Secrets

di Oscar_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Bon voyage! ***
Capitolo 2: *** Memories and changements ***
Capitolo 3: *** News ***



Capitolo 1
*** Bon voyage! ***


Secrets






1. Bon voyage!





Holmes non era un tipo che amava viaggiare. Anzi, di suo preferiva starsene comodamente seduto in poltrona, a leggere un libro dei pochi che avevano attirato la sua attenzione. Eppure, a tratti, veniva convocato addirittura all’estero. Precisamente, la sua fama si era estesa fino in Oriente. Ed era giunta in Afghanistan, un nome alla cui pronuncia il dottor Watson aveva rabbrividito. Letteralmente.
« Sherlock, è proprio necessario andarci? » Domandò timoroso, già per la terza volta in un giorno. L’altro sospirò, chiudendo momentaneamente gli occhi. Poi li riaprì, puntandoli in quelli scuri del compagno.
« Non sei obbligato a venire, John. Sebbene abbia effettivamente un gran bisogno della tua presenza medica, posso trovare un sostituto. Non voglio costringerti. » Parve quasi che gliele avessero strappate di bocca, quelle parole di sostegno e conforto. E a John, ciò di certo non sfuggì.
« Non ti ci lascio andare da solo. » Si limitò a dire, per concludere il discorso. Poi finì la cena nel piatto rapidamente, troppo rapidamente.
La notte fu la parte peggiore. Specialmente quella che precedette il giorno della partenza. “Non sei obbligato a venire”. Quella frase gli rimbombava nella mente. Era chiaro che il tono che aveva utilizzato era quasi di sfida. Una maniera per convincerlo a seguirlo anche quella volta, anche in quell’impresa. Come aveva sempre fatto. Eppure c’era qualcosa, nascosto nel profondo del suo cuore, che lo martellava incessantemente, urlandogli di non andare, di dissuadere anche il compagno e di rimanere là a Londra, a risolvere casi “semplici” e non dedicandosi ad altro per il resto dei loro giorni. Che bisogno c’era di spingersi così lontano? A nessuno dei due piaceva viaggiare. Ma, se Sherlock aveva accettato, c’era certamente un secondo fine. Il caso, probabilmente, l’aveva già mentalmente risolto senza esitazioni. Forse sperava di trovare Moriarty. Non ne aveva idea. Ogni cosa a suo tempo, si ripeteva, tentando di chiudere occhio senza risultato.
 
Il sole giunse troppo in fretta. Lo svegliò brutalmente, penetrando attraverso le imposte socchiuse. Si alzò imprecando, massaggiandosi il capo stancamente. Che ora poteva essere? Probabilmente le sette o poco più tardi. Un improvviso pensiero lo fece sobbalzare. Alle otto avevano l’aereo. Rischiando più volte d’inciampare nel tappeto, raccattò le poche cose che gli potevano essere utili, infilandole alla rinfusa in una vecchia e logora valigia di cuoio che da sempre lo accompagnava in ogni spostamento. Guerra compresa. Avrebbero condiviso quell’esperienza, si ritrovò a pensare. In seguito scosse il capo, vestendosi a casaccio. Corse al piano inferiore trascinando il bagaglio, lasciandolo in prossimità della porta. Non udì alcun rumore. Che Sherlock fosse già uscito? No, non l’avrebbe mai fatto. Chiamò il suo nome a gran voce due o tre volte, richiamando l’attenzione della signora Hudson che, in palandrana e pantofole, gli si avvicinò perplessa, scrutandolo assonnata.
« Oh caro dottor Watson, Sherlock è uscito presto stamani! Non so dove sia andato, ma aveva una valigia. Sì, come quella vicino alla porta, ne sono certa. Mi ha salutato rapidamente e mi ha annunciato che si sarebbe assentato per qualche giorno. Non ha aggiunto altro ed è uscito piuttosto di fretta. Ma sarà stato giusto una mezz’ora fa! » John non ascoltò altro. Era uscito senza di lui. Era partito senza di lui. La prima cosa a cui pensò, fu chi aveva scelto come sostituto. Lestrade gli sembrò il primo candidato adatto. Corse fuori dall’appartamento, senza nemmeno lasciar concludere alla padrona di casa di parlare.  Chiamò un taxi, rischiando di farsi investire, e gli ordinò di dirigersi a Scotland Yard. In pochi minuti si trovò alla meta. Scese in tutta fretta dall’abitacolo, lasciando una mancia esagerata all’autista. Percorse a perdifiato ogni rampa di scale; attendere l’ascensore gli avrebbe fatto perdere troppo tempo. Senza far caso all’educazione, piombò nell’ufficio dell’ispettore, ansimando per l’estenuante corsa. E lui era lì. Egli alzò lo sguardo perplesso, aggrottando la fronte nel vedere proprio lui, “il cagnolino di Sherlock”, come lo definivano alcuni poliziotti.
« Salve John, posso aiutarti? Sherlock ti ha mandato a chiamarmi? » Chiese Lestrade, con una punta di speranza nel tono atono. John si sedette su una sedia lì vicino, tentando di controllare il fiato pesante per la corsa e per un dubbio atroce, che lentamente si stava facendo spazio nella sua testa. L’ispettore, accorgendosi che qualcosa non andava, si avvicinò all’uomo, posandogli una mano su una spalla, mutando lo sguardo speranzoso in uno alquanto preoccupato.  « John? Che succede? » Mormorò, cercando gli occhi dell’altro senza successo.
« Sherlock... Lui ha... È... » Non riuscì a formulare una frase di senso compiuto, alimentando maggiormente la preoccupazione dell’ispettore.
« Senti, andiamo a prendere un caffè, okay? Poi mi racconti che è successo a Sherlock...» Propose l’uomo, cercando di sorridere. Era evidente la preoccupazione sul suo viso, per quanto si sforzasse di celarla. John non aveva voglia di prendere nessun caffè. Non aveva voglia di raccontare all’ispettore l’ultima pazzia di Sherlock. Voleva solo svegliarsi da un brutto sogno, ciò che credeva che la realtà fosse. Eppure, si lasciò condurre al bar poco lontano. Svuotò il sacco all’uomo, quell’uomo che Sherlock criticava sempre per la sua incompetenza ma che, in campo sentimentale, sembrava sapere molto più di chiunque altro. Con poche parole riuscì a rassicurarlo, facendo esempi su bravate passate dell’uomo in questione, narrando di esperienze ben peggiori ed ancora più pericolose. E poi, la guerra era finita, no?
 
