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Autore: Quainquie    25/03/2012    5 recensioni
Quando la vita della sovrana di Camelot viene minacciata, Arthur e Merlin devono affrontare una sfida che potrebbe spingerli a riconsiderare la natura stessa della loro missione e del loro rapporto. Curiosamente, l'aiuto più significativo per impedire ai due di smarrire la via giunge dalla persona più inaspettata: Sir Percival.
***
«L’Isola ha già udito le tue preghiere, Morgana. Se il fato lo vorrà, ci rincontreremo per divenire sorelle di spirito» Inaspettatamente il piglio della bionda Sacerdotessa s’era ingentilito. Con un movimento aggraziato, aveva posato le mani sulla chioma insudiciata di Morgana e le aveva ingiunto, dolcemente: «Abbi fede, Morgana».
Genere: Avventura, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altro Personaggio, Merlino | Coppie: Merlino/Artù
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nel futuro
Capitoli:
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Carissime/i,

Siamo giunti al terzo capitolo e per questo vi ringrazio: è tutto merito vostro se mi sto applicando con costanza ad aggiornare in tempi ragionevoli e a scadenze regolari. Un grazie (che suonerà forse ripetitivo ma che è assolutamente imprescindibile) a tutte/i coloro che si sono ritagliati un po' di tempo per leggere la storia; il grazie decuplica per coloro che invece si sono prodigati a lasciarmi pareri, commenti e suggerimenti. Mi scuso per il lasso di tempo più lungo del solito che ho fatto intercorrere tra un aggiornamento e l'altro: l'università mi sta facendo impazzire. In compenso, vi sto per propinare la versione estesa del precedente capitolo – ossia un mattone.

Ripropongo il mio ritornello: vi consiglio caldamente la lettura della mia one-shot incentrata sul personaggio di Percival, Your enemies are my enemies. Prometto che da parte mia cercherò di includere man mano tutte le informazioni necessarie: tuttavia tengo molto al fatto che il lettore capisca le mie scelte di rappresentazione che, senza basi sul background di Percival, potrebbero parere quantomai balzane. Da ultimo: Merlin e tutti i suoi personaggi sono di proprietà dei loro autori e della BBC (e di una tradizione millenaria, su cui io fantastico un bel po' da anni).

Buona lettura!

Quainquie

 

 

 

Cap. III – Kings and queens have all knocked on his door

 

Florence + the Machine, My boy builds coffins

 

Merlin si divincolò, inutilmente: le braccia tornite e muscolose di Percival lo avevano inchiodato alla parete di pietra, creando una gabbia dalla quale era impossibile evadere secondo le leggi della natura – se non con la forza bruta, di cui il mago non disponeva di certo. Per un breve istante fu tentato di usare la magia per mandare il possente cavaliere a gambe per aria, ma qualcosa glielo impedì.

Fu questione di un istante. Percival stava torreggiando su di lui, il volto contratto in un'espressione di vorace intensità, le sopracciglia aggrottate da uno sforzo ingiustificato: dopo aver cercato di sfuggire alla sua presa, il giovane mago aveva disperatamente alzato il proprio sguardo per incontrare quello incandescente del cavaliere, in un muto tentativo di supplicarlo di lasciarlo andare. Rimase sconvolto alla vista di quegli occhi: le iridi grige e luminose di Percival esercitavano una sorprendente attrazione su di lui, fatale e inspiegabilmente intrigante, alla quale gli era impossibile sottrarsi. Sentì il desiderio insopprimibile di continuare a fissarle, per mandarne a memoria ogni pagliuzza argentata, come fosse un ricordo prezioso da riscoprire nei momenti di disperazione.

I lineamenti mascolini del cavaliere si affievolirono, piacevolmente, mentre i loro volti si avvicinavano. Anche quella presa, prima così impetuosa e implacabile, stava divenendo più gentile, quasi una sorta di abbraccio con cui il cavaliere lo attirava a sé, per vezzeggiarlo. Merlin chiuse gli occhi, soccombendo a quella sensazione di pura e semplice estasi, mentre le labbra di Percival, turgide e lievemente umettate, e il suo respiro tiepido gli lambivano il collo.

Emrys. Non mentire. Rendimi ciò che è stato sottratto.

Le palpebre di Merlin si socchiusero, e il giovane stregone si lasciò sfuggire un lamento, smarrito dalla forza delle sue percezioni, così selvagge, sensuali e brutali ad un tempo. Inaspettatamente fu scosso da un violento conato di vomito. Percival scattò all'indietro, mollando la presa sulle spalle del giovane mago, come se questi fosse divenuto incandescente.

Prima che le gambe lo tradissero, Merlin riuscì a gemere, con il sapore acido della bile che gli invadeva la bocca: «Cosa...?»

Il giovane mago cadde di peso in avanti, e le sue ginocchia ossute cozzarono ferocemente contro il pavimento sconnesso del sotterraneo. Sentì le ferite aprirglisi sulle rotule e il sangue colare lentamente attraverso il tessuto grezzo dei pantaloni. La voce incorporea e nel contempo splendidamente tonante, come la musica di un organo, invase di nuovo le sue orecchie, rombando come l'acqua che riesce a demolire gli argini che ne costringono il percorso.

Giurami che lo farai, Emrys. Sei la mia unica speranza.

