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Autore: Eterocromia    06/04/2012    2 recensioni
Una raccolta di quattro capitoli, di cui due Daemon/Giotto e i restanti 6927, ognuno con attributo una stagione.
❝ Mukuro era l'estate, la primavera, l'inverno e l'autunno. Si diradava all'orizzonte delle mie parole e fioriva al nascere delle mie ferite. ❞
Dal Capitolo 1: (Daemon/Giotto) «Daemon permise a Giotto di salvarsi da quell’oscurità in cui era volontariamente caduto per inseguirlo.»
Dal Capitolo 2: (6927) «Era giunto alla conclusione che preferiva addormentarsi eternamente all’ombra di un albero di cadaveri, piuttosto che vivere senza poterne amare i suoi frutti.»
Dal Capitolo 3: (6927) «Mukuro Rokudo si fissava, incapace di comprendere che la libertà gli era stata cucita addosso, e ancora sanguinava acqua dalle ferite.»
Dal Capitolo 4: (Daemon/Giotto) «Perse tutti quei piccoli cocci di vetro in un solo momento, e questi caddero a terra trasformandosi in astratte gocce di rugiada, scivolando sul marmoreo pavimento come il mattino pallido pronto a sbocciare.»
Genere: Angst, Drammatico, Malinconico, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Daemon Spade, G, Giotto, Mukuro Rokudo, Tsunayoshi Sawada
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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 The four seasons



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Chapter 4

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Daemon/Giotto


La passeggiata crepuscolare, trascorsa per la maggior parte sulle rive del fiume, stava per volgersi al termine di pari passo con l’umore di Giotto. Era invisibile quanto l’aria che gli scompigliava i capelli; un umore talmente tetro che sin dall’inizio della passeggiata aveva fatto silenzio, senza spiccare la minima parola. Teneva lo sguardo basso, inebriato del bagnato rosso circolante nell’aria serale, contando i giorni che non sarebbero mai più ritornati.
Il silenzio di Amsterdam l’aveva dannato, conducendolo ad una netta sentenza dei suoi ricordi, aprendogli gli occhi una volta per tutte. La mano a cui si aggrappava in quel momento come una rondine al nido, non era altro che un profano traditore, un gelido burattinaio che attentamente stava per recidere i cavi del gioco –e l’aveva scoperto solo in quell’istante, ignorando i mesi bugiardi che tanto l’avevano accompagnato per tutto questo tempo.
Quando si decise ad alzare lo sguardo, Daemon Spade lo stava fissando attentamente. Gli occhi di ghiaccio sembravano ridere di lui, tanto che eran belli, con quel taglio affusolato quanto le sue mani da assassino, con quella bocca da amante irreale.
Si fermò, quasi colpito da un fulmine; la visione di quell’essere che aveva offuscato il sole gli aveva impedito di realizzare qualcosa di concreto oltre alla sua presenza. Quest’ ultimo teneva ancora le labbra tese in una smorfia indefinita, quasi avesse intuito i pensieri dell’altro, un dono che non gli era stato mai concesso; le labbra di Giotto si curvarono in un sorriso tremolante, e persino gli occhi color del tramonto parvero tremare, ora calmi, ora tremanti, vibranti di una triste speranza che ora lo abbandonava, ora ritornava.
«Tra non molto te ne andrai dalla mia vita, non è così?»
Pareva aver colpito nel punto giusto, perché Daemon curvò il suo volto verso il basso, e la scintilla d’ira si fece sentire, perché l’altro fissò lateralmente il vuoto.
«Ti sei mai chiesto perché ti ho portato qui, ad Amsterdam?» Giotto socchiuse gli occhi a quella domanda. Odiava che gli si fosse risposto con un’altra domanda, nonostante lui stesso lo facesse continuamente.
«Perché odi il resto dei miei guardiani, per caso?» rispose in tono canzonatorio, tenendo fermo quel sorriso inespressivo; Daemon alzò il volto e coprì nuovamente il sole intento a scomparire, ridendo in modo amaro, scoprendo i canini bianchi. Un’altra cosa di lui che Giotto amava quasi alla follia.
«Qualcosa del genere.» prese una pausa, adocchiando sfuggente i passanti olandesi che lo circondavano. «In realtà era da molto che avevo bisogno di stare da solo con te. Non sopporto che qualcun altro ti ronzi attorno, Giotto. Ti ucciderei volentieri se questo ti renderebbe unicamente mio.
Ed eccoci qua, di nascosto ad Amsterdam. Perché dovresti preoccuparti di una cosa simile?
Andiamo.» rise, di una risata sorda e maligna, inebriando l’aria di quel sapore di gelo che lo distingueva dal resto. «Dovresti aspettarti una cosa del genere da me.
Non puoi pretendere amore da chi non è capace di assicurartelo.»
Il volto di Giotto si dipinse di un chiarore quasi scultoreo, che s’intonava ai battiti sempre più lontani del suo cuore. Lo sapeva da sempre, ma solo da poco aveva messo in gioco questa remota possibilità.
Scosse la testa in modo frenetico, e poi, con un battito di ciglia, la maschera andò in frantumi.
Perse tutti quei piccoli cocci di vetro in un solo momento, e questi caddero a terra trasformandosi in astratte gocce di rugiada, scivolando sul marmoreo pavimento come il mattino pallido pronto a sbocciare.
Si appoggiò col capo sul petto di Daemon, e iniziò a battere contro questo le mani, chiuse in pugni dalle nocche rosee. Non pianse; semplicemente schiacciò sotto quelle mani minuscole quell’arcana realtà che lo stava divorando lentamente da ore, giorni, settimane.
Daemon parve sorpreso, perché con ritardo abbracciò quel piccolo uccellino che tentava di fargli del male – facendosi del male.
A Giotto sembrò di esser stato abbracciato da qualcuno che porta sulle spalle il mondo intero, pur di proteggerlo: e invece rimangiò questo pensiero, perché erano le braccia della morte.
«Guarda un po’, su quel ponte, Giotto: c’è un fotografo. Mi permetti di immortalare la tua bellezza al mio fianco?» la voce era tanto mielosa e suadente che a Giotto parve di sentire l’eco di quelle notti passate insieme, al solo chiarore di una candela.
Seppur con il dolore scheggiato tra le ciglia, si rialzò da quella posizione, e riaggiustandosi il pellicciotto alzò il volto sorridendo, indossando di nuovo quel contegno e quella maschera che l’avevano nominato “Primo Vongola”.
Incastrò di nuovo la mano piccola in quella più grande del demone, e lasciò che lo condusse a quel ponticello anonimo, ma meravigliosamente deliziato da una luce rossa perfetta. Daemon chiese al fotografo in un perfetto accento di Amsterdam se poteva scattargli una foto, depositandogli tra le mani callose delle monete luccicanti. Gli parve sconcertante la differenza tra quelle mani vissute e quelle del suo giovane amante, che erano bianche e dalle unghie curate, degno del nobiluomo che era.
Si voltò e tornò verso Giotto, indicandogli di mettersi in posa al suo fianco, sorridendo; quel sorriso che diventò malinconico e condizionò gli occhi felini a diventare quasi ricolmi di lacrime.
La bellezza divina –di che mondo, di che girone infernale?- e le parole di Daemon l’uccisero e lo fecero cinguettare di dolore, nuovamente.
«Devi abbracciare ciò che non hai più.»
Silenziosamente, mentre il fotografo li avvertiva che era in procinto di scattare, si avvicinò al corpo del demonio e lo abbracciò lateralmente, cingendo la sua vita, poggiando il capo come un bocciolo in fiore sorridente sulla sua spalla e fissando la grigiastra fotocamera.
Daemon sorrise, col suo solito fascino incantatore, e aspettò che il rumore metallico della fotocamera gli inondasse le orecchie. Dopodiché, aspettò che le lacrime gli bagnassero le iridi, quando vide il fotografo tirar fuori la foto dalla polaroid e scrivere sul bordo inferiore “14 dicembre 1945”, quando sentì Giotto dirgli affranto: «L’ho appena fatto.»







