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Autore: Brin    29/03/2012    2 recensioni
Non si può restare a guardare quando una mano sconosciuta porta via ciò che di più caro hai al mondo: questo è quanto Sari Kalabis sperimenta sulla propria pelle nel momento in cui uno dei pilastri della sua vita le viene strappato per sempre.
Non sa, però, che il desiderio di sapere perché la porterà su strade pericolose, lastricate di interessi a cui non dovrebbe avvicinarsi. Verso i sotterranei di un carcere da cui non si può uscire, nella pancia di un incubo folle e delirante che non dovrebbe esistere.
Genere: Fantasy, Mistero, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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9



9.

CONFIDENZE



*



Era una stanza piccola, illuminata da pochi deboli raggi lunari. Il suo regno.
In quel luogo mistico il suo potere era ancora più forte, e la sua vista poteva arrivare lontano, in luoghi impensabili per qualunque altro Maior.
Jariel lo sapeva bene: lui era l’unico che potesse aiutarlo, nonostante l’idea lo disgustasse. Aveva capacità chiaroveggenti, le più rare e le più utili tra tutte le abilità che un demone potesse sviluppare in millenni di evoluzione.
Quando penetrò le pareti d’ombra del santuario, Jariel lo vide subito: una figura ammantata, con il cappuccio che gli oscurava il viso e rendeva impossibile distinguerne le fattezze.
Se ne stava sdraiato su un triclinio, e l’unica cosa che Jariel riuscì a intravedere furono le mani ossute, scheletriche, dalle unghie lunghissime.
«Che cosa ci fai qui?» domandò il veggente con voce stridula, spiacevole da sentire. Jariel frugò nelle tasche dei pantaloni. Quando si avvicinò al demone, gli allungò una fotografia piccola, dai bordi consumati.
«La figlia di Kalabis è stata presa in ostaggio da un assassino in fuga. Devi dirmi dove si trova.»
Il veggente studiò la foto in silenzio, con attenzione, sfiorando l’immagine di Sari. Chiuse gli occhi, respirò profondamente isolandosi da tutto ciò che lo circondava, entrando in uno stato di trance.
Lontano, oltre la terra arida dei demoni. Oltre l’oceano che li separava dai maghi. Poi a nord.
Una cittadina piccola.
Sul mare.
«Naima.»
Ed era tutto ciò che serviva a Jariel: sfilò la foto dalle mani del veggente, infilandola di nuovo nella tasca dei pantaloni, e si allontanò. Ma prima che potesse oltrepassare il muro d’ombra, la voce stridula del demone alle sue spalle lo fermò, disgustosamente interessata.
«Ma tu che cosa stai cercando?»
Jariel si voltò a guardarlo con indifferenza.
«Voi veggenti non vi stancate mai di ficcare il naso in questioni che non vi riguardano? Non capisco perché Sarmon si ostini a tenersi vicino delle creature così viscide...»
Il demone sembrò osservarlo da sotto il cappuccio per un lungo istante, probabilmente con un’espressione risentita e seccata. Espressione che scivolò addosso a Jariel.
Poi sghignazzò malevolo. Subdolo.
«E io non capisco come mai si ostini a far uscire da quella topaia un rifiuto come te.»
L’istante successivo era letteralmente accasciato sul triclinio, sotto il peso di un dolore troppo intenso per essere sopportato. Era come se qualcuno gli stesse trapanando il cervello. E non smetteva di dimenarsi, reggendosi la testa.
Il cappuccio si abbassò nella foga dei movimenti, rivelando un volto scavato, raggrinzito, e due occhi neri sbarrati che guardavano il soffitto colmi d’orrore.
E urlava, con tutta la sua voce.
Ma poi, qualunque cosa fosse, terminò all’improvviso: non ci fu più dolore. Quella fitta terribile era passata, lasciando solo un lieve senso di pesantezza.
Il veggente ridacchiò, respirando affannosamente. «Hai paura di Sarmon, per questo non mi hai ucciso. Non mi impressioni con i tuoi trucchetti.»
Jariel lo guardò con aria di sufficienza.
«Vogliamo provare?»
Il veggente non rispose. Si limitò a fissare Jariel, che sogghignò.
«Ti saluto, e grazie dell’informazione.»


