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Autore: unknown_girl    30/03/2012    2 recensioni
[...] Pronunciò quella frase osservando il paesaggio umido fuori dalla finestra. Il vetro appannato rendeva indefiniti i contorni delle auto e delle case all’esterno. I pochi suoni che si percepivano, il motore di un autobus, il gracchiare di un corvo solitario o lo sgocciolio delle tettoie, erano resi ancora più ovattati dal silenzio dell’alba inoltrata.
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Genere: Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Francia/Francis Bonnefoy, Inghilterra/Arthur Kirkland
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Non ci volle molto perché Francis Bonnefoy, come rare volte gli era capitato in vita sua, cominciasse a maturare una netta percezione di inadeguatezza e impreparazione. Era una situazione piuttosto anomala, come altrettanto anomali sembravano i due soggetti interessati. Tutti e tre erano seduti sul divano del piccolo salone e ovviamente al francese era toccata la parte dello spartiacque: alla sua destra aveva l’inglese che guardava ovunque tranne che nella direzione del nuovo ospite, mentre alla sua sinistra era accovacciato in una posa trascurata Alfred. Almeno poco prima era riuscito a calmare gli animi quel tanto necessario a non farli picchiare: il suo padrone di casa sembrava essere a dir poco adirato per quella visita inaspettata e poco c’era mancato che volasse qualche ceffone, al contrario invece degli insulti sui quali certo lo sboccato britannico non si era risparmiato. Diciamo pure che con un pronto intervento era riuscito a dividerli e ad evitare il peggio; e adesso si ritrovavano lì, seduti in silenzio ad aspettare la prossima mossa di qualcuno. D’accordo che era stato lui a proporre di sedersi e parlare –nonché presentarsi– con calma, però avrebbe indubbiamente gradito un po’ di collaborazione, soprattutto da parte di Arthur visto che per lui il suo amico americano era ancora un estraneo.

- Insomma.. – Cominciò timidamente, inclinando la testa da un lato. – Sei venuto da Washington quindi? – L’americano cercò di prestare un minimo di attenzione al francese, anche se sembrava più occupato a sporgere il viso in avanti per riuscire a cogliere il profilo dell’inglese più in là. Sbuffò col naso nel momento in cui riscontrò la reticenza dell’amico a incrociare il suo sguardo e pertanto dedicò all’altro ragazzo la maggior parte della sua concentrazione. – Già, dai mitici States. Eppure guarda tu che razza di accoglienza mi devo sorbire. – Rispose lamentandosi mentre poggiava un gomito sul bracciolo e andava a stendere il mento sul palmo aperto della mano, non preoccupandosi di nascondere a chi potesse essere rivolta quella frecciatina polemica. Come si aspettava, la reazione dell’inglesino accigliato fu repentina quanto notevole: Arthur si voltò finalmente nella sua direzione e si sporse per guardarlo in faccia, cominciando ad urlargli nuovamente addosso. – Ma che diavolo vuoi, idiota?! Volevi per caso il tappeto rosso? E chi aveva voglia di vederti poi? Chi ti ha detto di autoinvitarti? –

- Parli come se non ne sapessi niente tu! Potevi rispondermi allora e convincermi a non venire! Tanto sarei venuto lo stesso, ma almeno sarei stato preparato ad una reazione del genere! – Rispose a tono Alfred, osservando l’inglese con un’aria scontenta. Nel mezzo il francese cercava di attaccare la schiena al divano il più possibile per permettere ai due di parlare liberamente, serrando le labbra per evitare di intromettersi nella loro conversazione. – E in base a cosa avrei dovuto sapere che ti saresti introdotto in casa mia a tuo piacimento, senza neanche la decenza di avvisarmi e con una faccia tosta inaudita? Dopo come ti sei comportato era proprio l’ultima trovata che potesse venirti in mente! – Arthur lo fissava severo, utilizzando un tono particolarmente duro e freddo, quasi dimenticandosi della presenza del francese nella stanza.

