Kaffee und
Schokolade
TOKYO, 25 AGOSTO
La palla
di fuoco, che era sorta da poco all’orizzonte, tingeva di una calda tonalità di
pesca il cielo che sovrastava la città di Tokyo. Quel crogiolo di vite
frenetiche che si dilagavano per le strade nelle ore di punta, sembrava
lontano. Quasi in una realtà differente.
Prima che
la sveglia cominciasse a trillare insistentemente, Sanae scivolò via dal letto.
Cercando di non svegliare il campione che dormiva profondamente al suo fianco,
raccolse il lenzuolo e glielo sistemò fino a metà schiena. Era ben conscia del
fatto che, al massimo entro i seguenti 40 minuti, sarebbe stato malamente
abbandonato sul parquet chiaro della stanza e lei, al ritorno, si sarebbe
preoccupata di cambiarlo per l’ennesima volta, in quel “breve” soggiorno in cui
le era permesso stare accanto al suo Tsubasa. Quest’ultimo era stato rispedito
dal Brasile per prepararsi alle gare di qualificazione per i campionati
mondiali, che si sarebbero svolte nei mesi a cavallo tra l’estate e l’autunno.
Era così tormentata che uscire di casa e poter non curarsi di fare silenzio,
sembrò averla liberata da un macigno che portava sulle spalle.
Camminava
ansiosa per i corridoi del grande complesso universitario della Facoltà di
Lingue di Tokyo. Dall’agitazione le tremavano le ginocchia e fortunatamente,
aveva optato per un paio di scarpe da tennis anziché per un paio di sandali col
tacco.
In uno
squisito vestitino di denim, si muoveva in modo inquieto per raggiungere l’aula
magna dove, nel corso della mattinata, si sarebbe svolto il test d’ammissione. Prese posto nel centro della sala e
si voltò ad osservare chi fosse seduto accanto a lei.
Lisci
capelli biondo miele, legati in una lunga e morbida treccia, si accoccolavano
sullo schienale della sedia e sulla maglietta rosa antico a giromanica, una
fantasia di fiorellini beige come i semplici sandali a ciabattina che la sua
giovane vicina indossava e la borsetta, appoggiata sui pantaloni alla
pescatora, nella quale frugava agitata all’interno, con un paio di vigili occhi
di mare.
Passate
le tre ore di tempo stabilito, tutti avevano iniziato a consegnare il proprio
operato ad un commissario che aveva già iniziato a ritirare i fogli dalle prime
file. Sanae si alzò di scatto, urtò contro il banco della sua vicina e fece
cadere un piccolo astuccio ricolmo di penne. Si affrettò poi a scusarsi,
abbassandosi e aiutandola a raccogliere ciò che aveva fatto finire per terra.
“Non
preoccuparti”, rispose gentilmente l’altra, allargando un ampio sorriso di
lampone sul visino dai tratti delicati.
Sanae
ricambiò e allungò la mano presentandosi.
La
biondina la guardò divertita, non le era mai capitato di incontrare una persona
così solare e cordiale. “Kathrin”, mormorò infilando l’astuccio nella borsetta,
per seguire poi Sanae che la portò verso un delizioso bar, all’angolo della
strada dove aveva sede l’università. Le aveva proposto di fare colazione dato
che, a causa dell’agitazione, se ne era completamente dimenticata e ora il suo
stomaco cominciava a reclamare.
“Non sei
giapponese, vero?”. Sanae giocherellava con il cucchiaino girandolo e
rigirandolo nella tazza di tè che aveva davanti.
Quella
annuì. “Tedesca. Sono in Giappone da quando mia madre si è dovuta trasferire
per lavoro. Avevo sei anni”.
La mora
la ascoltava affascinata, rapita dalle mosse appena accennate delle sue morbide
labbra. “… allora vivi con i tuoi genitori?”, chiese.
L’altra
sorrise scotendo la testa. “No, sola”. Rispondeva quasi a monosillabi, ma
quell’armoniosa cadenza della voce, stupiva nell’estrema razionalità in cui
veniva dosata.
Sanae
posò la tazza vuota sul piattino e la guardò con occhi sognanti. Doveva dirle
che erano almeno un paio di mesi che stava disperatamente cercando una casa,
magari avrebbe potuto aggiungere che Tokyo era una città davvero affollata e
che i suoi genitori, tipi un po’ all’antica, non le avrebbero permesso di
continuare a convivere con il suo Tsubasa.
“Io non sono di Tokyo. Abito momentaneamente dal mio ragazzo, ma solo
MOMENTANEAMENTE, visto che ai miei, anche se lo conoscono da quando aveva dieci
anni, sembra non essere gradita la situazione”, concluse sconsolata.
Il viso
dell’altra s’illuminò e ponderando le parole disse: “Casa mia è abbastanza
grande e io sto cercando una coinquilina”.
Sanae le
strinse le mani. “Grazie, mia salvatrice!”. Poi aggiunse: “E anche del mio
ragazzo, visto che se non me ne vado da casa sua un giorno o l’altro mio padre
è capace di sgozzarlo”.
Kathrin
abbozzò un sorriso. Mentre la mora avrebbe voluto saltare e ballare per
esprimere tutta la sua felicità, lei sembrava persa nei propri pensieri. Non
capiva perché quella ragazza era riuscita a metterla così a suo agio in poco
tempo, le parve di conoscerla da sempre, probabilmente perché sentiva il suo
carattere così pieno di brio e la sua personalità così allegra e spigliata.
Aprì la borsa, ne estrasse un taccuino di carta di banana e, su una pagina
pulita, appuntò subito sotto la scritta centrale che riportava il nome di
Sanae, qualcuna delle caratteristiche che aveva afferrato a quel loro primo,
fatidico, incontro cercando di non attirare l’attenzione della sua
interlocutrice, movendosi quasi nascosta tra il tavolino e il proprio corpo
snello.
Uscite
dal bar, si diressero verso la stazione affinché Sanae potesse vedere e di
conseguenza accettare o rifiutare la proposta di trasferirsi nella casa in cui
la nuova amica abitava. Il fato era dalla sua parte. Dopo giorni e giorni di estenuanti
ricerche, forse era arrivata la soluzione e davvero non le sembrava possibile.
Scesero un paio di fermate dopo e si ritrovarono in una bella stazione,
illuminata dai caldi raggi del sole di agosto. Kathrin le fece strada, mentre
lei cercava di registrare dei particolari che l’avrebbero poi riportata in quel
luogo anche solo guardando una cartina. Percorsero lentamente un viale alberato
e, sbucate sulla lingua di strada asfaltata che divideva le spiagge dalle
abitazioni, Sanae strabuzzò gli occhi alla vista della zona. Fece un paio di
calcoli e constatò che Tsubasa risiedeva a sole altre due fermate.
La
casetta sul mare dove abitava Kathrin, sembrava un piccolo paradiso terrestre.
Bianca e azzurra, con una scaletta di legno che portava sull’atrio, coperto da
una tettoia e recintato da una staccionata ricolma di vasi e fiori d’ogni tipo.
Intorno ad un basso tavolino di vimini stavano un paio di poltrone e un divano,
dietro al quale si trovava una grossa kenzia verde smeraldo.
Per
accedere alla saletta, si doveva prima aprire una lunga e pulita zanzariera. Un
piccolo corridoio poi, tracciava la strada verso un’altra scalinata alla destra
della quale, sotto un arco spugnato d’azzurro, si presentava un minuscolo
cucinino a tinello. Era composto da una serie di pensili di diverso colore
pastello e una piccola vetrata nella quale infinite pile di piatti, tazzine e
servizi da tè si impilavano l’uno sull’altro ordinatamente. Sulla cappa, una
serie di calamite colorate a forma di orsetto si alternavano dall’alto al basso
e infine, oltre al tappeto con delle api sotto il lavello, un mazzo di fiori
partecipava su un tavolino rettangolare e quattro sedie di plastica degli
stessi colori misti della cucina.
Dall’altra parte dell’arco si affacciavano una scrivania ad angolo,
sovrastata da una serie di mensole ondulate sulle quali si dividevano cd-rom,
videocassette e una lunga collana di libri dalle copertine e dalle forme
diverse; una coppia di divani di pelle giallo pulcino e un basso tavolino di
cristallo tenuto da un sostegno di piastrelle di vetro colorate a spirale.
Dirimpetto a tutto questo, alla sinistra della porta d’entrata, si
trovava una credenza di vetro che ospitava nel centro una televisione
acquamarina con videoregistratore incorporato e uno stereo bluette e grigio
metallizzato al di sotto. Sui tre ripiani ai lati si alternavano fiori,
conchiglie, qualsiasi tipo di ninnolo. Tutto era ordinato e nell’aria aleggiava
la dolce essenza proveniente da uno stecco di incenso alla vaniglia.
Sanae si
guardava attorno come un pesce fuor d’acqua. A bocca aperta deambulava per le
varie stanze e Kathrin la seguiva silenziosamente alle sue spalle. Non
immaginava che l’amica potesse davvero essere rimasta così affascinata della
casetta che aveva riarredato da quando sua madre era tornata in Germania.
Quella casa rispecchiava il suo modo di essere: dolce, ma lontana. I colori
pastello: i suoi occhi e i suoi abiti sempre pieni di minuscole fantasie a
fiorellini o ricamati in modo divertente e delicato al tempo stesso. Il profumo
della vaniglia: l’odore della sua pelle, impregnata perennemente di
quell’essenza che sul momento sembrava troppo forte e poi la sensazione
gradevole che dava alla testa, intensa e dolciastra.
Sanae,
innamoratasi dell’accoglienza che quella casetta da romanzo le aveva offerto,
guardò compiaciuta la nuova amica e tirando gli zigomi sorrise a Kathrin
chiedendo impazientemente: “E… quando posso portare le valigie?”. Accettò,
quasi istintivamente, senza ancora conoscere quella ragazza.
