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Autore: Shichan    03/04/2012    2 recensioni
Persino un bambino come lui, lo poteva capire: doveva essere perché aveva dormito con quel ragazzo – Nezumi, Nezumi, Nezumi – accanto, doveva essere perché non poteva scappare per sempre, doveva essere perché era una punizione, perché era stato crudele.
Doveva essere per tutte quelle cose lì, che faceva così male.

[NezuShion]
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Nezumi, Shion
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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«Cos’è che stai cercando?»
Se ne era uscita così, all’improvviso, una domanda senza contesto e per questo incomprensibile; Shion aveva dovuto fermare la mano – con grande disappunto del cagnone che stava lavando – la presa sulla spugna s’era allentata, segno che la sua attenzione era altrove. Aveva alzato lo sguardo su Inukashi e l’aveva osservata, un’occhiata di quelle che cerchi di chiedere tacitamente “che intendi?” o “in che senso?”.
E lei lo aveva fissato spazientita, scocciata, come a dire “lo sai che intendo” o “non fare il finto tonto con me”, cose molto da lei, ma anche molto da lui.
«Che ti aspetti da uno come quello là.» si era data la pena di spiegarsi, perché a Shion certe cose dovevi dirle tutte per farti capire e lei non era paziente, lo sguardo da pesce lesso dell’albino non la rendeva tale.
“Quello là” era il modo con cui si riferiva solo ed esclusivamente a Nezumi, non senza uno sforzo più che discreto per raggiungere un compromesso accettabile tra il “Nezumi” che usava lui e il “bastardo” di Inukashi.
Così è iniziata la conversazione, e ora si stanno guardando da una manciata di secondi.
Lui le risponde innanzitutto con un sorriso, uno di quelli che significa qualsiasi cosa tu voglia leggerci e che può dirti tutto e niente; poi, dopo una pausa che sembra calcolata come in un tic che si ha da anni, finalmente parla: «Niente.» dice. Lei sbuffa, lui ridacchia e – per la gioia del cane che stava lavando – riprende diligentemente a fare il proprio lavoro.
Shion non dice mai cosa si aspetta da Nezumi, perché in realtà non è da lui che si aspetta qualcosa; e nonostante capisca che quel che Inukashi chiede sia più di quanto pronunci, preferisce sorriderle che mentirle visto che non le saprebbe spiegare la verità. Perciò anche se Inukashi – e tutti gli altri che ha conosciuto e sta conoscendo – si chiedono come sia possibile affezionarsi a Nezumi, o fidarsi di lui, o se pensano che sia assurdo arrivare un giorno, così, dopo essersi fatto salvare e iniziare a vivere con il proprio salvatore rinunciando a tutta la vita che hai avuto – tua madre, la città, la scuola, un lavoro – Shion preferisce fingere di non accorgersi che si chiedono tutte queste cose.
Sa che da fuori sembra tutto troppo strano, breve, veloce, insensato, quasi morboso e assolutamente, irrimediabilmente irreale. Ma non lo saprebbe spiegare. Non saprebbe e basta.
Non saprebbe con che parole, con quale espressione, se dirlo in maniera triste o felice, se farlo somigliare a un rimpianto o ad una speranza.
«Cos’è che stai cercando?» così gli ha chiesto Inukashi.
Cercava qualcosa che a Nezumi non avrebbe mai potuto confessare; un futuro nel quale non lo avrebbe tradito.