– Ehi, ehi, ehi, frena un po’.. – Alfred si fece più avanti sul sedile del divano, allungando una mano verso l’inglese in un gesto che esprimeva una richiesta di tregua. – Io ti ho avvisato per quasi un mese che sarei venuto a Londra, che farnetichi? – Domandò l’americano assottigliando gli occhi. – Ma dai? Davvero? e come mai io non ne sapevo niente allora? – Controbatté con ironia pungente l’altro, alzando gli occhi al cielo in un sospiro spazientito. – Ma se ti ho mandato mail e messaggi ogni santo giorno dicendoti che avevo intenzione di venire da te! Ho persino modificato il mio pacchetto vacanza per poter rimediare e restare un po’ qui. –

E in quel momento Francis realizzò che, per quanto sgradevoli fossero le voci rabbiose di quei due che si scontravano, sarebbero state comunque meglio di quel silenzio imbarazzante che proprio adesso era calato nel salone. Non ci volle molto al francese per comprendere il fulcro del malinteso, ma ovviamente lasciò che fosse il diretto interessato a risponderne. Interessato che, in quel momento, si mostrava con un’aria turbata e degli occhi a dir poco sfuggenti che guizzavano ovunque tranne che nella direzione dell’americano; per mascherare il proprio disagio l’inglese preferì corrucciare lo sguardo, ma non riuscì ad aggiungere niente a parole, limitandosi a incrociare le braccia sul ventre e a inspirare intensamente.

Spiegato il mistero insomma: se l’orgoglio e la collera del britannico gli avevano suggerito di eliminare mail e messaggi senza neanche aprirli per leggerne il contenuto, certo non poteva dare la colpa all’americano…anche se avrebbe voluto farlo con tutto se stesso. Nel tentativo di cercare una scappatoia quindi, la sua mente si mise in moto attraverso questo complesso ragionamento: sì, lui non si era curato di leggere i suoi messaggi, ma perché era arrabbiato; ed essendo la causa della sua rabbia l’atteggiamento egoista e insensibile dell’americano, in definitiva era comunque colpa di Alfred. Ecco, in questo modo tutto sarebbe filato e il suo orgoglio sarebbe rimasto intatto e lucente nell’involucro di vetro della sua interiorità. Ma anche l’americano, per quanto non eccessivamente perspicace, era riuscito a realizzare il quadro della situazione, che l’atteggiamento insicuro e assente dell’amico inglese confermava.

- Non ci credo…non hai letto neanche una di tutte le mail che ti ho mandato? E nemmeno un messaggio? – Il suo tono si trovava in un delicato equilibrio tra lo sconcerto e il rammarico. I suoi occhi seguivano in ogni più lieve movimento la figura dell’amico e traducevano quel suo fare schivo in una risposta affermativa alle sue domande. Ancora silenzio. Arthur sembrava non saper davvero cosa dire, ma era evidente che la sua rabbia e frustrazione stavano aumentando. Sempre di più si agitava su quel divano e sempre di più gli sembrava incalzante lo sguardo di Alfred che pretendeva una risposta. Non resistette oltre.

Si alzò in piedi con uno scatto e con voce forte, ma al tempo stesso colorata da un pizzico di insicurezza, si rivolse un’ultima volta all’americano: – Al diavolo! Non dovevi venire comunque, non ti voglio qui! Va’ all’inferno! – I suoi passi pesanti riecheggiarono per tutto l’appartamento, sia sul legno del parquet che sulla moquette dei gradini delle scale, finché il colpo potente della porta della sua camera che si richiudeva alle sue spalle concluse quel concerto di grida e chiasso. Nell’intermezzo Alfred ebbe solo il tempo di una breve quanto inconcludente osservazione: – Ehi, come siamo shakespeariani oggi! – Allungò il collo all’indietro cercando di raggiungerlo con la voce, ma come detto prima il colpo finale della porta fu l’unica risposta a quell’ammonimento inascoltato. Poi di nuovo silenzio. Un imbarazzante silenzio.

Francis non aveva mai visto Arthur così arrabbiato –neanche quando aveva parlato male della sua Londra o quando aveva tentato di abbracciarlo– e sapeva di rappresentare una forma di intromissione tra i due, tanto più che la questione sembrava delicata. In quei pochi secondi pensò che sarebbe stato meglio allontanarsi da casa dell’inglese per un po’, anche se dove mai sarebbe potuto andare non lo sapeva; pensò anche di provare a salire su dal lui e tentare di ragionarci, ma scartò subito l’ipotesi: in fondo era l’ultima persona che poteva arrogarsi un diritto simile, tanto più col migliore amico dello stesso in casa.

