. Ma ero scosso, frustrato e anche un po’ impaurito - e forse stupidamente, c’era da aggiungere -, dunque per quella volta l’avrebbe scampata. Anche perché, beh, forse un fondo di verità c’era, nelle sue parole.
    Mi limitai semplicemente a sussurrare, «Razza di idiota», lasciandolo finalmente andare. Lui, dopo uno sbuffo vagamente divertito, mi diede una pacca su una spalla e mi fece cenno di seguirlo, diretto probabilmente in camera nostra. Prima di farlo aprii la bocca per raccontargli anche di quella strana telefonata che avevo ricevuto, ma decisi ben presto di lasciar perdere. Magari quello era stato davvero un semplice scherzo e, se ne avessi parlato, Butch si sarebbe preoccupato inutilmente e mi avrebbe detto per l’ennesima volta che era colpa del mio non prendere quelle benedette medicine. Come se potesse realmente centrare qualcosa, poi. Mentre uscivo nel corridoio, però, notai con la coda dell’occhio un’ombra fuori dalla finestra, o almeno mi sembrò che fosse così. Diedi la colpa alla stanchezza e alla strana sensazione che mi aveva trasmesso nel pomeriggio quella telefonata, e fu dunque scuotendo il capo che mi diressi a mia volta in camera, trovando Butch intento a spogliarsi per andare a farsi una doccia. Lo imitai ben presto, coricandomi prima di lui e augurandogli la buona notte una decina di minuti dopo non appena ritornò.
    Non ero sicuro che sarei riuscito a chiudere occhio, ma di una cosa ero certo: dormire avrebbe di sicuro portato ad una nottata popolata da incubi e deliri
.



   

[1] Riferimento al “Black Dog” presente nel romanzo “Il mastino dei Baskerville” citato dal protagonista tramite l’utilizzo del nome dell’autore.
Il Cane nero è una creatura notturna presente nel folklore della Gran Bretagna, e le storie relative a questi fantasmi mostruosi sono diffuse in tutto il territorio, dalla Scozia al Galles, dall’Inghilterra alle Isole.
I Cani Neri sono descritti come esseri soprannaturali dalla forma di grossi cani, con occhi fiammeggianti e pelo irsuto, dal colore nero o verde fosforescente. Sono fantasmi ritenuti messaggeri dell’oltretomba, quindi di cattivo augurio. Secondo le descrizioni, si muovono compiendo lunghi balzi sui sentieri di campagna, durante la notte. Gli occhi, che rosseggiano nel buio, indicano la ferocia della bestia. Chi incontra questa creatura anche solo di sfuggita, o sente l’odioso scalpiccio delle sue zampe, sa che la sua fine è vicina.
La scelta di tale animale sarà spiegata meglio nel corso della storia.


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Capitolo 3
*** [ Atto III: St. Louis › Luglio, 2008 ] Patto col Diavolo o semplice suggestione? ***


Tschuess_3
ATTO III: ST. LOUIS › LUGLIO 2008
PATTO COL DIAVOLO O SEMPLICE SUGGESTIONE?
 