Kathy si
strinse nelle spalle e le mostrò ancora una volta quel disarmante sorriso,
senza aggiungere altro. Le parole sembravano essere estranee al suo mondo, il
suo sguardo, però le surrogava in modo straordinario e Sanae capì il perché dei
suoi riflessi. Kathrin aveva la faccia da brava ragazza, di una di cui ti puoi
realmente fidare e fortunatamente, lei lo aveva percepito a pelle.
TOKYO, 13
SETTEMBRE
I corsi
di specializzazione in lingue straniere, ai quali sia Kathrin che Sanae erano
state ammesse, avevano avuto inizio ormai da tre lunghe e faticose settimane,
lasso di tempo in cui le due ragazze avevano intrapreso la loro tranquilla
convivenza.
Gli orari
che le loro lezioni ricoprivano erano più o meno affini e, con il passare delle
giornate, sembrava che all’interno di quelle candide mura, almeno due giorni la
settimana, fossero dedicati a interminabili e accurate ricerche.
Le
giornate sembravano rotolare una sull’altra. Quando la sveglia di Sanae
trillava sul comodino, lo sportello scorrevole della doccia si richiudeva e
Kathrin ne usciva rinvigorita dalla sua corsetta mattutina, abitudine che le
era rimasta da quando, adolescente, gareggiava nei mille metri che i club di
atletica organizzavano per le scuole della prefettura. Si ritrovavano poi
davanti ad una tazza di tè o uno yogurt per dirigersi dopo qualche minuto alla
stazione che le avrebbe lasciate a duecento metri dalle cancellate
dell’università.
Sanae
stava così imparando ad accettare i lunghi silenzi che di tanto in tanto la
dividevano da Kathrin e quest’ultima a meravigliarsi di riuscire ad aprirsi con
la nuova amica più di quanto avesse mai fatto con nessun’altra. Ne aveva avute
di amiche e anche tante, ma lei era tra le titolari del club di atletica e le
sporadiche ore che saltava nei giorni precedenti alle gare, suscitavano una
terribile invidia nelle sue compagne e preoccupazioni da parte dei docenti,
quietate dal suo discreto andamento scolastico.
Il cordless
trasparente era il compagno di avventure di entrambe.
Un paio di
musei del centro e qualche pinacoteca erano solite chiamare Kathy in casi
urgenti, quando inaspettate corriere di tedeschi comparivano all’orizzonte e
lei, quotata più delle altre ragazze, evitava sempre di rifiutare quelle ore
che i datori le offrivano, riuscendo così a compensare le spese domiciliari, da
qualche tempo dimezzate, e qualche suo piccolo capriccio.
Sanae
invece, era solita passare ore ed ore con il suo misteriosissimo “capitano”
oppure davanti al televisore. Impazziva letteralmente ogni volta che la
nazionale disputava anche e solo una semplice amichevole. Sapeva prevedere in
modo così perfetto come quei ragazzi avrebbero condotto lo scontro, che le
bastava seguire solo pochi minuti per anticipare i loro schemi e riconoscere
con estrema facilità i bizzarri nomi che i calciatori erano soliti assegnare ai
loro portentosi tiri.
E Kathy la osservava senza proferir parola,
senza disturbarla, perché nei suoi occhi brillava una strana luce. Qualche
volta era assalita da sinistri dubbi, ma aveva sempre pensato a particolari
coincidenze e si era convinta del fatto che fosse solo opera del suo cervellino
quello che credeva fosse in realtà l’amica.
TOKYO, 19
SETTEMBRE
Settembre
era giunto agli sgoccioli, anche se le temperature sembravano non accennare a
cambiare la loro media stagionale. Soltanto i soventi acquazzoni turbavano il
clima di fine estate, annunciando l’arrivo imminente dell’autunno.
Sommerse
da una montagna di spessi volumi elegantemente rilegati, le due ragazze stavano
lavorando a testa bassa alternandosi al notebook e ai vari block notes,
straripanti di fitti simboli a matita, che si sparpagliavano per il tavolo
della cucina, sotto la luce del grande lampadario sopra le loro teste e
accarezzate dalla brezza fredda della sera, proveniente da una finestra
socchiusa.
Sanae,
mordicchiando il tappo di una penna, alzò il capo e quando Kathrin, sentendosi
osservata la imitò, chiese titubante: “Kathy… questo fine settimana il mio
ragazzo e i nostri amici riescono a fare una rimpatriata… con le qualificazioni
della nazionale di calcio, Tokyo sarà assediata e siccome vorremmo fare una
mangiata almeno una volta tutti assieme e non credo che sarà fattibile a casa
sua…”.
L’altra
annuiva alle contorte informazioni che Sanae le stava dando cercando di seguire
l’intricato filo del suo discorso.
Quella
fece una lunga pausa e poi si decise a concludere. “… posso invitarli qui?”.
Kathy si
limitò ad annuire, senza aggiungere altro.
TOKYO, 23
SETTEMBRE
Per
Sanae, quello fu davvero un venerdì di fuoco.
Nel
corso della mattinata aveva fatto la spesa e già nel primo pomeriggio, si era
tuffata tra i suoi infiniti libri di cucina per cimentarsi nella ammirevole
arte culinaria trasmessale dalla madre. Erano soltanto le due del pomeriggio e
già sul tavolo erano schierati gli ingredienti che avrebbe utilizzato per dare
vita a succulente portate.
Mentre la
premurosa manager si dedicava al suo passatempo preferito, e dato che la cucina
era ormai diventata suo personale territorio, Kathy l’aveva lasciata sola nel
suo mondo e si era appisolata sul divano con lo stereo acceso, aspettando che
arrivassero le tre per raggiungere il museo civico.
Quando il
telefono squillò sul marmo dietro Sanae, si svegliò di soprassalto e corse a
rispondere in soccorso dell’amica che aveva le mani nella ciotola in cui
impastava un malloppo appiccicoso.
“…sì?”
Kathrin
si bloccò un istante e Sanae si accorse che quella doveva non essere una
telefonata così gradita. La rara espressione cupa che le si era dipinta sul
volto, lo testimoniava. Rifletté, non l’aveva mai vista cambiare atteggiamento
in quel modo e soprattutto così repentinamente. Si era rassegnata al fatto che
Kathy fosse una ragazza introversa, che parlava poco e sorrideva ancora
meno. Comprese che doveva essere
qualcosa di importante perché Kathy aveva iniziato a parlare in tedesco,
liquidando l’interlocutore a lei sconosciuto con poche e taglienti frasi che
non sapeva se fossero così minacciose per il tono o semplicemente per la
pronuncia gutturale di quella lingua. Si era fermata ad osservare
involontariamente la scena. L’impasto appiccicoso le era rimasto attaccato alle
dita e, quando l’amica le passò alle spalle, si riscosse cominciando a sfregare
la farina tra una mano e l’altra.
Kathy
troncò la telefonata afferrando dal frigorifero una lattina di tè. Lo stato
emotivo in cui si trovava sembrava non permetterle di avere il controllo sulle
sue azioni, tremava e, nonostante cercasse di nasconderlo, era ben visibile.
Una maschera, dipinta sul volto tirato da una smorfia di puro disgusto, ecco
cosa sembrava essere diventata agli occhi di Sanae.
Si
accasciò su una sedia e inspirò profondamente. La mora aveva piegato il capo e
la guardava con fare interrogativo. Kathy accennò un gesto con la mano e la
rassicurò. “Mia madre. Non abbiamo mai legato molto, siamo troppo diverse”.
L’amica
annuì cercando di farla proseguire. “Allora ce l’hai anche tu la lingua!”,
disse d’improvviso mentre l’altra inspirò nuovamente e riprese. “Non mi ha mai
permesso di cercare mio padre e non ha fatto altro che parlarmi male di lui,
senza che io ne conoscessi nemmeno il nome. Se potesse sterminerebbe tutta la
razza maschile. Non so cosa le sia successo, non ha mai avuto il coraggio di
raccontarmelo, anche se ne avevo il diritto”.
Sanae non
sapeva che fare. Adesso percepiva una tristezza e una tensione palpabili. Si
sentiva a disagio. “Mi dispiace”, sussurrò.
“Sanae,
sai perché io abito in Giappone? Perché quella pazza di mia madre temeva che un
giorno mio padre sarebbe venuto a cercarmi. Avevo compiuto sette anni da poco
più di una settimana e sai quale regalo di compleanno mi ha fatto? Un
trasferimento improvviso, il suo, richiesto tempo addietro alla prestigiosa
ditta che si occupa di nanotecnologia per cui lavora”.
Sanae
rabbrividì. “E’ la prima volta che mi parli di te”, osservò in modo spontaneo.
“Ha
sempre preso lei le decisioni. Sono stata la sua bambola di pezza per anni. Mi
ha portato via dai miei amichetti e dalla mia Lubecca. Non sarà stata la città
più accogliente del mondo, ma quando giri per le strade con la bicicletta,
imbottita come un panettone e l’aria fredda ti taglia la faccia, beh, è una
sensazione bellissima”.
Sanae
aveva capito che le piaceva il freddo. Proprio quando lei cominciava a mettere
il trapuntino sul letto, l’altra dormiva con una copertina di pile e la
finestra ancora socchiusa.
A Kathy
mancava
Non trovò
le parole per rassicurarla. Pensò che
probabilmente il padre di Kathy si era rifatto vivo e sua madre aveva pensato
di controllare che la ragazza non intraprendesse qualche strano viaggio
affinché non lo incontrasse. L’angoscia poi di una figlia cresciuta senza la
figura di un padre al proprio fianco, aveva assalito Kathy in pochi istanti.
Sparita
in bagno, comparve poco dopo e incalzata la porta uscì salutando, senza che
Sanae facesse in tempo a ricordarle che sarebbe stato meglio se fosse riuscita
ad anticipare un poco il suo rientro.
Dal canto
suo, Kathrin, non si sarebbe mai aspettata che quel pomeriggio, i tre gruppi
scolastici di un complesso universitario di scambio tedesco le avrebbero
riservato ben tre giri consecutivi di spiegazioni. Così, sfortunatamente, finì
per dimenticarsi della coinquilina e rispettivi amici. Quando arrivò a casa, le
otto erano passate da più di trentacinque minuti.