Un improvviso quanto volutamente esagerato colpo di tosse lo fece sobbalzare dal divano. – Quindi tu sei un suo compagno di corso? – L’americano domandò quasi come se non fosse successo nulla, in un palese tentativo di uscire dall’imbarazzo generale che scorreva inesorabile tra i due. Il suo sguardo era vispo, ma si vedeva che era velato di malinconia. – Ah, s-sì…voglio dire, sono venuto qui per l’Erasmus e…sì. – Strano a dirsi ma il francese trovava in quel momento particolarmente difficile l’attività di esprimersi. Era notevolmente teso. – Oh! Grande! Ma allora parli davvero bene, sai? Senti, ti spiace se…ehm, non so, magari potremmo preparare il pranzo? Ti do una mano. Mh? – E nel pronunciare quell’interiezione mostrò negli occhi tutti i suoi diciannove anni, tutta la giovinezza di un ragazzo che in quel modo impacciato cercava forse di fare amicizia e soprattutto di distrarsi dall’accaduto. Considerato questo, Francis non poté fare a meno di sorridergli onestamente e accondiscendere. – Ma certo! Anzi, avrei proprio bisogno di una mano. A te piace il purè, Alfred? – Domandò mentre si alzava dal divano e si tirava su le maniche del maglioncino color panna. – Purè? Intendi quella cosa gialla molliccia? Ma sì, sì che mi piace! – E con rinnovata carica scattò dal divano anch’egli, seguendo quindi la sua nuova conoscenza in cucina. Per lungo tempo all’interno di quell’ambiente non nominarono altro che gli ingredienti da utilizzare, parlando dei gusti dell’americano che si divertiva fin troppo a confrontarli con quelli del francese –evidentemente mettere a confronto due cucine così diverse rappresentava per il più giovane una fonte di puro spasso– passarono in seguito anche a parlare di sé, permettendo a entrambi di apprendere qualcosa in più sull’altro, e in particolare Alfred non la smetteva di fare domande. Poi di nuovo una pausa silenziosa. Per la cucina solo il rumore dell’acqua che bolliva accompagnata dall’odore di uno stufato che avanzava nella cottura. Il ragazzo con gli occhiali, a testa bassa, giocava con i lacci sfatti delle scarpe da tennis, mentre il francese ruotava con un mestolo lo stufato; inclinando la testa da un lato, fin quasi a poggiarla sulla spalla, trovò le parole giuste per chiedere: – Non vuoi salire da lui? –

Forse avrebbe peccato di indiscrezione, ma sarebbe stato sicuramente meglio che rimanere nell’amaro di un silenzio forzato che altro non faceva che distanziarli e irrigidirli. L’americano restò a testa bassa, infilandosi le mani in tasca e rispondendo in un mugugno. – Sai, sarebbe capace di tirarmi addosso qualcosa di veramente pesante se gli entrassi adesso in camera…senza contare che l’avrà sicuramente chiusa a chiave. – Rispose trasformando il mugugno in un borbottio e continuando: – Devo preservare la mia salute, capisci? – Concluse alzando lo sguardo e cercando negli occhi del francese una conferma. – Oh…bè, sì certo. Non stento a credere che possa diventare violento quando si arrabbia…immagino. – Rispose leggermente incerto sulla calibratura delle parole. Temeva di dire troppo come troppo poco. E nessuna delle due prospettive era confortante. – Fidati, tu non l’hai mai visto arrabbiato. – Commentò l’americano in tono leggermente pungente e con sguardo duro, anche se non lo rivolse direttamente all’altro ragazzo.