*


Nei corridoi del carcere di Artika, il silenzio era molto fragile: era impossibile camminare senza fare rumore, e questo Amaya e Silver lo capirono all’istante.
La guardia che li stava accompagnando sembrava non considerare il rimbombo un problema, e loro fecero altrettanto. Si fermarono davanti a una porta in ferro, oltre la quale si trovavano le celle di prigionia: la guardia l’aprì, lasciando che Amaya e Silver proseguissero.
Il poliziotto fu il primo a oltrepassare la porta, sfilando di fronte ai carcerati che lo guardavano incuriositi. Probabilmente era raro per loro vedere qualche volto nuovo, in visita.
Silver si fermò di fronte a una cella. All’interno, un uomo con una benda nera sull’occhio sinistro se ne strava sdraiato sulla branda. Un uomo che Silver aveva già visto, circa sei mesi prima.
Volker Kramer.
Sapeva della presenza di Silver, era inevitabile dal momento che il poliziotto non era stato certo silenzioso, eppure non lo degnò di uno sguardo.
Silver guardò Amaya, scettico. Sospirò.
«Signor Kramer…»
«Sí?» Volker rispose annoiato, senza disturbarsi a guardare il poliziotto in faccia. Nel frattempo, la guardia del carcere stava frugando tra le chiavi del mazzo che aveva in mano.
«La Corporazione ha emesso l’ordine di riportarti al dipartimento di polizia di Rosya per ulteriori indagini sul tuo caso» spiegò Silver. Il prigioniero si mise a sedere all’improvviso, guardandolo confuso.
«Mi stai prendendo in giro?»
«Non sarei venuto fin qua da Rosya solo per divertirmi alle tue spalle, te lo assicuro.»
Quando la guardia entrò all’interno della cella, Volker teneva le mani dietro la schiena, docile, pronto per essere ammanettato. Ma a giudicare dal suo sguardo, non era ancora completamente convinto del motivo per cui Silver si trovava in carcere.
Si lasciò condurre fuori, e quando si accorse di Amaya le sorrise malizioso.
«Ciao…»
L’elfa lo squadrò dall’alto in basso con le braccia conserte al seno, fredda. A giudicare da una prima occhiata, Volker sembrava incarnare alla perfezione il prototipo di uomo che più detestava: un comunissimo esemplare di maschio medio, troppo attratto dal sesso femminile per rinunciare a correre dietro a ogni gonna su cui metteva gli occhi.
E non c’era nulla di più repellente e fastidioso di un uomo così, per Amaya.
«A meno che non sia strettamente indispensabile, ti sarei grata se evitassi di rivolgermi la parola.»
«Siamo di buon umore, vedo…» la stuzzicò Volker ridacchiando.
Amaya sospirò irritata. Aveva intuito dall’inizio quale fosse la tattica di Kramer, e l’unica soluzione era non prestargli attenzione.
«Andiamo alla macchina» bofonchiò non appena la guardia ebbe richiuso la cella. Silver la seguì, trascinando il prigioniero per il braccio.
«La ragazza è sempre così di buon umore?»
«Kramer…» Amaya sibilò. Era il classico segnale: l’elfa aveva raggiunto il limite, e proseguire poteva essere pericoloso. Peccato che non fosse l’unica ad aver esaurito la pazienza.
«Ora basta! Piantatela o vi lascio qui!» sbottò Silver. Con la coda dell’occhio gli sembrò di vedere Volker sussultare, e la cosa gli procurò un bizzarro piacere.
Il carcerato rimase in silenzio durante tutto il tragitto per raggiungere la macchina. Anche una volta salito a bordo sembrava restio ad aprir bocca, Amaya lo notò con una certa punta di soddisfazione.
Lo avevano sistemato nel retro, e le portiere erano controllate da un sistema di sicurezza che permetteva di aprirle solamente dall’esterno. I posti anteriori erano invece protetti e resi inaccessibili a chi sedeva dietro da una grata su cui circolava la corrente elettrica.
Una macchina a prova di carcerato, dentro la quale Kramer non avrebbe potuto giocare nessun tipo di scherzo.
«Volker, ora che siamo soli ascoltami» non appena mise in moto, Silver lo guardò dallo specchietto retrovisore.
«C’è anche la ragazza…»
Amaya, seduta accanto al poliziotto, alzò gli occhi al cielo. Non lo avrebbe sopportato a lungo, ne era sicura. «Elfa. E comunque sta’ zitto e ascolta ciò che ha da dirti Silver.»
«Se me lo dici con quel tono autoritario, non posso far altro che obbedire» mormorò Volker, malizioso.
Amaya fu sul punto di scoppiare, ma Silver fu più veloce di lei.
«Sta’ zitto e ascolta, prima che perda la pazienza! Lo sai che la condanna per attentato è la pena capitale, vero?»
«Sí, ma vi ho già detto che non sono stato io» Volker guardò fuori dal finestrino, improvvisamente serio.
« Lo sai che basterebbe anche solo l’accusa di traffico di magia nera per condannare qualcuno a morte, vero?»
Kramer annuì nuovamente.
«E non neghi l’allevamento di draghi, giusto? »
«No.»
Silver gli gettò un’altra occhiata attraverso lo specchietto, sapendo che a quello non poteva dire di no.
Sorrise, con la vittoria già in pugno.
«Aiutaci e noi aiuteremo te a sparire dal regno.»


