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Autore: sleepingwithghosts    29/03/2012    3 recensioni
Avevo voglia di fumare. Non avevo voglia di alzarmi.
Sospirai, e chiudendo gli occhi sentii i passi delicati di mamma avvicinarsi, il suo bacio umido sulla fronte, le sue mani sulle mie costole, il peso del lenzuolo e di una coperta a schiacciarmi sul materasso, la porta chiudersi.
Ero sola, di nuovo, con la mia pelle sottile, una voglia di nicotina indescrivibile e tanto freddo, persino dentro il cervello svuotato dall’alcol. Attorno e dentro me freddo, solo tanto freddo.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Somebody that I used to know

 

 

Mettevo un piede davanti all’altro, lentamente, cercando di non perdere l’equilibrio. Nascondevo la faccia dentro il cappuccio, dietro i capelli, e piangevo. Questa volta piangevo davvero, niente pioggia, niente faccia imbronciata, solo lacrime e dolore.

Mi appoggiai alla balaustra di un ponte e vi premetti forte lo stomaco, guardando l’acqua scura e probabilmente gelata del fiume che mi passava sotto i piedi. Posai una mano sul fianco e alzai lentamente la canottiera gialla che indossavo: il livido era ancora lì, scuro e malato. Mi voltai, e appoggiando le spalle alle colonnine, mi lasciai scivolare a terra prendendomi la testa fra le mani.

 

«Evie, portami una birra», disse mio padre. Era stato sdraiato per tutto il giorno davanti alla tv, sobrio e lucido come probabilmente non lo era da mesi e la cosa mi spaventava parecchio: aveva qualcosa in mente.

«Sto studiando, vieni a prendertela», risposi dalla cucina. Stavo seriamente cercando di studiare, poiché, sebbene avessi una reputazione di bad girl, l’ambiente scolastico era quello in cui mi sentivo più sicura. Amavo leggere, le biblioteche, le librerie, un semplice scaffale pieno di libri con la polvere accumulata sopra mi faceva star bene. Studiare, quindi, era un miracolo del cielo, nella mia vita orribile.

Sentii i suoi passi strascicati e pesanti avvicinarsi, e non alzai gli occhi quando udii la porta del frigorifero sbattere e delle lattine di birra tintinnare. Li alzai, invece, quando percepii il peso della sua mano sui miei capelli. «Serve qualcosa?», chiesi alzandomi di scatto e allontandomi da lui addossandomi al mobile della cucina.

Lui scosse la testa, un sorriso sulle labbra. «Non esci oggi?».

«Devo aspettare mamma. Sarà stanca, le cucinerò qualcosa e poi esco».

«Dove vai?».

Alzai le spalle. «Dove mi pare».

Subito si fece scuro in volto. «Sono tuo padre, dovrei saperlo».

A quel punto, non resistetti: scoppiai a ridere. Avrei voluto lanciargli addosso il vasetto di caffè che era quasi certa fosse alle mie spalle, e riversargli addosso tutto quello che avevo subito in quegli anni. Avrei voluto urlargli a due centimetri dalla faccia, fargli capire che cosa era diventato.

Invece risi, forte, e lui si arrabbiò. Senza darmi il tempo di scansarmi, m’intrappolò fra il suo corpo e il mobile, fermandomi le mani con le sue. «Sei una stupida».

Devi stare zitta, devi stare zitta, zitta, mi ripetevo. Mi morsi il labbro già distrutto e dilatai gli occhi: non avevo capito che cosa voleva. Quando però sentii la sua mano entrare sotto la mia maglia e carezzarmi prepotentemente la schiena, capii perfettamente e cominciai a opporre resistenza. «Questo no. Non ti basta avermi distrutto la vita, aver distrutto quella della mamma, la tua? Non ti basta tutto il male che hai fatto fino ad ora? Che uomo sei?». Speravo di scalfire il suo orgoglio con le accuse contro di lui, di solito funzionava, ma questa volta no, non era ubriaco e riusciva a contenere la rabbia riversandola in un sorriso che mi faceva accaponare la pelle. Dovevo scappare.