    L’orologio che avevo al polso segnava esattamente le undici e mezza del mattino.
    Non me l’ero sentita di fare colazione a casa da solo, dunque ero uscito per dirigermi alla caffetteria nei pressi di Park Avenue, aperta fino alle dieci di sera nei giovedì come quello. A dirla tutta non andavo pazzo per la Gooey butter cake
 [1] che servivano lì - dovevo ammettere a me stesso, però, che la White Chocolate Blueberry era piuttosto invitante -, ma il caffè era il massimo e valeva davvero la pena guidare fin lì per gustarselo.
  Me ne stavo seduto ad un tavolo in solitudine, con una bella tazza fumante in una mano e una stilo in un’altra. Con il cappuccio della penna, picchiettavo distratto i fogli miseramente bianchi di un block notes mentre lo sguardo vagava svogliato sulla restante clientela come se essa, in qualche modo che non comprendevo, potesse scuotermi da quel bizzarro stato di inerzia. Forse ciò che mi aspettavo realmente era che mi dessero l’ispirazione di cui avevo bisogno. Il guaio, però, era che essa non si decideva ad arrivare. La strana sensazione che sentivo ogni qual volta tentavo di abbozzare qualcosa era indescrivibile: le idee ronzavano nella mia testa come un alveare di api al sole, sfrecciando contro le pareti del mio cervello ad una velocità pazzesca e a dir poco insostenibile; per quanto ciò accadesse, però, non appena tentavo di poggiare la punta della penna sul foglio, esse si volatilizzavano come fumo.
    Quando riuscivo a scendere a patti con me stesso, la situazione era ancor peggiore. Avvertivo dentro di me come una sorta di vuoto, una sensazione sgradevole simile a quella di un attacco di panico, giacché ogni qual volta provavo anche solo ad abbozzare qualcosa, persino la cosa più stupida che potesse venirmi in mente, venivo colto da uno stato d’ansia difficile da scacciare, sentendo come se mi mancasse in seguito il respiro o stessi per precipitare inesorabilmente nel vuoto. Era la parte peggiore del mio lavoro, quella, anche perché il mio cuore cominciava a battere velocemente e a farmi dolere il petto. Secondo il medico quello era soltanto un sintomo dettato dalla mia testa, una semplice suggestione, insomma. Non avevo assolutamente niente che non andasse, almeno a livello cardiaco.
    Il suono della sirena dei pompieri si fece largo fra i miei pensieri, richiamando così la mia più completa attenzione. Volsi lo sguardo verso la vetrata nel momento stesso in cui l’autovettura sfrecciò dinanzi ad essa, diretta verso l’East St. Louis. Un altro incendio, maledizione. Da quando l’estate era iniziata, capitava così spesso che Butch, facente parte della terza unità dei vigili del fuoco, passava più tempo in servizio che a casa.  Per quella settimana la sua serata libera se l’era già giocata alla grande, ed io non ero poi stato di così gran compagnia.
    «A quanto pare le coincidenze esistono, signor scrittore». Al suono di quella voce, alzai lo sguardo con fare interdetto, sbattendo più volte le palpebre nel ritrovarmi a fissare gli occhi dorati del tipo che avevo conosciuto al Sub Zero. Sorrideva affabile come non mai, simile ad una persona che aveva appena rivisto un vecchio e carissimo amico che non incontrava ormai da anni. «Non è cosa da tutti i giorni trovare scrittori piuttosto famosi come lei in un posticino come questo, d’altronde».
   Incredulo, abbandonai la tazza di caffè sul tavolino; guardai poi a destra e a manca, quasi non credessi alla sua presenza, vedendolo accomodarsi dinanzi a me senza che io gli dessi il permesso di farlo. «Chi è lei?» riuscii infine a chiedere in un soffio, e lui si accigliò, scoppiano in seguito a ridere divertito.
    «Ha ragione, come sono sbadato». Si portò una mano al petto con fare elegante, sfiorandoselo appena con due dita affusolate; con esse si toccò poi la fronte e chinò di poco il capo, sorridendo maggiormente. «Connor Barnes, signor Randall. Più che lieto di fare la sua conoscenza».
    Adesso avevo un nome, almeno. Ma ciò non spiegava ancora niente. «Cosa vuole esattamente da me, signor Barnes?» chiesi poi. «L’altra sera, al Sub Zero... ha detto che il potere delle parole non ha limiti. Che cosa intendeva dire?»