«Io...» bofonchiò il moro, prostrato dalla potenza di quella voce che, come una miriade di spilli acuminati, gli perforava e infervorava le meningi, impedendogli anche soltanto di pensare senza provare un dolore fisico che metteva a seria prova anche il suo potere di mago.

Giuramelo, Signore dei Draghi. In cambio, io diverrò la tua unica speranza.

Quando non venne risposta dallo stregone, il dolore si fece ancor più lancinante e impietoso. Merlin si piegò ancora di più, aggrappandosi disperatamente ad uno spuntone della murata, ogni suo tentativo di rispondere a quell'attacco con la magia che s'annullava ancor prima di prender forma. Un soffio caldo, come una sensuale carezza, gli attraversò le labbra socchiuse e screpolate, e gli scese sul petto, facendogli rizzare i capelli alla base della nuca.

«Lo giuro!» urlò poi, stremato, quando quel bacio svanì in un rovente turbinio di spasimi, prendendosi la testa tra le mani, cercando di ricacciare indietro le lacrime che gli premevano come tizzoni ardenti sulle ciglia. «Te lo giuro!»

D'un tratto, il senso di oppressione che lo aveva costretto ad accasciarsi al suolo scomparve, così come il dolore che lo aveva assillato. L'aria torbida e polverosa di quel recondito androne del castello gli parve pura senza eguali, più cristallina persino della brezza che risvegliava il villaggio di Ealdor nelle mattine d'estate. Tentò, con insuccesso, di inalare cospicue boccate d'aria, ma si ritrovò a tossire violentemente, la gola irritata dalla polvere.

Fu rimesso in piedi con un gesto deciso, eppure delicato: «Ti senti bene, Merlin?»

Percival lo osservava con curiosa apprensione, come se si aspettasse da un momento all'altro di vederlo compiere un gesto insensato, come quello di fracassarsi la testa contro il muro. Merlin riacquistò l'equilibrio con qualche difficoltà, strizzando gli occhi per mettere a fuoco la sagoma gigantesca del cavaliere.

«Ha ragione Arthur, avresti fatto meglio a stare con lui. Sei troppo stanco» continuò Percival, e il suo tono tradiva quella che pareva una sincera preoccupazione per la condizione del giovane mago, che ora stava sussultando in modo spasmodico.

«Cosa mi hai fatto?» sibilò Merlin, sconvolto.

«Niente» rispose Percival, la confusione più genuina dipinta sul volto. «Ti ho chiesto se sai dove si trova la Coppa. Poi sei caduto, e ti contorcevi...»

«Tu mi hai spinto contro la parete! E a terra! Tu mi hai fatto giurare...!» ribatté Merlin di scatto, con violenza, come se la sua mente rifiutasse anche la sola idea che il cavaliere negasse a bella posta quanto era appena accaduto tra loro in quelle segrete.

Percival si rabbuiò, vedendo che Merlin aveva proferito quelle accuse con la più pertinace convinzione: «Ti sbagli. Io non ti ho nemmeno sfiorato! E anche se avessi tentato di farlo» aggiunse, come ponderando la questione, «di sicuro la tua magia avrebbe potuto liberarsi di un ammasso di muscoli come me con molta facilità».

Merlin abbassò lo sguardo sulle proprie ginocchia, come a cercare le ferite che avrebbero potuto provare inconfutabilmente la validità delle sue accuse. Rimase pietrificato quando vide che il tessuto delle sue braghe era perfettamente integro; si tastò le rotule, e non trovò segni di lesioni, né macchie di sangue, né carne tumefatta da lividi. Una domanda prese a logorarlo: cos'era successo alla sua magia in quei brevi istanti di delirio? Perché non aveva potuto reagire? Perché non aveva voluto davvero reagire?

«Cosa diavolo ti succede?» lo sollecitò Percival con urgenza crescente, sempre più turbato.

Merlin scosse il capo e si decise a mentire in risposta: «Nulla» Si massaggiò le tempie e sorrise debolmente al cavaliere: «È solo... stanchezza, credo. Questa storia della Coppa mi ha messo un po' in soggezione» ammise poi, sentendosi improvvisamente molto stupido all'idea di aver anche solo pensato che quell'omone dall'espressione gentile e dal carattere affabile potesse avergli gettato un sortilegio, costringendolo a promettergli di restituirgli la Coppa della Vita. Il cuore continuava a martellargli nel petto come se volesse infrangere la cassa toracica e rimbombare indisturbato nel vuoto dei sotterranei, ma il suo sesto senso – quello magico, appunto, ora in apparenza del tutto ristabilito – rendeva Merlin completamente certo del fatto che ciò che aveva appena avuto luogo non aveva nulla a che vedere con Percival, ma con una creatura magica molto potente che, forse, si era impossessata del cavaliere. Una creatura che lo aveva legato ad un patto magico, realizzò il moro con sempre più sgomento. Si tastò il petto, ma nulla era rimasto di quella carezza infuocata se non un arrossamento appena accennato.

Percival gli mise un braccio intorno alle spalle per aiutarlo a reggersi in piedi e domandò nuovamente, sollecito: «Sei sicuro di non voler riposare? Posso chiedere a qualcun altro di aiutarmi a cercare la Coppa» Abbozzò un sorrisetto: «In fondo, è appena l'alba».

