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Autore: Brin    05/04/2012    1 recensioni
Non si può restare a guardare quando una mano sconosciuta porta via ciò che di più caro hai al mondo: questo è quanto Sari Kalabis sperimenta sulla propria pelle nel momento in cui uno dei pilastri della sua vita le viene strappato per sempre.
Non sa, però, che il desiderio di sapere perché la porterà su strade pericolose, lastricate di interessi a cui non dovrebbe avvicinarsi. Verso i sotterranei di un carcere da cui non si può uscire, nella pancia di un incubo folle e delirante che non dovrebbe esistere.
Genere: Fantasy, Mistero, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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11
ATTENZIONE!
Visto che il capitolo precedente era corto, oggi ho pensato di fare doppio aggiornamento: capitolo 10 (il precedente) e 11 tutti per voi a distanza di qualche ora l'uno dall'altro. Spero che nonostante l'orribile stile con cui è scritta, ormai così distante da quello che ho attualmente, La zona rossa vi stia piacendo.
E, ovviamente, quello che succederà in questo capitolo accadrà per un motivo particolare che naturalmente verrà svelato più avanti ;)
Buona lettura


Brin








11.

IL GATTO E IL TOPO




*




Mentre camminava per i marciapiedi del viale principale di Naima, l’agente Victor Silver continuava a guardare la strada con aria preoccupata.
Se qualche impiccione gli avesse chiesto che cosa lo impensieriva, probabilmente il poliziotto non l’avrebbe neppure sentito.
Sapeva che lasciare Amaya con Kramer non era la scelta migliore, ma non avevano tempo da perdere: era necessario che Volker trovasse un drago, il più presto possibile. Se erano abbastanza fortunati, li avrebbe visti solcare i cieli attorno a Naima molto presto.
Dopo tutto, Volker stesso aveva ammesso di avere degli ottimi contatti in materia di traffici illeciti, draghi inclusi.
Ma l’agente Silver era consapevole che il detenuto non era esattamente affidabile.
Sapere Amaya da sola con lui non lo rendeva tranquillo, certo, ma la sua preoccupazione maggiore rimaneva Sari. Quelle due ragazze erano un po’ come delle figlie: le conosceva da molti anni, le aveva viste maturare, e le aveva guidate all’interno del dipartimento con pazienza e premura.
E Sari era in compagnia di un assassino di massa.
La cosa che più impensieriva Silver e lo rendeva ansioso, era che Warknife sembrava sparito nel nulla: non c’era traccia di lui, né in tutta l’Aurika -il continente di ghiaccio- né a Naima.
Nonostante le sue preoccupazioni, però, c’era una cosa che gli dava speranza. Era certo di trovarsi nel posto giusto, e il numero di militari presenti in città ne era la prova lampante.
Giunto di fronte all’entrata dell’unica locanda della cittadina, decise di tentare la fortuna. Probabilmente i due avevano affittato una camera per la notte, con l’intenzione di riposarsi, anche se aveva la sgradita sensazione di essere arrivato tardi.
Il locale era vuoto. Non c’erano clienti, a eccezione di un avventore solitario seduto al bancone e della proprietaria, intenta ad affogare il dispiacere per una fuga dei clienti in una bottiglia di grappa. Silver si diresse senza indugi verso la donna.
«Mi scusi…»
La locandiera lo guardò. Era ancora sobria.
«Che c’è, il C.S.M. non ne ha avuto abbastanza di spaventare questa povera donna e i clienti della sua locanda?! » sbottò riempiendo il bicchiere che aveva in mano.
Silver le si sedette di fianco.
«Sono l’agente Silver, del dipartimento di polizia di Rosya. Non sono venuto per conto del C.S.M.» le spiegò, cortese. La donna gli lanciò un’occhiata critica e veloce.