« Se hai bisogno d’altro chiama pure, tanto siamo a corto di casi, per il momento. » Invitò Lestrade, mostrando un sorriso tranquillo e sereno, che infuse relax al dottore, estremamente nervoso.  Lo osservò sparire lentamente nell’oscurità serale. Gli aveva tenuto compagnia tutto il giorno, chiacchierando del più e del meno per distrarlo e colmare quel vuoto causato dall’assenza di colui che li legava in un rapporto unicamente lavorativo.  Ci sapeva fare con le parole. Molto più che col suo mestiere, avrebbe aggiunto Sherlock. Non una volta aveva provato a telefonargli. Evidentemente il caso l’aveva rapito più di quanto poteva immaginare.
Tornò all’appartamento di Baker Street verso le sei di sera, abbandonandosi al divano a peso morto. Prese il telefono tra le mani e lo osservò al lungo, forse aspettando qualcosa. Non successe nulla. Si decise a farlo succedere lui. Scorse la rubrica fino al numero del compagno d’indagini, indugiando qualche minuto e rimuginando sulle possibili situazioni in cui l’avrebbe colto. Poi premette il tasto di chiamata, portando il cellulare all’orecchio. Uno squillo. Due. Tre. Troppi. Infine silenzio. Chiuse la chiamata con un sospiro affranto, ripetendosi che, probabilmente, l’aveva solo preso in una delle molteplici situazioni che aveva ipotizzato, niente di più e niente di meno. Non c’era assolutamente di che preoccuparsi. Eppure tremava, osservando le sue cose. Eppure ansimava, fissando il suo armadio quasi sgombro. Eppure si sorprese a versare una lacrima, nel constatare che i suoi vari esperimenti stagionavano ancora in cucina, fra il comune cibo, benché la signora Hudson l’avesse ammonito più volte a riguardo. Non sapeva che fare, per la seconda volta nella vita. E la prima era giunto lui a soccorrerlo. Chissà se sarebbe giunto anche quella.
 
Non era semplice abituarsi all’assenza di Sherlock. Senza le sue battute pungenti, i suoi passi frettolosi per la casa, le sue sonate col violino in piena notte, era davvero difficile continuare la vita di sempre. A distanza di due giorni senza sue notizie, John fu sul punto di raggiungerlo, benché non avesse idea di dove trovarlo una volta sceso. Ma, come sempre, ci pensò lui a sconvolgere tutto.
La terza notte senza sue notizie, il cellulare del dottore squillò, destandolo da un sonno agitato e nervoso.
« Pronto...? » Rispose assonnato e stordito da un incubo in cui si ritrovava a fare da marito a Moriarty. Il suo subconscio almeno possedeva senso dell’umorismo.
« Ciao John. » Mormorò solo una voce a lui ben conosciuta, che lo svegliò completamente.
« Sherlock... » Mise qualche secondo a realizzare d’essere sveglio e di non starsi immaginando tutto. « Tu... Brutto bastard- »
« Scusa. Ti prego di perdonarmi. » E con quella frase solamente, lo zittì. John attese in silenzio qualche secondo che aggiungesse altro. Pretendeva di più, che continuasse a implorare perdono; si rese conto di risultare ridicolo e sospirò, socchiudendo gli occhi.
« Stai bene, almeno? »
« Sì. » Risposte secche, tono quasi indifferente. Una punta di nostalgia, o forse stanchezza.
« Senti... Perché...? » Sussurrò John, mordendosi il labbro inferiore senza concludere il quesito, lasciandolo lì a destare dubbi.
« Il tuo sguardo mi ha dissuaso a trascinarti. Nient’altro. Anche tu stai bene? » Chiese, con lo stesso tono usato nelle precedenti frasi. Un fastidioso brusio disturbava la linea.
« Starei meglio se ci fossi anche tu... » Lasciò cadere, osservando con la vista offuscata da lacrime di rabbia il cielo tempestato di stelle. Si domandò se anche lui stesse guardando quello stesso cielo. O se lì si vedesse in maniera differente, come aveva l’impressione che fosse durante la guerra, mentre rammentava il paesaggio londinese che scorgeva dalla sua pensione che tanto gli mancava e a cui tanto ambiva di far ritorno. Un sospiro lo ricondusse alla realtà.
« Non ci metterò molto, non preoccuparti. Ah, ora devo andare. Ti richiamerò. A presto. »
« Chi hai portato come mio sostituto? » Sapeva che aveva sentito e che aveva capito la domanda. Eppure, qualche istante dopo, lo scatto del telefono lo lasciò solo con un mare di pensieri, in cui poco dopo annegò.