*


Naima. Una città di mare come tante, a Silindril. Eppure c’era una cosa che in pochi sapevano, qualcosa che doveva rimanere a conoscenza del minor numero di persone possibile: dal porto partiva regolarmente una nave mercantile uguale a tutte le altre a prima vista, ma che in realtà nascondeva uno speciale scafo rinforzato. Era una rompighiaccio.
E ciò che doveva rimanere segreto era la sua destinazione: andava a nord, oltre il mare. Verso il continente di ghiaccio. Andava ad Artika, con il suo carico di viveri e medicine.
Quella sera la nave era appena rientrata in porto dopo l’ennesimo viaggio di ritorno dal carcere.
Per la padrona della locanda, quella sarebbe stata una buona serata: tutti i marinai appena sbarcati erano lì, nel suo locale, a bere la sua birra. E questo voleva dire soldi.
Era molto indaffarata, e non riusciva a trovare un momento per fermarsi a riposare: continuava ad andare dal bancone ai tavoli per servire i clienti, ma questo non le pesava affatto.
Era una signora di mezza età, in carne, florida e burrosa, madre di cinque figli uno più pestifero dell’altro. E la locanda era la loro unica fonte di sostentamento.
Per questa ragione si gettava nel lavoro con tutta l’anima, come una piccola formica operosa. Forse fu per questo che non si accorse dei due forestieri appena entrati.
Si fermò solo quando notò che tutti i suoi clienti si erano zittiti e stavano guardando verso la porta: un losco figuro si era fermato sull’uscio e, accanto a lui, c’era una ragazza umana.
La prima cosa che la locandiera vide –e non senza una certa inquietudine- furono le catene che stringevano i polsi dell’uomo. Doveva essere un fuggiasco, o qualcosa di simile: non c’era altro modo per spiegare quella ferraglia.
La seconda cosa che le saltò all’occhio fu lo stato pietoso in cui versava la casacca che l’uomo indossava, probabilmente fatta di un materiale poco pregiato e scadente.
E poi c’era quell’aspetto inquietante, quel modo di guardare che la metteva a disagio. La cera malconcia dell’uomo suggeriva che non dovesse aver passato dei bei momenti negli ultimi tempi.
Ma se lui sembrava essere uscito da uno di quei filmacci horror che piacevano molto alle nuove generazioni di esseri umani sbandati e lasciati a se stessi, non si poteva dire lo stesso della ragazza in sua compagnia, probabilmente di buona famiglia.
Quando vide l’uomo dirigersi verso il bancone, la locandiera gli si fece incontro cercando di apparire disinvolta e di sorridere con naturalezza. Solo più tardi si accorse che la ragazza era rimasta sulla soglia.
«Buonasera.»
«Una camera.»
«Per due?»
«Quello che avete» mormorò Namar prima di lanciare un’occhiata minacciosa a Sari. Una cosa fu improvvisamente chiara alla proprietaria della taverna: l’umana era riluttante a entrare, eppure era bastato un solo sguardo di quell’uomo per farla cedere. C’era qualcosa in lui che la intimoriva, qualcosa che bastava per ottenere obbedienza.
Quando la ragazza lo raggiunse, l’uomo guardò di nuovo la locandiera. Sembrava scocciato. «Allora?»
«Al secondo piano» gli fornì immediatamente le chiavi della stanza.
Namar gliele strappò letteralmente di mano, e si diresse verso le scale trascinando Sari per un braccio.
Nessuno parlava più: tutti fissavano i nuovi venuti, come inebetiti, e in quel silenzio si levava solo il borbottio della psicologa, che si lamentava della presa sul suo braccio.
La locandiera era basita, e non sapeva cosa pensare. L’unica cosa sicura, era che non voleva grane nella sua locanda: un’ottima ragione per far finta di non aver visto nulla, a meno che non fossero le grane stesse a venir da lei.