Evidentemente il giovane col pizzetto era caduto nel fosso del “troppo”. Magari gli era sembrato arrogante? In tal caso meglio recuperare. – Però so che siete grandi amici. Vi conoscete da una vita, no? –

– Te ne ha parlato? Che ti ha detto di me? – Domandò il più giovane palesando stupore e una leggera ansia nella voce. – Ti è molto affezionato, si vede chiaramente. – Iniziò l’altro cercando di rassicurarlo come prima cosa. – Forse è per questo che mi sembrava così abbattuto quando parlava…diciamo, dell’incidente di Natale.. – Continuò con i piedi di piombo lungo quel campo minato. Ed evidentemente fece centro sopra la prima mina visto che il volto di Alfred si incupì d’improvviso, mostrando una smorfia piuttosto elaborata. – Nhhh, è complicato. Io non è che partivo con l’intenzione di…cioè, in realtà ci ho pensato ma…e poi non è che sono restato con le mani in mano! Io l’ho chiamato tutti i giorni per almeno sei volte al giorno! Poi le mail e..i messaggi e.. – Poi venne interrotto da una cauta pacca sulla spalla da parte del francese. – Alfred, non ti preoccupare. Non è mia intenzione giudicarti, io nemmeno ti conosco. Solo che, queste parole dovresti dirle a lui, non a me. – Concluse con un sorriso fiducioso. – Sono sicuro che appena si sarà calmato proverà ad ascoltarti. – L’americano costruì un’altra smorfia ironica, ridendosela sotto i baffi.

– Ahah, sì, lui? Piuttosto mi guarda spirare. – Incrociò le braccia al petto appoggiandosi al frigo con la spalla. – Ci sono delle volte che non vuole sentire né scuse né spiegazioni. E di certo questa è una di quelle volte. – E concluse con uno sbuffo. – Magari devi solo dargli un po’ di tempo o aspettare il momento giusto. Non ti abbattere, dai. – Francis si portò alle labbra il mestolo per assaggiare lo stufato che sembrava ormai pronto, mentre Alfred non resisté ai crampi della fame e si scostò dal frigo per aprirlo e curiosare all’interno. – Il punto è che ho poco tempo. – E azzannò un avanzo di frittata che era lì poggiata sul ripiano più alto, chiudendo poi l’elettrodomestico e accasciandosi di nuovo su di esso. – Oh, mi auguro non fosse tua.. – Aggiunse mentre masticava affamato. Il francese scosse la testa ridendo. – Tranquillo, mi fa piacere se la finisci tu. Spero ti piaccia. – Prese quindi tre piatti e li poggiò sulla mensola della cucina, riempiendoli a uno a uno. – Bè, siamo pronti per il pranzo! Siediti pure, ti porto il piatto. – L’americano trangugiò gli ultimi bocconi di quell’avanzo e tutto rivitalizzato andò ad occupare un posto al tavolo della cucina. – Ne preparo uno anche per Arthur, magari quando scende lo mangia. Oppure potrei provare a portarglielo in camera, che dici? – Domandò poggiando di fronte all’altro ragazzo una ciotola fumante di stufato. – Dico che è più importante la salute. – Affermò piuttosto conciso, attendendo che anche il francese si sedesse. – Il purè sarà pronto in pochi minuti, il tempo di finire lo stufato. – E sorridendo per la battuta di prima del più giovane, si sedé lentamente. Fu indubbiamente il pasto più strano che consumò durante la sua permanenza nell’appartamento del compagno di corso: lo trovò estraniante, anche se non spiacevole. L’idea che stesse pranzando con la stessa persona che aveva fatto rinchiudere nella propria stanza l’inglese, lo rendeva simile ad un funambolo che cerca di tenersi in equilibrio sul filo della vita.

 

 

Due colpi di legno sulla porta, sordi, echeggiarono tra le pareti della stanza silenziosa, provocando nell’inglese che era sdraiato sul letto un lieve tremore. Non che stesse dormendo, semplicemente riposava un po’, forse rifletteva o forse si limitava a contare le sottili crepe del soffitto, ricominciando ogni volta da capo. Si rivoltò sul materasso alcune volte, sperando avesse sentito male e quel bussare non provenisse da dietro la sua porta. Ma la fortuna non era dalla sua e appena qualche istante dopo risuonò un altro tocco sul legno della porta, seguito stavolta da una voce, quella del francese.