Da bambino Shion non ci aveva dato importanza: all’inizio aveva pensato, semplicemente, che si trattasse di sogni e nient’altro. Erano confusi, fatti spesso di volti poco nitidi e situazioni sempre concitate; c’erano tanti rumori, scalpiccii, oppure persone adulte e i toni alti di un litigio che gli erano estranei – non ricordava suo padre e quindi, tanto meno, una qualsiasi discussione con sua madre.
Anche le sensazioni erano confuse: Shion non si svegliava mai particolarmente agitato come un qualsiasi bambino faceva con gli incubi. Tuttavia non era stato raro ritrovarsi seduto sul proprio letto, oppure a fissare il soffitto, le lenzuola strette fra le dita e addosso la sensazione di aver fatto o assistito a qualcosa di brutto, orribile.
A volte, sua madre aveva dovuto passare il tempo nella sua stanza a calmarlo; altre, per non preoccuparla quando si svegliava piangendo, aveva infantilmente cercato di “far sparire” tutte le cose brutte affondando il viso nel cuscino, sfogandosi finché – pur senza capirne il motivo – non restava che il suono del suo respiro e tanta stanchezza.


Era così che funzionava, e lo sapeva. Lo sapevano entrambi.
Se lo erano detto all’inizio, no? Non si pestavano i piedi ai superiori, non era una cosa saggia: per abituarti all’assenza di sentimenti come la compassione – che in guerra non potevano e non dovevano esistere – non veniva rivolta nemmeno tra soldati della stessa fazione.
Come loro.
«Ehi. Hai una visita.» la voce aspra della guardia, pensò, ti faceva sentire persino irritato per avere qualcuno che si prendeva la briga di venire a trovarti.
Alzando appena lo sguardo, lo vide – grande e grosso oltre le sbarre – voltarsi seccato dalla sua solita routine: «Cinque minuti.» come da copione lo pronunciò verso qualcuno non ancora nel suo campo visivo e si girò, per andarsene altrove.
Lo sapeva, chi era a fargli visita; l’assurdo stava nel fatto che l’unico a preoccuparsi di lui fosse la causa del suo essere in una puzzolente ed umida cella.
«Mpf» incurvarsi di labbra, ironia «sei tu.» non pareva affatto sorpreso. Non che volesse sembrarlo. Non lo era.
Nel momento in cui i loro sguardi si incrociavano, avrebbe dovuto essercene  uno – quello del soldato fuori dalla cella – sicuro di sé, forse anche sprezzante verso un compagno che si è meritato la prigionia e l’altro rabbioso, pieno di vergogna. Invece mentre si guardavano, sembravano l’uno sulle spine mentre lasciava vagare lo sguardo tormentato, l’altro disilluso e divertito al tempo stesso.
«Non vedo medaglie nuove.» era sempre stato così: provocatorio, irriverente, e non solo quando poteva permetterselo ma anche – o soprattutto? – quando non era in condizione di esserlo.
«Non è divertente.» e lui era sempre stato così, fin troppo serio persino quando avrebbe potuto lasciarsi andare almeno un poco.
Erano stati reclutati insieme, erano stati compagni di camerata e dello stesso plotone e molti si erano chiesti come fossero riusciti a convivere, essendo così diversi: uno dei due così votato alla causa, così pieno di speranza e di fiducia in quello che faceva – che facevano tutti quelli che si arruolavano – e l’altro che sembrava stare lì più per le scazzottate tra reclute che per tutto il resto.
«Come no? Hai assicurato alla giustizia un traditore, come minimo dovresti avere una menzione di merito, non credi?» lo aveva pronunciato alzandosi dalla piccola brandina che avevano a disposizione nelle celle e avvicinandosi all’unica cosa che c’era fra loro: le sbarre.
«Dico davvero,» probabilmente l’idea sarebbe stata interromperlo: «non è diverten—»
Probabilmente quel che avrebbe voluto fare era…
«Il perdono non sarà la tua menzione di merito. Ci dovrai vivere, con il senso di colpa.»
Un sibilo feriva molto più di una mano stretta attorno al collo.