***
 
Salve gente! Non ho mai pubblicato qui e credo che non susciterà la vostra attenzione questa piccola bozza di idee... Ma considerate che sono ancora alle prime armi! Comunque mi auguro che lasciate un commento, anche per urlarmi che sono andata OOC. Ah! Perdonate i capitoli brevi, sono un po' a corto d'ispirazione al momento, ma ci tenevo ugualmente ad iniziare questa storia. Poi, se mi date una mano, allungo il brodo ;)
Al prossimo capitolo, se ci sarà!~

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Capitolo 2
*** Memories and changements ***


Secrets






2. Memories and changements





Come facesse a continuare la vita ordinaria senza praticamente uno straccio di notizia del compagno d’indagini, era poco chiaro anche a lui medesimo. Le ore e i giorni scivolavano lenti lungo un ritmo che non aveva tracciato. Passava intere giornate da solo, in casa, fissando il soffitto, attendendo qualcosa che non arrivava mai. Mangiava poco e male, non usciva. La signora Hudson più volte l’aveva paragonato a Sherlock. E quelle allusioni altro non facevano che alimentare la sua tristezza.
Una tarda mattinata, a distanza di due settimane dalla partenza del coinquilino, si decise a uscire. Si fece una bella doccia, si rase la barba, indossò i suoi miglior vestiti ed adottò la sua più convincente espressione d’indifferenza. Volle fare un giro a Scotland Yard, chissà che non vi avrebbe trovato proprio Sherlock, a litigare con Anderson o con chiunque altro avesse urtato le sue opinioni, palesemente esatte.
Mosso il primo passo nel grande edificio, la suoneria del cellulare lo destò dai suoi pensieri. Il nome sullo schermo lo fece sussultare. Voltò le spalle al chiasso regnante sovrano nella stazione di polizia ed uscì nuovamente, col cuore in gola. Il perché di tutta quell’agitazione era un altro conto.
« Pronto? » Rispose nervoso, torturando uno dei bottoni della giacca.
« Ciao John. » Sempre la stessa risposta. Sempre lo stesso tono. « Ti ho disturbato? »
« No, non facevo niente di particolarmente interessante. » Che conversazione stupida, pensò il dottore. Ma era già tanto se riusciva ad averne una.
« Se non è nulla di interessante, come mai sei a Scotland Yard? » Quella domanda gli fece perdere la parola per qualche secondo.
« Per noia. Pura e semplice noia. Ma come hai...? »
« Sento il fruttivendolo che urla e le porte automatiche dell’edificio. » John rimase interdetto, benché dovesse esserci abituato.
« Okay, la prossima volta non te lo chiederò. Senti, mi vuoi dire chi hai portato con te al posto mio, per favore? » Si decise a domandare, mordendosi immediatamente dopo il labbro inferiore. Una pausa gli fece credere che la chiamata si fosse interrotta, tanto da portarlo a controllare più volte il display del cellulare. Forse sarebbe stato meglio che fosse caduta la linea.
« Non ho portato nessuno, sono venuto da solo. Ora vado, ci sentiamo. »
« Aspetta! » Stranamente non udì lo scatto della conclusione della chiamata. « Stai... Stai bene? » Si sentì un idiota ad avergli chiesto una cosa simile. Ebbe l’impressione che all’altro capo del telefono, Sherlock stesse sorridendo.
« Sì, non preoccuparti. Mi sembrava di avertelo già detto. » John annuì; realizzò qualche istante dopo d’aver fatto una cosa sciocca, visto che l’altro non c’era.
« Hai ragione. Beh, allora a presto. » Sembrò più cupo di quanto non volesse apparire. Non ebbe risposta, solo la conclusione della chiamata e le parole atone del compagno d’indagini lo accompagnarono negli uffici caotici della stazione di polizia. Si sentì più solo che mai.
 
« Oggi ho fatto le pulizie, dottor Watson, e ho trovato questo... » Accolse John la signora Hudson, mostrandogli un quaderno scuro dall’aria logora e vecchia. Egli lo scrutò perplesso, indeciso se prenderlo tra le mani o meno, col sentore che se l’avesse sfiorato, esso gli si sarebbe frantumato fra le mani. « Non ho mai frugato nella roba del signor Holmes, ma siccome accumulava parecchia polvere ho deciso di- »
« Certo signora Hudson, non penserei mai che è un’impicciona. Questo, se non le spiace, lo trattengo io. » Propose il medico, prendendo finalmente tra le mani l’oggetto, che aveva tutta l’aria di essere un diario. Anche se aveva la certezza che Sherlock non ne scrivesse. Si avviò al piano superiore, con tutta l’intenzione di iniziare a leggere quel piccolo reperto misterioso. Si sedette sulla poltrona su cui solitamente sostava Sherlock, aprendo il quaderno e leggendone l’appartenenza.
“Diario di Sherlock Holmes”, dettava la prima riga in alto a sinistra. In seguito c’era segnato un indirizzo in cui John rammentava sorgesse un’industria. Voltò pagina ed iniziò a leggere, assolvendosi totalmente nella scrittura netta e precisa del compagno d’indagini.
 
15-3-1986
 
Caro diario,
Non mi piace lasciare tracce di quello che penso e che faccio, ma i miei genitori hanno molto insistito a riguardo, commentando che certamente mi avrebbe giovato trattare dei miei pensieri in questo determinato periodo della mia vita. Ma a me questo periodo pare uguale al resto. L’unica cosa che cambia è che lui è partito. Sto parlando di Oskar, quel ragazzo che ho conosciuto l’anno scorso quando siamo andati a Dublino per il pic-nic del primo maggio. È andato in Afghanistan con la famiglia. Papà e Mycroft dicono che non lo rivedrò più. Ogni volta che quello stupido di mio fratello me lo ripete, gli rinfaccio tutte le cose che ha accidentalmente distrutto, ovviamente davanti alla mamma, così lo sgrida. Mi domando come faccia a condividere dei geni con quello lì, è insopportabile. Mamma e papà dicono che per avere dieci anni mi comporto troppo da adulto; mi dicono sempre che dovrei uscire a giocare come gli altri bambini e non stare in casa a leggere come fanno i filosofi e gli intellettuali. E se io volessi essere uno di loro? Hanno una mente così chiusa, mamma e papà...
 