- Arthur, sono Francis. Scusa se ti disturbo, solo che…avevo pensato di portarti il pranzo, sono già le quattro. Non hai un po’ di fame? – Dannato coinquilino e dannate premure. Se avesse avuto fame o qualunque altra cosa avrebbe provveduto lui stesso. Una smorfia si dipinse sul suo volto già segnato dall’irritazione, e portando il dorso di una mano sui capelli della frangetta si sforzò di far uscire la voce. – Non lo voglio, lascialo pure in frigo. – E non aggiunse altro, mettendosi su un fianco e dando le spalle alla porta. Sicuro di averlo congedato con quelle poche parole socchiuse gli occhi, pensando che se si fosse addormentato avrebbe trovato un po’ di conforto. Ma la voce di Francis tornò a farsi sentire.

- Arthur…non potrai restare lì chiuso per sempre, ti pare? Perché non provi a uscire? In fondo non è solo un tuo problema. – E poi una pausa. – Voglio dire, anch’io non so che fare in questa situazione. Capisci? –

Forse era stato un tantino pungente, ma sapeva ormai che per spronare mister Arthur Kirkland bisognava provocarlo quel poco sufficiente. Tutto si sarebbe aspettato però tranne che quello che ricevé, vale a dire un silenzio inesorabile e prolungato.

Già era pronto a lasciare il vassoio con una mano per andare a tapparsi un orecchio per il troppo frastuono che avrebbe provocato l’inglese coi suoi strepiti e le sue proteste, urlandogli contro cose tipo “ma cosa ne sai?”, “fatti gli affari tuoi” –se era fortunato, se no avrebbe udito un altro tipo di vocabolo al posto di “affari”– oppure qualche altra imprecazione o insulto colorito, di quelli che sapeva fare lui insomma. I secondi passavano, ma dall’altra parte della porta neanche una risposta, un sospiro, nulla. Pensò di aver fatto centro e di essersi meritato la sua totale indifferenza, e già stava per voltare le spalle alla stanza quando la porta si schiuse d’improvviso, in un minuscolo spiraglio. Francis, già su di un fianco pronto a fare dietrofront, rimase con lo sguardo appeso a quello scorcio luminoso che però non lasciava intravedere la figura dell’inglese. Che preferisse restare nascosto dietro la porta?

- Lo so. Non volevo coinvolgerti in questa faccenda, ma non è colpa mia se quello è piombato in casa. Mi rendo conto non sia educato lasciarti solo con uno sconosciuto, tu che sei pure l’ospite. – Arthur cominciò a parlare in un tono così tranquillo che l’altro per poco non temé si sentisse poco bene, magari saltare il pranzo gli aveva fatto davvero male. – Io di là non ci torno adesso. Se vuoi potrei farti entrare per un po’, non lo so, però non troppo insomma. – Continuava a mugugnare da dietro il legno chiaro, senza sporgere il viso sull’apertura per non incrociare il suo sguardo. Francis ascoltò con quanta più attenzione possibile, voltandosi di nuovo verso la stanza e avvicinando il viso al timido scorcio –sperando di non perderci il naso con una brusca e improvvisa chiusura della porta da parte dell’altro–

- Arthur, capisco che intendi e ti ringrazio per il pensiero, però penso che il problema sia più tuo che mio. Non sono minimamente affari miei, ma non ti nascondo che mi piacerebbe vedervi chiarire le cose. Ho chiacchierato un po’ con Alfred in queste ore, sai? E muore dalla voglia di parlarti un attimo, di spiegarsi credo. Magari appena ti passa potresti concedergli cinque minuti, che ne pensi? –

La porta si spalancò di colpo, rivelando per intero la figura dell’inglese in piedi sulla soglia. Fu una concatenazione di mosse che si risolse nel giro di pochi istanti, fulminei. Il francese sul momento sussultò leggermente, rischiando di inclinare il vassoio che teneva in mano con potenziali conseguenze alle quali non voleva nemmeno pensare, e venne tirato con forza dall’inglese che lo afferrò per un avambraccio. Lo spinse nella camera velocemente, tanto che il ragazzo col pizzetto dovette destreggiarsi in maniera quasi circense per riuscire a non far colare nemmeno una goccia di brodo dello stufato sul parquet. Quindi, prima che potesse voltarsi del tutto verso l’amico, quest’ultimo aveva già sbattuto la porta dietro sé e adesso lo vedeva impegnato a richiuderla a chiave, così come era prima. Quando gli mostrò il volto invece delle spalle, Francis notò uno sguardo spento e rammaricato, tanto che lì per lì abbassò lo sguardo sul pavimento pensando che fosse per colpa di qualche macchia che aveva accidentalmente provocato col cibo che gli aveva portato; no, nessuna colpa grazie al cielo. Tornò quindi su di lui, decidendo di sfoggiare l’arma più efficace di cui disponesse: gli sorrise ampiamente, domandandogli poi con voce piena e uniforme, in tono cordiale: – Allora? Me lo assaggi un po’ di stufato? -