Da quei sogni, per mesi, si era svegliato senza mai ricordare particolari importanti.
Era dovuto passare molto tempo perché Shion iniziasse a rammentarne qualcosa di più specifico delle semplici sensazioni, che peraltro erano sempre sembrate – anche se un bambino quale era lui non poteva arrivare a definirle in quel modo – familiari come qualcosa che ti si scatena dentro, e al tempo stesso estranee come se appartenessero effettivamente a qualcun altro, ma fossero così forti da avere il sopravvento su chiunque vi entri in contatto.
Tuttavia, anche quando aveva iniziato a ricordare qualche particolare in più, spesso stralci di conversazioni ma quasi mai l’aspetto dei protagonisti dei suoi sogni, non c’erano mai stati dei nomi o qualcosa che lo aiutasse a capire se ci fosse un aspetto che li accomunasse fra loro.

Da subito a sua madre era stato chiaro che Shion, per quanto giovane, avesse un dono: un’intelligenza fuori dal comune, che sarebbe stato quasi un reato non coltivare. Non appena vi era stata la possibilità, dunque, anche suo figlio – come tutti i bambini – fu sottoposto ad un test di valutazione; si classificò con un punteggio molto alto che era valso loro varie agevolazioni: Shion aveva appena due anni. Da allora in diversi ambiti – tra cui, era quasi superfluo dirlo, l’istruzione – aveva goduto come molti suoi coetanei del massimo che No.6 potesse offrire.
A nessun genitore con un figlio simile parevano strani quei comportamenti che avrebbero magari impensierito un padre o una madre con dei figli dal quoziente intellettivo nella norma; nessuno, come Karan stessa, si preoccupava se il proprio figlio preferiva un pomeriggio in più da dedicare ad una ricerca sulla botanica o sulla chimica, rispetto ad uno passato a giocare al parco. Era semplicemente una questione di predisposizioni: dal loro punto di vista, chiedere ai propri figli di comportarsi diversamente avrebbe significato limitarli. A spiegarla con un paragone – aveva sentito dire una volta ad un genitore di un compagno di classe di Shion – sarebbe come chiedere ad un bambino qualunque di chiudersi in casa in un pomeriggio assolato e obbligarlo a studiare chimica organica: non solo non vi riuscirebbe, ma lo troverebbe a dir poco noioso. Non avrebbe il minimo stimolo.
Karan aveva cercato una sorta di verità nel mezzo: Shion era un bambino speciale, e di questo era più che cosciente; rimaneva, tuttavia, per l’appunto un bambino. Ed in quanto tale, lo aveva comunque spronato a dedicare almeno qualche ora al giorno al divertimento all’aria aperta. Soprattutto nei primi periodi di quei sogni che, erroneamente – ma non poteva saperlo – attribuiva allo stress di un’istruzione così complessa ad un’età così giovane.
Era convinta che l’essere speciale non dovesse diventare, a sua volta, una limitazione; che Shion dovesse poter essere in grado di passare del tempo divertendosi non solo con i compagni di cui condivideva interessi di studio, ma anche con tutti gli altri coetanei – voleva crescere un bambino così.
Quel che Karan non sapeva, era che Shion all’effettivo stesse crescendo in qualche modo “distante”: non era un bambino scortese – tutt’altro – né di difficile approccio o scostante, anzi. Ma non era affatto raro, per esempio in classe, magari durante un intervallo o le pause fra una lezione e l’altra, notarlo perdersi con lo sguardo fuori dalla finestra e la mente alla deriva chissà dove, alla ricerca di chissà cosa. Probabilmente nemmeno Shion lo sapeva o lo capiva; probabilmente neanche si accorgeva di quei momenti in cui si estraniava completamente dalla realtà che lo circondava.
Silenziosamente, Shion cercava: andava alla disperata ed inconscia ricerca di due soldati – o due fratelli, due amici, a volte mercanti, altre studiosi, con ruoli sempre diversi ma fondamentalmente due anime – che non avrebbe trovato mai.
Non ancora.