    «Deve solo cominciare a credere a ciò che lo ho detto, signor scrittore», rimbeccò in tono affabile. «Se cominciasse a crederci, tutto le risulterebbe più facile di quanto non sia adesso, e comprenderebbe anche in pieno le mie parole». Si sporse verso di me, poggiando i gomiti sul bordo del tavolino come se volesse sorreggere il peso del proprio corpo. «Tenga conto anche di ciò che le succede intorno, signor scrittore. Quell’incendio che i vigili stavano correndo a spegnere, ad esempio... lo prenda in considerazione». Lo vidi gettare un rapido sguardo al mio block notes prima di riportare lo sguardo su di me, sorridendo cordiale nel momento stesso in cui si alzò. «Non punti ad un seguito di un suo precedente racconto, signor scrittore. Dia soltanto vita ad una storia completamente nuova ed entusiasmante».
    Troppo intento nel vederlo aggirare il tavolino e allontanarsi, ci misi un po’ a rendermi conto di ciò che aveva appena detto. Sgranai gli occhi e mi alzai in piedi a mia volta, sbattendo entrambe le mani sul tavolino inconsciamente; così facendo feci tremolare la tazza, e ci mancò poco che il caffè si rovesciasse. «E lei come fa a sapere queste cose?» gli gridai contro, richiamando in questo modo l’attenzione della restante clientela. Non me ne curai, concentrato unicamente su quel tipo che, voltandosi di poco, si limitò a sorridermi.
    «Scriva, signor scrittore, scriva», replicò. «Le risposte arriveranno presto».
    Ciò detto, mi salutò con un cenno del capo, incamminandosi tranquillo fuori dal locale sotto il mio sguardo sbigottito. Boccheggiai e tornai a sedere, fissando i fogli bianchi senza curarmi dei borbottii sconnessi che avevano cominciato a risuonarmi nelle orecchie. Che cosa diavolo stava succedendo? Era mai possibile che dal momento in cui avevo incontrato quell’uomo per la prima volta, intorno a me stessero accadendo cose impensabili?
    Mi infilai una mano in tasca e tirai fuori il mio flacone di medicinali, stringendolo forte nel palmo pima di socchiudere di poco gli occhi. Non poteva essere a causa dell’interruzione dell’assunzione del farmaco, mi rifiutavo di crederlo. Stava succedendo qualcosa, lì, sebbene non sapessi ancora che cosa. Ma avrei cercato di capirlo al più presto, a cominciare dall’apparizione di Connor Barnes.
    Tornai a casa solo dopo le sei e mezza passate. Avevo trascorso tutto il sacrosanto giorno fuori, certo che non avrei comunque trovato nessuno ad attendere il mio ritorno. La prima cosa che avevo fatto era stato ascoltare la segreteria telefonica, trovando un messaggio di Butch in cui mi diceva che, sorpresa, sarebbe tornato solo a sera tarda poiché avrebbe fatto il doppio turno. Mi ero poi diretto in camera per prendere un cambio, facendomi una doccia veloce prima di chiudermi nel mio studio. Ed ero lì seduto alla mia solita postazione, adesso, con il computer miracolosamente acceso.
    Non sapevo nemmeno da dove cominciare, ad essere sincero. Avevo aperto un foglio Word e avevo guardato per tutto il tempo la tastiera, l’orecchio teso nel caso di uno squillo del telefono. Ammettevo che avevo ancora il timore di ricevere un’altra strana chiamata come sere addietro, ma fortunatamente dopo quella volta non era più successo. Potevo quindi concentrarmi senza problemi sul mio racconto, però ero ancora bloccato. Dannazione, era difficile anche solo andare avanti.
  Sbuffai e, mettendo finalmente mano alla tastiera, pigiai i tasti per scrivere almeno la prima parte del racconto che avevo su carta, imprecando a denti stretti già alla seconda riga. Selezionai tutto con il mouse e premetti backspace per cancellare, tornando a fissare con un certo disappunto quella maledetta barra lampeggiante. Avrei forse dovuto prendere in considerazione le parole di quel tipo, Connor, e scrivere davvero tutt’altra trama? Non lo sapevo, ma lasciai semplicemente che fossero le mie dita a guidarmi e a decidere per me.
    Era affascinante assistere al tripudio di dorato e arancio che si levava da quell’abitazione in fiamme.
    Mi fermai di botto e sbattei più volte le palpebre, accigliandomi. Perché avevo davvero cominciato con un incendio? Non seppi darmi una risposta ancora una volta, però provai comunque su quella strada. Ripresi a scrivere, ignorando ogni rumore che sembrava librarsi intorno a me.
    Il terribile fetore della plastica bruciata si mescolava con quello del legno massello e del grasso umano, scendendo in gola come fuoco vivo; le urla delle persone intrappolate in quel maledetto inferno squarciavano la notte, sovrastando il suono delle sirene e le grida disarticolate dei vigili del fuoco. E lui, lì nascosto in mezzo alla restante folla che assisteva con il cuore in gola e un grido strozzato intrappolato fra le labbra, osservava compiaciuto la grandiosa opera che aveva realizzato, quel quadro degno di un impressionista, quel palazzo che si accartocciava su se stesso come carta, portando con sé vite innocenti.