*


La porta si aprì all’improvviso, con un botto rumoroso. Namar spinse Sari dentro la stanza, e la ragazza incespicò finendo inevitabilmente a terra.
«Senti un po’! Vedi di darti una calmata!» esplose Sari, rialzandosi in piedi. Nella caduta, le mani avevano grattato contro la moquette da due soldi che rivestiva il pavimento, e le pulsavano dolorosamente.
«Sta’ zitta» Namar mormorò distrattamente, diretto verso il bagno.
Sari fremette rabbiosa, e non era assolutamente intenzionata ad assecondare i desideri dell’evaso. Lo seguì, decisa a farsi finalmente valere.
«Non ci penso nemmeno, adesso ascolti quello che ho da dirti!»
«Come no…» rispose sarcastico Namar, intento a specchiarsi. Stava studiando minuziosamente il proprio riflesso, con un’attenzione certosina. Sfiorò l’ombreggiatura più scura che coloriva la pelle appena sotto gli occhi, poi fu la volta dei capelli ingarbugliati.
L’interesse con cui stava svolgendo quelle operazioni, faceva presagire che ottenere la sua attenzione non sarebbe stato semplice.
E Sari era stanca, così tanto che a stento riusciva a tenere gli occhi aperti. Da quando era morto suo padre, non riusciva quasi mai a dormire. Come se non bastasse, la tensione dovuta al rapimento non faceva altro che aggravare ulteriormente il suo precario equilibrio psico-fisico.
L’ultima cosa di cui aveva voglia –e che sarebbe riuscita a sopportare- era l’ennesimo, logorante esaurimento nervoso dovuto al tentativo di ottenere un briciolo d’attenzione da parte di Namar.
«Al diavolo» borbottò, arrancando verso il letto. Si lasciò cadere sul materasso, e un sorriso deliziato le curvò le labbra. Quella era la cosa che in assoluto le era mancata di più, da quando era partita per Artika: un bel letto comodo e spazioso, un cuscino non eccessivamente morbido né troppo duro, e lenzuola pulite che profumavano ancora di bucato.
Le sembrò di essere a casa; bastava che tenesse gli occhi chiusi per immaginarsi sul suo letto. Nel suo appartamento, ai piedi di Rosya.
Ma poi la realtà si presentò in tutta la sua crudeltà. Lo fece nel modo più seccante possibile, nel bel mezzo del riposo tanto desiderato.
Quando aprì gli occhi, vide Namar seduto di fianco a lei, intento a guardarla con insistenza. E la cosa la innervosì.
«Che vuoi? »
«Scendi.»
«Cosa?» Sari riuscì a stento a non ridere.
«Muoviti e scendi, voglio dormire.»
Era un ordine, il tono perentorio che Namar aveva usato lo rendeva evidente. E Sari non riuscì a trattenersi.
Si mise a sedere, decisa a lottare per i propri diritti.
«Su questo letto ci stiamo comodamente entrambi. Sono stanca almeno quanto te e, detto questo, sul pavimento non ci dormo. Ficcatelo bene in testa.»
«Come vuoi, dottoressa» Namar la afferrò per un braccio e la spinse lontano, verso il muro. Nel vano tentativo di non cadere a terra, Sari urtò contro il comodino e la lampada che si trovava in cima cadde a terra, finendo in pezzi.
«Non vuoi che ti uccida, vero?» quando l’evaso le si inginocchiò di fronte, un odore acre la assalì e Sari fu costretta a trattenere il fiato.
Era normale che in prigione non coccolassero i detenuti con lunghi bagni caldi e profumati, si disse, ma non riuscì a non pensare che quell’uomo puzzava di vecchio, chiuso e sporco.