Avvicinò le labbra al mio collo e ci stampò un bacio umido, poi mi prese i capelli e tirò per farmi alzare gli occhi su di lui. Mentre con una mano ruvida mi accarezzava il profilo della faccia e con l’altra mi stringeva un fianco, gli tirai un calcio su una gamba, l’unica sua parte del corpo che mi era accessibile. Indietreggiò appena, ma riuscii a scusciare fuori dalla sua trappola. Pronta a scappare, gli diedi le spalle, ma lui tirò di nuovo i capelli e caddi con le ginocchia a terra. Allora cercai di rianzarmi, ma lui mi braccava, mi bloccava sul pavimentro, mi teneva ferma con le gambe. Si abbassò e mi girò di forza facendo arrivare il mio volto a pochi centimetri dal suo, poi mi baciò le labbra. In quel momento irreale, mi ricordai dell’uomo che era, di quando i suoi baci sulla bocca erano solo quelli di un padre felice della sua bambina con le treccine fra i capelli e il maglioncino a righe sporco di cioccolata. Ricordai che quando mi prendeva in braccio e con le dita piccole e chiare gli tiravo le orecchie e ridevo forte perché lui mi faceva le facce buffe, poi mi accocolavo sul suo petto ad ascoltare il battito del suo cuore, il rumore delle sue parole reso sordo dalla cassa toracica. Ma ora le sue labbra premevano sulle mie, la sua lingua entrò nella mia bocca, la sua saliva si mescolava con la mia, e non era giusto, lui era mio padre. Mi spinse addosso al mobiletto e maldestramente cercò di slacciarmi i bottoni dei pantaloncini corti di jeans che indossavo, ma non riuscendoci cercò di abbassarli spingendoli verso giù con entrambe le mani. Pensavo solo che non potevo lasciarglielo fare, che era sbagliato, che non poteva farlo. Allora cominciai a prendergli a pugni il petto con tutta la forza che avevo, a calciare per farlo scendere dalle mie gambe, e sputargli in faccia, ma era pesante, io troppo magra, debole.

Improvvisamente, mi fermò il viso con una mano e con l’altra stretta a pungo mi compì l’occhio, poi si avvicinò e mi morse il labbro fino a farlo sanguinare. Sentii il gusto pungente del sangue e quello amaro delle lacrime entrarmi in bocca. Quando mi liberò le gambe alzandosi in piedi cercai di imitarlo, ma lui mi tirò un calcio alle costole, e un altro ancora sulle gambe, sull’addome, alla pancia, la testa sbattè addosso al mobile dietro le mie spalle. Chiusi gli occhi.

Era diventato una bestia che piacchiava sua moglie, la frustava a un’ora regolare tutti i giorni costringendola a mentire quando un nuovo livido le appariva sul corpo e le sue colleghe di lavoro se ne accorgevano, studiando tecniche per non colpirle il volto in modo da non destare sospetti.

Era diventato una bestia che cercava di stuprare sua figlia, il sangue del suo sangue, quella che anni prima chiamava la luce dei suoi occhi, il miracolo della sua vita e che ora pestava a sangue. Ora, l’unico miracolo era che fossi ancora viva, anche se per l’ennesima volta chiesi a Dio, o chi per lui, di morire. Ma la testa pulsava, ogni muscolo del corpo bruciava, e sentivo solo male.

Lo sentii salire le scale, e mi feci forza: tirai su i pantaloni, mi alzai in piedi e reggendomi uscii di casa, l’aria fresca che mi sferzava il volto facendomi bruciare maggiormente le ferite aperte e sanguinanti.

 

Mi tastai l’occhio con due dita e il livido prese a pulsare come non aveva smesso di fare la testa. Ero riuscita a lavarmi via il sangue in una fontana, ma le gambe, le labbra, gli indumenti rimanevano macchiati in modo indelebile. Alzandomi barcollai battendo la coscia addosso alla balaustra; un’altra di dolore scese gemella a quelle che l’avevano preceduta.

Camminai lentamente cercando di schiarirmi le idee, di sovvrastare il mal di testa per pensare qualcosa di razionale. Dove sarei andata ora? Se fossi rimasta lì fuori per molto, svestita com’ero, sarei morta d’ipotermia. Avevo male le costole, erano rotte me lo sentivo, e il sangue dalle ferite non smetterva di uscire. Come l’avrei curato, non avendo con me un centesimo?

Volevo chiamare mia madre, dirle di non tornare a casa, di non farlo mai più. Quell’uomo doveva marcire in galera, ubriacarsi e vomitarsi sui piedi prima di morire. Doveva sparire per sempre. Volevo chiamarla e dirle che ora sarebbe andato tutto bene perché saremmo scappate via insieme in un posto in cui lui non avrebbe potuto trovarci. Ci saremmo fatte curare, avremmo comprato dei vestiti nuovi, trovato un lavoro e un mini appartamento in cui avrei avuto una grande libreria colma di volumi di letteratura antica e di vinili di David Bowie.

Volevo chiamarla e dirle che le volevo bene, anche se i suoi occhi erano vuoti, anche se il suo cuore ora batteva velocemente ogni volta che qualcuno la sfiorava, anche se non si truccava più con quell’ombretto marrone che le aveva sempre dato un’aria elegante, o non metteva più il rossetto rosso sulle labbra che inevitabilmente mi spalmava su tutto il viso quando mi baciava. Avrei voluto chiamarla anche per dirle che una volta l’avevo sorpresa a fumare e mi aveva sconvolto la vita, perché lei era la mia mamma perfetta. Le volevo dire che mi era sembrata la creatura più bella, affascinante e sexy che avessi mai visto.