    Le dita volavano sulla tastiera senza che io le comandassi, libere come non lo erano mai state. Sembrava quasi che non dovessi soffermarmi a pensare, che esse sapessero già cosa stesse dettando loro il mio cervello prima ancora che potessi saperlo io stesso. Il ticchettio insistente dei polpastrelli sui tasti era ormai divenuto come una bassa melodia, una melodia che aveva riempito le mie orecchie e cancellato tutto il resto.
    Un boato fendette l’aria, provocando un’esplosione che fece vibrare le pareti infuocate come fossero di cartapesta; al piano di sotto, Trevor ebbe appena il tempo di alzare lo sguardo prima che una trave...
    Un momento. Volevo davvero far morire uno dei buoni sin dal principio, per di più in quel modo? Ci riflettei un po’ su, con le mani sospese a mezz’aria sulla tastiera lucente e la fronte aggrottata. Beh, di certo la cosa avrebbe dato quel fondo di verità alla trama. I pompieri rischiavano la loro vita ogni singolo giorno, e, per quanto mi dispiacesse, avevo bisogno di scrivere tutto nel minimo dettaglio. Dunque qualche sacrificio si poteva anche fare, se la trama avrebbe in seguito decollato come volevo. La cosa assurda era la nitidezza con cui mi sembrava di vedere le immagini mentre scrivevo, e ne approfittai più che potei prima che l’ispirazione, donna infida e voltagabbana, mi abbandonasse.
    Al piano di sotto, Trevor ebbe appena il tempo di alzare lo sguardo prima che una trave gli cadesse addosso.

    «Trevor!» gridò Chris, correndo verso di lui nel tentativo di aiutarlo. Il fumo gli annebbiava la vista e gli infiammava la gola, ma, più delle ustioni, a fargli male fu vedere le fiamme divampare dinanzi ai suoi occhi, avvolgendo Trevor inesorabilmente.
    Fu difficile capire con esattezza quanto tempo passai lì seduto a scrivere, quella sera. Era come se l’ispirazione che mi ero tenuto dentro fino a quel momento fosse uscita tutta insieme, permettendo così che quella nuova storia prendesse vita a poco a poco, surclassando la mia idea di scrivere un seguito su Montgomery Jane. E mi resi conto di aver scritto ben sette capitoli solo quando lo squillo del telefono mi fece sobbalzare. Il cuore cominciò a pompare a mille e quasi mi mancò il respiro, ma mi diedi immediatamente dell’idiota e cercai di rilassarmi, alzandomi con circospezione anche per abituare le gambe ormai anchilosate. Non dovevo farmi prendere dal panico per ogni minima cosa, accidenti. Dovevo piantarla e darmi una calmata.
    Raggiunsi il telefono al quinto squillo, e, alzando la cornetta, fui lieto di sentire che quella era la voce di Butch. «Jake». Mi resi ben presto conto che il tono con cui aveva pronunciato il mio nome era lugubre e teso, e persi un battito prima ancora che potesse dirmi altro. Perché avevo come la sgradevole sensazione che fosse successo qualcosa? «Stasera non... non torno a casa, okay? Passerò la serata in ospedale. Mike e Tom sono... loro... oh, cazzo». Il crepitio della cornetta fu come il graffiante suono di unghie contro la lavagna. «Mike e Tom sono rimasti gravemente feriti».
    Deglutii sonoramente, sentendomi mancare. Mio Dio... Mike e Tom? «Dimmi in che ospedale li hanno portati, Butch, vi raggiungo subito», replicai di slancio, quasi non riuscissi a credere a ciò che mi aveva appena detto. Sapevo che in quel lavoro non c’era mai niente di certo, ma mi rifiutavo di pensare che fosse successo qualcosa proprio a loro.
    «Kenneth Hall Regional Hospital, sulla 129a nell’East St. Louis», sussurrò con voce tremante, senza darmi ulteriori informazioni. Ma già il semplice fatto che si trovassero oltre il fiume voleva dire troppo. «Reparto terapia intensiva».
    «Sono... così gravi?» pigolai, sentendo solo un suono simile a vetro spezzato.
    «Lo saresti anche tu con ustioni di secondo grado e un’asta d’acciaio conficcata nello stomaco, Jake», disse solo in tono duro, riagganciando subito dopo.
    Io, però, a quella scoperta lasciai cadere pesantemente la cornetta senza nemmeno rimetterla a posto, sbarrando gli occhi. Il terzo capitolo del mio racconto si concludeva proprio in quel modo. Era... era impossibile, maledizione. Non poteva essere successa realmente una cosa del genere.
    Mi sentii le gambe deboli e mi accasciai sul pavimento, portandomi una mano al petto nel sentire il respiro velocizzato. Boccheggiai alla ricerca d’aria, dovendo frugare nelle tasche per cercare le mie medicine, così da evitare complicanze. Era stata colpa mia. Era stata solo colpa mia se 
Michael e Thomas erano in ospedale. Non poteva trattarsi di una semplice coincidenza, non era umanamente possibile che capitasse una cosa del genere proprio quando io stesso avevo ricominciato a scrivere. Il potere delle parole non ha limiti, mi aveva detto quel tipo. Dannazione!
    Con le lacrime agli occhi per la frustrazione, la rabbia e il dolore, in quel momento desiderai solo di sparire.
 