E così accadde una di quelle cose a cui forse aveva assistito al massimo un paio di volte in quei tre mesi di permanenza a Londra. Il momento in cui si sarebbe aspettato un rifiuto e invece riceve un assenso; era uno strano meccanismo quello dell’inglese, ma niente era meglio dei momenti in cui riusciva ad emergere dalla prevedibilità dei suoi schemi. Non spesero molte parole: Arthur gli fece un cenno veloce con la mano, forse una smorfia –non capì esattamente– e senza realizzare bene si ritrovarono seduti per terra, con la schiena appoggiata al letto; l’inglese che teneva il vassoio sopra le gambe incrociate cominciò ad assaggiare timidamente il piatto cucinato dall’altro, il quale era seduto lì al suo fianco a parlare di cose totalmente inutili, con l’intento di distrarlo il più possibile: iniziò con il metodo di cottura utilizzato per la carne dello stufato e finì col riflettere ad alta voce sullo scarso livello d’igiene che aveva potuto osservare nell’ultima macelleria nella quale si era recato. Parlò, parlò e parlò, di tutto come di niente, osservando con disinvoltura l’altro ragazzo che sembrava seguirlo con lo sguardo mentre consumava il suo tardo pranzo. Dopo qualche boccone anzi cominciò anche ad interloquire, aggiungendo maggior confronto a quel dialogo. Senza che se ne accorgessero trascorse quasi un’ora, eppure erano ancora lì, seduti sul parquet a chiacchierare come due vecchi amici; in effetti Arthur aveva mangiato solo metà pranzo, ma Francis non poté fare a meno di sentirsi soddisfatto per essere riuscito a convincerlo a mangiare almeno quello. Lo osservava continuamente: sembrava rilassato, più disteso, forse un po’ sollevato. In fondo, quello voleva essere il suo primario obiettivo. Durante una breve pausa gli balenò nella mente il pensiero di come però avrebbero potuto risolvere la questione di quella sera, e in realtà anche dei giorni a venire –per quanto non sapesse quanto Alfred avrebbe potuto o voluto fermarsi–

- Ehi Arthur, stavo pensando…almeno a cena ti andrebbe di scendere? Dai, prova a stare insieme a noi di sotto. Anzi, sai cosa? Se vuoi mi sposto io, così tu e Alfred parlate un po’ se ne hai voglia. Non restare chiuso qui, non è salutare. – Avendo usato il tono più cortese e supplichevole possibile sperava che almeno non gli avrebbe tirato il resto dello stufato addosso. E grazie al cielo fu così. L’amico alzò lo sguardo al soffitto, poi alla stanza, accompagnando i suoi movimenti con dei leggeri sospiri che suggerivano un ragionare profondo e meditato; poi rispose mentre si portava una mano sulla nuca a carezzarsi i ciuffi più corti dei capelli.