La sala era illuminata splendidamente: toglieva il fiato.
Il grande lampadario al centro illuminava il luogo e al tempo il prezioso materiale di cui era fatto risplendeva dei riverberi degli altri più piccoli della sala; i naturali giochi di luce che si creavano riuscivano a guadagnarsi senza difficoltà gli sguardi ammirati degli invitati che varcavano la soglia appena arrivati.
Tutti i presenti sfoggiavano i loro abiti, gioielli e sorrisi migliori, come si confaceva – per sentimento o per educazione – a feste come quella; dopotutto, essere invitati all’ufficializzazione di un fidanzamento era una tacita occasione soprattutto per chi aveva figlie da sistemare. Nessuno lo diceva, ma il caso voleva che o per fortuna o per l’umore che aleggiava in occasioni come quella, qualche nuova coppia si formasse inevitabilmente ogni volta. Il chiacchiericcio degli invitati si mescolava quasi abilmente con la musica che veniva suonata dall’orchestra in un angolo della sala; nulla di pomposo, quanto bastava ad accompagnare la serata come conveniva e a rallegrare gli animi, nonché – ma era un compito inespresso seppur tacitamente conosciuto e condiviso da tutti – a sopperire in qualche modo alla mancanza di conversazione e, talvolta, al silenzio imbarazzato che ne conseguiva.
Era un ambiente allegro nel quale aleggiavano leggerezza di spirito e un misto di curiosità e aspettativa ora per il fidanzato, ora per la fidanzata del caso – a seconda, quindi, che si fosse conoscenti dell’uno o dell’altra.
Lui stava, in quel momento, intrattenendo una coppia di amici di famiglia; lei, il sorriso radioso e per nulla imbarazzato sebbene nemmeno sfrontato, accoglieva gli invitati insieme alla madre del fidanzato – che era fondamentalmente sinonimo di “futuro sposo” a quel punto. Dopotutto ci si fidanzava ufficialmente non certo per poi lasciarsi, salvo eccezioni rare o gravissime.
Con uno sguardo meravigliato alla complicità che già sembrava essersi creata fra sua madre e la sua fidanzata dopo così poco tempo, si accomiatò dalla coppia con un «Vogliate scusarmi un momento.» e si spostò verso un angolo della sala meno affollato.
Quando fu certo di essere in un punto almeno un poco più appartato, si concesse un sospiro sollevato: nonostante l’etichetta del suo tempo esigesse, quasi, serate di società come quella – o fossero esse quantomeno all’ordine del giorno – non le amava tanto quanto facesse invece credere. Un tempo, forse, vi era più incline; quando la buona educazione ostentata per etichetta e non per il piacere di essere cortese non gli provocava alcun fastidio. Ma non era più così da diverso tempo, ormai, ed era sempre più un peso se non addirittura una fatica forzare un sorriso in determinate situazioni. Come, per dirne una, l’ufficializzazione di un matrimonio combinato. Come il suo.
«Sembri teso. O dovrei dire infelice, forse.» lo raggiunse una voce vicina; non aveva bisogno di voltarsi in sua direzione per riconoscerne il padrone, ma lo fece ugualmente: di fronte a lui, vestito come ogni gentiluomo della sala, stava il suo amico d’infanzia. Nonostante ogni qualvolta si incontravano – in occasioni non ufficiali come una semplice visita di cortesia per scambiare qualche parola – l’altro avesse chiaramente fatto intendere di preferire abiti informali o comunque poco impegnati, l’abbigliamento che indossava anche ora gli donava senza alcun dubbio.
Gli rivolse un sorriso leggero, ma non fasullo: «Direi più teso. Mi sento come un raro animale chiuso in una stanza dalle pareti di vetro, al di fuori delle quali un pubblico esperto debba giudicare quanto effettivamente possa valere acquistarmi.» rivelò.
«Mpf, con la tendenza a fare poesia come sempre, mh.» lo apostrofò «Ma dopotutto, si può dire che te la sia cercata.» aggiunse, con una voluta sfumatura di malignità nella voce.