   

[1] Tipo di dolce tradizionale nella città di St. Louis.
Generalmente è servito come un tipo di torta da caffè e non come un dolce qualsiasi.




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Capitolo 4
*** [ Atto IV: St. Louis › Luglio, 2008 ] Messaggeri dall'oltretomba ***


Tschuess_4
ATTO IV: ST. LOUIS › LUGLIO 2008
MESSAGGERI DELL’OLTRETOMBA
 
    Aveva cominciato a piovere a dirotto, quel tardo pomeriggio.
    Contro ogni previsione, contro ogni logica, aveva cominciato a piovere. Grandi gocce d’acqua si infrangevano sul parabrezza della mia autovettura, diminuendo drasticamente la visibilità. Appena ripreso il controllo di me stesso, mi ero immediatamente fiondato fuori e messo al volante, guidando ininterrottamente fino a che un improvviso temporale estivo non aveva arrestato la mia folle corsa, cogliendomi alla sprovvista.
    Nervoso com’ero, in realtà, non avrei dovuto nemmeno pensare di entrare in macchina e sfrecciare sulle strade. Le mani mi tremavano e, nonostante fossi più calmo rispetto ad una ventina di minuti prima, avevo ancora il cuore che batteva all’impazzata per la notizia ricevuta. Stentavo tuttora a credere che fosse tutto vero, ma ciò che Butch mi aveva detto al telefono non lasciava spazio a fraintendimenti. Ero stato io a descrivere quella scena. Ero stato io colui che, dando ascolto alle parole di quello sconosciuto incontrato per caso, aveva deciso di considerare il suo discorso veritiero. E quello, forse, era stato il mio più madornale errore.
    Dovetti fermarmi più volte per evitare incidenti imprevisti, non riuscendo ancora a controllare bene i miei riflessi a causa della strana ansia che aveva cominciato ad attanagliarmi lo stomaco. Mi sentivo come se stesse per succedere qualcos’altro di terribile, ma cosa c’era di più spaventoso che vedere due cari amici lottare strenuamente per la propria vita? In quel momento non riuscivo per niente a pensare a qualcosa di peggio.
    Fu con il cuore in gola e il fremente pulsare del sangue nelle orecchie che raggiunsi il Kenneth Hall Regional Hospital, quarantacinque minuti dopo. Non dovetti nemmeno domandare a qualche inserviente dove avessero portato Mike e Tom, trovando Butch nella sala d’attesa. Se ne stava con lo sguardo rivolto al lucido pavimento di finto marmo e le mani congiunte all’altezza dello stomaco, estraneo a tutto ciò che lo circondava. In tutti quegli anni che lo conoscevo, non l’avevo mai visto così sconvolto. Ma in fin dei conti che cosa mi aspettavo, dannazione? Due suoi colleghi, due cari amici con cui aveva condiviso gli ultimi quattro anni, si ritrovavano in bilico tra la vita e la morte, e lui non avrebbe potuto fare praticamente nulla per aiutarli. Poteva solo starsene lì, inerme e fragile come un bambino, a pregare che andasse tutto per il meglio.
    «Butch», lo chiamai piano non appena fui ad una distanza accettabile da lui, cercando di non alzare troppo la voce per non urtarlo. Come in una scena a rallentatore nel peggior film di serie B, lo vidi alzare impercettibilmente il capo per fissarmi con occhi vacui e spenti, tornando ben presto ad incassare la testa nelle spalle dopo essersi lasciato sfuggire un suono simile ad un sospiro strozzato.
    «Ciao, Jake», sussurrò stancamente, non battendo minimamente ciglio nemmeno quando mi avvicinai per poggiargli una mano su una spalla. Sembrava che la mia presenza non gli fosse per niente d’aiuto, anzi; avevo come la netta sensazione che fossi soltanto di peso, in quel momento.
    Avrei voluto dirgli «Mi dispiace», ma a che cosa sarebbe servito? Conoscendolo, si sarebbe soltanto arrabbiato, poiché avrei solo messo nero su bianco il fatto che non potesse far nulla per salvare in qualche modo i propri amici. Sapevo che avrebbe voluto combattere, lottare con tutte le proprie forze nel tentativo di cambiare le sorti di Mike e Tom, ma, in quanto essere umano, anche lui conosceva i propri limiti. Doveva solo aspettare pazientemente, per quanto quella situazione lo snervasse e pesasse nel profondo del suo animo.
    «I medici non mi hanno ancora fatto sapere niente», disse di punto in bianco, interrompendo il flusso dei miei più disparati pensieri. Non aveva alzato lo sguardo, ma potei capire dall’inclinazione della sua voce che aveva gli occhi serrati, quasi fosse sull’orlo delle lacrime. «Sono passate quasi due ore e non mi hanno ancora fatto sapere niente, dannazione».
    Mi sedetti al suo fianco con un sospiro, passandogli un braccio dietro la schiena per attirarlo un po’ verso di me. Stavolta dovevo essere io a dimostrarmi forte per entrambi, non il contrario. «Sono sicuro che andrà tutto per il meglio, Butch», lo rassicurai a bassa voce, come se temessi che dire quelle parole potesse far scoppiare le nostre speranze come una bolla di sapone. «Quei due hanno la pellaccia dura, lo sai fin troppo bene, no?» Mi sforzai di abbozzare un sorriso sincero e raggiante, vedendo lui ricambiare goffamente prima di riportare lo sguardo verso il basso per tornare a fissare il pavimento con finta attenzione.
