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Autore: Quainquie    08/04/2012    6 recensioni
Quando la vita della sovrana di Camelot viene minacciata, Arthur e Merlin devono affrontare una sfida che potrebbe spingerli a riconsiderare la natura stessa della loro missione e del loro rapporto. Curiosamente, l'aiuto più significativo per impedire ai due di smarrire la via giunge dalla persona più inaspettata: Sir Percival.
***
«L’Isola ha già udito le tue preghiere, Morgana. Se il fato lo vorrà, ci rincontreremo per divenire sorelle di spirito» Inaspettatamente il piglio della bionda Sacerdotessa s’era ingentilito. Con un movimento aggraziato, aveva posato le mani sulla chioma insudiciata di Morgana e le aveva ingiunto, dolcemente: «Abbi fede, Morgana».
Genere: Avventura, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altro Personaggio, Merlino | Coppie: Merlino/Artù
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nel futuro
Capitoli:
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Carissime/i,

Eccoci al quarto capitolo-mattone, forse quello che da tempo ormai immemore aspettava di comparire. Ringrazio tutte/i coloro che hanno letto la storia (e che spero l’abbiano apprezzata); ma stavolta mi sento in dovere di citare per nome (o meglio, per nickhame) tutti coloro che mi hanno lasciato, sotto forma di recensioni che spesso mi hanno fatto emozionare, pareri, commenti e suggerimenti. In ordine strettamente cronologico: Elfin Emrys, Chibisaru81, Carin, Crownless, Dater, Samira77 e Lady Vivy. A voi un grazie infinito, davvero!

Vi consiglio vivamente, come sempre, la lettura della mia one-shot incentrata sul personaggio di Percival, Your enemies are my enemies, nel caso non l’abbiate già letta. Il motivo non sussiste nella mia megalomania (ahimè già accentuata di suo) ma nel fatto che la one-shot contiene elementi che saranno sicuramente ripresi in questa storia (e da brava smemorata, proprio non so se riuscirò a ricordarmi di inserirli tutti nella narrazione).Come sempre le dovute precisazioni: Merlin e tutti i suoi personaggi sono di proprietà dei loro autori e della BBC.

Buona lettura!

Quainquie

 

 

 

Cap. IV – I’ve fallen out of favour, and I’ve fallen from grace

 

Florence + the Machine, Falling

 

Per Gaius, Merlin e Percival il ciclo lunare che era intercorso tra la riunione nella Sala del Consiglio, durante la quale Arthur aveva dato l’ordine di intraprendere la ricerca della Coppa della Vita in ogni anfratto del castello, e il ritrovamento – se così poteva essere definito – di questa, era forse stato il più lungo delle loro vite – il che, nel caso di Gaius, era tutto dire.

L’anziano medico di corte non aveva risparmiato né a Merlin né al prestante cavaliere uno dei suoi perentori sguardi sghembi, le folte sopracciglia aggrottate dal disappunto, quando i due si erano presentati nei suoi alloggi dichiarando di sapere per certo che la Coppa si trovasse lì. Non tanto perché gli risultasse inedito che Merlin, a causa della sua indole generosa, potesse compiere gesti di spropositata insensatezza, quale era quello di celare un oggetto magico molto potente tra le boccette e i calici con cui soleva somministrare decotti e infusi ai pazienti, quanto perché quel giovane mascalzone si era arrischiato a compiere un tale gesto senza avvisarlo.

Era stato allora con un sospiro sconsolato, a metà tra il sollievo e la contrarietà, che aveva osservato il suo giovane apprendista dirigersi determinato verso una delle credenze incastrate in un angolo remoto e poco illuminato dei suoi alloggi, aprire le ante con meticolosità e cercare a tentoni, tra una miriade di boccette translucide, piatti, calici e bricchi dal beccuccio decapitato, la Coppa. Quando Merlin era riemerso vittorioso, la Coppa avvolta in un panno stretta nel pugno, Gaius aveva smesso di crucciarsi per il gesto sottaciutogli e aveva preferito invece concentrarsi su come far sì che la scoperta del Calice non desse adito a sospetti, specialmente a quelli del sovrano.

Gaius aveva considerato piuttosto assennato il consiglio di Percival di avviare le ricerche ugualmente, allertando la servitù. Dopo qualche breve calcolo, i tre avevano concordato che un ciclo lunare sarebbe bastato per dare a quel ritrovamento una parvenza di autenticità e casualità: anche se avessero portato immediatamente il Calice ad Arthur, esso non avrebbe fatto altro che accrescere l’ansia e il disappunto del sovrano, dato che per attuare l’incanto guaritore era necessario l’intervento dei Druidi, di cui ancora non si avevano avute notizie di sorta.