20-3-1991
 
Caro diario,
È passato molto tempo dall’ultima volta che ti ho scritto, precisamente cinque anni e cinque giorni. Il cinque è il numero della data di nascita di Oskar. Oggi l’ho sentito di nuovo dopo tanto tempo. Dice che si trova bene laggiù, ma nell’ultima lettera ha scritto che gli manco. Mi manca anche lui, a dire il vero. Peccato che non ci sia la possibilità di rivederlo.
A scuola vado benissimo, dice papà, ma quelle materie sono noiose, specialmente la letteratura. Che bisogno c’è di studiare le vite di tutti quegli autori se sono morti? Le opere che hanno lasciato? Le trovo futili e noiose. Piuttosto mi piace la chimica. Ho già letto tutto il libro. Ho anche chiesto al professore di prestarmene uno dei suoi, ma ha detto che è troppo complesso per me. Allora gli ho disegnato delle formule da università alla lavagna e lui è sbiancato, mormorando che ci avrebbe pensato. Sto ancora aspettando.
 
7-10-1995
 
Caro diario,
Non riesco ad essere continuo nello scriverti, abbi pazienza. Soprattutto ora che ho cambiato casa. Papà e Mycroft erano diventati insopportabili, fortunatamente ho compiuto diciott’anni, perciò posso andare dove voglio. I soldi non mi mancano. All’insaputa di tutti ho accettato tempo fa un impiego come “professore” di ripetizioni in chimica e matematica. Ha fruttato molto ed ora ho un bel gruzzolo. Mi sto dedicando al lavoro come libero professionista in campo investigativo, inizio a credere di poter aiutare Scotland Yard visto che straccio le loro teorie scritte sul giornale in pochi secondi. Penso che presto ci farò un salto.
Ho smesso di ricevere lettere da Oskar, dice che sono tempi difficili e che non c’è abbastanza carta nemmeno per soffiarsi il naso. Io attendo, scrutando ogni giorno il furgone del postino che indugia davanti al mio indirizzo e poi riparte, dopo aver consegnato qualche bolletta ai vicini. Sono tempi difficili anche qui.
 
29-9-2011
 
Caro diario,
Possibile che non riesca a scriverti una pagina almeno due volte all’anno? Il punto è che ormai sono troppo impegnato, le indagini mi rubano molto tempo, se non tutto. Ti ho ritrovato in mezzo ai libri dopo il trasloco, eri sotterrato sotto il tomo di chimica. Ora il tuo volume è almeno due volte inferiore a prima.
Ho trovato un individuo che vuole convivere con me nell’appartamento di Baker Street. Ci siamo trasferiti proprio l’altro giorno. È una persona simpatica, un dottore sulla quarantina, ex militare. Lo trovo una persona un po’ insicura, molto legato al passato e ai ricordi. Ma con ciò non intendo criticarlo. È il tipo di persona a cui è difficile mentire, ti basta guardarlo negli occhi e ti viene automatico confessare la verità.
Ho ricevuto un’altra lettera di Oskar dopo tantissimi anni. Scrive che la guerra li sta distruggendo, che sono agli sgoccioli e che non gli rimane praticamente nulla. Ho deciso di andare a fargli visita. Non porterò il mio coinquilino, credo, lui ha combattuto proprio su quel fronte, sarebbe da insensibili costringerlo a rivedere quei luoghi. Andrò da solo, in fondo l’ho sempre fatto fin’ora.

 
Conclusa la lettura del “diario” verso l’una di notte, il dottore si appisolò, sognando Sherlock e Oskar seduti sulla riva del fiume dentro cui tanti suoi compagni erano annegati in guerra, immaginandoli sorridenti che si tenevano la mano, indifferenti a tutto e a tutti.
 
Il risveglio fu più duro dei precedenti. Non fu la luce a svegliarlo, ma la signora Hudson che preoccupata piombò nel salone, ansimando. Dovevano essere più o meno le sei del mattino.
« Dottor Watson! Mi rincresce destarla dal sonno, ma ho una notizia terribile da darle! » Siccome John rimaneva stordito e parzialmente incosciente, la padrona di casa si decise a dargli il movente di quella così tremenda notizia. « Riguarda il signor Holmes. » E subito il medico sussultò sulla poltrona, guardandosi attorno, sperando forse, ancora mezzo addormentato, di scorgere la figura longilinea a lui tanto conosciuta. Ma non scorse nessuno all’infuori della signora Hudson.
« Che... Che è successo a Sherlock...? » La donna non prestò attenzione alla confidenza che certamente regnava fra i due. Prese un lungo respiro e, dopo essersi sistemata nervosamente i capelli, si decise a raccontare.
« In Afghanistan è scoppiata una bomba, di recente, una grossa bomba. E io... Ultimamente ho sentito dalle sue conversazioni con l’ispettore quand’è venuto qui, e mi rincresce d’aver origliato, che il signor Holmes si trova proprio lì! Perciò mi sono preoccupata e, insomma, mi sembrava giusto avvertirla... » John balzò in piedi, sistemandosi alla bell’e meglio i capelli e tirando fuori da un ripiano piuttosto celato tutti i suoi risparmi. Sarebbero bastati a comprare due biglietti per l’Afghanistan, uno d’andata e uno di ritorno. Sospirò, indeciso sul da farsi. Poi, mordendosi il labbro così forte da rischiare di farlo sanguinare, annunciò rapidamente la partenza alla signora Hudson e corse fuori, dopo aver recuperato la valigia fatta due settimane prima, ancora intatta affianco all’ingresso. Era veramente troppo. Sherlock avrebbe potuto esprimere il suo disappunto quanto voleva, avrebbe trovato pane per i suoi denti. Come gli era saltato in mente di andare da solo in un posto del genere? Poi con ancora la guerra in corso! Sarebbe stato lui a strillargli, non il contrario.
In pochi minuti raggiunse l’aeroporto, comprando il primo biglietto buono per la meta prevista, benché fosse in seconda classe e il volo non fosse della miglior compagnia. Salì sul mezzo e si sedette. Fortunatamente esso non impiegò molto a partire. Gli era andata bene.
 