«E allora si può sapere perché è venuto qui? Vuole sapere anche lei del nostro ospite della settimana?»
Il poliziotto sorrise pazientemente, grattandosi un sopracciglio.
«Precisamente. Volevo sapere se quest’uomo è passato da queste parti» frugò all’interno di una valigetta, e piazzò sul bancone un volantino con la foto segnaletica di Warknife all’epoca del suo arresto. Sotto la foto, una grande scritta rossa recitava “RICERCATO” a lettere cubitali.
Il ragazzo, l’unico cliente nella locanda, gettò una rapida occhiata alla foto. «È lui il tizio che sta creando tutto questo scompiglio?»
La sua voce profonda creava un insolito contrasto con i lineamenti regolari e piacevoli del viso. L’assenza di orecchie a punta suggeriva che appartenesse alla razza umana.
«Sí. Se hai indizi a riguardo, ti prego di darmeli» rispose Silver allungandogli il volantino, ma la padrona della taverna glielo strappò letteralmente di mano, paonazza in volto.
«È lui, quel maledetto!» esplose, strabuzzando gli occhi. «L’avevo notato, non doveva essere uno a posto. Mi ha fatto scappare tutti i clienti, sa? E il C.S.M! Quel Rider, maledetto! Spaventarmi così tutta la clientela! Ma lo avevano quasi preso, quell’assassino. E la ragazza... » esclamò concitata, senza fermarsi. Silver fu costretto a interromperla nel bel mezzo del suo sfogo.
«La ragazza stava bene? »
«Oh, sí. Sembrava solo molto spaventata, ma era tutta intera.»
Silver tirò un sospiro di sollievo. «L’hanno preso? »
La donna fece un cenno negativo con il capo.
«È riuscito a fuggire dal tetto, quel bastardo. Chissà che lo prendano e lo buttino ad Artika, così farà la fine che si merita.»
Silver distolse lo sguardo dalla donna, tacendo il fatto che era proprio da Artika che Warknife veniva. E che non l’avevano affatto giustiziato, contrariamente a quello che tutti si aspettavano dalla legge istituita dalla Corporazione. Sorprese il ragazzo a fissare il muro oltre il bancone, assorto in chissà quali pensieri.
«Lo prenderemo, non c’è da preoccuparsi. Ormai ha le ore contate» Silver tentò di rassicurarlo, sicuro che la situazione lo intimorisse. Quando il giovane lo guardò, al poliziotto sembrò che per un istante un guizzo nei suoi occhi gli deturpasse il volto in un’espressione seccata: una reazione che non si aspettava di certo. Silver lo osservò frastornato, e quando lui gli sorrise riconoscente, si domandò se non si fosse immaginato ogni cosa.
Sospirò.
«Beh, vi ringrazio per le informazioni. Arrivederci» salutò, prima di uscire dalla locanda.
Il C.S.M. non aveva perso tempo: stava già organizzando dei posti di blocco in punti strategici, alle porte della città. Warknife aveva le ore contate.
Tuttavia sentiva che qualcosa non quadrava, qualche particolare gli sfuggiva e lui non riusciva ad afferrarlo. Aveva la netta sensazione di essere in un quadro fatto di forme, linee e colori dall’armonia perfetta, a eccezion fatta per pochi, piccoli elementi che stonavano con l’intera opera. Ma sebbene avvertisse la presenza di quei piccoli tasselli e il caos generato da essi, non riusciva ancora a scorgerli.
Si fermò in mezzo alla strada a capo chino, cercando di reprimere il senso di frustrazione che minacciava di assalirlo.
Non farti battere da lui, Victor. Non devi cedere.
Quando estrasse dalla valigetta un pacco di volantini con la foto segnaletica di Warknife, decise che avrebbe ignorato tutti quei punti interrogativi che gli frullavano in mente. Il perché Warknife era ancora vivo non aveva importanza: l’unica cosa che contava al momento era liberare Sari, e ricacciare quel mostro nell’inferno da cui era venuto.
Quando appese il primo volantino, ebbe l’impressione che il volto stampatovi sopra ridesse di lui, beffardo.