«Per favore…» lo pregò lui con un’occhiata breve ma che rifletteva il tono usato. L’altro sembrava occupato ad osservare la sala e gli invitati che la riempivano; lasciava vagare gli occhi chiari – di un colore così bello e particolare – in uno sguardo generale che sembrava abbracciare tutti ma non soffermarsi su nessuno di preciso. Non lo fecero nemmeno quando, parlando, fece riferimento a qualcuno senza dubbio rientrato nel suo campo visivo: «Carina, la futura sposa.» commentò. Sarebbe potuto sembrare, dal commento, che la vedesse per la prima volta; non era così.
Erano cresciuti insieme, loro tre. Amici d’infanzia, si sarebbero potuti definire. Eppure con il tempo si era creata una strana situazione: lui si era ritrovato come tra due fuochi – l’altro e lei – con la differenza che non c’era stato alcun litigio o la minima discussione tra loro. Non aveva mai davvero compreso cosa fosse cambiato – qualcosa, per quanto insospettabile, doveva esserci – almeno per qualche tempo. Poi, quando erano passati alcuni anni in cui quel loro strano rapporto non era mai mutato di una virgola, era stato il suo amico stesso a chiarirgli le idee. Almeno per quel che lo riguardava.
«E dimmi» interruppe il flusso dei suoi pensieri «conosce tutto di te come una moglie dovrebbe?» ironizzò, il tono basso ed udibile solo per lui. Lo notò abbandonare l’osservazione della sala come si interrompe blandamente un gioco che non ha appassionato fin dall’inizio: «Conosce il modo di convincerti quando ti intestardisci?» chiese, voltandosi ad osservarlo, un sorriso sarcastico ad incurvargli le labbra. Non stava ironizzando bonariamente. Lo sapeva bene.
«Sa che appena sveglio non ti piace mangiare nulla di troppo dolce?» insinuò, senza vergogna: non stava esponendo solo abitudini quotidiane che un amico scopre in tanti anni, no; lui stava elencando esattamente tutte le cose che solo un amante avrebbe potuto apprendere con il tempo fino in fondo.
«O che la sera, a prescindere dalla stagione, quando ti corichi hai sempre i piedi curiosamente freddi?» continuò, totalmente voltato verso di lui, gli occhi che non abbandonavano un istante il suo viso mentre i suoi fuggivano da un punto all’altro – il terzo bottone dell’abito di lui, la manica della camicia, una scarpa, il pavimento, poi di nuovo il suo viso, ma mai troppo a lungo.
«Per favore» ripeté «sul serio.» aggiunse, facendo un mezzo passo indietro in corrispondenza di quello in avanti fatto dall’amico… che definizione ipocrita di lui, quella.
«Lo sa dove ti piace essere baciato mentre fai l’amore? Conosce l’ordine giusto in cui toglierti i vestiti per accrescere il tuo desiderio?»
Passo avanti, uno indietro in risposta. Sala e folla che si allontanavano, e nessuno che sembrasse badare a loro.
«Sa dove il tuo corpo è più sensibile?»
Continuo avanzare silenzioso fino ad essere coperti dalle grandi tende bordeaux che abbellivano vari punti strategici della sala.
«Sa che ci sono luoghi di questa casa in cui scambiarsi persino gesti poco consoni in presenza di ospiti?»
Schiena contro il muro. La supplica di fermarsi sussurrata, il tono poco convinto; si conoscevano troppo bene e da troppo tempo per non aver imparato entro quali limiti – limiti reali, nulla a che vedere con l’etichetta – potevano spingersi. Tenda che, traditrice e complice, li copriva agli sguardi ebbri di atmosfera festosa.
Falsa.
«Sa che sto per baciarti a pochi passi da lei?»
Labbra su labbra. Mordicchiare leggero, provocatorio.
Lingua su labbra, con malizia.
«Sa che la tradirai?»
Mano che gli tiene la mano.
Mano che gli sfiora il viso con la familiarità che solo un amante può avere.
«Potrai tradire me sposandola» un sussurro «ma non sarò l’unico che tradirai. Lo sai, vero?»