Merlin ricambiò il sorriso e scosse il capo, respingendo l'offerta di riposo: «Voglio aiutarti. Infatti io... io so dove si trova la Coppa».

Dalla sorpresa Percival lo lasciò quasi cadere. Scombussolato, il cavaliere chiese con una punta d'ansia: «Dici sul serio? Perché non l'hai detto al Re?»

Alla menzione di Arthur, il sorriso di Merlin si affievolì: «Non sarebbe stato saggio» dichiarò. Fece un sospiro che a Percival parve un lamento. «Dobbiamo andare agli alloggi di Gaius».

«No» rispose Percival in tono categorico. Il giovane mago lo fissò con malcelato stupore finché il cavaliere spiegò in tono ovvio, come se stesse insegnando agli inesperti bambini della città bassa a brandire uno spadone: «Io non sarò il più saggio di tutti, ma tu nemmeno. Non possiamo trovare subito la Coppa, senza nemmeno allertare la servitù che la stiamo cercando. Desterebbe sospetti nel Re. Dobbiamo fingere che l'abbiamo trovata durante le ricerche» Fece una pausa e guardò lo stregone con serietà: «E nel frattempo, tu hai tutto il tempo per spiegarmi come diavolo fai ad avere quella cosa, quella Coppa».

Impressionato dalla lucidità del cavaliere – che, doveva ammetterlo, non gli avrebbe mai dato credito di possedere in così copiosa quantità – Merlin annuì.

«Forza» lo incitò allora Percival, senza smettere di sorreggerlo nella discesa dalle scale, «andiamo» Annusò l'aria in direzione degli alloggi della servitù e poi commentò sorridente: «Senti questo profumo? Minestra di legumi e pane di spelta fragrante. Parrebbe proprio che siamo arrivati giusto in tempo per metterci a tavola. Scommetto che Gwaine vorrebbe essere al posto nostro».
 

*  *  *

Arthur si avvicinò al baldacchino dove Guinevere giaceva, immobile e meravigliosa nella sua vestaglia di seta.

I ricci della regina, che la sua dama di compagnia lavava e spazzolava ogni giorno con infinita e desolata devozione, formavano un diadema di raggi corvini sul cuscino damascato, incorniciando il viso ambrato che, da settimane, non restituiva altro che quell'espressione serena che il giovane sovrano aveva imparato ad associare soltanto alla morte, come se tutti i ricordi dei sorrisi di sua moglie, viva e splendente, si fossero ridotti soltanto a questo. La morte. Arthur si sedette sul bordo del letto e le posò un lieve bacio sulla fronte, pervaso scioccamente dal timore di poterla svegliare o disturbare.

Era trascorso un intero ciclo lunare da quando Leon lo aveva raggiunto nelle sue stanze per narrargli la vicenda della Coppa. La vita di palazzo non era nel frattempo mutata: i messi che aveva inviato ai quattro angoli del regno sarebbero probabilmente giunti a destinazione di lì a qualche giorno; Leon e alcune pattuglie ausiliarie stavano setacciando i confini, alla ricerca di un accampamento Druido, purtroppo senza esiti degni di nota fino a quel momento. Quanto alla Coppa della Vita, la speranza di ritrovarla all'interno delle mura della cittadella scemava sempre più. Percival si era presentato a lui quella mattina con l'espressione di compunto sconforto che aveva ostentato ormai da settimane, annunciandogli che le ricerche nell'ala ovest del castello, la più remota e l'ultima ad essere stata rimessa in sesto dopo la distruzione di Camelot da parte di Morgana e Morgause, non avevano portato ai frutti sperati.

Il giovane Re rimase a fissare la moglie per quelle che gli parvero ore, assalito dal rimorso e dal terrore di non poter porre rimedio a quell'assurda situazione. Guinevere non si sarebbe svegliata, e lui non avrebbe potuto nemmeno disturbarla nel sonno, stavolta. Non avrebbe potuto insinuarsi a forza in quel letto e possederla.

Con orrore si rese conto che, in quell'istante, la regina era ormai soltanto un oggetto, splendido forse, ma inanimato, il medesimo in cui lui la trasformava tutte quelle mattine durante le quali, preso da rabbia e frustrazione, sentiva il bisogno di farla sua. Anzi, di farlo suo. Di fare suo quell'oggetto che, con dolcezza e remissività, si schiudeva per lui e per le sue ossessioni.

Gaius, da molti giorni a quella parte, gli aveva preparato ogni sera un infuso di valeriana e passiflora per calmare il rimorso che gli impediva di prendere sonno e, addirittura, di riposare.

Sire, non dovete incolparvi per ciò che è accaduto.

Il vecchio medico non poteva essere più nel torto. Anzi, tutti coloro che quotidianamente cercavano di alleviare il suo fardello – nella fattispecie il povero Merlin, sul quale non poteva fare a meno di sfogare la sua frustrazione – non facevano altro, nella loro ignoranza, che aumentarne la mole. Era responsabile per tutto ciò che era accaduto a sua moglie. Sicuramente non poteva accollarsi la colpa di averla maledetta: Morgana poteva prendersene tutto il merito. Ma poteva e doveva tormentarsi nel sapere che sicuramente Guinevere, se mai si fosse ripresa, non avrebbe mai più potuto rivolgergli quello sguardo d'amorosa contemplazione che gli aveva riservato per anni, convinta com'era che lui fosse il più prode tra i cavalieri e il più nobile tra gli uomini.