Molti anni dopo, successivamente alla scomparsa prematura di Giotto Primo Vongola, Daemon Spade ritrovò la fotografia.
Gli occhi gli si ricolmarono di lacrime ancora una volta, e lasciò che esse gli ricadessero una volta per tutte sulle guance pallide, capendo l’enorme sbaglio che aveva commesso.
Giotto lo stava abbracciando, sorreggendolo come dei rami possenti, e ora Daemon era solamente una foglia morta, avendo perso il suo albero nativo. L’aveva perso, non avrebbe mai più rivisto quel volto in fiore come una giovane innamorata al suo primo amore, non avrebbe mai più avuto una persona che gli avrebbe donato tanto amore così come gliel’aveva donato Giotto.
Daemon abbracciò la foto, proprio come aveva consigliato a Giotto in quell’istante, ‘doveva abbracciare ciò che non aveva più’.



Le cose cambiano.
Mutano negli attimi, non aspettano che qualcuno li noti in modo ossessivo; cambiano e basta.
Le persone perdono interesse, ci deludono, ci rendono felici, ma cambiano.
Cambiano e fa impercettibilmente male.
Avviene in loro la metamorfosi che attanaglia le farfalle che le circondano.
Le stagioni passano: primavera, estate, autunno, inverno; loro sono le regine del tempo, non aspettano e si fanno aspettare.
Con le loro sfumature preziose ci fanno capire che ogni stagione è unica: le amicizie e gli amori più fedeli cambiano e si disperdono nell’aria come polline al vento, e mai resteranno uguali in un’altra stagione.
Per quanto ci affatichiamo a tenerci stretti al presente, soffriamo con la consapevolezza che la primavera tornerà, l’estate pure, l’autunno e l’inverno ancora.
Questa raccolta è dedicata a svariate persone, che sono presenti –seppur non ne abbia fatto nome- nei dettagli delle frasi, sui fronzoli delle mie parole.
E’ grazie ai vostri cambiamenti che mi hanno permesso di narrare lo scorrere di queste stagioni così intrise dei miei stati d’animo: che mi abbiano addolorato o mi abbiano donato felicità, sono stati esattamente come le stagioni.
Mi hanno sorpresa e lasciata senza parole.
Come dulcis in fundo ringrazio i miei amati lettori, che non sono meno importanti del resto: grazie a chi ha letto, a chi ha recensito, e un profondo grazie soprattutto a chi è riuscito a provare le stesse sensazioni che ho provato io nel scrivere questa raccolta.
Insomma, grazie mille a tutti gli spettatori di questo mio personale teatrino dei burattini! ~

  
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