    Dovevamo pensare positivo, ecco cosa dovevamo fare. Ma... dannazione, farlo era così difficile. La consapevolezza di quanto accaduto non riusciva a stabilizzare i nostri animi, e al solo pensiero che potesse essere stata realmente colpa mia, beh, mi sentivo doppiamente male. Avrei voluto parlarne con Butch, spiegargli la mia frustrazione e la mia angoscia, però aveva già quel dolore insostenibile da sopportare senza che mi ci mettessi anch’io con quelle che, con molta probabilità, erano soltanto stupide paranoie e coincidenze. O almeno era ciò che tentavo inutilmente di credere con tutto me stesso.
    Persi il conto dei minuti che passai nello starmene appollaiato su quella sedia, le palpebre pesanti per le poche ore di sonno che mi ero concesso. Avevo consigliato a Butch di riposarsi almeno per un po’, assicurandogli che lo avrei svegliato non appena ci fosse stata comunicata qualche novità riguardo le condizioni dei nostri due amici. Era trascorso parecchio tempo, e di medici non se n’era vista nemmeno l’ombra.
    Mi lasciai sfuggire un lungo sbadiglio, strofinandomi gli occhi come avrebbe fatto un bambino; mi issai poi in piedi e, passando il peso del mio intero corpo da una gamba all’altra nel vano tentativo di sgranchirle e di far affluire al più presto il sangue nelle vene, lanciai una rapida occhiata verso Butch, il cui respiro era simile ad uno spiffero di vento. Dalle occhiaie che aveva in viso, tra l’altro, doveva aver dormito male e poco, in quel lasso di tempo. Lo coprii con uno dei plaid che gli infermieri erano stati così gentili da procurarci, decidendo di lasciarlo riposare ancora per un po’. Per quanto mi riguardava, invece, nonostante il sonno, avevo assolutamente bisogno di una boccata d’aria fresca, e fu proprio con quel pensiero nella testa che mi diressi fuori dall’ospedale, attraversando il lungo cortile lastricato per giungere nei pressi del grande giardino poco distante.
    Nel giungere al di sotto di uno dei lampioni, però, sentii un brivido correre lungo la mia spina dorsale. La temperatura esterna si aggirava intorno ai trentotto gradi, dunque era quanto meno impossibile lo strano freddo che aveva cominciato ad impossessarsi del mio corpo; scossi il capo e cercai di restare calmo, giacché non c’era assolutamente nulla di cui preoccuparsi. Ma fu proprio in quel mentre che risuonò nelle mie orecchie lo scalpiccio di quelle che sembrarono grosse zampe che affondavano nel terreno bagnato.
    «Avresti fatto meglio a continuare a fare ciò che ti era stato consigliato, signor scrittore».
    Nel sentire quella voce alle mie spalle, raggelai e il mio cuore parve perdere un battito. Deglutii, o almeno mi sembrò di farlo, non ne fui poi così sicuro; seppi solo che fu con lentezza estenuante che volsi la mia attenzione nella direzione in cui avevo udito la voce di Connor Barnes, l’uomo che avevo conosciuto al Sub Zero e con cui avevo poi intrattenuto una bizzarra conversazione quella stessa mattina. Che diavolo stava a significare la sua presenza lì?
    Prima ancora che potessi anche solo aprire bocca per dire qualcosa, al suo fianco apparve un grosso animale che mi squadrò dall’alto in basso con fare rabbioso - quasi fosse stata una persona consenziente -, ringhiandomi contro e mostrandomi la dentatura aguzza. Non c’erano dubbi: quello era il cane che avevo visto fuori alla Rock Hill Public Library, non poteva essere confuso con nessun altro. Quei suoi grandi occhi fiammeggianti, occhi che in un primo momento avevo creduto fossero di quel colore solo a causa dell’effetto della luce del sole, mi fissavano con ira spropositata e aria famelica, impedendomi quasi di respirare regolarmente come avrei voluto. Buon Dio... cosa stava succedendo?
    Deglutii ancora senza poterne fare a meno, stornando bruscamente lo sguardo per puntarlo nuovamente sul viso di Barnes. Appariva composto e tranquillo come la prima volta che l’avevo visto, come se per lui non ci fosse assolutamente nulla che stonasse in tutta quella situazione che, per me, appariva quanto meno assurda. Forse pensarlo era alquanto stupido, ma avevo come la netta sensazione che quel tipo non fosse lì per una visita amichevole a qualche conoscente infortunato. Se fosse stata l’aria che aveva dipinta in viso, oppure semplicemente a causa del brivido freddo che avevo avvertito nel rendermi conto della sua vicinanza, beh, non potevo saperlo. La sola cosa che sapevo con certezza era che avrei fatto meglio ad andarmene da lì alla svelta.
    Senza perdere d’occhio né lui né tanto meno il suo cane, indietreggiai quel tanto che bastava per mettere una distanza considerevole tra noi, cercando al contempo di trovare una rapida via di fuga  che mi avrebbe permesso di tornare all’ospedale. Lì davanti, però, c’era proprio lui a sbarrarmi la strada. Non avrei potuto sperare di riuscire a svicolare senza che lui mi riacciuffasse in un lampo, se avessi provato a gettarmi contro di lui per raggiungere in fretta l’edificio e chiedere rinforzi. Mi pentivo amaramente di essere uscito, adesso.