“Si pregano i signori passeggeri di non muoversi dalle proprie postazioni, stiamo per atterrare”, annunciò la voce della hostess dagli altoparlanti dell’aereo. John si guardò attorno, stordito dal sonnellino appena schiacciato. Il paesaggio che scorse dal finestrino lo fece rabbrividire. Dopo così tanto tempo era tornato lì, al fronte. Ma non per combattere né per medicare, stavolta. Solo per recuperare una certa persona e fargli un bel lavaggio del cervello.
L’aereo atterrò poco dopo. L’aria che si respirava lì, era sostanzialmente differente da quella di Londra. Sapeva di polvere da sparo e odio. Quanto avrebbe voluto che fosse solo un incubo. Quanto gli sarebbe piaciuto trovarsi ancora all’appartamento di Baker Street, a discutere con Sherlock riguardo a quanto le casse automatiche del supermercato fossero inutili e dannose per coloro che in precedenza le sostituivano.
Si diede una mossa e s’incamminò per le paludi secche del posto, guardandosi attorno e riconoscendo a tratti dei punti in cui si era nascosto per evitare di farsi sparare. Si ricordò di un giorno in cui l’ufficiale di turno gli aveva detto d’aver udito delle urla in un punto poco lontano; si ricordò di quanto false fossero quelle parole, di come in realtà fossero i fatti, e cioè che v’erano nascoste delle truppe nemiche. Si ricordò di come miracolosamente evitò di finire fucilato. E si ricordò di come, una volta fatto ritorno alla base, aveva sparato a quell’ufficiale.
Senz’accorgersene si fermò in mezzo alla strada sterrata, su cui continuamente passavano jeep con militari o turisti; che razza di persone regredite potevano venire in un posto del genere in un periodo del genere? Cretini, ovviamente. Od aspiranti suicidi. Una delle grandi jeep era sul punto di andargli addosso, quando qualcuno lo spinse sull’erba secca, facendolo tornare padrone dei propri pensieri, in parte. Alzò lo sguardo verso il salvatore, constatando che altro non era se non un giovane dai tratti chiarissimi e piuttosto insoliti per uno del posto. Chissà, forse anche lui era un militare. Eppure era così giovane! Forse era inglese. Ma i tratti suggerivano un irlandese. Qualcosa però, gli stuzzicava la memoria in maniera estrema, portandolo a diffidare di quel ragazzo.
« Sta bene, signore? » Domandò il ragazzo, scrutando la figura di John con dei bellissimi occhi verde smeraldo. Quegli occhi erano magnetici. Ma il dottore si concentrò sull’accento del giovane. Aveva ragione: irlandese.
« Sì, non preoccuparti. Ed anzi, grazie. » Rispose John, continuando ad osservare quel ragazzo così particolare che stonava eccessivamente in quel paesaggio misero e desolato. I capelli erano color paglia, un poco sporchi di terra e polvere. La corporatura molto esile, alquanto diffamata all’apparenza. Vestiva con indumenti semplici e quasi poveri. Quando sorrise, al dottore venne automatico da fare lo stesso.
« Un turista o un militare? » Domandò il giovane, alzandosi e porgendogli la mano per aiutarlo. Egli l’accettò, tornando in piedi e ripulendo dagli abiti già logori la terra.
« Diciamo entrambi. Come ti chiami, ragazzo? »
« Oskar, signore. Sono un irlandese in servizio militare. » Non avrebbe potuto rispondergli con termini peggiori. Finalmente capì cosa quei dati gli rammentassero. Quello era il giovane che Sherlock aveva descritto nel diario. Il ragazzo per cui era tornato in Afghanistan, rischiando la vita. Per quell’individuo era andato quasi dall’altra parte del mondo.
Una fredda rabbia lo invase. Abbassò lo sguardo, annuendo impercettibilmente. Oskar lo osservava perplesso, col capo appena inclinato. Forse si domanda se sto bene, pensò John.
« Ottimo, anch’io alla tua età ero in servizio, proprio qui. » Mormorò il dottore, alzando nuovamente lo sguardo e mostrando un sorriso forzato. Oskar ricambiò, lasciandosi andare a una leggera risata.
« E se ha concluso il servizio, come mai è tornato? » John non rispose, fissando in silenzio quei tratti così delicati sul viso del ragazzo. Sembrava così giovane. Eppure aveva già testato gli orrori della guerra. Il suo sguardo era quello di un vecchio. Si immaginò Sherlock che scrutava quegli stessi occhi verdi.
« Mi rincresce, non volevo risultare invasivo... Senta, nei dintorni non sono presenti alberghi di nessun genere, perciò è mio dovere informarla che dovrà albergare con noi in caserma. È chiedere troppo? » Mormorò Oskar, dopo qualche secondo di riflessione. Il dottore scosse piano il capo, abbandonandosi a un sospiro assorto. Sicuramente avrebbe incontrato Sherlock.
Il giovane si avviò rapidamente per il sentiero su cui John stava per essere investito, attendendo che l’altro lo seguisse, cosa che fece poco dopo. In una manciata di minuti giunsero a una grande caserma color verde mimetico, di quelle in cui albergava John tanto tempo prima. Sussultò nel ricordare tutto quell’orrore.
Appena entrati nel luogo, notò con dispiacere misto a perplessità che era vuoto, se non per qualche medico che operava in anfratti molto nascosti. Oskar lo condusse in un lato dove c’erano delle brandine.
« Questa dovrebbe andar bene. Era di un altro soldato, ma ormai sono settimane che non torna, l’abbiamo dato per- »
« Io credo non sia il caso di gettare giudizi. Attendiamo ancora un po’. Per il momento dormirò dove capita, ci sono abituato. » Rassicurò il medico, tornando a mostrare quel sorriso forzato che utilizzava probabilmente per convincere sé stesso.
« Come preferisce... Ad ogni modo, mi è lecito conoscere il suo nome, signore? »
« Mi chiamo Frank Young. » Non seppe bene nemmeno lui perché mentì. Forse non voleva che Sherlock sentisse che era lì. Ma se c’era venuto apposta. A volte era proprio stupido. Il nome usato era quello dell’ufficiale che aveva ucciso. Nel pronunciarlo lo colse un attacco di tosse.
« D’accordo Frank. Dunque si accomodi, per ciò che le è possibile. » Invitò il giovane con un sorriso gentile, allontanandosi verso gli angoli della caserma in cui i medici operavano.
John si domandò se quel soldato che non si faceva sentire da settimane non fosse proprio Sherlock. Ma no, non era possibile. Se aveva azzeccato riguardo al rapporto che c’era fra lui ed Oskar, quest’ultimo certamente sarebbe corso a cercarlo alla minima insicurezza riguardo la sua salute. Si sedette comunque sulla brandina, osservando che non era poi così dura e scomoda come rammentava fosse la sua.
Ora che era lì che avrebbe fatto se non cercare Sherlock per ricondurlo a casa? Aveva forse preso una decisione per nulla? Non ne aveva idea. Non sapeva più che fare. Gli capitava spessissimo di ritrovarsi abbattuto da attacchi d’ansia, come accadde in quel frangente. Gli sarebbe piaciuto avere affianco Sherlock, magari abbracciarlo e rendersi ridicolo più del solito, per una volta. Chissà che non avrebbe risolto qualcosa nella sua vita.