Il giorno in cui si erano uniti in matrimonio – più di un anno prima, rifletté Arthur tormentando l'anello che portava alla mano sinistra – il giovane sovrano aveva davvero creduto che tutto si sarebbe risolto semplicemente con la celebrazione in pompa magna di quello sposalizio: aveva atteso anni per poter sposare Guinevere, per poterla avere, per poter dimostrare che non era lui ad essere nel torto, ma suo padre. Suo padre, e con lui il suo inflessibile amore per le tradizioni, che volevano i Re di Camelot convolati a nozze con fanciulle di nobili natali che avrebbero dovuto perpetuare la dinastia dei Pendragon in tutto il suo prestigio, come aveva fatto, sacrificandosi, Igraine de Bois. Ma suo padre ora, dal regno dei morti, stava certamente guardando a lui e alla sua testardaggine con compassione e, forse, scherno.

Quanto può essere grande la sprovvedutezza di un giovane, pensò Arthur affranto, nella penombra opprimente di quelle stanze riccamente decorate.

Di una cosa era stato certo sin dal giorno delle nozze: voleva dei figli da Guinevere, e non soltanto perché credeva che fondare una famiglia fosse uno dei valori fondamentali di un'unione o perché il sentimento che lo legava alla moglie era profondo. Sarebbe stato ipocrita da parte sua giustificare il proprio desiderio di avere un erede soltanto con l'amore che provava per la moglie o per le tradizioni. La dinastia dei Pendragon vantava numerose generazioni di cavalieri e condottieri risalendo nei secoli, e si era sempre distinta per l'eccellenza dei suoi membri, anche quando questi ancora non detenevano il titolo di Re di Camelot: eccellenza di cui Arthur andava fiero oltre ogni dire.

Dopo che il marito aveva visitato il suo letto, Guinevere soleva posare il capo sulla sua spalla e ascoltarlo raccontare per ore, prima di cedere al sonno, le avventure degli avi Pendragon, la cui menzione era ancora in grado di rendere sognanti gli occhi di Arthur, nell'intimo desiderio un giorno di essere annoverato tra questi. Ma a volte, con gli occhi socchiusi, sull'orlo del mondo del sogno, Guinevere si lasciava sfuggire un sospiro, a metà tra il faceto e l'incerto: «E se non fosse un maschio, un prode cavaliere?»

«Guinevere, oh, Guinevere!» scoppiò Arthur al ricordo di quelle intime conversazioni, il corpo scosso dai singhiozzi, mentre appoggiava la testa sulle braccia incrociate, il tessuto fresco dei lenzuoli che gli solleticava il viso senza procurargli alcun sollievo.

Ad Arthur non sarebbe sinceramente importato di quale sesso il bambino fosse stato. La domanda che lo assillava corrodendogli l'anima era un'altra: perché quel figlio o quella figlia non aveva mai fatto la sua comparsa?

Era trascorso un anno dalle loro nozze, e la regina non aveva manifestato alcun segno di gravidanza, nonostante Arthur visitasse il suo letto ogniqualvolta ne avesse l'occasione. Anche Gaius stesso, dopo ripetute rassicurazioni sul fatto che il concepimento era un evento che necessitava di tempo, pazienza e tenacia, aveva cominciato a manifestare dubbi sul fatto che Guinevere fosse in grado di generare.

Naturalmente questo era rimasto un tema avvolto dalla più spessa coltre di segretezza immaginabile: nessuno avrebbe dovuto apprendere o anche solo sospettare della sterilità della regina. E non soltanto i nemici di Camelot – sopra tutti, l'assenza di un erede non avrebbe fatto altro che ringalluzzire Morgana e i suoi propositi di vendetta – quanto i suoi presunti alleati, coloro che abitavano entro i suoi confini. La stabilità interna del regno dipendeva in larga parte dalla stabilità della famiglia regnante e dalla sua continuità dinastica: se Arthur fosse morto senza eredi legittimi, riconosciuti dai suoi consiglieri e dalla nobiltà del regno, l'equilibrio e la pace di Camelot sarebbero svanite, travolte da lotte tra le famiglie ottimatizie e da tentativi di acquisire il titolo regio, che certamente non sarebbero avvenuti senza spargimenti di sangue, soprattutto di quello del popolino. Uther Pendragon aveva reso la monarchia di Camelot una monarchia ereditaria, ma questa rimaneva tuttavia una tendenza minoritaria, in netta opposizione con quella dei regni confinanti, determinata per elezione. Gli aristocratici e i nemici del regno non si sarebbero fatti scrupoli a ritornare al vecchio sistema, se questo avesse potuto offrire loro il titolo di Re e i fertili territori di Camelot, ricchi di messi e miniere di ferro, nonché la possibilità di portare Guinevere nel loro letto per umiliare anche l'ultima sfera di potere, quella dell'intimità coniugale, detenuta dai Pendragon.

Nella sua giovinezza Arthur aveva biasimato il padre, provando la più profonda repulsione per la sua decisione di sacrificare Igraine in nome di un erede e della stabilità del regno.

Io amavo tua madre.