Si era
trattenuta a parlare con il direttore del museo, nonostante avesse la gola
secca. Era riuscita inoltre a perdere il treno, aveva aspettato ben venti
minuti alla stazione quello successivo e oltre alla stanchezza che le si era
accumulata durante la settimana, nella quale aveva dato il suo primo esame
ottenendo un ottimo voto, il mal di gola, il nervoso ed il ritardo non
calcolato più l’attesa snervante nel buio della stazione, l’avevano trasformata
in un candelotto di dinamite pronto a scoppiare.
Si
ricordò all’improvviso, sentendo le voci provenire dall’interno, degli ospiti e
la vergogna la assalì, sperando di trovarli a tavola e pregando di riuscire a
sgattaiolare via inosservata. Si sistemò il vestitino blu con i cuoricini di
perline e portandosi un ciuffo di capelli dietro l’orecchio, respirò
profondamente e aprì la porta.
Avendo
lasciato chiusa solo la zanzariera, Sanae scorse la figura snella di Kathy
assestarsi e si alzò in piedi. Quando questa entrò trattenendo il fiato, la
presentò ai suoi amici seduti intorno al tavolo della cucina. “Ragazzi, lei è
Kathrin Mahlstedt”.
Se c’era
una cosa che le dava fastidio era essere osservata dalla gente e soprattutto
dal modo in cui lo facevano un sacco di ragazzi vedendola passare. Non aveva
mai avuto una storia vera e propria. Non si era mai spinta oltre qualche bacio,
eppure si era scottata comunque in diverse occasioni. La prima volta, e forse
unica, che si era innamorata di un ragazzo, aveva preso una facciata tanto che
la sua inesistente fiducia negli uomini aveva varcato la soglia del sottozero.
E poi, tutti quelli che la guardavano, avevano un campo ristretto tra sotto il
suo mento e sopra il suo stomaco, cosa che la infastidiva fin troppo.
Quando
però gli amici di Sanae si voltarono, il saluto le morì in gola e mentre gli
schedari e i fogli che teneva tra le braccia si precipitavano in terra,
sussurrò quasi sconvolta i loro nomi. “…Tsubasa Oozora … Jun Misugi … Taro
Misaki … Kojiro Hyuga … Hikaru Matsuyama … e … - tentennò – Genzo Wakabayashi,
alias il SGGK”.
Si chinò,
senza smettere di guardarli come se fossero extraterrestri, per raccogliere ciò
che le era caduto. Qualcuno si era avvicinato per aiutarla e le prese una mano
tra le proprie. “… e io sono Ryo Ishizaki. Piacere di conoscerti”, le disse con
un sorriso ebete stampato in faccia.
Lei tentò
di sorridere, ma era talmente emozionata che non riuscì a proferire parola.
Appoggiò tutto il materiale raccolto su un piano della credenza e, arrivata
davanti a loro, si rivolse a Sanae con un filo di voce: “... se volete rimanere
soli io posso salire in camera mia”. I neuroni sbattevano violentemente come le
palline di un flipper. Si sentiva in imbarazzo.
Sanae si
infuriò e indicò il posto vuoto alla sua destra che le aveva riservato e gli
altri amichevolmente la convinsero a restare, Ryo più di tutti.
Stipata
tra Sanae, che sembrava essere all’apice della felicità e Ryo, che cercava di
attirare la sua attenzione in qualsiasi modo possibile e immaginabile, si
sentiva un’infiltrata. E come se non bastasse era piazzata davanti al portiere
della nazionale giovanile, quel ragazzo che aveva visto diverse volte sui
giornali o in qualche intervista televisiva. Le poche volte che aveva sfogliato
una rivista scandalistica, magari in un bar, aveva visto migliaia di ragazze
stupende fotografate al suo fianco, idol o modelle di professione, rampolle di
famiglie facoltose, figlie e nipoti di pezzi grossi in ambito calcistico. Si
parlava addirittura di una furiosa litigata tra il portiere e la figlia di
Tatsuo Mikami, qualche mese addietro. In ogni caso, l’aveva sempre colpita:
quell’aria sicura di sé, quella bellezza violenta, il fisico scolpito...
L’aveva visto appena arrivata, seduto di schiena, quelle spalle larghe che
tendevano il cotone bianco di una maglietta attillata con le cuciture rosse e
un cappellino dello stesso colore, calato sugli occhi, dal quale spuntavano
ribelli manciate di ricci neri come la pece. Lui si era voltato appena,
scrutando con un paio di profondi occhi scuri la sua figura. Occhi che si era
sentita sulla pelle quasi come l’avessero ustionata e che non aveva potuto fare
a meno di ricambiare.
Per tutta
la sera, tra loro due c’era stato uno scambio di sguardi che non aveva mai
nemmeno sognato di ricevere e di ricambiare e che l’avevano elettrizzata, per
poi essere distolti all’improvviso, e cercarsi ancora come due calamite, e
cambiare di nuovo, per poi spostarsi fugacemente da un’altra parte o sotto la
visiera del cappellino. Aveva a malapena risposto sillabando alle domande che i
ragazzi le avevano fatto, dichiarando poi apertamente che non si sarebbe mai
aspettata che Sanae fosse così intima con loro.
Sentitasi
nominare quella si alzò e portò in tavola un vassoio di biscotti con grosse
scaglie di cioccolato al latte all’interno e li appoggiò al centro, affinché
tutti ne assaggiassero. Taro ne addentò uno e si rivolse verso Sanae esclamando:
“Con questi hai superato te stessa”. Lei scoppiò a ridere e Kathy arrossì
improvvisamente, quando quella rivelò che il merito non era suo.
“Sono
dolci tedeschi”, dichiarò Genzo
giocherellando con un dolcetto, prima di metterlo in bocca e cercare ancora una
volta le pozze di mare che Kathy aveva per occhi. Al sentir pronunciare quelle
parole, alla giovane tedesca quasi venne uno scompenso cardiaco e si chiese in
che modo il SGGK sapesse che quella specialità proveniva dalle antiche terre
germaniche. Annuì impassibile e sul volto di Genzo, che continuava imperterrito
a torturarla, puntandole addosso i suoi occhi di brace, un angolo delle labbra
si alzò in uno strano sorriso di superiorità.
Yayoi e
Yoshiko aiutarono Sanae a sparecchiare, impilando i piatti da una parte e
portando nel lavello, posate e bicchieri. Kathrin si tirò su, imitando i
ragazzi che stavano disseminandosi sui divani e afferrò la pila di piatti che
allontanata dal tavolo le sembrò eccessivamente pesante. Non riusciva a portarla
a destinazione e nemmeno a riappoggiarla, quando un paio di spesse braccia lo
fecero al suo posto.
“…grazie”.
Mormorò
talmente piano che se non le avesse guardato attentamente il viso non avrebbe
nemmeno visto il movimento lieve che avevano fatto le sue labbra.
TOKYO, 24
SETTEMBRE
Quella
mattina era schizzato fuori dal letto notevolmente prima che la sveglia
cominciasse a suonare. Sembrava proprio preannunciarsi una giornata pessima e
quando Genzo Wakabayashi si svegliava di soprassalto, dimenticava cosa fosse
l’autocontrollo e il minimo era capace di mandarlo fuori di testa.
Che
stupidaggine, poi.
Dopo aver
mangiato come dei cinghiali a casa di Sanae, erano usciti per locali, lasciando
a casa il gruppetto di donne, che avevano apertamente dichiarato di voler
rimanere lì. Erano rimaste a chiacchierare fino a tarda notte e fino a che
Misugi e Matsuyama non avevano ricevuti il terribile messaggio: “Vienimi a
riprendere”, si erano divertiti come non facevano da tempo.
Arrivato
a casa, stravolto, si era fiondato sotto la doccia bollente, la quale, invece
di avere un effetto rinvigorente, lo aveva distrutto ancora di più, tanto che
si era addormentato di botto, con i capelli bagnati, appena toccato il cuscino.
MA non era riuscito a dormire serenamente…
Aveva
sognato quella ragazza, la coinquilina di Sanae, e in quel momento gli sfuggiva
addirittura quale fosse il suo nome. Si passò una mano tra i capelli e guardò
fuori dalla finestra.
Ecco,
aveva anche dimenticato di tirare le tende scure.
Quel
grigio appena accennato sembrava pronto per accogliere gli ultimi raggi caldi
del sole estivo e questo lo fece decidersi a fare una bella corsa per la città
isolata. Si passò una mano tra i capelli spettinati e sospirò, dopo aver
osservato la sveglia sul comodino, dirigendosi in bagno.
Si
osservò allo specchio: i capelli spettinati, il volto stropicciato dal sonno,
gli occhi che non riuscivano ad aprirsi completamente e le ciglia che
sembravano due calamite. Dopo aver controllato attentamente i lacci delle
scarpe, si calcò il berretto sugli occhi prima di procedere e iniziare a
muoversi più velocemente verso il mare. Non che amasse correre ma, alcune
volte, era un mezzo per sfinirsi con le proprie mani e distogliere la mente da
pensieri ‘scomodi’.
Nell’altra casa intanto, Kathrin scese in cucina facendo meno rumore
possibile per non svegliare Sanae. Si raccolse i capelli in una coda alta e
uscì di casa per il suo personale allenamento quotidiano. Le piaceva correre
per la città la mattina presto, quando il sole era ancora tiepido. Magari,
solamente per godersi quelle ultime, vere giornate d’estate. La rilassava
abbandonarsi a quei movimenti ripetitivi. Lo faceva da anni.
Tokyo
sembrava così deserta a quell’ora del mattino che lasciò la sua mente ai suoni
della natura, calpestando le foglie che cominciavano a cadere dagli alberi
secolari di un lungo viale, per poi scegliere, quasi d’istinto, di correre
sulla spiaggia.
Non le
importava di bagnarsi le scarpe o che l’acqua salata le schizzasse sui polpacci
scoperti. Si era abbandonata totalmente al dolce rumore delle onde che si
infrangevano a riva. Si sentiva in un’altra dimensione.