- Basta che non mi lasci solo con lui. Non devi andartene. Anzi, devi parlare con me, capito? Non voglio scendere per vedervi chiacchierare e far comunella, intesi? – Il francese congiunse i palmi delle mani in un sonoro colpo che fece destare l’inglese, esultando: – Sicuro! Benissimo anzi! Dai, dai, forza, tirati su e vieni in cucina con me! – Francis scattò in piedi come una molla, provocando nell’altro un istintivo arretramento nel timore di essere travolto dai suoi euforici movimenti. – Che? Adesso? No, è presto, ancora no. Non mi va di stare a guard- – Ma il britannico finì inascoltato visto che il francese gli aveva già afferrato una mano per tirarlo su in piedi con un gesto repentino quanto forte e deciso. Arthur non poté opporsi, visto che l’altro era avvantaggiato dall’effetto sorpresa; barcollò per un secondo, ora in posizione eretta, e fissò a lungo l’amico biondo con sguardo un po’ spaventato, un po’ risentito. – Ma che diavolo fai? Ti sembra il modo si trattare le pers- – Niente, un’altra interruzione stroncò le polemiche dell’inglese. Francis partì ancora al contrattacco, mantenendo la presa della mano sul più giovane e avviandosi verso la porta, trascinandoselo dietro. – Ehi! – Tuonò per sgridarlo. – Ma mi ascolti quando parlo? – Continuò a lamentarsi Arthur, osservando come il francese lo conduceva prima fuori dalla stanza e poi lungo le scale. Francis quindi si arrestò bruscamente a metà scalinata circa, voltandosi a guardare l’altro di un paio di gradini più in alto, dandogli istintivamente una maggiore stretta con la mano e parlandogli a bassa voce per non essere sentito da Alfred.

- Tu stai bene, sì? – Il suo sguardo era terso, sincero, e sul viso si manteneva un sorriso così naturale che procurò un leggero imbarazzo all’amico che fece pertanto spallucce, inclinando la testa da un lato per fingere di guardare chissà dove, tranne che verso gli occhi dell’altro, rispondendo apparentemente scorbutico: – Tsk, certo che sto bene. – Quello sguardo apprensivo cominciava davvero ad irritarlo. – Quindi piantala di fissarmi con quella faccia da idiota. – Una volta tanto quelle parole rudi e sgarbate dell’inglese rincuorarono Francis, pensando che se era tornato a colpirlo con tali frecciatine probabilmente si era un po’ ripreso. Gli sorrise ancora, quasi apprezzando il suo insulto, tendendogli il braccio per spingerlo quei due gradini più in basso per azzerare la distanza tra loro. L’uno accanto all’altro, nella penombra delle scale non illuminate, protetto da un alone di segretezza che solo le ore serali regalavano a quell’appartamento, il francese lasciò che l’altro ragazzo si arrestasse alla sua stessa altezza per poi sporgersi verso di lui, andando a sfiorargli l’orecchio col proprio profilo lineare per sussurrargli: – Ti sto appiccicato allora. –

Le dita del francese si strinsero con maggiore forza intorno a quelle dell’altro, percorrendone per alcuni istanti la forma affusolata, mentre un paio dei suoi respiri finirono direttamente sulla pelle del collo del suo interlocutore il quale reagì nella più prevedibile delle aspettative: al di là della pelle che gli si accapponò per il respiro fin troppo vicino dell’altro, furono soprattutto i suoi muscoli tesi e irrigiditi ad essere avvertiti nettamente dal francese: la contrazione della mano di Arthur, come in una convulsione, forzò lo scioglimento della loro presa e il successivo distacco, mentre un leggero balzo indietro lo allontanò dalla pericolosa sagoma francese. – Non ce n’è bisogno, deviato di un maniaco. – Disse ringhiandogli contro.

– Vedi di fare la persona normale, chiaro? – E passandogli accanto, superandolo, gli lanciò un’occhiata vigile e di rimprovero, scendendo gli ultimi gradini che gli mancavano per giungere al piano, aspettando che l’altro si muovesse a venirgli dietro. Certo non si sarebbe ripresentato davanti ad Alfred da solo. Il biondo francese non perse tempo; dopo una breve risata di gusto saltò a piedi uniti i gradini mancanti e si accostò a lui, precedendolo nell’entrata in salone e voltandosi un’ultima volta nella sua direzione, con una notevole torsione del collo per poter incrociare il suo sguardo e cogliere la sua attenzione; e in quel momento si permise un rapido ammicco, un occhiolino incoraggiante, mentre dei sottili ciuffi biondi gli ricadevano sulle palpebre degli occhi. Francis si compiacque di vedere come Arthur ricambiasse lo sguardo, anche se decisamente più disincanto del proprio, e quelle occhiate durarono giusto il tempo necessario per realizzare che avrebbe fatto di tutto perché quella serata andasse bene e per il verso giusto. Per tutti e tre.

   
 
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