La voce di Uther risuonò supplichevole nella sua mente. Nel profondo dell'anima, non senza vergogna, Arthur aveva continuato a credere che il padre gli avesse mentito: certo, amava Igraine, ma aveva amato di più la concretizzazione delle sue speranze dinastiche e delle sue rivendicazioni territoriali. Ma ora il giovane sovrano era certo che il padre gli avesse mentito. E la certezza nasceva dalla sconvolgente coincidenza, brutalmente servita dal destino, che lo voleva nella medesima posizione di suo padre: giovane, sempre in balìa di rischi e avventure, sposato con una regina d'indole buona e generalmente amata, ma privo di eredi di sangue che potessero venire legittimati – eccettuata Morgana, che tuttavia non aveva mai indicato come legittima e che, per ovvi motivi, non avrebbe mai indicato come tale.

Arthur si convinse finalmente ad alzare il volto dalle braccia, tenendo gli occhi serrati per evitare di vedere sua moglie. Oh, Guinevere, pensò poi, che prezzo dovremo pagare?

Quando Gaius li aveva confrontati riguardo lo stato di salute della regina, Guinevere aveva saputo dimostrare tutta la regalità e la dignità che si addiceva al suo neo acquisito rango. Era impallidita, e le sue mani avevano preso a tremare in modo incontrollato, ma non aveva versato una lacrima: si era fatta stoicamente animo e per giorni aveva rivolto a Gaius numerose, assillanti domande, alla ricerca di un qualsiasi consiglio o rimedio che potesse aiutare la giovane coppia reale ad esaudire il suo più intimo desiderio. Arthur sapeva che Guinevere sarebbe stata disposta a compiere qualunque gesto pur di renderlo felice e temeva la possibilità, ormai non più remota, che un giorno lo supplicasse di ricorrere alla magia. Nonostante tutti gli sforzi di Gaius e la determinazione della giovane coppia, qualcosa tra loro si ruppe quando quella possibilità divenne una realtà: Arthur si rifiutò categoricamente di considerare qualsiasi soluzione potesse includere la magia, e Guinevere, ferita, parve perdere tutte le sue speranze e la sua abituale energia.

Arthur non si era più dato pace da allora. Tutto il suo dolore e la sua delusione, pur non essendo direttamente rivolti alla moglie, si rovesciavano su di lei come un fiume in piena, travolgendola e sfinendola. Il loro fare l'amore era divenuto un atto meccanico, privo di qualsiasi tenerezza o rispetto reciproci: la sensazione di pienezza e soddisfacimento era ormai relegata a quelle che sembravano lontanissime memorie spettrali dei primi mesi di vita coniugale, accantonata da quell'ossessione che pervadeva le loro menti e i loro corpi, rendendoli pari a bestie. Non importava quanto potessero ferirsi, fisicamente e spiritualmente, purché queste ferite portassero alla realizzazione di quell'ormai sicuramente inesaudibile desiderio.

E quel mite giorno della scampagnata nei boschi non aveva fatto eccezione, si disse Arthur con amarezza, premendosi le dita sulla fronte, come a voler lisciare le rughe di preoccupazione e afflizione che da mesi la solcavano profondamente. La mattina del loro anniversario si era recato nelle stanze della regina, forse convinto che quel giorno, quella ricorrenza, avrebbe potuto essere di buon auspicio per il concepimento di un erede. Aveva svegliato Guinevere quasi di malagrazia, l'aveva posseduta senza indulgere nella cura del suo piacere: nessun bacio, nessuna carezza, nessuna schiena arcuata dall'eccitazione dovuta all'attesa, febbrile e nel contempo procrastinata, del culmine. Soltanto un accoppiamento rapido, ansimante, ostacolato dallo stesso corpo di Guinevere, che non era pronto per ricevere quell'atto invasivo e violento di cui Arthur era il latore. Quando, dopo svariate manciate di minuti di silenzio sepolcrale, si sollevò pesantemente dal corpo minuto della moglie, il giovane sovrano fu sopraffatto dalla vista delle lacrime sul viso di Guinevere.

Oh, Guinevere, è questo il prezzo da pagare?

Per tutto il giorno aveva cercato di consolarla, assumendo il suo atteggiamento più brillante, ricoprendola di sorprese, carezzandola con dolcezza, prendendole la mano inaspettatamente, ricoprendola di stupidi regali, tra cui quella maledetta collana di rubini, perché voleva che lo sentisse vicino, che lo perdonasse per aver fatto scempio di lei e del sentimento che li legava. Ma non si recuperava una serenità così faticosamente costruita in un solo giorno dopo averla infranta, e Arthur lo sapeva bene – lui stesso aveva impiegato lungo tempo per perdonare a Guinevere di essere caduta tra le braccia del compianto Lancelot.

Con vergogna, Arthur doveva ammettere che vedere Guinevere in quello stato di mortale serenità era un sollievo. Non avrebbe potuto farle del male finché quel torpore le impediva di risvegliarsi. Ma quando e se si fosse risvegliata, quale sorte sarebbe toccata alla loro unione?

Il sovrano si alzò con qualche difficoltà e uscì dalle stanze della moglie. La dama di compagnia di Guinevere era seduta nell'anticamera antistante a queste, e stava ricamando dei fazzoletti. Quando lo vide uscire gli scoccò uno sguardo carico di compassione che, nella consapevolezza delle sue colpe, Arthur non era in grado di sopportare. Impedì alla donna di alzarsi dalla panca su cui era comodamente seduta per inchinarsi a lui; la donna, confusa e mortificata, ubbidì.