In
lontananza mise a fuoco una figura che le sembrava a primo impatto sconosciuta,
la quale poi, avvicinandosi, identificò con quella del SGGK e uno strano senso
d’angoscia le attanagliò lo stomaco per un po’. Solo con riluttanza ed estrema
cautela, accelerò fino a raggiungerlo e affiancandosi a lui, che sembrava
totalmente perso nei propri pensieri, lo salutò.
La voce
calda e morbida di lei lo raggiunse e lo fece quasi rabbrividire.
Stava
davvero desiderando così tanto vederla che le si era materializzata a fianco o
il destino, quella volta, stava giocando scorrettamente con lui?
Si
riscosse e ricambiò il saluto con la voce bassa, ridotta quasi ad un mugugno
confuso e lei, si fece improvvisamente seria: “Se preferisci restare da
solo...”.
Un caldo
sorriso lo accoglieva.
Ormai, Kathrin aveva perso qualsiasi tipo di
autocontrollo. Quando non sapeva cosa fare, si nascondeva dietro un sorriso.
Sorriso che non era lo specchio della sua anima: i suoi occhi di mare, infatti,
si erano persi in un tunnel accecante che non le permettevano di proseguire in
alcun modo… Kathy stava cedendo all’indecisione, come al solito.
Avrebbe
voluto con tutte le sue forze rimanere lì, ma sapeva che per lui, in quel
momento, poteva non contare nulla la sua presenza.
Il SGGK
desiderava con tutte le sue forze di allontanarsi da lei, voleva rifiutare
categoricamente quell’offerta che le Moire gli avevano donato, ma la sua mente
e il suo cuore presero sentieri differenti e le parole che gli uscirono dalle
labbra, si erano lasciate un po’ troppo condizionare dalle sue sensazioni.
“No”
rispose, deciso.
Era
sfinita, eppure correre così accanto a lui, che conosceva da così poco tempo,
ma che era riuscito a folgorarla in pochi istanti, le infondeva uno strano
senso di protezione. Di tanto in tanto il suo sguardo si posava fugacemente su
di lui, barricato al di là di su una spessa lastra di ghiaccio ed era diventato
di momento in momento sempre più distaccato.
Kathy,
purtroppo, non era mai stata una rappresentante eccellente di quel gruppo di
persone che riescono ad attaccare bottone o ancora meglio, stringere amicizie
in pochi secondi, e Genzo, dal canto suo, forse era peggio ancora.
“Ehi
bambina, se sei stanca possiamo fermarci”
disse ad un tratto, accorgendosi del fiato corto di Kathrin, facendola
quasi sobbalzare.
Le aveva
piantato addosso quei suoi profondi quanto impenetrabili occhi di brace e ora
attendeva impaziente una risposta, senza però accennare a rallentare.
Kathy
scosse la testa: “La vedi quella?”, indicò una grossa pietra semisommersa nella
sabbia bagnata, sul bagnasciuga, “A chi arriva primo”, e lasciò che lui
annuisse per scattare in avanti.
Il SGGK
la guardava stupefatto e perse diversi secondi di distacco da lei,
abbandonandosi nel contemplare quel corpo sfiorare la sabbia come le farfalle
fanno con i petali dei fiori. Kathy non era una silfide, ma la sua figura nel
complesso era armoniosa. Ne aveva visti (e non solo) di corpi femminili,
magistralmente usati per guadagnare soldi e popolarità. Eppure tutte quelle
ragazze che erano passate nel suo letto, gli erano sembrate così scialbe, così
costruite, già iniziate al culto dell’eros volgare sicuramente da uomini più
vecchi di lui. Kathy era florida, le sue gambe non erano dritte come paletti e
non erano secche come due stecche da biliardo, erano muscolose e lucide come la
buccia di una mela verde.
La
raggiunse a fatica, non perché non fosse più abile di lei ma perché immerso nei
suoi pensieri, e quando lei si bloccò di scatto, fece fatica ad imitarla e i
loro corpi si toccarono non troppo aggraziatamente, finendo, per evitare di
spaccarsi l’osso del collo sulla pietra, nell’acqua ghiacciata della riva.
Mentre la
schiuma delle onde li stava raggiungendo, Kathy si accorse di essere
completamente sdraiata su di lui e sentì il braccio di Genzo stringersi intorno
al suo vitino da vespa con fare protettivo, proprio come se avesse cercato di
evitare che lei soltanto si graffiasse. Arrossì e le parole le morirono sulle
labbra.
Lui la
guardava, con quel cipiglio sicuro.
“Ti sei fatta male?” la spiazzò, come una
folata di vento caldo.
Sentiva
il respiro di lui affannato, il suo cuore battere così forte da coprire tutto
ciò che la circondava. Scosse la testa prendendosi in quegli occhi d’ebano.
Riuscì ad oltrepassare lo strato di ghiaccio che si era formato durante la loro
corsa, e capì che questo si era sciolto improvvisamente, al nuovo contatto
inaspettato dei loro corpi. Sentiva i pantaloni fradici e le sue gambe
intrecciate a quelle di Genzo, una mano infine, allungata oltre la spalla di
lui faceva sì che il suo seno aderisse a quel petto scolpito.
Genzo
sembrava apparentemente tranquillo, a differenza di lei, che non riusciva a
controllare nemmeno il suo respiro e lo aveva trasformato quasi in un tremolio
confuso.
Il SGGK
lesse nei suoi occhi il terrore, quell’angoscia che ti avvolge, il panico puro.
Sentirla contro di sé, la sua pelle bagnata e così inconsciamente seducente,
sembrava scottarlo e oltrepassare il sottile strato di cotone della sua t-shirt
inzuppata. Si stupì, quando Kathy si puntellò su un polso e tirandosi su,
badando di non incontrare più i suoi occhi, si era allontanata con uno
squallido: “Si è fatto tardi”, nel mezzo della confusione totale.
***
Quando
riuscì, tremante, a chiudersi la porta alle spalle si accasciò a terra e
scoppiò in un pianto tormentato. Le sembrava una cosa tanto infantile… non
riuscire a controllarsi e dare sfogo alle sue angosce in quel modo assurdo, non
lo accettava. Eppure, nonostante la sua volontà, non riusciva a fermare le
lacrime.
Sanae
comparve in accappatoio e, spaventata per averla vista in quello stato,
gocciolante e singhiozzante, corse verso di lei e si inginocchiò scotendole le
spalle. La ragazza sembrava non accennare a smettere e lei stava cominciando a
preoccuparsi più del dovuto. Continuò a scuoterla e fece forza sui suoi polsi:
“Kathy! Cosa è successo?” chiese anche lei in preda al panico.
Si calmò
e si alzò lentamente, cancellandosi dal viso le ultime lacrime che le avevano
rigato le guance arrossate. “Io… l’ho visto. Poco fa”, rivelò per
acquietare le paure dell’amica.
Sanae
alzò un sopracciglio.
Il
profumo di tè al gelsomino stava inondando la stanza.
“Davvero?”. La giapponesina non riusciva a crederci. “Cioè, davvero
siete caduti in acqua… una sopra l’altro?”. Il suo sorriso stava diventando una
smorfia sognante: “Oooh, io e Tsubasa non abbiamo mai vissuto un momento così
romantico!”. Si strinse al petto le ginocchia. “… voglio dire, anche noi ci
vogliamo bene, ma Tsubasa non è davvero il tipo… beh, ora che ci penso neanche
Genzo è solito fare queste cose! Devi proprio piacergli tanto”, concluse
versando distrattamente il tè nelle due tazze.
“Per
favore Sanae, ora non dirmi così! Altrimenti andrò davvero in paranoia”. Il
viso di Kathy era un misto tra paura ed euforia.
“Io non
so cosa fare…, a volte spero che il tuo ragazzo non sia Tsubasa e loro i tuoi
amici”
Sanae
finì la tazza di tè e salì in camera sua senza proferir parola ma la voce di
Kathy che si era affacciata dalle scale la raggiunse: “No, Sanae... non
andartene. Non volevo offenderti”.
Nei
pensieri di Kathy si plasmò l’idea che l’amica fosse andata via perché la
credeva una stupida bambina viziata, che non capiva niente di quello che in
realtà fosse l’amore.
“Non sono
offesa!”, risuonò dal piano di sopra.
Kathrin
non ci pensò più di tanto e tirò fuori dalla borsa il blocchetto di carta di
banana e, indugiando sulla una particolare pagina, mormorò sommessamente
leggendola: “Genzo Wakabayashi”.
Era
proprio QUEL Genzo Wakabayashi...
Non poteva ancora crederci.
TOKYO, 25
SETTEMBRE
“No, ci
mancava solo la pioggia!”, esclamò Sanae esausta.
Avevano
appena trascorso una delle loro allucinanti mattinate in cui, purtroppo, erano
state costrette a seguire una conferenza sulla ‘Riscoperta delle origini delle
lingue indoeuropee’.
Erano uscite di corsa dall’università e si
stavano dirigendo a casa, sfinite. Camminavano tranquillamente per strada,
bisognose di aria fresca. Avevano preferito ritornare a piedi, quando grosse
gocce di pioggia iniziarono a schiantarsi al suolo con una frequenza che andava
aumentando, minacciosa di esplodere in un temporale autunnale. Kathy si strinse
tra le braccia gli schedari, mentre Sanae si copriva la testa con le
cartellette di plastica in cui ordinava con cura i fascicoli che le venivano
consegnati.
La bionda
sorrideva come una bambina. Amava la pioggia. Quante volte si era messa a
correre in riva al mare mentre l’acqua scendeva a catinelle dal cielo. Quante
volte si era allenata sulla pista bagnata. Quante volte si era ritrovata a
fermarsi nel viale alberato vicino a casa, inspirando a pieni polmoni
quell’aria densa. E tutto questo le piaceva, la faceva sorridere.
Al
contrario, Sanae era acqua piovana-repellente. Oltre a farle cambiare umore in
pochi secondi, la innervosiva e le rendeva i capelli appiccicosi. Accelerò il
passo, quando a loro si affiancò frenando più o meno bruscamente, una macchina
di grossa cilindrata. Riconosciuto il ragazzo al volante, lo ringraziò con
foga: “Genzo, non potresti capitare in un momento migliore, grazie”. E si
infilò in fretta e furia sul sedile posteriore.