***




Cara gente! Non mi accade mai di scrivere un secondo capitolo dopo un giorno D: Il merito è certamente vostro, complimenti ù.ù Vi ringrazio vivamente per questo sostegno, mi sento molto motivata, continuate così ;) Mano mano allungherò i capitoli, come avete notato, tutto dipende dalla piega che le idee prendono. Continuate a recensire, anche per criticare o puntualizzare, siete i benvenuti.
Al prossimo capitolo!~

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Capitolo 3
*** News ***


Secrets






3. News




Era sempre stato abituato ad andare in ricognizione da solo, in periodo di guerra. I dispersi erano tantissimi e, per quanto si sperasse il loro ritorno, era inutile andare a cercarli, si sarebbero solo sparpagliati altri uomini utili al fronte. Perciò la richiesta di Oskar non lo stupì di molto.
« Ascolti Frank, mi piacerebbe essere sincero con lei: Non abbiamo molti uomini come avrà notato, la maggior parte sono a combattere qui intorno. Siccome ci è arrivata la segnalazione da una spia che uno dei generali nemici si trova proprio nelle vicinanze, abbiamo radunato tutti i migliori componenti in una squadra, che però non rientra da almeno una settimana. » John si domandò se in quella squadra vi fosse compreso anche Sherlock; al solo pensiero rabbrividì. « Vorremmo mandare qualcuno in ricognizione e lei ci pare l’uomo più adeguato: preciso, rapido, che sa camuffarsi ed ha esperienza. » A quelle parole alcuni dei soldati presenti annuirono con vigore. Il dottore si domandò a quale eclatante azione fosse dovuta quella fiducia, poiché non rammentava che nei precedenti due giorni si fosse comportato in maniera così bizzarra. Certamente escludendo il fatto che non aveva risparmiato un angolo della caserma alla sua ricerca di Sherlock; il tutto però, si era rivelato vano. « Che ne dice, possiamo contare su di lei per avere nuove sull’attuale situazione? » Domandò con un mezzo sorriso Oskar, che in quell’ultimo tempo era divenuto il suo migliore amico. Dopo un attimo d’esitazione John ricambiò il sorriso, annuendo appena, destando la gioia ed il sollievo generale. Ma certo, pensò, mi mandano nelle fauci del lupo visto che sono appena arrivato.
 
Il piano che Oskar gli illustrò quel pomeriggio era sostanzialmente semplice. John doveva spingersi il più lontano possibile dalla base e giungere in prossimità degli accampamenti nemici, la cui posizione loro non erano a conoscenza ma che certamente sarebbe poi saltata ad un occhio così agile; tutti quei complimenti servivano solo ad alimentare il suo sconforto. In seguito doveva individuare il generale nemico e farlo fuori con un sol colpo. Erano anni che non imbracciava più una pistola o che metteva in spalla un fucile. Tutto quel piombo addosso era come trasportare l’intero mondo. Il peso morale era più o meno equivalente.
Oskar gli diede delle informazioni per riconoscere il generale: scarponi di cuoio nero, giaccone del medesimo colore, lungo, cappello militare calato fin oltre la fronte ed un anello all’indice sinistro. Non fu necessario specificare la fattura del suddetto oggetto, in fondo nessun altro si azzardava a portare gioielli in tempo di guerra, anche le fedi erano state accuratamente riposte in luoghi nascosti o semplicemente lasciate a casa. John si domandò cosa simboleggiasse quell’anello.
Durante quella stessa notte si mise in cammino. Doveva arrivare prima dell’alba e studiare i movimenti nemici. Se l’avessero scoperto od avessero avuto anche il minimo sospetto sulla sua presenza, avrebbe potuto dirsi spacciato. Inoltre il saluto che Oskar gli riservò fu come un addio; forse peggio. Tuttavia c’era abituato. La maggior parte delle volte nessuno credeva in lui né nelle sue capacità. Alla fine era quello che resisteva più di tutti, invece.
 