Dinanzi allo sguardo stupefatto di Gaius e Percival, Merlin si era poi messo a raccontare, con dovizia di particolari, del compito che Iseldir, la Guida Druida, gli aveva telepaticamente affidato quel giorno di due anni prima quando lui, Arthur e Gwaine avevano recuperato la Coppa della Vita: proteggere l’artefatto magico, come lui e la sua Famiglia avevano fatto sino a quel momento. Dopo un primo fallimento, avvenuto quando Morgause se ne era impossessata per rendere immortale l’esercito di Cenred, Merlin aveva deciso di conservare la Coppa presso di sé, e di nasconderla negli alloggi del medico di corte, dove difficilmente a qualcuno – nella fattispecie Morgana – sarebbe venuto in mente di cercarla. E per anni infatti la Coppa era rimasta, silente e scintillante, rintanata tra le carabattole impolverate di Gaius.

Al termine del racconto Percival aveva emesso un basso fischio, a metà di ammirazione, a metà di incredulità: «La Coppa della Vita in una credenza. Che…»

«… Gesto imprudente!» aveva completato Gaius senza che gli fosse stato chiesto, mentre il suo sguardo carico di rimprovero rimaneva fisso su Merlin, che aveva accennato uno dei suoi luminosi sorrisi nell’udire il tono entusiasmato del cavaliere.

Merlin e Percival si erano guardati di sottecchi, senza riuscire a trattenere il sorriso di fronte allo sdegno ribollente – tuttavia udibilmente venato d’orgoglio – dell’anziano medico di corte.

Meno divertente era stato celare ad Arthur l’euforia per il ritrovamento della Coppa. Ogni mattina Percival si era recato dal sovrano, come ordinatogli, per aggiornarlo sullo stato delle ricerche e ogni mattina, per la durata dell’intero ciclo lunare, aveva dovuto mentirgli. Nonostante la gravità della situazione, lui, Gaius e Merlin avevano trascorso dei piacevoli momenti al termine di quelle giornate cariche d’ansia e d’attesa in compagnia soltanto di loro stessi e di una candela mozza, a ridere e scherzare sull’insormontabile goffaggine in cui Percival incappava quando doveva cercare di controllare la propria mimica facciale. Merlin aveva trascorso ore a cercare di fargli assumere un’espressione di compunto sconforto, per poi decretare che sarebbe stato più semplice istruire un cavallo da tiro ad essere empatico.

Nonostante questi brevi e fugaci istanti di svago, tutti e tre agognavano segretamente l’ora in cui avrebbero potuto annunciare il ritrovamento della Coppa al giovane sovrano. E quando finalmente l’ora era giunta, Gaius e Percival, dopo aver osservato Merlin balzare fuori dalle stanze del medico per correre dal Re, si erano scambiati uno sguardo d’intesa, comprendendo forse per la prima volta con quanta trepidazione Merlin avesse atteso il momento in cui avrebbe potuto riportare, anche per vie traverse, il sorriso sulle labbra dell’adorato Arthur.

 

*  *  *
 

Il messo inviato da Leon arrivò qualche giorno dopo l’annuncio del ritrovamento della Coppa.

Sir Geraint, inzaccherato per le ininterrotte ore di cavalcata e per il tempo inclemente, madido di sudore e avvolto in un lezzo a stento ignorabile, giunse nella corte del maniero dei Re di Camelot verso il tramonto, che quella sera spaziava dall’arancio arroventato al violetto fulgente, come se l’arrivo del bel tempo volesse rispecchiare quello delle buone nuove.

Il Re, avvertito dalle sentinelle di vedetta del suo arrivo, si era affrettato a scendere dalle sue stanze per accogliere il cavaliere come si conveniva; dopo averlo ospitato alla sua mensa, imbandita come se si trattasse di un ospite di riguardo o di un diplomatico, e averlo ritemprato con un generoso ammontare del miglior vino di Camelot, Arthur lo sollecitò con velata impazienza, affinché riferisse i messaggi di Leon – che Geraint, sopraffatto dalla pantagruelica offerta di pietanze e bevande a cui non era più avvezzo da giorni, non pareva avesse fretta di comunicare.