*


La città non era più un luogo sicuro. Doveva andare via da lì il più presto possibile.
Non gli avrebbe permesso di catturarlo di nuovo e di giocare con lui come avevano fatto in passato. No, li avrebbe uccisi prima che potessero mettere le loro sporche mani su di lui. Uno dopo l’altro, anche a costo di sacrificare le vite di tutti gli abitanti della città.
Nascosto in un vicolo, Namar controllò se la strada principale fosse libera. Le circostanze sembravano favorevoli per agire: non c’era nessuno nelle vicinanze.
Gettò l’occhio sull’insegna del negozio dall’altra parte della carreggiata.
Un fabbro.
Attraversò di corsa la strada, trascinando Sari per un polso. Quando entrarono, non trovarono nessuno al bancone.
«Perché siamo qui?»
Il fuggiasco lasciò andare Sari, ma non le rispose. Si guardò attorno, alla ricerca di qualcosa che potesse servirgli. Qualcosa di appuntito, qualcosa di pericoloso. Poi le vide, sopra il bancone: un paio di grosse forbici, vecchie, ricoperte da uno strato di ruggine.
Facevano proprio al caso suo.
«Ho un appuntamento nel retrobottega» dichiarò con un sorriso folle, oltrepassando il bancone con le forbici in mano. Imboccò la porta, probabilmente l’accesso alla fucina.
Sari non perse tempo, intuendo all’istante quali fossero le intenzioni di Namar. E non le piacquero affatto. Gli corse dietro, nel tentativo di riuscire a fermarlo prima che potesse utilizzare quelle forbici.
Quando entrarono nel retrobottega, il fabbro –un elfo dalla corporatura insolitamente robusta, probabilmente il padrone del negozio- era intento a forgiare una spada. Era coperto di sudore, a causa del caldo e della fatica.
E non appena si accorse di loro, abbandonò la spada rovente, che cadde a terra spargendo scintille ovunque. Rimase fermo, con gli occhi fissi sul fuggiasco, le ginocchia piegate e pronte allo scatto. Pronte alla fuga.
Lo guardò avvicinarsi con quel sogghigno tipico di un folle. Solo quando gli fu abbastanza vicino da poterlo aggirare, tentò uno scarto veloce di lato, ma Namar fu più veloce di lui: allungò la gamba, e l’elfo non riuscì a evitare lo sgambetto. Cadde per terra con un tonfo sordo, reprimendo a stento un lieve lamento.
Namar si chinò su di lui puntandogli le forbici alla gola, e in quel momento Sari gli si lanciò addosso, afferrandogli il polso nella speranza di impedirgli di fare del male al fabbro.
«Fermati, ti prego.»
«Non oggi, dottoressa» ringhiò Namar, spingendo Sari lontano. «Torniamo a noi due, orecchie a punta. Mi serve la tua collaborazione e, che sia spontanea o meno, ti assicuro che me la darai» il sogghigno dell’evaso non prometteva nulla di buono.
L’elfo tremò, ma sostenne lo sguardo folle di Namar con l’orgoglio caratteristico della propria razza.
Un orgoglio tale che non gli permetteva di chinare la testa. Mai, in qualunque situazione si trovasse.
«Non credo proprio.»
A quelle parole, Namar si spazientì. Aumentò la pressione della lama sulla gola del fabbro, e una goccia di sangue fece capolino. Fu un attimo: gli occhi chiari dell’elfo persero per un istante la loro fierezza. E si fece largo la paura.
Namar capì di averlo in pugno.
«Allora?» sibilò. L’elfo deglutì, annuendo col capo.
«Che vuoi che faccia?»
«Le vedi queste?» domandò sollevando a mezz’aria i polsi incatenati, producendo un rumore metallico.
Al cenno d’assenso dell’elfo, Namar sorrise mellifluamente. Sinistramente.
«Toglile.»