E che ogni minuto che trascorreva assieme a lui metteva a dura prova il proprio autocontrollo, ormai diventato molto precario. Ne era una prova il comportamento che aveva tenuto da quando avevano messo piede nella camera: non si era tirata indietro quando si era trattato di farsi valere, adottando un atteggiamento ostinato e volitivo, consapevole dei rischi in cui sarebbe potuta incorrere.
Aveva la netta sensazione che presto o tardi si sarebbe ribellata apertamente, tentando qualche azione avventata dai risultati che preferiva non immaginare.
Guardò Namar con astio, sforzandosi di tacere. Lui ghignò, ben consapevole degli sforzi che Sari stava facendo per trattenersi.
«Brava, dottoressa. Il segreto è collaborare.»
Zitta!
Sari si morse il labbro. La tentazione di inveire contro di lui era estremamente forte, ma se gli avesse risposto, se ne sarebbe sicuramente pentita per il resto dei propri giorni.
Quando Namar si rialzò, lei si concesse di respirare a pieni polmoni. Lo trovò piacevolmente rilassante.
«Potresti almeno lavarti, già che siamo qui... » mormorò tra sé e sé, sovrapensiero. L’idea che Namar potesse sentirla non la sfiorò minimamente, ma rimase sorpresa quando lo vide annusarsi le braccia con una smorfia disgustata.
«Effettivamente... » concordò l’evaso. Serrò la porta d’ingresso, portando con sé la chiave. Poi si chiuse in bagno facendo scattare la serratura, e l’istante successivo il rumore di un getto d’acqua suggerì che Namar fosse sotto la doccia.
Il cuore di Sari cominciò a battere all’impazzata.
Era il momento perfetto per fuggire.
Balzò in piedi, improvvisamente speranzosa, correndo verso la finestra. Quando la spalancò, la delusione fu cocente: non c’erano alberi, né c’erano appigli. Non c’era nulla.
Non poteva saltare, né poteva calarsi. Era troppo alto, e se si fosse buttata di sotto si sarebbe certamente rotta più di un osso. O peggio.
«Dannazione!» sbottò, lasciandosi cadere sul letto. Si sentì persa, in trappola.
Aveva voglia di gridare, di piangere, di mettere a soqquadro la camera e distruggere tutto ciò che le capitava sotto mano per costringere la locandiera a salire. Magari li avrebbe costretti a rimanere lì, e nel frattempo sarebbe arrivato l’esercito, e allora quell’incubo sarebbe finito.
Era sicura che il C.S.M. si fosse già messo sulle loro tracce, e probabilmente gli uomini di Rider non erano neppure troppo lontani.
Aveva voglia di gridare e sfogarsi, ma non ne aveva la forza. Era troppo stanca.
Rimase sdraiata, con gli occhi chiusi ad ascoltare il proprio respiro: un ritmo leggero che la gettò quasi subito in un sonno agitato e per nulla riposante.
Quando Namar uscì dal bagno, con un asciugamano sui fianchi e gli stivali del carcere ai piedi, lo sentì appena: il rumore delle catene raggiunse a stento la sua coscienza sopita, e Sari si svegliò solamente quando un timido raggio di sole le ferì gli occhi.
La prima cosa che notò quando si guardò attorno, ancora assonnata, fu l’evaso: era seduto davanti a lei, per terra, con la schiena contro il bordo del letto e la testa a ciondoloni. Indossava la casacca del carcere.
In un primo momento credette che fosse sveglio, ma quando sentì il suo respiro lento e regolare, capì che era addormentato.
E, cosa che la lasciò sorpresa, stava dormendo sul pavimento.
Non l’aveva buttata giù dal letto.
Sari si sedette lentamente, attenta a non svegliarlo, e indugiò a studiare l’espressione indifesa che Namar aveva in quel momento. Vederlo così rilassato, come se fosse una persona qualsiasi con una vita ordinaria, le faceva uno strano effetto.