    Non persi altro tempo a riflettere, dandogli immediatamente le spalle; corsi con tutta la forza che avevo nelle gambe, ignorando le proteste dei miei polpacci per quello sforzo avvenuto senza la benché minima preparazione. Ma non avevo tempo per pensare a sciocchezze del genere, e il ritmico e prepotente pulsare del sangue nelle orecchie mi dava ulteriore conferma che avrei dovuto svignarmela da lì il più in fretta possibile. Non mi accertai nemmeno se mi stesse seguendo sul serio e se ciò che avevo pensato fino a quel momento fosse soltanto una stupida paranoia, inoltrandomi nell’immenso giardino che costeggiava l’edificio; scansai i rami di qualche piccolo cespuglio prima di gettarmi a capofitto verso i cancelli di ferro, oltrepassandoli alla svelta per dirigermi così oltre il piazzale.
    Con il fiato ormai corto, mi fermai per qualche istante e mi accasciai su me stesso, respirando profondamente dalla bocca per poter riportare l’aria nei polmoni in fiamme e riprendere quella mia folle corsa. Ma non potevo scappare in eterno, dovevo fare qualcosa. Qualunque cosa. L’unico pensiero coerente che stava cominciando a farsi largo nella mia testa, però, era solo quello di chiamare aiuto.
    «Farlo non ti servirà a niente, signor scrittore», replicò tranquillamente Barnes, quasi avesse udito ciò a cui avevo dato voce soltanto nel mio cervello. Mi aveva raggiunto in un lampo e, al contrario di me, non appariva minimamente affaticato; sembrava quasi che non avesse risentito per niente di quello sforzo, come se fino a quel momento non avesse fatto altro che passeggiare tranquillamente in quel giardino. Ad un suo rapido e deciso cenno della mano, il grosso cane che si portava dietro spiccò un balzo e mi atterrò, poggiando le sue enormi zampe sul mio petto e mozzandomi quel poco fiato che ero riuscito a recuperare con così tanta fatica.
    Cercare di togliermelo di dosso fu letteralmente inutile, giacché premette maggiormente contro lo sterno, arricciando il muso per mostrarmi le zanne esangui; ringhiò, facendo sì che dalla sua bocca colasse un rivolo di bava che ricadde sul mio viso, scivolando lentamente lungo il collo fino a perdersi all’interno della maglietta che indossavo. «Che cosa diavolo vuole da me!» esclamai in tono isterico e atterrito, sentendo contro la mia faccia il respiro rovente di quell’animale.
    Barnes sorrise, o almeno così mi parve dalla posizione in cui mi trovavo. «Più di quanto tu creda, Jacob Randall», sussurrò in risposta con tono soave e quasi allegro, indietreggiando senza che io ne capissi la ragione.
    La lingua di quel cane, quasi gli fosse stato appena ordinato, sguizzò fino a leccarmi il collo, e non potei trattenere un brivido di disgusto quando scese fino alla clavicola sinistra, strappandomi con le zanne anteriori la maglia; sgranai gli occhi, allibito, alzando le braccia per affondare le mani nella sua voluminosa pelliccia e tentare ancora una volta di scansarlo via da me, divincolandomi per quanto concessomi dal suo enorme peso.
    Prima ancora che potessi anche solo provare a muovere le gambe, però, il respiro mi si spezzò nel momento stesso in cui le fauci strapparono i lembi di pelle all’altezza del deltoide sinistro. Gridai con tutto il fiato che avevo in gola, allentando la presa e lasciando che le braccia inerti ricadessero sul terreno bagnato dagli innaffiatoi.
    «Complimenti, signor scrittore». La voce gorgogliante di Connor Barnes risuonò alle mie orecchie come una sinistra melodia, le cui note stridenti sembravano rimbalzare senza remore contro le pareti del mio cervello e dilaniare ferocemente quella poca lucidità che mi era ancora rimasta, quasi si fosse trattato di una grossa bestia famelica. «Ha completato il suo ultimo capolavoro... può ritenersi soddisfatto, non le pare?»
    Non risposi. Non potei farlo. Tutto il mio mondo venne risucchiato dal dolore e avvolto dalle mie urla atterrite, mentre le zanne di quel cane affondavano senza remore nel mio corpo e straziavano la mia pelle, spezzando le vertebre con morsi feroci. Potei sentire nelle orecchie il sinistro scricchiolio delle ossa contro il tessuto, lo spasmo violento che mi contrasse i muscoli e il suono viscido delle membra che venivano dilaniate, quasi stessi assistendo a tale scempio anziché subirlo di persona; fu orribile rendersi conto che il calore che avevo cominciato ad avvertire lungo il braccio destro altro non era che il mio stesso sangue, e ancor più terrificante fu riuscire a vedere il momento stesso in cui quel cane, levando lo sguardo fiammeggiante al cielo buio per ululare alla luna nascosta dalle nubi, squarciò ferocemente i miei fianchi con i suoi grossi artigli affilati, strappandomi un urlo più altisonante dei precedenti quando affondò il muso nel mio stomaco, divorando le mie carni e strappando con i denti il mio intestino.
    Spalancai la bocca e reclinai il capo all’indietro, non riuscendo più ad emettere suono. Ebbi solo il tempo di fissare un’ultima volta quell’edificio lontano, quell’edificio che mai come in quel mentre appariva irraggiungibile, prima che le palpebre pesanti sulle quali il sangue si era ormai raggrumato si abbassassero del tutto, oscurando il mio mondo nonostante la sofferenza che ancora provavo.
    Con quel capitolo avevo scritto la parola fine alla storia della mia vita. Il racconto si era concluso.
 