*


Nessuno aveva più detto nulla da quando le catene erano cadute dai polsi di Namar. Il clangore prodotto nel momento in cui toccarono terra suonò alle orecchie di Sari come un lugubre canto di rinascita, e da quel momento il fuggiasco non aveva fatto altro che ridere sommessamente accarezzandosi i polsi segnati dalle piaghe.
Sarì sospirò, rassegnata. Era appollaiata sopra una sedia di legno e guardava ora Namar, ora l’elfo seduto in un angolo della fucina.
Rimanere in silenzio non la stava affatto rilassando, perché le consentiva di riflettere. Di ripensare alla reazione che aveva avuto l’evaso quando l’aveva toccato, e a come lei si era comportata.
Aveva reagito da essere umano invece che da psicologa.
Non era rimasta obiettiva, e si era lasciata trascinare da ciò che lo sfogo emotivo di Namar le aveva provocato. Non si era chiesta perché. Che cosa ci potesse essere dietro quel terrore sproporzionato che gli aveva letto negli occhi, lo stesso che aveva visto molte volte nelle persone che avevano subito maltrattamenti.
E quando Namar le aveva detto di non toccarlo, gli aveva risposto come se fosse stato un capriccio. Con acidità, fomentata dal nervosismo e dalla pressione che la stressavano da quando tutta quella storia era cominciata.
E poi c’erano quei tagli, profondi e infetti, che non facevano altro che dare nuova forza ai suoi timori. Ma la cosa che più la turbava, più delle ferite di Namar e del suo rifiuto di essere toccato, era che cominciava a vedere l’evaso sotto una luce diversa. Oltre l’assassino, sotto il carcerato e il rapitore, si nascondeva una persona.
Ed era riuscita a intravederla in mezzo al marcio che si portava dietro. E la cosa l’aveva scossa.
Cominciò a essere stanca di rimanere seduta: faceva caldo lì dentro, e le sembrava quasi che l’aria cominciasse a diventare rarefatta. Sentiva il sudore farsi appiccicoso e la pelle incendiarsi. Aveva bisogno di uscire, di catturare a pieni polmoni l’aria della notte.
Guardò Namar, vagamente scocciata.
«E ora si può sapere che hai intenzione di fare?»
«Cosa pensi che farò, dottoressa?» la schernì con un sorrisetto decisamente irritante «Sarebbe una mossa alquanto stupida creare tutto questo scompiglio e poi lasciare che mi prendano così facilmente, non credi?»
Sari scosse il capo, sospirando.
Non gli darò la soddisfazione di rispondere alle sue provocazioni.
«Andremo via da qua appena si saranno calmate le acque.»
«Non credi che perquisiranno ogni abitazione?» domandò Sari con un sorriso quasi amaro «Busseranno anche a questa porta, lo sai. Quando ciò accadrà che farai?»
Namar assunse un’espressione cupa. Rimase con lo sguardo perso nel vuoto, imbrigliato in pensieri insondabili. Era preoccupato.
Per un istante a Sari sembrò di cogliere nei suoi occhi un guizzo strano, quella luce folle e allucinata che ormai aveva visto più di una volta.
«Non ci troveranno, te lo assicuro.»
Sari non volle indagare oltre e si accontentò di quella risposta. Non sapeva se fidarsi o meno di lui, non riusciva a capire se le facesse paura o pietà, se sperava che lo prendessero o che riuscisse a fuggire.
Una parte di lei gridava disperatamente per ottenere la salvezza, ma l’altra –la parte altruista, quella che l’aveva portata a diventare psicologa- le diceva chiaramente che non poteva ignorare ciò che aveva intravisto per un breve istante, in quella camera.
Così decise di non rispondere, e nella fucina fu di nuovo silenzio, lungo e snervante. Aspettavano come topi in trappola, con il cuore che galoppava e i sensi all’erta per captare ogni rumore. Era solo questione di tempo, Sari lo sapeva bene.
Rider non era mai stato un tipo che si arrendeva così facilmente, ed era certa che li avrebbe cercati fino alla morte. Era un soldato ligio al dovere, o almeno questo era quello che si diceva di lui, e il suo compito in quel frangente era trovarli. Riportare lei da Amos, e Namar ad Artika.
Non si sarebbe fermato. Nessuno del C.S.M. lo avrebbe fatto finché non avessero portato a termine la missione.
Mancava poco, molto poco. Erano vicini, erano sulle loro tracce e le fiutavano con avidità, mentre loro si nascondevano in quel buco, al buio.
Sari scoprì con sorpresa che le mani le tremavano. Cercò di nasconderle per non farsi scoprire da Namar, ma il fuggiasco aveva ben altri pensieri per la mente: si aggirava per la stanza come un’anima in pena, camminando avanti e indietro senza sosta con evidente nervosismo.