Gli sfiorò una guancia, con leggerezza. Un contatto quasi impercettibile, ma per l’evaso fu sufficiente.
Si svegliò di soprassalto facendola sussultare, e prima di capire che cosa stesse succedendo –quale fosse la fonte di quel contatto- le catturò il polso in una stretta forte, e si allontanò all’improvviso.
Sari lo guardò stupita. Ciò che lesse negli occhi dell’evaso fu ancora più sorprendente, e la travolse nella sua intensità: era terrorizzato.
Un’espressione di cui la psicologa non riuscì a capacitarsi, ma che la turbò. Come se lui avesse paura di essere toccato. Come un cane bastonato di fronte a una scopa. Preferì non pensarci troppo, non in quel momento.
Non appena la riconobbe, Namar le lasciò il polso sbuffando.
«Ti avverto, non mi devi toccare» ringhiò, evitando di guardarla in faccia.
«Figurati se ti tocco…» Sari si strinse nelle spalle, ribattendo con acidità.
L’evaso non rispose. Scivolò in avanti con il bacino, fino ad appoggiare la testa sul materasso. Guardò il soffitto, improvvisamente meditabondo.
«Cosa ci facevi ad Artika?»
Per un istante Sari credette di aver capito male. L’idea che Namar fosse dell’umore adatto per delle confidenze era quanto meno assurda.
Lo guardò con occhi sgranati. «Come?»
«Cosa ci facevi ad Artika?»
«Non vedo perché dovrei venire a raccontare i fatti miei a un allucinato come te... » rispose acida. Namar non sembrò minimamente toccato dalle parole della ragazza.
«Però stavi cercando qualcosa. O qualcuno. Qual è l’opzione corretta, dottoressa? » la guardò con un sorrisetto ambiguo. L’improvviso interesse dell’evaso per quella faccenda era sospetto, e oltre modo inquietante. Inoltre, era evidente che sapeva dove andare a parare, e probabilmente conosceva già la risposta alle proprie domande. Ma nonostante questo, voleva strapparle una confessione.
«Qualcuno.»
«Ma certo, Shem Gaynor... È stato poco con noi, ma deve essersi divertito parecchio» rispose, sornione. E fu abbastanza per riempire Sari di speranza.
Balzò giù dal letto, con il cuore in gola.
«Che mi sai dire di lui? »
Era così elettrizzata dall’idea di poter finalmente riuscire a scoprire qualcosa riguardo a Shem, da dimenticare che Namar non era certo il tipo di persona da cui potesse ricavare informazioni di valore: l’evaso non la stava più ascoltando, di nuovo perso nei propri pensieri. Chiuso in un mondo che apparteneva solo a se stesso.
Non la guardava neppure. E Sari si sentiva sempre più frustrata.
Fu sul punto di tornare a riposare, quando li vide: sui palmi di Namar c’erano due tagli, profondi e infetti. E solo ora si accorse di quanto fossero gonfie le sue mani, per la prima volta senza bende.
Doveva essere piuttosto doloroso, ipotizzò Sari.
Quando la voce di Namar la sorprese, sussultò: l’evaso la stava guardando con un sorrisetto sfuggente.
«Scoperto qualcosa d’interessante?»
«Come ti sei procurato quei tagli?»
«Non ho tendenze autodistruttive.»
Sari non riuscì a credere a ciò che aveva appena sentito. Guardò Namar, confusa.
«Vuoi dire… Mi stai dicendo che qualcuno ti ha fatto questi tagli?»
Non ottenne alcuna risposta da parte dell’evaso, che si limitò a guardarla. E Sari non sapeva davvero che cosa pensare.
Erano tagli netti, profondi e precisi, operati con forza. E non c’erano possibilità che Namar avesse potuto procurarseli accidentalmente, dal momento che aveva passato gli ultimi sette anni rinchiuso in una cella.