Il volto
di Kathy si incupì all'istante e, a suo malgrado, il SGGK non poté non farci
caso. Si salutarono quasi imbarazzati e quando Kathy si accomodò sul sedile
anteriore si allacciò meccanicamente la cintura di sicurezza, senza accennare a
volgere lo sguardo su di lui. La cosa lo irritava non poco, ma in quel momento
doveva guidare e finì per rispondere a denti stretti alle domande di Sanae.
“Ciao Genzo, ci vediamo domani” si congedò questa, lasciandoli soli.
Il
silenzio che era sceso tra loro stava diventando sempre più pesante. Kathy
allungò la mano per far scattare il meccanismo che avrebbe riarrotolato la
cintura al suo fianco. Genzo approfittò di quel gesto e le sfiorò delicatamente
la manina di seta. A quel breve quanto intenso contatto, Kathy la ritrasse
spaventata. Il terrore, ancora una volta, si era impadronito dei suoi, in
quell’istante traslucidi, occhi azzurri.
Genzo la
scrutò perplesso da sotto la visiera e si accorse che quel gesto l’aveva
letteralmente shockata.
Dal
momento che non riuscì a sostenere il suo sguardo e, ancora una volta, stava
per scoppiare in un pianto disperato, Kathy lo ringraziò cercando di mantenere
più ferma possibile la sua voce, già rotta dall’agitazione: “Scusami, sono
proprio una bambina”. Sgusciò via, chiudendo la portiera e cercando di evitare
di guardare all’interno dell’auto. Era nel panico, ecco. Se avesse dato retta
al cuore e non alla ragione, poco prima si sarebbe buttata tra le braccia forti
di lui e…
Scosse
la testa, sperando di essersi evitata la scena patetica delle lacrime davanti a
lui. Si intrufolò nel bagno, prima che Sanae potesse farle le domande di rito,
e uscì dalla vasca dopo una buona mezz’ora, con pronte e accurate risposte da
offrire all’amica. Non era ancora arrivata in cucina che quella la batté sul
tempo: il sorrisetto malizioso che aveva dipinto sul volto non preannunciava
niente di buono.
Quando
Kathrin abbassò lo sguardo mestamente, le speranze di Sanae vennero calpestate
e il suo umore cambiò all’improvviso.
“Perché non riesci a capire che gli piaci?”. Sembrava davvero infuriata.
“Insomma, non ci vuole una laurea in psicologia! Basta considerare come ti
guarda, come ti parla… ecco, appunto: le poche volte che Genzo ha rivolto la
parola a qualcuno che non conosceva sono stati al massimo monosillabi freddi e
distaccati. Più io cerco di aiutarti, più sembri rifiutare. Comincio a non
capire cosa vuoi davvero!”.
Kathy si
fece piccola piccola, quasi sobbalzando alle parole di Anego che a lei erano
giunte come una sorta di rimprovero. “Scusami. Il fatto è che… nemmeno io so
cosa voglio”. Sembrava che i suoi occhi fossero divenuti più lucidi e le
lacrime fossero apparse all’interno di questi, pronte a spuntar fuori
minacciose.
Sanae si
era seduta sul divano, lo sguardo, perso oltre i vetri della finestra, appariva
rapito dalle fitte goccioline di pioggia che ticchettavano su di esso. Non riusciva a mettersi nell’ottica di
Kathrin, non immaginava che in quel momento potesse essere davvero confusa. Lei
aveva visto crescere Tsubasa, sapeva bene che il calcio e la notorietà erano il
suo pane quotidiano e addirittura stava imparando a convivere con la gelosia,
mettendola da parte, quando le orde di ragazzine gli si lanciavano addosso per
fotografarlo o farsi firmare degli autografi.
Kathy no.
Lei conosceva Genzo da troppo poco tempo e conosceva solo il SGGK, la figura
lontana dai comuni stereotipi di venticinquenni.
Il filo
dei suoi pensieri fu interrotto dalla voce quasi sibilante di Kathy: “Magari…
probabilmente, forse… è anche possibile che io gli interessi ma…”
La fermò:
“Ma… cosa?!”. Alzò un poco il volume della voce cercando di essere più
incisiva. “Non esiste nessun ma che regga”.
Kathy non
sapeva cosa dire, voleva aprirsi totalmente, ma non riusciva ad immaginare la
reazione dell’amica. Ponderò le parole e rispose sottovoce. “Se mi lascio
andare, rischio di diventare una delle sue medaglie da attaccarsi al petto per
poi vantarsene con gli amici. Lui è bello, ricco e famoso. Non sono niente per
lui, ecco”. Era riuscita ad esternare la sua spada di Damocle.
Sanae,
capita al volo la situazione, si spostò e si sedette accanto a lei. “Apri bene
le orecchie”, l’apostrofo con un timbro di voce sicuro, ma gentile. “Sto per
dirti una cosa sia come amica tua che come amica di Genzo: in tutta la mia vita
non ho mai visto il SGGK piantare gli occhi addosso ad un esemplare femminile
come fa con te. Ha tanto quell’aria da sciupafemmine ma in realtà…”.
“… In
realtà mi guarda diversamente perché probabilmente mi considera un alieno”.
Sanae
stava per perdere le staffe, le ci volle la sua infinita volontà d’animo per
proseguire e non lasciarla lì sola. “Smettila. Si è sempre nascosto dietro a
quel suo inseparabile cappello, sempre. Soprattutto nei momenti in cui si trova
davanti ad un ostacolo e tu non hai ancora capito che per lui lo sei: è troppo
orgoglioso per ammettere anche a se stesso che gli piaci… ha terribilmente
paura di affezionarsi a te”.
Ora Kathy
la fissava incredula. Si chiedeva perché non ci avesse pensato prima. La prima
parola che avrebbe dovuto aggiungere al suo taccuino era GENZO WAKABAYASHI =
ORGOGLIO ALLO STATO BRADO e si meravigliò di se stessa: la risposta
all’orgoglio era la timidezza.
“Sono
contenta di aver trovato un’amica come te, Sanae”, rivelò tutto d’un fiato e
l’altra la guardò sorridendo. “Anche io”, rispose infine.
Kathy
avrebbe dato retta al suo istinto per una volta… se Sanae insisteva tanto, alla
base ci doveva essere certamente qualcosa di sicuro. Si fidava di Anego ed ora
era giunto il momento di fidarsi di Genzo.
TOKYO, 29
SETTEMBRE
Sanae
aveva mostrato il pass ai due agenti della sicurezza. Strinse la mano di
Kathrin tra le sue e si fece strada verso la panchina, percorrendo fremente il
percorso che l’avrebbe avvicinata a quel luogo. Kathy si stava perdendo, anche
se stringeva forte la mano dell’amica.
Il lungo
tunnel che collegava gli spogliatoi all’ingresso del rettangolo di gioco,
sembrava immenso. Su una delle tante porte grigio perla, vi era appeso un
foglietto a quadretti sul quale spiccava una scritta a pennarello indelebile:
“VIETATO L’INGRESSO AD OGNI ESSERE DI SESSO FEMMINILE, ABBIAMO BISOGNO DI
CONCENTRAZIONE (CAPITO, MANAGER?)!”.
Sorrise
sognante… forse… forse, se Sanae avesse avuto ragione, avrebbe potuto un giorno
essere la ragazza di uno di quei ‘BISOGNOSI DI CONCENTRAZIONE’, proprio lei,
Kathy e basta: non una sciocca ragazzina ricca o famosa per aver partecipato a
qualche programma televisivo.
“Kathy,
mi ascolti?”. Alla domanda che Sanae le aveva posto, sussultò e scosse la
testa, abbassando lo sguardo per nascondere il velo di rosso che le si era
sparso sulle guance. L’amica sospirò e accelerò facendo dondolare una mano in
segno di arresa.
Un uomo
dal portamento distinto, si massaggiava il mento soddisfatto sulla linea di
bordo campo.
Quando fu
a dovuta distanza, la ragazzina che affiancava da sempre il capitano, lo salutò
spalancando un sorriso: “Salve, Mikami-san”. Quello voltandosi, riconobbe in
quel corpicino di donna la piccola Anego e appoggiandole una mano sulla spalla
con fare paterno esclamò estasiato: “Sanae! Sei proprio tu?”. Lei annuì e
cominciò a discutere animatamente con l’allenatore.
Kathy era
rimasta folgorata, qualche metro più indietro e aveva già perso il filo del
discorso che avevano intrapreso i due: in ogni caso lei di calcio se ne
intendeva ben poco e dato che proprio Hyuga, in uno dei suoi assiomi aveva
affermato che “il calcio non è un gioco da femminucce”, non se ne preoccupò più
di tanto. Un tappeto verde smeraldo si estendeva davanti ai suoi occhi. Sulla
struttura ad anelli, tanti seggiolini dello stesso colore sembravano luccicare.
Non era mai entrata in uno stadio e rabbrividì, pensando alle volte che tutti
quei posti erano stati occupati dai tifosi urlanti. Un gruppo di ragazzi si
divideva rincorrendo un pallone, alcuni di loro con indosso una casacca
fosforescente, altri con la maglietta bianca della federazione.
A
centrocampo, Tsubasa, stava dando animatamente indicazioni ai compagni,
tentando di avvicinarsi a Ken Wakashimazu che lo aspettava, pronto, in area di
rigore. Quando quest’ultimo, parato un tiro di Taro, rinviò il pallone con una
potenza inaudita, Kojiro scattò in avanti e si diresse deciso verso la porta,
scartando impietosamente i vari Hikaru Matsuyama e Ryo Ishizaki
dell’improvvisata squadra di Oozora.
Trattenne
il respiro…
Piegato
appena sulle ginocchia, Genzo Wakabayashi era quanto mai concentrato. Le mani
protese in avanti e lo sguardo truce sotto la visiera del cappellino bordeaux.
Kojiro,
solo, di fronte a lui.
Caricò
uno dei suoi devastanti tiri, che stava per infilarsi qualche spanna sotto
l’incrocio dei pali.