Avrei voluto chiamarla, ma non avevo il cellulare con me, come neanche una qualche bottiglietta di alcol per ubriacarmi e morire sul ciglio della strada, o delle cuffiette per ascoltare per l’ultima volta le mie canzoni preferite.

Ero rimasta con me stessa, l’unica cosa che da sempre cercavo di evitare. Eppure avrei dovuto essere contenta: era rovinata, distrutta, la mia vita era appesa ad un filo. Era quello che volevo, smetterre di essere in questa terra, no?

No, vuoi un sorriso sulle labbra, una sigaretta, una passeggiata al parco con un libro in mano, carezzare la coda di uno scoiattolo, mangiare una caramella alla liquirizia, riempire una vasca di bolle e immergerti dentro.

Ma quella non era la mia vita. Io ero dolore, sofferenza. La mia vita era dolore, freddo.

Quando mi ritrovai davanti alla sua porta e meccanicamente bussai mi ripetei che quella era l’unica soluzione, perché morire congelata sotto un ponte, non era la morte che mi spettava.

Non so per quale ragione quando vidi i suoi occhi posarsi sulla mia faccia e le sue mani abbassarmi il cappuccio e carezzarmi i capelli, le lacrime scesero più forti.

«Che cosa ti sei fatta, Evie?», chiese Seth con la pena nella voce.

Scossi piano la testa e cercai di sorridere, ma mi faceva male la faccia, e sorridere era l’ultima cosa che volevo fare. «Credimi, non è colpa mia questa volta».

Mi avvicinò a cercò di stringermi, ma io mi allontanai. Faceva male. Faceva male qualsiasi parte del corpo per i lividi, faceva male sapere che lui non avrebbe potuto far niente per aiutarmi.

«Ti va una doccia calda?», domandò con un sorriso, offrendomi una mano.

Annuì e la strinsi. «Grazie». Le lacrime continuavano a scendermi sulle guance, e mi sentivo uno schifo. Ero uno straccio con quell’occhio nero e il sangue incrostato e scuro su tutto il corpo, ma lui continuava a guardarmi con gentilenzza. Feci un passo verso di lui e appoggiai piano la testa sul suo petto, stringendogli la maglia con le mani. Lui mi passò un braccio sulle spalle, come a cingermi in un abbraccio.

Profumava di pulito, dell’ammorbidente della sua maglia. Alzai gli occhi sul suo volto e tirai su col naso. «Ho bisogno anche di un posto dove dormire, e di qualcosa da indossare, e di cibo».

Seth ridacchiò e mi trascinò in casa sua, ci chiuse la porta alle spalle. «Stai bene?».

Scossi la testa. «Mi hai promesso una doccia». Non ero pronta a dirgli quello che era successo. Lui, infine, non era niente per me. Forse tiene a te, davvero non t’importa di questo? disse una vocina dentro di me.

Dato che continuavo a fissarlo alla ricerca di una risposta, lui mi strinse un braccio. «Va tutto bene adesso, okay?», disse con tono dolce.

Annuii.

Non andava tutto bene.

 

Papà mi stava abbassando le bretelline del vestito a poi bianchi e blu che amavo tanto. La mamma era al lavoro, così lui aveva insistito per farmi un bagnetto sebbene la doccia l’avessi fatta la sera prima. Forse se ne era dimenticato. «Papà, la mamma mi ha fatto fare la doccia ieri, non senti come profumo?», chiesi avvicinando il mio collo al suo naso. Lui cominciò a baciarlo. Mi faceva il solletico, mi misi a ridere. Era serio, mi guardava con un’aria strana, io volevo solo giocare, così corsi via dalle sue mani e mi nascosi dietro il letto di mamma e papà, nella loro camera. Mi piaceva giocare a nascondino, vincevo sempre contro di lui.

Quando mi trovò nascosta mi sorrise. «Questa volta ho vinto io».

Io mi alzai in piedi sbuffando. Non era giusto, ero io quella che vinceva in quel gioco. Odiavo perdere, ero la principessa del nascondino. Mio padre mi prese in braccio e mi carezzò i capelli. «Ho scoperto un nuovo gioco, vuoi provarlo?».

Io sorrisi: sarei diventata la principessa di quel gioco, la regina. Annuii. «Sì papà».

 

Avevo nove anni, ero solo una bambina. Perché mi hai fatto questo, papà?

 

 

Ciaaaaao, non uccidetemi, okay? Lo so che non posto da secoli, ma tra la scuola, il sole, altri impegni, sono stata super occupata a fare di tutto tranne che scrivere. Oggi avrei dovuto studiare biologia ma ero davvero troppo ispirata per non scrivere questo nuovo capitolo.
Ringrazio le persone che hanno recensito lo scorso capitolo e quelle che leggono la storia in modo silenzioso, come sempre.

  
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