Fu allora che Merlin – le gote arrossate dalla frenesia e il fazzoletto cremisi che, come al solito, gli cingeva collo tutto sbilenco, ovvero i dettagli che in un qualche modo avevano sempre il potere di dare sollievo al giovane Pendragon – fece irruzione nell'anticamera, con il fiato corto e gli occhi straordinariamente scintillanti. Prima che Arthur potesse dire qualunque cosa, Merlin gli gridò, la voce tremante per l'emozione a stento contenuta: «L'abbiamo trovata, Sire! Abbiamo trovato la Coppa!»
 

*  *  *
 

Raffiche di vento procellose e taglienti spazzavano le distese avvizzite di rovo e erica che separavano il regno di Camelot da quello di Mercia. Lord Bayard, nel più cortese rispetto del trattato di pace con Camelot, aveva concesso alla truppa capitanata da Sir Leon – pretendendo in cambio, sempre alla luce del trattato, che essa non compiesse saccheggi – di varcare i confini del suo regno per scovare un accampamento di Druidi che, secondo la gente dei villaggi vicini, si era installato nella regione qualche luna prima.

Leon aveva spinto i cavalli al galoppo, a rotta di collo persino, dimentico di qualsiasi buonsenso di cavallerizzo provetto. L'immagine dell'esanime Regina, della dolce Gwen, non gli abbandonava la mente. Ricordava quanto Gwen fosse stata premurosa, persino amorevole, nei suoi confronti, e quando l'aveva aiutato ad evadere le terribili prigioni di Camelot – sebbene costringendolo ad indossare una di quelle spaventevoli gabbie di tessuti e ninnoli in cui le donne inspiegabilmente amavano trincerarsi. Ricordava bene anche la bambina dai ricci scuri e spessi con cui era cresciuto, che ora era diventata una giovane donna coraggiosa: il suo affetto per lei gli rendeva quasi insopportabile il pensiero di essere costretto a vederla in quello stato per il resto dei loro giorni.

Li troverò, si disse il cavaliere con ostinazione, scostandosi una ciocca di capelli madida di sudore dalla fronte, la fibbia del mantello che gli segava il collo. Fosse l'ultima cosa che faccio.

«La luce sta calando, Leon» gli rammentò Sir Brennis, il suo secondo, affiancando la propria cavalcatura alla sua, «presto saremo costretti ad accamparci» Scrutò il cielo plumbeo e le nuvole che vi turbinavano con inusitata ferocia: «Ritorniamo all'ultimo villaggio» suggerì poi, speranzoso, mentre gli altri due membri della pattuglia, Sir Cador e Sir Geraint, annuivano con fare meccanico.

«La luce non è ancora del tutto svanita, Bren» replicò Leon con un fare paziente che tuttavia non ammetteva repliche. «È nostro dovere continuare le ricerche ogni giorno, ben oltre il tramonto. Cosa direbbe il Re di questo tuo suggerimento?» aggiunse poi, dicendosi che un poco di sano terrore poteva essere infuso nei suoi tre pavidi gregari senza causare spiacevoli controindicazioni.

Il volto di Brennis divenne terreo alla menzione del Re e al sottinteso della sua rabbia alla notizia che Sir Brennis, Sir Cador e Sir Geraint, nati in alcune delle più illustri famiglie aristocratiche di Camelot, avevano osato anche soltanto suggerire di interrompere delle ricerche che avrebbero potuto salvare la Regina.

«Io... credo sia meglio continuare» farfugliò Sir Cador, quando Brennis rimase paralizzato nel suo stolido mutismo.

«Ne convengo, Sir Cador» replicò Leon, alquanto freddamente, badando di mettere un'enfasi particolare e ben percepibile sul titolo Sir. Da ragazzo aveva sinceramente creduto che il titolo di cavaliere fosse una naturale conseguenza della nobiltà di nascita: ora, di fronte a quei tre codardi somari, che a corte andavano in giro imbellettati e scintillanti nelle loro uniformi, vantandosi a sproposito del proprio titolo, sapeva che quella concezione era antiquata e ingiusta.

Un Gwaine ubriaco vale centro volte questi babbei, pensò il cavaliere riccioluto, e gli rincrebbe profondamente che né Gwaine e il suo chiassoso brio, né Elyan e il suo buon carattere, né Percival e la sua rassicurante pacatezza fossero lì con lui in quel ventoso crepuscolo.

Il quartetto procedette in silenzio, addentrandosi per l'ennesima volta in quei giorni in uno dei boschi che cingevano le brughiere. Le fronde degli alberi stormivano violentemente, coprendo il crepitio degli zoccoli sulle foglie morte e i nitriti inquieti dei destrieri stremati. La luce stava ora davvero svanendo a velocità allarmante; Leon intercettò con la coda dell'occhio un cenno di scherno compiuto da Cador nella sua direzione.

«Non ci fermiamo!» annunciò con cocciutaggine, ammettendo tuttavia nel proprio cuore quanto fosse insensato continuare le ricerche in quelle condizioni. Però... c'era qualcosa in quella selva che lo spronava a continuare, l'incrollabile certezza che proprio lì, e in nessun altro luogo, avrebbe potuto trovare i Druidi.