Considerando il bambino che era, fu sicuramente un bene il fatto che molte volte non ricordasse con precisione le parole o i contenuti dei sogni che faceva; e così, Shion cresceva.
In lui non si era mai fatto strada nulla di strano che fosse imputabile a quegli ambienti onirici, né alle persone che li abitavano: continuava ad essere “diverso” solo per l’intelligenza. Nulla sembrava sconvolgere la sua infanzia più di quanto avrebbero fatto degli incubi come tanti altri.
Solo una cosa – infantilmente ed ingenuamente mai riconosciuta, smascherata – cresceva con e dentro di lui: la consapevolezza dell’assenza di qualcosa. Un puzzle dal pezzo mancante, una scatola di colori che, se piena, fa risaltare maggiormente la mancanza di quell’unico colore che normalmente non useresti né noteresti mai, ma che nell’unico spazio vuoto che lascia appare come indispensabile.
Negli anni, i sogni si erano a volte susseguiti ad intervalli regolari, altre erano sembrati scomparsi (finalmente) del tutto; quando meno se lo aspettava, tornavano, e proprio quando invece si arrendeva – o quasi attendeva speranzoso – ad un ennesimo sonno agitato, Shion si ritrovava ad avere notti tranquille.
Di quei sogni, tutto mutava continuamente: gli scenari, gli ambienti, le sensazioni che vi aleggiavano, le atmosfere – rabbia, rimpianto, tristezza, a volte un profondo affetto, sempre nascosto da qualche parte, in qualche modo.
Poi c’erano i punti fermi: i protagonisti di quei sogni, di cui a volte era riuscito a scorgere vagamente le fattezze, sebbene fossero poi sempre offuscate dal risveglio. Ma i nomi, quelli non li aveva colti mai, o forse li aveva poi sempre dimenticati.
E un giorno – o meglio, una notte – l’aveva sentito in un sogno già visto altre volte, quello con i soldati, quello in cui si sentiva peggio al risveglio: aveva colto dei nomi che non aveva più dimenticato.
«Il perdono non sarà la tua menzione di merito. Ci dovrai vivere con il senso di colpa, Shion.»
«Nezumi…»
Era successo così. All’improvviso.
Al suo risveglio, era il giorno del suo dodicesimo compleanno.