Con sollievo palpabile di tutti gli astanti – Arthur, Merlin, Gaius e i cavalieri – Sir Geraint riferì che Leon stava scortando in quell’istante una colonia Druida attraverso il regno di Lord Bayard. Il loro arrivo a Camelot, se nulla avesse rallentato il cammino, sarebbe avvenuto di lì a una settimana: la Guida Iseldir aveva inoltre pregato il cavaliere di riferire al Re un suo messaggio, ossia la richiesta della grazia di ricevere ospitalità per tutta la sua Famiglia, allestendo uno spiazzo sufficientemente ampio che potesse accogliere l’accampamento Druido a Camelot. Arthur non indugiò un istante, incaricando Elyan di supervisionare personalmente la costruzione del nuovo attendamento, oltre il fossato ma sotto l’area vigilata dalle torrette di guardia, che avrebbe ospitato i Druidi, perché fossero costruite solide palafitte, raccolti viveri di prima necessità e convocati i migliori e più celeri artigiani del regno per produrre utensili e brande.

Con gli occhi scintillanti di commozione, Merlin osservò il sovrano impartire ordini, soverchiato dalla determinazione che Arthur aveva dimostrato quando Sir Geraint aveva osato obiettare che al popolo quell’accomodamento non sarebbe piaciuto affatto. Con sua estrema delizia, una volta che i cavalieri e il medico uscirono dalla Sala dei Banchetti, dopo essere stati congedati dal Re, Arthur lo richiamò: «Merlin, per cortesia, resta».

Il giovane valletto, che già stava seguendo Percival fuori dal portone di quercia con dei balzelli entusiasti, si volse di scatto, tutto un tremito: «Sire?»

Quando Arthur, che gli stava dando le spalle appoggiato al davanzale, non parlò, l’espressione di Merlin si ingentilì visibilmente, anche se il suo sovrano non avrebbe mai potuto scrutarne la dolcezza. Il giovane mago si diresse verso Arthur, e si accorse che le sue spalle, larghe e forti, erano scosse da leggeri ma inequivocabili tremiti, come se si stesse sforzando di non lasciarsi andare all’emozione. Quando Merlin si fu avvicinato tanto da poter intravederne il viso riflesso nel vetro alabastrino, gli fu impossibile non notare dal primo istante le lacrime che scaturivano dagli occhi del sovrano, nitide e luminose, e i solchi che gli screziavano le labbra, per il troppo mordersele. Se le circostanze non fossero state così tese e tragiche, Merlin avrebbe senz’altro accarezzato quel viso, per asciugarlo, e baciato quelle labbra, per renderle di nuovo tumide e rosse come le bacche estive. Se solo Arthur avesse saputo quanto quella manifestazione di fragilità di uomo e non di Re lo rendesse ancora più caro a Merlin, quanto risvegliasse nel suo valletto quel sentimento vigoroso e fiorente che s’ostinava a nascondere nel profondo delle sue membra!

«State facendo la cosa giusta, Arthur» disse il moro, scandendo lentamente quelle poche sillabe, infondendo nella propria voce, come solo lui riusciva fare con tale semplicità, la giusta dose di dolcezza e nel contempo di fermezza. «Seguite il vostro cuore, e tutto s’aggiusterà. Ve lo garantisco».

Arthur scosse il capo e borbottò, cercando di asciugarsi le lacrime e di riprendere controllo di sé: «Tu e il tuo inguaribile ottimismo!»

«È necessario che qualcuno ne possieda, Maestà. Qualcuno deve pur compensare il vostro brutto carattere asinino» replicò Merlin con fare gioviale, cercando di riportare un po’ di leggerezza nell’atmosfera pesante che opprimeva la stanza e che pareva solidificarsi tra loro. Quanto avrebbe voluto poterlo anche soltanto lambire con la punta delle dita…

Arthur abbozzò un mite sorriso e commentò: «Dovrei promuoverti a giullare di corte, Merlin. Pochi sanno essere ridicoli come te e dire sempre le cose sbagliate per confortare qualcuno».

«Ho trovato in voi l’ispirazione migliore, Vostra Maestà As…»

«Merlin!» sbottò Arthur, le guance ora asciutte.

«Voi siete troppo negativo, Maestà» lo redarguì l’altro, con finta serietà, senza dare peso al richiamo del Re, e percependo quella familiarità svanita tra loro riaccendersi, come la coda di una cometa. «Anche Percival riesce più spiritoso di voi, e dire che sa fare una sola espressione della faccia…»

Improvvisamente il viso di Arthur si adombrò, e le sue fattezze scolpite s'irrigidirono nella loro gravità. Il suo tono, quando interruppe il giovane valletto, era percettibilmente inquisitorio: «Hai trascorso molto tempo con Percival, negli ultimi tempi».