«Invece ci fermiamo» ribatté Sir Geraint con stizza, smontando da cavallo con foga per rafforzare il suo rifiuto. Cador e Brennis seguirono il suo esempio, discendendo dalle loro cavalcature con dei balzi aggraziati. Ignorandolo, i tre presero a disfare i rotoli di coperte issati alle selle, e a togliere pentole e viveri dalle sacche che si erano portati appresso.

Leon si sentì montare una collera bruciante nel petto ma, come sua abitudine, la represse. Invece propose, conciliante: «Allora sistemate il campo. Io farò un breve giro di ricognizione».

Spronò il suo purosangue che, con un nitrito stanco, eseguì il comando e si addentrò ulteriormente nella boscaglia, con il lugubre accompagnamento dello scricchio di rami infranti. Leon era soprappensiero: l'oscurità crescente e la vegetazione fitta non lo turbavano – dopo tutte le avventure con Arthur si trattava ormai di ordinaria amministrazione. La certezza di sapere dove stesse andando era invece molto più inquietante. Era come se stesse procedendo guidato da qualcosa di indipendente dalla sua volontà. Dalla magia, si rese conto con orrore, quando improvvisamente, superata un'incolta accozzaglia di roveti, si trovò dinanzi ad un chiarore etereo e argentato.

Il cavallo fece un'impennata, spaventato da quella luminosità inattesa. Leon perse l'equilibrio e cadde in malo modo, finendo a faccia in giù sui ramoscelli di rovo. Incurante dei tagli che gli si erano aperti sulle mani, si rialzò di scatto, lacerando il mantello scarlatto in più punti, e impugnò l'elsa della spada. La sfoderò, puntandola dritta davanti a sé, determinato a sfidare a fronte alta chiunque gli si fosse presentato alla vista.

«Abbassa le armi, Leon, figlio di Griflet» gli intimò una voce soave e profonda, che Leon riconobbe subito.

Lasciò cadere la spada con un clangore che infranse il silenzio della foresta, spezzato altrimenti soltanto dal suo respiro ansimante e irregolare. Il cavaliere rimase in piedi a fronteggiare la maestosa figura circondata da una tenue aura perlacea, mentre altre – donne, uomini, bambini, anziani, a giudicare dalla varietà delle loro corporature – facevano capolino dalla boscaglia, ugualmente pervase da quel pacifico lucore.

«Vengo in pace» disse Leon, inginocchiandosi ai membri della comunità Druida.

Una mano grande e ferma gli si posò sulla spalla e lo obbligò a risollevarsi. Il cavaliere incontrò lo sguardo trasparente e penetrante di Iseldir, una – se non la più eminente e saggia – delle Guide spirituali della comunità Druida, a cui Leon era debitore della vita. Il Druido era esattamente come lo ricordava; gli anni non avevano modificato il suo aspetto. Alto e dal fisico prestante, con folti capelli leonini e cinerei, l'espressione grave, cesellata da rughe di saggezza, che trasmetteva tuttavia serenità e equilibrio. Le palpebre cadevano sugli occhi azzurri e intelligenti, animati come sempre da una scintilla di compassione, due stelle d'inverno al di sopra di un naso piuttosto grosso e pronunciato. Era abbigliato alla maniera druida, con drappi di tessuto verde intenso che lo avvolgevano con eleganza.

Dato che il Druido non replicò a quella dichiarazione, Leon alzò il volto e proseguì: «Vi devo la vita, non dubitate della mia buonafede. Vengo in pace, sotto gli stendardi di Re Arthur Pendragon, figlio di Uther...»

La voce pacata di Iseldir lo interruppe con gentilezza: «Sappiamo già tutto, mio giovane cavaliere. Non c'è nulla della sventura che si è abbattuta sulla stirpe dei Pendragon che ci sia rimasto celato».

Rincuorato da quelle parole, Leon continuò, con foga: «Il Re ha disperatamente bisogno del vostro aiuto, mio signore, e della vostra saggezza in tutte le cose di questo mondo» Fece una breve pausa, tentando di calmare il battito furioso del proprio cuore: «Il mio Sire ha mantenuto fede al suo giuramento di mostrare nient'altro che gentilezza e misericordia al vostro popolo. È consapevole dell'avversione, dell'astio che provate nei confronti della sua stirpe...»

«Non c'è astio o avversione nei nostri cuori, giovane Leon» lo corresse Iseldir, sempre con la medesima cortesia, sollevando una mano per interrompere il flusso di parole del cavaliere, «soltanto tanta amarezza e tanta delusione per le azioni riprovevoli perpetrate da Re Uther. Ma nessuno, bada, nessuno più di noi nutre speranza nelle gesta del tuo Sire, Arthur della Stirpe della Testa del Drago».

Leon annuì, colpito dalla sincerità e dall'autorità che la Guida Druida infondeva con estrema naturalezza in ogni sua parola, in ogni suo gesto. Comprese che quella luce, perlacea e confortante, non era altro che il riflesso della purezza delle anime dei Druidi, anime buone, caritatevoli e sagge, che lo avevano guidato sino a loro, perché potesse parlare con loro e richiedere il loro aiuto.