Il gelo della notte gli sferzò il volto con violenza, una volta che si fu addentrato nel fitto del bosco. Benché l’Afghanistan non presentasse particolari vegetazioni, in quel determinato punto erano presenti vari esemplari di piante e boscaglia. Affondò i piedi più volte in buche e fosse varie, la maggior parte per via di mine rimosse tempo addietro; ma ogni volta ebbe il terrore d’aver incappato in una trappola. Per di più non era munito di torce o altri tipi d’illuminazione artificiale, Oskar aveva assicurato che se ne sarebbe accorto chiunque. Perciò era costretto a brancolare nel buio, rischiando di incrociare animali, mine, trappole e persino soldati, spie in agguato come lui, magari persino della sua stessa squadra ma che magari non l’avrebbero riconosciuto. Nemmeno lui avrebbe riconosciuto Sherlock se l’avesse incontrato, si ripeteva inquieto, avanzando a tentoni un passo per volta. Si sentiva ridicolo. Se avesse tentato di fare quella ridicola marcia alla luce del sole avrebbe riso di sé stesso. Ma se avesse aumentato il passo non solo l’avrebbero sentito tutt’attorno, ma avrebbe rischiato d’andare a sbattere contro qualche albero o sasso; il che l’aveva evitato più volte con quella cadenza d’una lentezza quasi esasperante.
Gli unici rumori che lo accompagnavano erano il fruscio dei suoi passi e qualche gufo che a tratti sorvolava la zona. Non udiva spari né altri passi attorno a sé. Il che era da una parte rassicurante, da una parte terribile. Che poteva saperne lui se stava andando incontro a un dirupo? Inoltre non c’erano corsi d’acqua nelle vicinanze, nulla che potesse prendere come punto di riferimento. Ah quanto avrebbe voluto essere rimasto a Londra!
Erano già tre volte che beccava un ramo in fronte, quando un rumore sospetto attirò la sua attenzione. Qualcun altro era lì oltre a lui. Si bloccò immobile, in attesa di qualche altro segnale. Controllò il più silenziosamente possibile d’avere la pistola a portata di mano e, in seguito, si morse le labbra per non respirare troppo rumorosamente. Ma non udì altro che un silenzio tombale. Attese ancora qualche secondo, poi riprese il cammino, ripetendosi che, in fondo, si era fatto suggestionare troppo. Ma non passò un minuto, che il rumore tornò a farsi sentire. Era come essere seguiti, avvertiva passi dietro di sé. Ma anche se si fosse girato non avrebbe scorto nulla, n’era certo. Perciò si fermò ancora una volta, respirando a fondo ma sempre in maniera silenziosa. Socchiuse gli occhi, alzando il capo per cercare le stelle. C’erano nuvole a coprire il tanto amato firmamento. Gli vennero in mente le parole di Sherlock riguardo alla conoscenza del sistema solare: “Cosa cambia a me se la Terra gira intorno al sole o viceversa?”. Sorrise senz’accorgersene. Il rumore si fece sentire nuovamente, stavolta più vicino. Magari è un animale, pensò inquieto. Ma che poteva essere se non qualche topo o tasso? E poi essi non seguivano mai l’uomo, semmai ne fuggivano. Perfetto, mi seguono, si disse rassegnato, estraendo lentamente dal fodero la pistola, senza produrre il minimo rumore. In seguito la puntò alla cieca dietro di sé, stringendo gli occhi. E sparò.
 
Fu certo che lo sparo aveva colpito qualcosa, poiché subito dopo il rumore assordante che la pistola provocò, si udì un tonfo sordo, come di qualcosa che cadeva. John respirò nervosamente, mentre una tempesta di dubbi iniziò ad assalirgli la mente. E se aveva colpito un compagno? Magari mortalmente? Non poteva tornare indietro, era troppo lontano dalla base. Sarebbe morto lì, per colpa sua e delle sue maledette fissazioni. Chissà, magari Oskar aveva deciso d’inviargli rinforzi senza dirglielo, così qualcuno gli avrebbe coperto le spalle. Magari colui o colei, ed era questo a tormentarlo maggiormente, che aveva colpito, stava tentando di avvicinarsi a lui di soppiatto, per avvertirlo di qualcosa o semplicemente aggiungersi a lui.
Dopo qualche minuto di perfetta immobilità, il dottore si decise a fare dietrofront e ad avvicinarsi al corpo della persona colpita. Avanzò piano come per il precedente cammino, anzi, più lentamente ancora. Da una parte preferiva non sapere a chi aveva sparato. Avvertiva un respiro frettoloso dal basso, proprio davanti a sé. Ecco, bravo John, l’hai ammazzato, chiunque egli fosse, si disse terrorizzato, chinandosi e tastando con le mani il terreno umidiccio. Dopo non molto le sue dita sfiorarono del tessuto bagnato. Le mani andarono subito a cercare quelle del moribondo, tastandole e trovando immediatamente l’oggetto del loro interesse: l’anello all’indice sinistro. John sospirò di sollievo, ringraziando il cielo d’avergli fatto ammazzare il nemico e non qualche povero innocente. Ma, un secondo dopo, le sue certezze vennero spazzate via come fuscelli al vento.
« J-John... » L’avrebbe riconosciuta fra mille la sua voce. Profonda, calma nonostante il dolore provato, controllata. La voce di Sherlock. Sperò che il suo cervello gli stesse giocando un brutto scherzo, che stesse unendo la voce di qualche sconosciuto a quella del suo Sherlock. Ma come avrebbe fatto uno sconosciuto a conoscere il suo nome?
« Sherlock... Sherlock, sei tu? » Un colpo di tosse. Un gemito. Un rumore di stoffa che viene strusciata; probabilmente stava mutando posizione.
« Ottima deduzione, dottor Watson... » Nonostante lo stato pietoso della sua voce, da cui John comprese anche il suo stato fisico, aveva ancora voglia di scherzare.
« Che diamine ci fai con l’anello del generale nemico? E, soprattutto, che sei venuto a fare quaggiù senza di me? Cosa ti è saltato in mente, eh?! » Mormorò a voce più bassa possibile il dottore, mordendosi praticamente a sangue il labbro inferiore per trattenere lacrime di terrore in procinto di rigargli le guance.
« Ti spiegherò con calma... Ora, per favore, devi attingere alle migliori delle tue conoscenze in campo medico, estraendo al buio il proiettile che mi hai appena conficcato in una spalla. Fortunatamente non hai mirato alla testa, sennò a quest’ora... » Quella richiesta fece pensare a John che il compagno d’indagini, oltre ad una considerevole quantità di sangue, avesse perduto la ragione. Ma in seguito si disse che, se voleva ancora vederlo vivere, doveva davvero ricorrere a mezzi estremi per medicarlo.
« Con che diamine ti ricucio, poi? Non ci sono né ago né punti di sutura, morirai dissanguato. »
« Per il momento, limitati ad estrarre questa diavoleria dalla mia spalla. In seguito ci legheremo una pezza strappata da qualche indumento e fino alla base dovrei arrivarci. »
« Ma Sherlock! La base è ad almeno un’ora da qui! Non ce la farai mai! » Esclamò sbalordito il dottore, iniziando a tremare involontariamente.
« Non parlo della base da cui vieni tu, sciocchino. Sbrigati a rimuovere questo coso e poi ti spiego a dovere. »
 