L’elfo, seduto nell’angolo, ne seguiva le movenze con ostinazione. Sembrava studiarlo con una certa insistenza, cosa che suscitò facilmente l’irritazione di Namar. Il fuggiasco afferrò una delle spade riposte sul tavolo e la puntò contro la sua gola con la velocità letale propria di uno scorpione.
«Detesto essere fissato. È la seconda volta che ti punto contro una lama, alla terza la tua testa salta dal collo» mormorò con un sogghigno. L’elfo non rispose, limitandosi a guardare il suo sequestratore con odio.
Sari balzò in piedi per intervenire, ma Namar la bloccò.
«Guai a te se t’intrometti.»
Stava per ribattere, quando all’improvviso lo sentì: un leggero scricchiolio, il rumore della porta che si apriva, e infine dei passi nella bottega. Il sangue le si gelò nelle vene.
Li avevano trovati.
Guardò Namar preoccupata, come se lui potesse risolvere la situazione in qualche modo, ma il fuggiasco non muoveva un muscolo. Sembrava un segugio che fiutava l’aria in cerca della preda, immobile e attento.
I passi cessarono, quindi rincominciarono. L’elfo, ancora minacciato dalla lama che Namar gli puntava alla gola, fremeva.
«Ti prenderanno» gli sussurrò, e la mano che impugnava la spada tremò. Per un istante Sari temette che il fuggiasco avrebbe violato le carni del fabbro, ma Namar riuscì a mantenere il sangue freddo.
«C’è nessuno?» dalla bottega provenne una voce maschile, calda e profonda. Sari sentì che le gambe stavano cominciando a diventare molli.
«Vai di là e dì che il negozio è chiuso» Namar levò la spada dalla gola dell’elfo, che si risollevò lentamente in piedi, poco convinto. Sostenne lo sguardo duro e perentorio del suo sequestratore con orgoglio.
«Te lo puoi scordare, non ti aiuterò a scappare.»
Le membra di Namar furono prese da un fremito. Quando levò l’arma in aria, pronto a calarla sull’elfo, i passi si fecero più vicini. Chiunque fosse, li avrebbe trovati in una manciata di secondi. Pochi, miseri istanti si frapponevano tra la fuga di Namar e la sua fine.
«Namar!» Sari gridò nel tentativo di far capire all’evaso cosa stesse per accadere, ma fu troppo tardi: una sagoma apparve sulla soglia del retrobottega, un ragazzo dai lineamenti dolci e regolari, in netto contrasto con la voce profonda e adulta. Era piuttosto alto, e i capelli castani ricadevano in riccioli all’altezza delle orecchie. Guardava frastornato Namar e il fabbro, non capendo cosa stesse succedendo.
«Tu, sdraiati a terra e tieni le mani in vista!» l’evaso gli puntò la spada contro, e il ragazzo non se lo fece ripetere due volte. Namar sospirò pesantemente, abbassando l’arma. A Sari ricordò un leone vecchio e ferito.
Sentiva che la parte di lei che lo disprezzava, quella che aveva sempre pensato che quei lunghi anni di prigionia l’avessero ammattito cancellando quel po’ di umano che era in lui, diventava sempre più fragile. Per la prima volta vedeva la disperazione di quella creatura e il feroce desiderio di fuggire da una vita di chissà quali orrori.
Sentì distintamente qualcosa agitarsi dentro di lei e serrarsi all’altezza della gola.
«Se mi lasci andare non dirò a nessuno che sei qua, lo prometto» biascicò il ragazzo, spaventato.
«Non me ne faccio nulla delle tue promesse!» ruggì Namar, improvvisamente infervorato «Chi sei? Fai parte del Corpo dei Maghi?»
«Di che cosa?»
Il ragazzo sollevò appena il capo, intimorito. Non aveva il coraggio di guardare Namar in faccia.
«È inutile che fai finta di non sapere, con me non attacca! Sei sotto copertura?» il tono del fuggiasco si fece più incalzante e il suo sguardo più cattivo. Il ragazzo abbassò la testa senza rispondere. Tremava dalla paura.
«RISPONDI!»
«NON SO DI CHE PARLI!» esclamò il giovane. Guardò per la prima volta il suo accusatore negli occhi e il suo sguardo implorante impietosì Sari. Quando la ragazza vide Namar avventarsi contro di lui, balzò in piedi strillando e con uno scatto fulmineo gli afferrò il braccio con cui brandiva la spada.
«Ora basta! Se facesse parte del C.S.M. sarebbe entrato armato assieme alla sua squadra, quindi piuttosto che sfogare il tuo nervosismo sul primo che ti capita sottomano pensa a come andar via da qui!»
Namar la studiò silenziosamente. Sembrava convinta di ciò che stava dicendo, o almeno questo era quanto gli suggeriva la sua espressione severa. Sollevò il mento, abbozzando un sorrisetto sornione.
«Ora che il nostro amico fa parte della comitiva, non posso lasciarlo andare senza avere la certezza che non faccia parte del C.S.M. Ragion per cui, ho paura che sarà costretto a venire con noi» terminò con una delle sue caratteristiche smorfie che per Sari sapevano molto da pazzo allucinato.




   
 
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