   





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Capitolo 5
*** [ Atto V: Chicago › Luglio, 2010 ] Epilogo inaspettato ***


Tschuess_5
ATTO V: CHICAGO › LUGLIO 2010
EPILOGO INASPETTATO
 
    Il filo di fumo azzurrognolo che si levava dalla sigaretta che reggevo con due dita mi dava una certa soddisfazione. Accanto al mio portatile, avevo abbandonato un bicchiere di bourbon e un piatto contenente uva e pesche, e avrei consumato il tutto non appena finito di fumare per festeggiare la notizia ricevuta poche ore addietro. Il mio racconto, terminato non più di due mesi prima, era stato scelto per apparire in una raccolta di storie stese da vari scrittori esordienti, e la cosa non avrebbe potuto rendermi più felice. Era dai miei quindici anni che aspettavo un avvenimento simile, e adesso, a ventiquattro anni compiuti, quasi non riuscivo a crederci. Era... inverosimile, accidenti. Un sogno diventato realtà.
    Gettai un’occhiata veloce verso la cesta della mia gatta, posta esattamente sotto la finestra per far sì che stesse al fresco; acciambellata pigramente al suo interno, si muoveva di tanto in tanto per cambiare posizione, sbadigliando sonoramente. Lei sì che non aveva preoccupazioni, però era anche un piacere vederla così tranquilla, dovevo ammetterlo.
    Trassi un’altra lunga boccata e sorrisi, reclinandomi all’indietro; stando attento che non cascassi dalla sedia sulla quale ero accomodato, picchiettai ritmicamente con le dita sul bordo della scrivania. Chissà cosa avrebbe detto Josh non appena gliene avessi parlato. Mi aveva seguito per tutta la durata di quella storia in cui mi ero gettato, facendomi da critico ed eliminando lui stesso gli errori di battitura che commettevo nel trascrivere al computer. Io e quello stupido pezzo di ferraglia non eravamo mai andati molto d’accordo - a stento sapevo cosa fosse quello che veniva chiamato “processore grafico”, dannazione -, e l’aiuto di Josh era stato una vera e propria manna dal cielo. Gli avevo sì fatto passare continue notti in bianco - e il poco dormire non c’entrava per niente, dovevo ammetterlo - per quasi tre settimane, ma non si era mai lamentato, sapendo quanto contasse per me riuscire a raggiungere quell’obiettivo che mi ero prefissato anni addietro. E adesso che ci ero riuscito volevo festeggiare in sua compagnia quella mia personale vittoria... magari con spicchi d’arancia e champagne a letto, perché no. In fin dei conti ce lo meritavamo entrambi.
    Non passò molto tempo prima che sentissi la porta dell’appartamento aprirsi, e subito dopo fece la sua comparsa in soggiorno Josh, completamente sudato nel suo vestito elegante. Per il troppo caldo si era tolto la giacca pesante e allentato la cravatta, che adesso pendeva come un serpente finto intorno al suo collo. Faceva l’avvocato, e quell’abbigliamento era praticamente d’obbligo. Poco importava morire di caldo, a quanto sembrava. «È un fottutissimo forno, là fuori». Mi salutò così, senza tanti preamboli né normali “Ciao”. Però ormai non mi stupivo più, anzi, sarebbe stato strano se avesse cominciato a salutarmi con frasi stucchevoli da coppia sdolcinata.
    Mi limitai ad alzare di poco lo sguardo al soffitto, tirando un’altra boccata nociva. «Tra poco ti rinfrescherai come si deve, credimi», ironizzai, riuscendo però a catturare la sua più completa attenzione.
    Si passò una mano fra i corti capelli castani e arraffò un fazzoletto, tamponandosi la fronte  prima di avviarsi verso il divano; con ben poca accortezza, scansò i fumetti di Spiderman e i manga che avevo lasciato proprio lì qualche ora addietro - per lui erano poco più che cartastraccia e non capiva perché sperperassi i miei soldi in quel modo -, lasciandosi cadere pesantemente a sedere. «A meno che tu non riesca a far apparire magicamente un iceberg, c’è davvero poco che possa rinfrescarmi, adesso». Guardò la cesta con la coda dell’occhio, sbuffando prima di arraffare distrattamente una rivista sportiva che era capitata nel mucchio chissà come. «Persino quella palla di pelo sta meglio di me».
    Beh, su quello gli davo ragione. La mia Robin
 [1] stava sicuramente più fresca di noi due messi insieme, sotto quella finestra. Con il tiraggio che c’era, sarebbe stato strano il contrario. «Neanche una doccia con me potrebbe rinfrescarti?» gli domandai sarcastico, gettandogli un’occhiata birichina per valutare la sua espressione. Dapprima scettico e confuso, l’aria stravolta che gli si era stampata in viso lasciò ben presto spazio ad un sorriso malizioso.
    «Oh, Robert, una doccia con te farebbe l’effetto opposto», rispose ammiccando. Poi aggrottò le sopracciglia, come se si fosse appena ricordato di qualcosa. «Dov’è la fregatura?» chiese difatti in tono guardingo. «E’ quasi un mese che non mi proponi cose del genere».
    Mi ritrovai a ridacchiare. «Di’ addio alle notti in bianco, Josh», lo presi in giro. «Da oggi hai davanti a te uno dei dieci scrittori esordienti selezionati per la raccolta “Desideri proibiti e sogni infranti”».
    La sua bocca spalancata in una o muta fu una vera soddisfazione. Sembrava quasi che faticasse a credere a quel che aveva appena udito con le sue orecchie, e come dargli torto? Quella notizia, per quanto fosse felice di quella vittoria che avevo ottenuto con fatica e sudore - e letteralmente, visto il caldo che aveva investito la città negli ultimi mesi -, per lui significava innanzitutto niente più notti d’astinenza e più sesso. Che pervertito di merda.
    Diede libero sfogo alla sua gioia, lanciando in aria la cravatta prima di venire verso di me per afferrarmi, quasi rischiando di farmi cadere con tutta la sedia e di farmi ingoiare quel poco di sigaretta che mi era rimasta. «Ma è meraviglioso!» esclamò raggiante, prendendo la cicca con due dita per spegnerla lui stesso nel posacenere. Il suo grido disturbò Robin, che aprì gli occhi e, soffiandoci contro con ben poco garbo, miagolò, tornando però ben presto ad acciambellarsi senza più prestarci attenzione, decidendo di lasciare noi poveri esseri umani alle nostre faccende.
    Josh l’aveva appena degnata di una rapida occhiata, ignorandola immediatamente per guardare me negli occhi. «E tu che credevi che non sarebbe piaciuto a nessuno!» Già, gli avevo riempito la testa di preoccupazioni per timore della critica, giacché non ero mai stato pienamente convinto delle mie capacità. E non lo ero tuttora, per quanto fosse stato solo per merito di Josh se ero andato avanti nella stesura, altrimenti non avrei mai completato il racconto. Il suo incoraggiamento era servito davvero allo scopo. «Come hai deciso di chiamarlo?»
    A quella sua domanda, sorrisi radioso e mi sporsi per sfiorargli le labbra con le mie, così che potesse assaporare l’aroma della sigaretta, per quanto lo detestasse. Gli cinsi poi i fianchi con entrambe le braccia prima di sussurrare al suo orecchio, con tono provocante e vagamente malizioso: «Tschüss, Faust».




TSCHÜSS, FAUST
FINE
 
  


   

[1] Piccolo omaggio - egoisticamente voluto - a Nico Robin, personaggio facente parte del manga “One Piece” di Eiichiro Oda.
Non viene tra l’altro accennato nella storia da nessuna parte, ma è anche uno dei manga gettati nel mucchio insieme ai fumetti della Marvel.





_Note conclusive (E inconcludenti) dell'autrice
Questa storia è stata scritta per il contest “Origami di cartaindetto da Fe85, e si è classificata Prima su quattordici storie, il che è una vera soddisfazione, visto che non me lo sarei mai aspettata.
È stato un vero piacere scriverla, sul serio. I luoghi presenti nella storia, comunque, non sono inventati proprio perché ci tenevo ad essere il più precisa possibile su una città realmente esistente. Bar, pub, caffetterie e ospedali, dunque, sono frutto di parecchio tempo speso nel cercarli.
Mi auguro comunque che si sia capita la fine, anche se per non rischiare la spiego lo stesso, visto che in questo periodo sono un tantino confusionaria. Allora, in parole povere la storia raccontata nei precedenti quattro capitoli - ed ambientata a St. Louis - altro non era che un racconto scritto da Robert, il reale protagonista e scrittore. Ma credo che si fosse capito anche senza spiegazione, no? Comunque sia, Jacob era l’unico a poter vedere Connor, in quanto frutto della sua immaginazione per quanto fosse in realtà una sorta di demonio con cui, inconsapevolmente, aveva stretto un accordo. E alla fine quel patto gli è costato per l’appunto la vita.
Spero comunque che la storia sia in qualche modo piaciuta, e ne approfitto per fare pubblicità alle storie Oceani in burrasca e Karyūkai: il mondo del fiore e del salice
Alla prossima. ♥





_My Pride_




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