Normalmente non avrebbe mai fatto entrare qualcuno a quel modo.
Ma normalmente nessuno camminava sotto un tempo simile fino ad entrare in casa altrui dalla finestra. Shion era troppo giovane per pensare di credere ad una cosa strana e sconosciuta come il destino, ed era troppo abituato ad un pensiero scolastico, scientifico e razionale nonostante la giovane età, per crederci davvero. Eppure, quando si presentarono l’un l’altro – “Nezumi”, “Mi chiamo Shion” – che altro avrebbe dovuto fare?
Se ricorda occhi mai visti durante le ore di veglia, se ricorda capelli mai sfiorati nella realtà, se quell’espressione arrabbiata gli sembra tristemente familiare da stringergli il cuore, se non ha mai desiderato così tanto far sorridere qualcuno… a soli dodici anni, cosa mai si dovrebbe fare in una situazione simile?
E la mattina seguente, poi, ciò che aveva fatto sì avesse quell’espressione mortificata in viso non era stata né la vergogna di essere tenuto sotto interrogatorio dalla polizia di No.6 di prima mattina e nella propria casa alla sua giovane età, né il dispiacere che sapeva di stare dando a sua madre, né – ancora – la consapevolezza della preoccupazione che le aveva visto riflessa negli occhi.
Quello che lo aveva fatto tremare di vergogna, seduto su quella sedia – le mani a tenersi l’un l’altra come a trovare il coraggio in se stesso anche se non ce n’era poi granché, lo sguardo basso e mortificato – era stato il ricordo del sogno di quella notte: la prima in cui avesse mai preso consapevolezza del significato di quei mondi onirici così simili e diversi fra loro al tempo stesso, in cui aveva sbirciato da spettatore indesiderato e inconsapevole protagonista senza mai comprenderne nulla, se non una pesantezza che ti schiacciava il cuore al risveglio.
Persino un bambino come lui, lo poteva capire: doveva essere perché aveva dormito con quel ragazzo – Nezumi, Nezumi, Nezumi – accanto, doveva essere perché non poteva scappare per sempre, doveva essere perché era una punizione, perché era stato crudele.
Doveva essere per tutte quelle cose lì, che faceva così male.