L’unica spiegazione a cui riusciva a pensare era che fosse stato qualcun altro a ferirlo, durante la prigionia. Con quale scopo, tuttavia, non riusciva a immaginarlo.
Era l’ennesimo tassello enigmatico che riguardava Namar, uno dei tanti pezzi di un puzzle che sembrava diventare sempre più complicato.
«Che cos’ha combinato Gaynor?»
«Ecco, lui... Ha ucciso mio padre» rispose distrattamente Sari, con la mente ancora occupata dalle domande riguardanti Namar. E quando si rese conto di avergli appena raccontato una cosa piuttosto intima, ormai era troppo tardi. A quel punto l’unica cosa sensata che poteva fare era approfittare della propria leggerezza, e cercare di estorcergli informazioni riguardo a Shem.
Fece per parlare, ma all’improvviso sentì qualcosa di strano. Qualcosa che non c’era, fino a pochi minuti prima.
Un intenso vociare proveniva dal piano terra. Voci concitate. Sembrava che ci fosse qualcuno che stesse discutendo, o quanto meno parlando animatamente.
Anche Namar doveva averlo sentito, perché divenne improvvisamente nervoso. Balzò in piedi, correndo verso la porta d’ingresso. La aprì, quel tanto che bastava per sbirciare nel corridoio senza esporsi eccessivamente, e rimase a guardare. Ricordava un cane da guardia in attesa di percepire il più piccolo rumore.
«Che sta succedendo?» Sari gli si avvicinò, ma per tutta risposta Namar le afferrò un braccio e la costrinse a uscire in corridoio, assieme a lui.
Si affacciarono con cautela dalle scale, e in quel momento la stretta dell’evaso si fece così forte che Sari dovette soffocare un gemito di dolore. Non l’aveva mai visto così sconvolto.
Quando gettò l’occhio al piano terra, per un istante temette di essere preda di qualche allucinazione.
All’ingresso della locanda c’era una squadra numerosa; quindici uomini, a occhio e croce. Erano vestiti di nero, in tenuta esclusivamente militare, e in pugno tenevano lunghe armi elettriche.
Poi lo vide.
Quell’uomo che aveva già avuto modo di trovare in compagnia di Amos.
Il generale Rider, se non errava.
Non aveva mai avuto modo di parlarci, né ci teneva a farlo: le sembrava un uomo alquanto altezzoso, arrogante, rigido e calcolatore, nonostante fosse dotato di un fascino non indifferente. E, cosa che contribuiva a creare in Sari una certa diffidenza, l’aveva visto fare comunella con Amos in più di un’occasione.
Lo vide dirigersi verso il bancone, dietro al quale la locandiera stava letteralmente abbracciando un piatto con mani tremanti.
Era spaventata.
«Hai visto qualcuno di strano da queste parti, ultimamente?» domandò Rider.


*

Namar non smise mai di seguire i movimenti di Rider, neppure per un istante. E Sari non aveva bisogno di guardare l’evaso, per sapere che in quel momento era maledettamente spaventato. La mano che stringeva il braccio della ragazza parlava da sola: tremava.
«Chi sono? »
«Il C.S.M.... Il Corpo Speciale dei Maghi. Sono militari» gli sussurrò Sari, indicando lo stemma argentato che brillava sui loro petti. Poi puntò Rider. «E quello che è al bancone dovrebbe essere il generale Rider.»
«Dannazione! »
Sari guardò Namar di sottecchi. Era davvero preoccupato.
«Non mi farò catturare un’altra volta... » sussurrò, tornando in camera senza smettere di trattenerla per il braccio.
Spalancò la finestra, e la ragazza lo guardò sbigottita.
«Che intendi fare?!»
Namar studiò il cornicione. E Sari si pentì di aver fatto quella domanda.
«Andarmene da qui.»
   
 
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