Ciao Rexam,
ho letto, letto, riletto, il primo paragrafo. L’ho amato. Descrivi il dolore come se fosse acqua necessaria alla vita, acqua che ognuno di noi deve bere. Lasciano senza fiato, queste parole.
Poi parli dei ricordi, un passaggio meno vibrante del precedente. E ti spiego perché, secondo me, lo è. Questo passaggio sembra una digressione del narratore perché hai cambiato il punto di vista. Parti infatti con una frase generica, assolutamente non calata nella mente di Matthew (come invece hai fatto quando parli del dolore: lì, sembra che sia Matthew a parlare del dolore, qui no). Sono piccoli tecnicismi, chiamali trucchi (anche se non mi piace definirli così), assolutamente non facili da mettere in atto e non così immediatamente comprensibili. Spero di essere stata chiara: disposta, nel mio piccolo, a spiegarti meglio il concetto, nel limite di quanto io possa saperne in merito!
Nel momento in cui, dopo, ti riagganci al personaggio, si riallinea di nuovo tutto, e il nostro eroe si scopre senza ricordi personali. C’è una domanda che nasce da quelle parole: chi siamo se non abbiamo ricordo di noi stessi? Non dici poco, comunque!
E poi, di nuovo, questo Giano Bifronte, questa doppia identità che si ripresenta al lettore, il dubbio di aver vissuto una vita precedente falsa e di essere calato adesso nella realtà. Di nuovo i due opposti, e in mezzo ci inserisci (nuovo elemento) la paura di impazzire del povero Matthew. Sto impazzendo con lui, giuro! O forse sono queste recensioni chilometriche che mi danno alla testa :) Però io, lettore, so che è vivo, e, che sia stato voluto o meno, tu chiudi questo capitolo così come hai aperto il primo, con la presa di coscienza del protagonista di essere “vivo”.
Tinte fosche, sì, hai ragione, ma pulsanti. Vibranti. Niente azioni, qui, né colpi di scena, solo un viaggio della mente, sul margine onirico, come dici tu. E niente angolo della parola, stavolta.
Bravo, Rexam, alla prossima, ciao. |