Stava.
Con uno
scatto infatti, Genzo riuscì a deviarlo con il pugno chiuso. Ghignò
strafottente, stuzzicando Hyuga che si voltò imprecando e ricordando al
portiere l’affetto che provava per lui con una serie di ricercati epiteti da
scaricatore di porto, ricambiati da un saccente riso ironico e soddisfatto.
Immobile,
le labbra appena dischiuse e gli occhi di mare spalancati dallo stupore. Aveva
già visto qualche partita, ma non era nemmeno stata una gran tifosa.
L’adrenalina che le bruciava in corpo in quell’istante era simile alla partenza
di una delle gare che aveva fatto da ragazzina.
Lui la
vide, corrucciò la fronte, ma distolse immediatamente lo sguardo sorridendo
soddisfatto, urlando e sbracciando in direzione di Matsuyama che si spostò
verso il centro.
“Kathrin,
ti presento Mikami-san. È stato tutore di Genzo ed ora è un ottimo Commissario
Tecnico”
Tatsuo
sorrise dietro un paio di occhiali da sole, osservando Kathy voltare la testa
senza staccare gli occhi di dosso al portiere. “Signorina, non aveva mai visto
una parata del nostro SGGK?”.
Kathy
scosse la testa, arrossendo. “E’ un piacere conoscerla, signore”, riuscì a dire
poi, in preda all’imbarazzo.
“Tutto
mio, se lei è davvero l’essere vivente in grado di far perdere le staffe a
Genzo battendo il record di Kojiro Hyuga”.
Sanae
sorrise, mentre l’amica si sarebbe volentieri sotterrata viva sul posto.
Tsubasa comparve miracolosamente a salvarla dicendo il fatidico: “Mister,
abbiamo finito”, che gli procurava non poco sconforto. Anego si limitò a
sospirare. Mikami annuì e nel momento in cui si voltò, il numero dieci della
nazionale colse di sorpresa la sua ragazza baciandola fugacemente sotto gli
occhi dei compagni di squadra che si avvicinavano.
All’esterno del complesso sportivo, Sanae stava chiacchierando allegramente
con Kathy quando più o meno all’orizzonte si definirono i corpi muscolosi dei
‘suoi’ calciatori. “Tsubasa! Sono tre quarti d’ora che aspettiamo… possibile
che non abbiate ancora perso la brutta abitudine di uscire per ultimi?”,
sbraitò verso il capitano, affiancato da un Genzo dall’aria perplessa.
“Scusa…”,
rispose quello volgendo gli occhi al cielo.
Kathy
sorrise quando Genzo si avvicinò. Lui la squadrò con quei suoi occhi di brace.
Non l’aveva mai vista vestita in modo così sportivo e constatò tra sé e sé che
quel semplice completino di jeans composto da gonna e giacchetta le stava
davvero in modo perfetto. Si intravedeva dal colletto e dai bottoni di metallo
slacciati una camicetta celeste come le scarpe e la borsa. I blandi capelli di
miele le scivolavano scalati, accarezzandole il viso sino ai gomiti.
“Dai…
oggi che abbiamo finito presto!”. Tsubasa stava pregando la sua ragazza a
rimanere con lui.
A tenere
Sanae sulle spine però era Kathy: continuava a fissare Genzo, mordicchiandosi
il labbro inferiore. Lasciarla da sola sarebbe stata una scortesia, ma fare lo
stesso con Tsubasa le pesava davvero tanto, dato che era quasi una settimana
che non passavano un po’ di tempo da soli. “Ma lo capisci che io sono venuta
con Kathrin?!”.
Quella si
riscosse e la fermò: “No, non preoccuparti per me. Ho il bigliettino per la
spesa e abbiamo il frigorifero vuoto. Va’ tranquilla, ci penso io”. Tsubasa la
guardava come se fosse stato un angelo caduto sulla terra (aureola, morbidi boccoli,
occhi sognanti e cori celestiali compresi).
Dopo una
serie interminabile di parole che Sanae aveva srotolato preoccupata, Kathrin le
si rivolse con un cipiglio severo: “Se continuiamo così i negozi chiuderanno.
Vai Sanae”.
L’amica
annuì e Kathy mise in chiaro le cose un’ultima volta: “Andrò a dormire presto,
non mi troverai alzata”, lanciandole con il sorriso sulle labbra un chiaro
messaggio subliminale. Inspirò e si voltò per salutare Genzo. “No, aspetta”, la
fermò questi prima che aprisse bocca. “Fra poco farà buio, ti accompagno in
macchina”, e la guardò negli occhi, aspettando un cenno di assenso.
Lei gli
sorrise e annuì. “Grazie”, disse poi seguendolo verso il parcheggio, sarebbe
stato il loro primo-vero-simil appuntamento in cui forse non si sarebbero
scannati, non avrebbero cercato di uccidersi o lei non sarebbe stata costretta
a scappare.
Così, si
erano ritrovati l’uno a fianco all’altra: Genzo appoggiato sul carrello e Kathy
che si muoveva veloce tra gli scaffali, facendo scorrere gli occhi sui pezzi
che le occorrevano. Si avvicinò a lui e gli chiese, indicando una piccola
scritta nel mezzo della lista: “Tu sai cosa sia questa roba?”.
Genzo
annuì: “Schifezze che mangia Tsubasa”.
Kathy
inarcò un sopracciglio: “…e io dove li trovo? Sarà meglio chiedere ad una
commessa”.
Prima che
potesse avvicinarsi ad una ragazza che stava sistemando dei pacchi di biscotti,
Genzo la trattenne per un braccio. Il terrore si impadronì di lei. Non capiva
il perché, ma sentire sulla propria pelle le mani di Genzo le faceva perdere la
testa. Aveva già razionalizzato l’idea che per lui provasse una forte
attrazione fisica, ma si era ripromessa di reprimerla silenziosamente.
“Se mi
riconosce, sono finito. Tsubasa non morirà di fame”, esordì il ragazzo con un
tono diverso dal solito. Sembrava quasi una specie di supplica, insolita, dato
che pronunciata dalle labbra del SGGK. Kathy si diede una pacca sulla testa e
come suo solito, abbassò lo sguardo timidamente e sussurrò: “Scusami”, mentre
lui le faceva segno con la testa di non preoccuparsi.
Tra gli
scaffali di un grande supermercato, avevano passato quasi due ore assieme,
litigando sui gusti dello yogurt o sulla marca del latte, e finendo per
comprare o tutte e due le qualità o nessuna.
Genzo
scese dalla macchina e aprì il portellone. Fu costretto a fare tre viaggi con
Kathy sorridente al proprio fianco.
Che
fosse bella, ormai lo sapeva.
Che fosse dolce, anche.
Solo non
era ancora riuscito ad avere con lei un contatto fisico e questo gli sembrava
davvero impossibile. Lui, il grande SGGK, al quale le donne si gettavano ai
piedi al solo schioccare delle sue dita. Ripensò agli anni passati in Germania,
da ragazzino: quanti sabati si era ritrovato in macchina con Schneider, diretti
in qualche discoteca… quante ragazze, riconoscendoli si avvicinavano a loro e
cercavano di ammaliarli spudoratamente? Kathrin sembrava l’opposto. Aveva quasi
paura e si ritraeva spaventata, ogni qual volta le loro mani si sfioravano.
Lei
afferrò l’ultima busta e lo ringraziò sorridendogli e fissandolo con quegli
occhi dalla tonalità vitrea. Rinfilatosi in macchina, fece un gesto con la
mano, e ripartì in retromarcia.
Nell’ora
di punta, ritornare in centro era un’avventura. Aveva avuto la trovata di
fermarsi con quella ragazza dimenticando completamente i suoi impegni e adesso,
dopo quarantacinque minuti abbondanti che la sua automobile percorreva a passo
d’uomo, il suo sistema nervoso cominciava a perdere colpi. Anche perché durante
il percorso non aveva fatto altro che pensare a Kathrin. Si passò una mano tra
i ricci d’ebano, il cappellino abbandonato sul sedile al suo fianco. Arrivato
davanti al cancello automatico, afferrò il telecomando e questo si spalancò,
lasciando che l’auto scivolasse sulla ghiaia del cortile e si fermasse nei
parcheggi riservati ai dipendenti. Dalla tasca dei pantaloni della tuta ne
estrasse il cellulare e, dopo averlo aperto, fece scorrere la rubrica. Guardava
fermo la serie di cifre che aspettavano soltanto l’avvio di chiamata. Inspirò e
si chiese mentalmente cosa le avrebbe detto. Non doveva essere poi così
difficile, per uno come lui, invitarla ad uscire. Eppure la leggendaria
sicurezza del SGGK sembrava svanita nel nulla come l’effimera bellezza di un
fiore primaverile.
Imprecò
sbattendo la portiera, avendo abbandonato brutalmente sul sedile del passeggero
sia telefonino che cappello. La situazione sembrava stesse sfuggendo al suo
controllo e per il SGGK, questa era una di quelle circostanze che lo mettevano
non poco a disagio. Lui, che non aveva paura di niente e di nessuno, stava
forse considerando più del dovuto quella notte passata con Kathrin. Neanche
fosse stata la prima donna della sua vita. Neanche fosse stata la donna più
bella con la quale aveva diviso il letto. Eppure sentiva che l’attrazione tra
lui e la tedesca era sorprendentemente pericolosa. Alla fine era stato lui
(forse per la prima volta nella sua vita) a correre dietro ad una ragazza e,
come se non bastasse, aveva avuto tutt’altro che vita facile.
Sapeva di
aver giocato con il fuoco: Kathy era una persona troppo particolare e se avesse
compromesso il rapporto che lei a fatica era riuscita ad instaurare con Patty e
con qualche altro ragazzo della squadra, si sarebbe sentito in colpa per il
resto della sua esistenza. E questo era uno di quegli stati d’animo banditi
dall’inossidabile Genzo.
Quante
volte aveva rischiato grosso nella sua esistenza?