«Dovrai viverci con il senso di colpa, Shion.»

«…non sarò l’unico che tradirai. Lo sai, vero Shion?»

«Lasciami morire, è meglio.»

«Non sono fedele, ma nemmeno un traditore.»

«Tanto non capiresti, Shion.»

«Va bene, se sei tu ad uccidermi, sai?»

«Lo sapevamo, che sarebbe finita così.»

Non aveva pensato, lì seduto, di poter risolvere tutto così facilmente.
Non aveva creduto nemmeno per un istante, mentre aveva inspirato prima di parlare con voce debole e impaurita, che sarebbe bastato così poco a cancellare tutto il resto.
Eppure, non avrebbe potuto dire altro quella volta.
«Dove si trova la persona che hai nascosto qui durante la notte?»
«Non c’è nessuno, qui.»
Non tradirlo poteva essere un inizio, vero?


Nel calore di una casa che di certo non è una reggia ma che a lui sembra ormai l’unico luogo che potrebbe definire casa, siede a terra nonostante sia il divano che il letto sarebbero più che disponibili ad accoglierlo – ed indubbiamente più comodi.
Generalmente, quando entrambi leggono come in quel momento, nessuno dei due interrompe se non alzandosi quando ha finito la propria lettura o quando decide di alzarsi a sgranchirsi le gambe; regna un silenzio quasi religioso, fatto solo di respiri, squittii quasi inudibili e zampettare sul pavimento di legno. Ma sono diventati rumori così abituali, per loro – per lui – che non alzano nemmeno più lo sguardo dai volumi che tengono fra le mani per controllare a quale percorso, fra un mobile e l’altro, si stiano dedicando i piccoli roditori che sono a tutti gli effetti loro coinquilini, praticamente.
Potrebbe sembrare un’atmosfera pesante, a descriverla così o a vederla da fuori, senza viverla. Invece, per loro è il modo più rilassante per passare una giornata. Non hanno necessariamente bisogno di dirsi nulla; più che una novità divenuta noiosa routine, tuttavia, somiglia più ad un iniziale disagio trasformatosi in familiare abitudine.
È indubbio, comunque, che se mai qualcuno rompe il silenzio con un’osservazione o una domanda, quello è inevitabilmente Shion. Ogni volta, con le richieste più disparate e banali – “vuoi del tè?”, “Cosa leggi? È interessante?” – che durano il tempo necessario ad essere pronunciate e ricevere una risposta, e poi lasciano docilmente spazio di nuovo alla calma quasi piatta che li circonda come una coperta.
Nezumi si è arreso. Ha capito che è semplicemente fatto così e che non c’è speranza; pure Amleto – o Shakespeare – ha abbandonato la pretesa di avere la completa attenzione di Nezumi per tutta la durata della lettura come ai vecchi tempi.
Non c’è proprio speranza, contro Shion.
«Oi, Nezumi.»
Raramente una frase che l’albino inizia così è un buon segno; d’altra parte, Nezumi gli dà ancora il beneficio del dubbio, il che si dimostra costantemente un errore madornale. Quel ragazzo pensa troppo.
«…ci hai mai pensato?» chiede all’improvviso, come se aver letto una parola a caso sul libro che ha sotto gli occhi gli avesse fatto balenare in mente – per chissà quale collegamento, sicuramente contorto – qualcosa che ora ha la necessità di condividere con lui. E, come sempre, sia mai che il soggetto sia chiaro fin dall’inizio.
«A cosa?» domanda pigramente e con una certa dose di pazienza che ha dovuto sviluppare forse per disperazione. Non alza nemmeno lo sguardo dal tomo, quasi il contatto fra la sua schiena e quella di Shion fosse l’equivalente che guardarsi negli occhi.
«A come sarebbe stato se ci fossimo conosciuti… in un mondo diverso.» pronuncia l’altro in risposta, appena tentennante.
Nezumi non ci dà peso, non più di tanto. Non si stupisce nemmeno più, a dirla tutta.
Shion da parte sua resta in silenzio: ha sempre evitato di forzare quella consapevolezza che ha rispetto all’altro, tutta quella questione dei sogni che se non l’hai vissuta non potresti nemmeno crederci, figurarci capirla. È solo che il discorso con Inukashi gli ha messo l’inquietudine addosso.
Si è chiesto se un futuro come quello che sta cercando lo troverà mai.
Si è chiesto se esiste.
Si è chiesto se sia quello che avrà in questa vita.
E se non lo fosse… si chiede ogni giorno quando tradirà di nuovo la persona per lui più importante; perché non c’è modo di scamparla. Pare che proprio non ci sia anche se lui ci pensa fino alla nausea.
Lo sente sospirare contro la propria schiena: «Shion.»
«Dimmi.»
«Non sarei vivo.» pronuncia, in maniera quasi secca.
Non può non voltarsi, se dice una cosa così. Non può non voltarsi a guardarlo per cercare di capire se c’è più di quanto dice, in quelle parole: «…Cosa?»
Lo vede incontrare il proprio sguardo, poi alzare il suo al soffitto come per rassegnazione, poi chiudere il libro e abbandonarlo sul letto al loro fianco. Infine, alzarsi: «Se ci fossimo conosciuti in un altro mondo» specifica dunque «non sarei vivo. Mi secca ammetterlo, ma è con te che ho un debito di vita. Con te, e nessun altro.»
Lo fissa con tanto d’occhi, mentre lo vede più vicino al fornelletto.
«Lo vuoi del tè?»
«Sì, grazie.»
Gli scappa un sorriso, e torna a fingere di leggere.
Almeno finché non sarà pronto il tè.

 

Avevo in mente questa fan fiction già da tempo, precisamente da quando la serie era all’episodio uno *muore*
O meglio, avevo in testa di scrivere qualcosa su uno Shion che aveva tradito Nezumi, colpa del fatto che alla fine del suddetto episodio avevo ipotizzato un tradimento da parte del moccioso quando c’era la polizia di No.6 a casa sua, cosa poi mai avvenuta. Ma l’idea m’era rimasta lì.
Poi, non so perché l’ho accantonata fino a che il compleanno di due bestiole non mi ha dato l’occasione di scriverla: ed eccoci qui.
Non mi dilungherò oltre, ma prima degli auguri di rito mi scuso se la fan fiction risulterà confusionaria: purtroppo per esigenze di trama non potevo nominare direttamente i due protagonisti finché mi giostravo uno Shion che al risveglio non ricordava nomi. Temo che, nonostante l’attenzione, a volte i pronomi che ho sfruttato per ovviare alla cosa abbiano causato caos.
Idem per i diversi cambi di tempi verbali nella narrazione: solitamente ne uso uno e rimane sempre quello, ma ho approfittato di una trama che a mio avviso si prestava per sperimentare. Spero sia stata godibile lo stesso.
Mi limito ad augurare un buon compleanno rigorosamente in ritardo – se così non fosse non sarebbe degno di me 8D – a Xia e Nexy.
…Voi e i vostri maledetti fandom comuni che non coincidono quasi mai con i miei D: *impreca*

   
 
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