«Il Re invoca il vostro aiuto, mio signore» La voce di Leon, ora ferma, risuonava chiara nel bosco. «La vita della Regina può essere salvata solo grazie alla vostra saggezza. Vi prego, mio signore: ella è un'anima dolce e buona, e tutto merita fuorché questa triste sorte» aggiunse il cavaliere riccioluto di sua iniziativa, fissando intensamente Iseldir negli occhi, sperando che questi fosse in grado di leggere nel suo cuore traboccante d'emozioni. «Il Re non potrà mai ricompensarvi abbastanza, per sua stessa ammissione, ma farà tutto ciò che potrà per proteggervi e riparare al torto che avete ingiustamente subito per anni. E per quanto possa valere... avete la mia parola, signore, che non mancheremo di gratitudine. Io devo la vita alla vostra generosità e alla vostra saggezza nelle arti magiche. Per quanto potrò, sarò il vostro alleato più fervente e fedele. Vi scongiuro».

Per tutta risposta, si alzò un mormorio dal gruppo di Druidi che circondava Iseldir. Con intimo ed estremo sollievo, Leon si accorse che non era un mormorio rabbioso, indisponente, da api infuriate a cui erano stati sottratti i fiori più dolci; era un dolce sussurro, l'espressione della solidarietà del popolo Druido alla sua causa – sua, e di Re Arthur. Senza rendersene conto, il cavaliere sorrise, anzi, quasi rise di gioia.

«Giovane Leon, il tuo cuore è pure e buono quanto quello della tua Regina e del tuo Re» rispose Iseldir, dopo aver consultato silenziosamente le figure che lo attorniavano. «Ti daremo il nostro aiuto; ma sia tu che il tuo Re sapete che il prezzo di questo aiuto non dipende da noi. Noi siamo solo il privilegiato tramite di una realtà infinitamente più potente. È pronto il tuo Re a questo?» aggiunse la Guida, lo sguardo ora talmente intenso da penetrare dritto nell'anima di Leon.

Senza esitazioni, Leon rispose: «Lo è, mio signore. Tutta Camelot lo è».

Iseldir gli diede lentamente le spalle, con un impercettibile fruscio della veste, e si rivolse ai membri della sua Famiglia. La sua voce risuonò risoluta ed inequivocabile: «Fratelli e sorelle miei, siate pronti: un lungo viaggio ci attende. Domani, all'alba, intraprenderemo il nostro Cammino verso Camelot».

Sopraffatto dalla propria eccitazione, Sir Leon non si accorse dell'intensità di quella che serpeggiava fra i Druidi. Se lo avesse fatto, si sarebbe reso conto che quel sentimento di esaltazione, vibrante eppure sereno, avrebbe fatto impallidire qualunque altra emozione: non c'era nulla che i Druidi potessero accogliere con più entusiasmo e gioia che l'inizio del Cammino verso Albion.

 

 

Dopo tanto rimuginarci sopra, ecco un capitolo per cui mi aspetto delle critiche, e non soltanto perché è evidentemente un capitolo 'noioso', 'di transizione'.

Ho riflettuto a lungo sul bivio narrativo che mi si era presentato davanti: da una parte, fare della ricerca del Calice il perno della narrazione, con annesso l'onnipresente Gwen in stato catatonico; dall'altra, salvare Gwen da subito e rendere la restituzione della Coppa il fulcro della vicenda. Quest'ultima scelta potrebbe non piacere, e ne sono consapevole, perché implica un rallentamento dell'azione: ma per me lo sviluppo del rapporto tra Merlin e Arthur è un passo cruciale. La loro relazione non avrebbe mai potuto essere messa alla prova in modo equo se Gwen, poveraccia, avesse avuto l'infausto privilegio di attirare le attenzioni del marito per via della sua condizione in bilico tra la vita e la morte.

Il fatto che Guinevere possa essere sterile non è naturalmente una mia invenzione: nel ciclo bretone la sterilità era naturalmente collegata con una regina adultera per evitare di dover trattare, nella letteratura di svago, di argomenti spinosi come l'illegittimità: Ginevra e Isotta sono tra gli esempi più illustri di regine sterili a priori (ossia prima addirittura di compiere l'atto adulterino). So che qualcuno potrebbe obiettare che nella serie Guinevere non è adultera per scelta. Ben detto: nella serie, non nella mia storia. State sintonizzate/i, mi raccomando!

Mi scuso inoltre per essermi dilungata sulle questioni dinastiche e di accesso al trono. Chi studia storia medievale sa che queste sono all'ordine del giorno in ogni famiglia aristocratica dell'epoca. Da brava e irrecuperabile medieval freak, non ho potuto esimermi dal menzionarle profusamente. Spero che alcune/i di voi saranno lieti di vedere che, se Leon in precedenza è stato dipinto come un tonto, ora è stato riscattato – mi auguro – a dovere.

Come sempre, critiche, annotazioni e pareri sotto forma anche di brevissime recensioni sono benaccetti e, diciamocelo, desideratissimi! Io sono una mezza calzetta nella descrizione dei sentimenti, per cui ogni commento a riguardo sarà trattato come parte integrante del tesoro della regina di Saba. Anzi, qualunque vostra perla di recensori sarà per me un tesoro.

Come di consueto, mi scuso vivamente per qualsiasi errore troviate nel testo.

A presto!

Quainquie

 

  
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