Considerò
il fatto che negli ultimi anni della sua vita, dato che sul campo non aveva più
rivali, e se il compagno Oozora era candidato all’ambito pallone d’oro, lui
l’aveva già ricevuto l’anno precedente, si era abbandonato a festeggiare le sue
vittorie assicurandosi un posticino al caldo nel girone dei lussuriosi. Sorrise
sarcastico. La volta che l’aveva fatta davvero grossa era stata in occasione
del trionfo del Bayern Monaco sulle squadre rivali della Bundesliga e su quelle
europee della Uefa Champions League. Si era svegliato nel cuore della notte,
con un forte mal di testa, nell’appartamento della simpatica figlioletta (tutta
gioielli e anoressia) di Tatsuo Mikami, avvenimento che probabilmente l’uomo
non gli avrebbe perdonato per il resto della sua vita.
Dopo aver
discusso con i dirigenti riguardo la sua permanenza in Giappone, stava
attraversando il corridoio degli uffici della federazione.
Effettivamente, stava pensando ad un modo non troppo duro per
allontanarsi da Kathrin, ma era conscio del fatto che avrebbe dovuto farlo con
molta cautela, altrimenti sarebbe scoppiato un pandemonio.
Ad
interrompere il filo dei suoi concitati pensieri fu il ripetuto ticchettare non
troppo elegante di un paio di decolleté femminili.
“Wakabayashi-kun!”
Un metro
e settantadue di altezza di cui poco meno della metà era costituito da una
fluente chioma corvina gli si parò davanti. Yuko Honjo era la figlia del
vicepresidente della federazione. Di una bellezza poco comune e longilinea come
un flessuoso giunco, era una delle modelle più apprezzate sulle passerelle di
Tokyo negli ultimi mesi. Avvolta in un paio di lunghi e larghi pantaloni British
e protetta dalla maglia meno idonea possibile al luogo e al freddo di quel
periodo, guardava in modo così irriverente il SGGK che a pochi minuti avrebbe
potuto scrivere un referto radiologico e lui capire la marca del mascara che
aveva utilizzato il suo truccatore nel pomeriggio.
Genzo
capì al volo che quella sarebbe stata la scappatoia a lui più consona, quella
che gli avrebbe fornito le scuse più banali, veritiere e consone al suo
personaggio. Osservò l’orologio. Nei
successivi tre minuti Yuko l’avrebbe invitato a cena, nel suo attico nel centro
di Tokyo per “passare un po’ di tempo da buoni amici”. La ragazza aveva una
concezione storpiata della parola amicizia, probabilmente dovuta al mondo in
cui viveva tra una passerella all’altra.
“E’
così tanto tempo che non ci vediamo che mi farebbe davvero piacere passare un
po’ di tempo da buoni amici! Domani sera dovrei riuscire ad essere libera. Devo
ufficialmente invitarti o visto che conosci la strada ti aspetto alle nove a
casa mia?”
Un minuto
e cinquantasei secondi.
Facile
immaginare il motivo per cui, la cena a casa di Yuko rimase sulla tavola già
apparecchiata. Quando nel cuore della notte Genzo stava guidando verso villa
Wakabayashi, le luci dei lampioni tingevano ad intermittenza l’abitacolo.
Durante tutto il percorso si convinse di aver ripreso le redini della sua vita.
Yuko si era rivelata la focosa amante di cui si ricordava ed era sicuro del
fatto che entro l’anno successivo si sarebbero rivisti e lasciati nuovamente
come buoni amici. Avevano deciso così già da molto tempo e nessuno dei due
chiedeva di più.
Il pensiero di Kathrin in ogni caso gli
martellava nell’anticamera del cervello e nemmeno il diavoletto sulla sua
spalla sinistra riusciva a scacciare questi persistenti pensieri.
PROMO MIDDLE CHAPTER TOKYO, 2 OTTOBRE
Nel lungo
periodo che divideva le vacanze estive da quelle natalizie, il rapporto tra
Kathy e il SGGK sembrò stabilizzarsi in una bella storia d’amore, a volte quasi
impenetrabile.
Dalle
porte automatiche di un grattacielo nel centro di Tokyo la figura imponente di
Genzo Wakabayashi ne uscì alquanto annoiato. Stava per allacciarsi la cintura
di sicurezza, quando dall’altra parte della strada, stretta in un cappottino
che le arrivava alle ginocchia, vide Kathrin. Si calcò il berretto sugli occhi
e uscì in fretta dall’auto e attraversò a passo abbastanza sostenuto per
raggiungerla. Non sapeva ancora cosa dirle, ma voleva raggiungerla a tutti i
costi. Incrociando le dita affinché la gente non lo riconoscesse, riuscì ad
afferrarle un gomito e la salutò.
Kathrin
rispose gentilmente lasciando che le sue labbra si aprissero in un sorriso. Il
SGGK, la stupì ancora una volta offrendole il braccio e lei, intrecciò
timidamente al sua manina attorno al gomito del ragazzo. Continuava a
guardargli il volto appagato. Le teneva stretta la mano tra la sua, come se
avesse paura di perderla. In quel momento si accontentò a fatica di quel
contatto e si accorse che per la prima volta, Kathy, non tremava e nei suoi
grandi occhi di mare brillava uno strano luccichio di beatitudine.
“Oh, no”,
esclamò guardando fuori dalla vetrata della caffetteria in cui si trovavano,
piccole goccioline di pioggia stavano bagnando lentamente il marciapiede. Genzo
la guardò perplesso e lei si spiegò. “Io devo assolutamente tornare a casa”. Il
ragazzo annuì e si alzò. Si diressero alla cassa e, abbottonati i cappotti
uscirono e cominciarono a correre in direzione della macchina.
Quando
Genzo fermò la macchina, Kathy si slacciò la cintura di sicurezza. Aveva già
aperto la portiera, quando si riappoggiò sul sedile e lo guardò negli occhi,
ringraziandolo. Si sporse un poco verso di lui e gli posò le labbra sulla
guancia in un innocente bacio, sussurrandogli ancora una volta: “Grazie di
tutto”, per poi sparire in casa salutandolo con la mano come una bambina. Il
portiere scosse la testa, stava iniziando a rinunciare a capirla. Riaccese il
motore, accennandole un saluto a sua volta e sparì in pochi secondi.
Quello fu il primo dei loro fortuiti
incontri. Non si erano mai posti il problema di darsi un appuntamento: entrambi
sapevano che se solo uno dei due avesse voluto, avrebbe trovato l’altro.
TOKYO, 22 OTTOBRE
E così era riuscita ancora una volta a farsi
abbandonare.
Ormai era
diventato il suo sport preferito: c’era riuscita con suo padre, con sua madre
(sebbene questa fosse stata una scelta ben ponderata), con il primo ragazzo per
cui aveva perso la testa e ora con Genzo Wakabayashi.
Lo aveva
semplicemente respinto.
Inconsciamente, trattenuta da quella sua infantile paura dell’abbandono.
Effettivamente, chi le avrebbe garantito che anche lui non si sarebbe
comportato nello stesso modo. E soprattutto si chiedeva per quale motivo il
SGGK, giovane, bello, ricco e famoso avesse scelto proprio lei come divertimento.
Non ne
aveva forse vissute abbastanza?
Cosa
doveva aspettarsi ancora?
Che aveva
fatto di male?
Nell’ultimo periodo, i ragazzi della squadra si erano sparsi per il
mondo alla volta delle loro squadre per seguire le partite di campionato e lei,
nel calduccio della sua casetta sul mare, stava osservando una delle riviste
scandalistiche straniere che Sanae acquistava per tenersi informata sui
pettegolezzi che riguardavano i propri amici d’infanzia. Di solito faceva in modo
di non farle passare sotto gli occhi di Kathrin, ma quel giorno, molto
probabilmente perché in ritardo, l’aveva abbandonata sul tavolino del salotto
spiegazzata e con le orecchiette agli angoli delle pagine.
Kathy
abbandonò l’idea di guardare la tv e afferrò il giornale distrattamente. Aprì
la rivista al primo segno: Kojiro Hyuga in due diverse fotografie che lo
ritraevano in divisa bianconera riempiva quasi una pagina, mentre in quella
successiva di cui si annunciava a caratteri cubitali un nuovo amore con una Velina
bionda, era stato inquadrato in jeans e maglietta, nascosto da un cappello e un
paio di occhiali mascherina, per mano ad una splendida ragazza.
Sorrise.
Ogni
tanto Sanae ritagliava quegli articoli e li metteva in una cassetta di cartone
che nascondeva. L’aveva già sentita parlottare tra sé e sé mentre metteva in
atto questa “raccolta di informazioni” e sapeva che Kojiro, tra tutti i
giocatori della nazionale, era quello che si dava più da fare. Forse era l’aria
dell’Italia, le belle ragazze, la buona cucina, la moda, o forse il fascino di
quella maglietta a strisce bianconere, perché a quanto aveva capito, in Italia
sarebbe stato più facile proibire le messe della domenica piuttosto che i
mercoledì di coppa.
Passò al
secondo segno e trattenne il respiro.
Genzo era
ritratto in diverse foto, l’articolo a lui dedicato occupava tre pagine. In
macchina, al tavolo di un bar, fermo davanti ad un citofono, con il suo cane
sulla spiaggia. Sempre accompagnato. Da una ragazza differente. Alta, magra,
bella, ricca, più o meno famosa.
Le si
formò un groppo allo stomaco ed iniziò a leggere. Il giornalista, esaltato da
un machismo da sobborgo di periferia, esaltava le ultime conquiste di Genzo e a
quanto pareva risaliva tutto all’ultimo mese.
Sembrava che il SGGK, approfittando di un’innocua slogatura al polso,
avesse ripreso la vita mondana e i suoi incontri.
Richiuse
la rivista e si strinse le ginocchia al petto. Due grosse lacrime già
minacciavano di rigarle le guance. Era terribilmente triste, non si aspettava
una cosa simile. In un certo senso se l’aspettava, ma non voleva credere che la
stessa sera che Genzo l’aveva accompagnata a fare la spesa, ultima occasione in
cui aveva avuto a che fare con lui, avesse magari potuto concluderla a casa di
qualcun’altra donna.