Che John ricordi, non fu mai tanto doloroso per lui medicare qualcuno come lo fu medicare Sherlock quella notte senza stelle, la più buia che rammenti. Per estrarre il proiettile dalla sua spalla fu necessario utilizzare un bastoncino qualunque, chissà sporco di cosa, provocandogli almeno una decina d’infezioni che avrebbero potuto essere letali. Ma la cosa più dolorosa fu sentire Sherlock lamentarsi di dolore fisico per la prima e forse ultima volta nella vita. Ogni volta che il bastone affondava un centimetro in più nella sua carne, egli aveva un sussulto, seguito da un gemito che si sforzava di contenere e soffocare, senza troppo successo visto che John avvertiva lo stesso le sue movenze nell’oscurità. Lo sentiva stringere forte tra le mani un pezzo della sua divisa, almeno credette fosse una divisa, ansimare il più silenziosamente possibile. E ciò gli provocava un dolore quasi superiore a quello che aveva e che stava provocando ad una delle persone a cui maggiormente teneva nella sua vita; probabilmente, senza che lo sapesse, quella a cui teneva di più. Non poteva fare piano, poiché ogni momento in cui il proiettile stanziava nel suo corpo poteva essere quello in cui avrebbe raggiunto un’arteria, o una vena, o frantumato un osso. Già era tanto che si fosse fermato in un muscolo. Grazie a Dio non aveva potuto prendere la mira. Senza che Sherlock si accorgesse che lo faceva, versò in silenzio lacrime di rimorso e rabbia, trattenendosi dal singhiozzare.
Appena terminato il duro lavoro, si tirò un poco indietro, sospirando due o tre volte prima di riuscire a proferir parola, con voce così tremula da risultare inumana.
« Va meglio...? »
« Molto, ti ringrazio... » Per quanto si sforzasse di mantenere un tono saldo e fermo, si capiva che aveva sofferto molto negli ultimi dieci minuti, tempo che John aveva impiegato a rimuovere il proiettile, scagliarlo il più lontano possibile e fasciargli la spalla alla bell’e meglio con un lembo di camicia strappato all’ultimo minuto.
« Mi ringrazi? Sono stato io a spararti, Sherlock, non diciamo sciocchezze. »
« Che potevi saperne che ero io? Nemmeno ero certo che fossi tu quello che seguivo... » Sentirlo parlare d’insicurezza era come ascoltare un barbone trattare di geo-fisica.
« Mi dispiace, potrai mai perdonarmi? »
« E tu? » A quelle parole seguì un lungo silenzio. John avvertì, dopo qualche minuto, un rumore davanti a sé, di tessuto che veniva mosso e movimenti sul terriccio. L’udito era il senso che più aveva attivo in quel momento. Non passò troppo tempo che avvertì delle mani toccarlo nel più totale silenzio. Riconobbe i palmi e le dita di Sherlock e non si mosse, respirando nell’oscurità. Poi qualcosa gli si appoggiò al petto. Realizzò poco dopo che si trattava del capo del compagno, che probabilmente era troppo stanco e stremato dall’”intervento” per dirigersi alla base a cui aveva alluso poco prima.
Senz’aggiungere nulla gli posò una mano sulla nuca, stringendolo a sé e sistemandosi meglio sul terreno. Ascoltò il suo respiro farsi sempre più lento, fino a ridursi a un silenzioso fischio appena accennato; ne dedusse che si era addormentato. Sperò che nel sonno non potesse rendersi conto di quanto forte stesse battendo il suo cuore. Né di quanto scioccamente stesse piangendo, senza nemmeno lui sapere perché.
 


***
 
 
Perdono, perdono, perdono (...)! Mi dispiace tantissimo per l’increscioso ritardo, è che è uscito di recente l’ultimo libro di Zafón e ne sono stata totalmente trascinata, non avevo ispirazione. Questa idea stramba è uscita sull’autobus, osservando degli anelli addosso ai passeggeri; ma ciò non è di vostro interesse. Grazie per aver letto fin qui e grazie per le aggiunte e le recensioni, apprezzo davvero tanto (: E scusate pure per la lunghezza scarsa di questo capitolo! È che proprio non avevo molta voglia di scrivere ma, se non l'avessi fatto, avrei perso la maggior parte dei miei amati lettori ;) Ah! Perdonate per l’orribile errore di cui certamente vi sarete accorti: ho scritto che John aveva combattuto in Iraq e non in Afghanistan! Sono un’ignorantona, perdonate! ;_;
Va bene, vi abbandono. Ci sentiamo al prossimo capitolo, grazie ancora!~

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