Afferrò
il suo taccuino di banana e scrisse in preda alla follia qualche riga
minacciosa, tornò indietro di qualche pagina e ne strappò dei pezzi
accartocciandoli e gettandoli intorno al divano. Si avvicinò alla scrivania
dove teneva i suoi libri, il portatile e le preziose tazzine di vetro e
porcellana che la madre le aveva portato da un viaggio in Boemia, una ad una le
afferrò e le gettò in terra. Cocci che rimbalzavano nei muri, che si
impigliavano nelle trame del tappeto, che s’infilavano sotto i piedi della
scrivania. Le prese con foga sbattendole contro il pavimento e fracassando i
piattini uno ad uno contro il bordo della scrivania. Imprecava e malediva sua
madre, usando quel mezzo per farlo in assoluto silenzio, mentre gli urli e gli
insulti più pesanti erano rivolti a se stessa, perché si era illusa e
affezionata a qualcuno che l’aveva già abbandonata.
Sanae era
immobile dietro la zanzariera. Era arrivata nel momento sbagliato e con la sua
solita aria allegra. Kathy stava strappando con forza alcune pagine del suo
taccuino e poi si era diretta verso il suo servizio da the. Non sapeva in che
modo intervenire, avrebbe voluto entrare ma non aveva la benché minima idea di
cosa fare. Lacrime di rabbia le bruciavano agli angoli degli occhi. Quella
ragazza aveva fatto così tanta fatica per accettarla, si era così legata a lei,
aveva riposto tanta della sua fiducia nei suoi amici, e lei le aveva presentato
le persone sbagliate. Riprese la macchina e ripartì velocemente verso casa di
Tsubasa. Era davvero nel panico. Forse per la prima volta nella sua vita
sentiva così tanto distinta la sofferenza di qualcun altro.
Entrò
nell’appartamento di Tsubasa talmente scioccata che piangeva e non se ne
rendeva conto. Tremava e respirava affannosamente. Durante il viaggio aveva
ricostruito gli avvenimenti e aveva capito che Kathy le aveva nascosto
qualcosa. Chiuse la porta con foga e riconobbe immediatamente le due voci
pacate che stavano discutendo in salotto. Si fiondò nella stanza senza nemmeno
togliere la giacca e cominciò a gridare:
“Sei
soltanto un bastardo! Ed io una povera stupida! Non te lo permetterò mai più,
mai più!”
Tsubasa
l’osservò scioccato. Quegli insulti sarebbero calzati a pennello su di lui, ma
sapeva per certo che non era lui il destinatario.
La
ragazza si avvicinò a Genzo, seduto in poltrona, ignorando le parole del
capitano che aveva posato il bicchiere che teneva tra le mani per
calmarla. “Lo sai cosa sta facendo?
EH? Rispondi? Tu te lo immagini come si è ridotta? Che cosa le hai fatto?”.
Il SGGK
la osservava impassibile.
“Un
applauso a Wakabayashi, è riuscito a mietere un’altra vittima innocente. Se sei
un complessato non provare mai più a sfogarti sulle mie amiche! Questa non me
la dovevi fare, Genzo. Questa non posso perdonartela. Io ti sono sempre stata
vicina nei momenti in cui hai avuto bisogno, mi sono sempre fatta in quattro
per voi tutti e specialmente per te, perché sapevo quale grande amicizia ti
legava a Tsubasa. Tu in cambio, cosa mi hai dato? Non ho il coraggio di entrare
in casa. Avrei voluto prenderla a schiaffi, invece ho capito che l’unico da
prendere a schiaffi sei tu. Sono venuta qua, l’ho lasciata da sola, vediamo se
riesce a fare qualche pazzia. Così avrai i sensi di colpa per il resto della
tua misera vita. Perché ecco cosa sei in realtà, un miserabile! Un miserabile
ricoperto d’oro. Brilli alla luce del sole, ma sei marcio dentro, sei la
persona più vuota e insensibile che io abbia mai incontrato. Mi fai schifo!”.
Ora non sapeva se la più sconvolta fosse lei o Kathrin. Fece un cenno di saluto
al suo capitano e riprese l’ascensore. Voleva solo tornare a casa, scoprire che
Kathy stava bene, abbracciarla e ordinare qualcosa da mangiare davanti ad un
bel film. Rivoleva la sua vita che aveva conquistato a fatica. Desiderava
semplicemente un po’ di tranquillità.
Rientrò
in casa.
Kathy
stava sbattendo il tappeto dalla finestra e aveva buttato la rivista nel cesto
della spazzatura. Aveva gli occhi rossi e gonfi e dei segni sulle mani.
Osservò
la scena in silenzio. Quando si decise a salutarla aveva già raccolto i fogli
appallottolati e li aveva accantonati in un angolo del divano. In seguito si
sarebbe preoccupata di sistemarglieli. Si avvicinò a Kathy che le rivolse un
saluto sommesso. L’abbracciò con forza. “Ti prego, perdonami. Perdonami per il
male che ti ho fatto, è tutta colpa mia. Avrei dovuto immaginare che si sarebbe
comportato così... mi dispiace, Kathrin”. Adesso era lei quella che piangeva e
Kathy la consolava. La situazione si era capovolta.
“Ti
voglio bene, Sanae. Non ho mai incontrato una persona così dolce e premurosa.
Sei stata la prima a preoccuparti anche dei miei sentimenti, sei stata l’unica
amica che mi è stata vicina davvero. Non possiamo prenderci le responsabilità
dei comportamenti di qualcun altro, né io né te. Non è giusto, e questo lo
sappiamo entrambe. Io rivoglio la nostra vita, prima di Genzo. È stato un
passaggio ed io non posso assicurarti che non ricadrò nella sua trappola. Ti
chiedo solo di starmi vicina e non abbandonarmi anche tu”.
Sanae
annuì. Finalmente Kathy aveva chiesto aiuto e aveva ammesso la sua paura. Sanae
tirò fuori dalla borsa un dvd e Kathy afferrò il cordless. Si erano capite
senza dover parlare. Prima che arrivasse il cibo ordinato ebbero tutto il tempo
di farsi una bella doccia calda. Poi si sedettero sul divano tra le coperte
colorate di pile e i cuscini che si erano portate dalla camera. Kathy accese un
incenso alla vaniglia nell’angolo della stanza e Sanae portò un po’ di
tovagliolini di carta e qualche bibita sul tavolino.
Il
telefono si mise a squillare insistentemente. Quando Sanae rispose, quasi certa
di trovare dall’altro capo del filo Tsubasa, fu felicemente sorpresa di sentire
la voce di Yayoi. Kathy inserì il vivavoce per salutarla e apprese che la
ragazza si trovava poco distante da loro. Ne approfittarono per invitarla a
cenare e l’amica chiese dieci minuti di tempo per raggiungerle.
Nei dieci minuti in cui aspettarono il
garzone del ristorante e l’arrivo di Yayoi, sentirono suonare alla porta. Nel
corso di quella serata, il telefono e il campanello sembravano procurare un
arresto cardiaco alle due ragazze. Sanae apri e dietro la zanzariera, nascosto
dietro un bellissimo mazzo di fiori spuntavano i ciuffi spettinati di Taro.
“Bonsoir,
mademoiselle!”. Misaki fece il suo ingresso seguito oltre che dai fiori che
porse alla manager, da una scatola di dolci francesi. Molto probabilmente, data
l’insolita scatola in cui erano trasportate, dovevano essere le famose mele
caramellate di Narbonne.
Kathy
fece capolino dalla cucina e si diresse a passo svelto verso il ragazzo. “Taro!
Che piacere vederti!”. Quello sorrise e le baciò una guancia: “Enchanté”.
Sanae tornò con un piccolo libricino tra le mani, la sua pronuncia non era
perfetta ma era comprensibile: “Comment vas-tu, Taro?”. Il ragazzo si
divertì a giocare un po’ con loro: “Très bien, merci!”. Poi l’abbracciò
come un fratello maggiore fa con una piccola ed indifesa sorellina.
“Che fai
qui, Taro?
“Mi sono
strappato un muscolo. Sembra che gli infortuni vadano di moda, ultimamente. Ho
sentito Genzo”. A quella parola le due trasalirono e Taro capì che non avrebbe
dovuto trattare quell’argomento, probabilmente era successo qualcosa di strano
se Sanae l’aveva guardato così.
“Insomma, ne ho approfittato per passare un po’ di tempo qua in Giappone
e per avere qualche consiglio da un paio di amiche. Manca solo Yayoi e potrei
dare il via ad un talk show”.
E dato
che la porta era rimasta socchiusa, sentitasi chiamata in causa, la fidanzata
storica di Misugi fece irruzione: “E l’argomento in questione sarebbe?”.
“Danielle,
la sorella di Pierre LeBlanc, innamorata di me dall’età di quattordici anni
quando… YAYOI!”. La ragazza si avvicinò a Taro e l’abbracciò.
Kathrin
capì la profonda amicizia che legava quel gruppo di ragazzi. Aveva appreso a
spezzoni i tanti problemi e le tante sfide combattute tra loro. Avranno avuto
anche vent’anni ma sembrava ne avessero vissuti cento, tutti insieme. Sorrise
teneramente al pensiero di essere entrata a far parte di un gruppo così
affiatato. A lei poi il calcio era sempre piaciuto e anche se non era a livelli
di Sanae, Yayoi o Yoshiko, qualcosa ci aveva sempre capito.
La serata
trascorse velocemente tra la voce allegra di Yayoi che raccontava le ultime
novità tra lei e Jun, cosa di cui Taro si sarebbe servito in eterno per
sfotterlo negli spogliatoi, i racconti allegri di qualche feuilleton
français di Misaki e l’inaspettato racconto ironico con cui Kathrin si
sfogò.
Quando
Tsubasa li raggiunse alle dieci e trovò Tarò e Yayoi, abbandonò l’idea di
chiedere spiegazioni a Sanae. Si accomodò nel salottino, soddisfatto per aver
visto con i propri occhi Kathy sorridere spensierata e per poter passare un po’
di tempo con gli amici a cui era più affezionato.