Merlin non riuscì ad inquadrare quell’affermazione, se di un’affermazione si trattava. La voce del sovrano era venata di sospetto, ma anche di speranza, o così a Merlin pareva. Sì, di una speranza tutta assorbita in quella lieve impennata che la cadenza aveva effettuato nella formulazione, lapidaria e ansiosa, di quel negli ultimi tempi, che rivelava con fare impietoso la natura interrogativa celata in quell’apparente constatazione di un dato di fatto. Sembrava quasi che Arthur volesse che Merlin smentisse, a costo di mentirgli, di aver trascorso tutto quel tempo in compagnia di Percival.

Preso alla sprovvista dall’intensità di quella domanda, Merlin rispose, senza abbandonare il proprio atteggiamento giocoso e leggero: «Siete voi che mi avete intimato di smettere di passare troppo tempo alla taverna con Gwaine, perché non sono in grado di sopportare il sidro di mele di Aldith…»

Anziché apprezzare il fatto che Merlin avesse implicato di aver seguito, con meticolosa dedizione, un suo consiglio, Arthur scosse il capo, e con fare tra lo stizzito e l'incredulo commentò: «Mi fa piacere che questa sia la questione più pressante per te, ora».

Merlin sentì la propria frustrazione salire rombando attraverso i vasi sanguigni del collo e imporporargli le guance solitamente pallide; tuttavia tentò di sfoggiare uno dei suoi sorrisi più concilianti: «Pensavo che togliervi dei fastidi potesse esservi d’aiuto, Sire».

E lo aveva pensato davvero, realizzò Merlin, dopo aver proferito quelle parole. Aveva trascorso ore a cercare un rimedio per la condizione di Gwen nella sterminata biblioteca di Gaius, nonché negli archivi reali. Geoffrey di Monmouth era accorso più di una volta, per svegliarlo di malagrazia, berciandogli insulti perché aveva fatto colare la cera di un candelabro su uno dei preziosi manoscritti di medicina custoditi nella Biblioteca Reale, rendendo vivida la possibilità non solo di rovinare irrimediabilmente le antiche pergamene, ma anche quella di dare fuoco all’intero maniero. Ma Merlin si era anche prodigato in molti altri modi perché Arthur dovesse sopportare quelle che erano da lui definite “manchevolezze del suo beone d’un valletto” il meno possibile: gli aveva portato dalle cucine i cibi preferiti ad ogni pasto, lucidato l’armatura ogni giorno, sempre con anticipo e puntiglio, sellato il destriero preferito ogni mattina all’alba, nel caso Arthur avesse voluto evadere, anche solo per un’ora, l’atmosfera asfissiante del castello con una cavalcata tra i boschi ricoperti di rugiada e silenzio. Tutto avrebbe compiuto il fido valletto, perché le pene di un sovrano forse troppo amato potessero essere alleviate, anche se in minima e insignificante parte.

Insignificante, pensò il giovane mago con rabbia, fissando l’espressione perentoria di Arthur. Qualunque cosa Merlin facesse, in qualunque modo si prodigasse, per Arthur era insignificante. L’amore e la fedeltà che segretamente gli aveva giurato, e che si traducevano tuttavia ogni giorno in migliaia di piccoli ma manifesti gesti, di sguardi e di consigli offerti con il cuore in mano, diventavano insignificanti per il nobile Arthur Pendragon e per la sua insensata ostinazione a voler imporre la sua volontà su tutto – come se questo bastasse a salvare sua moglie!

Con un’imperturbabilità che non riconobbe come propria, Merlin osservò con calma glaciale: «Evidentemente ero in fallo, Sire. Vi chiedo il permesso di ritirarmi. Domattina all’alba dovrò aiutare Sir Elyan e Sir Percival» aggiunse, calcando volontariamente il tono al nome del nerboruto cavaliere, «ad allestire il campo per i Druidi» Fece un piccolo inchino.

Il momento del calore e dell’intimità, dell’insicurezza e della consolazione era svanito com’era venuto: la coda infuocata della cometa s’era spenta, dopo aver illuminato l’oscurità per un lasso di tempo infinitesimale, lasciando il posto alla notte più cupa. Arthur tacque, con fare meditabondo e indecifrabile, ma poi rispose, in tono stanco: «Certo, Merlin. Ti ringrazio per…»

«Non è necessario, Sire» lo interruppe il giovane valletto, indietreggiando con il capo chino come da cerimoniale – cerimoniale che, da quando era entrato in servizio presso Arthur, mai si era curato di prendere eccessivamente alla lettera come in quel momento.

«Buonanotte, Merlin».

«Buonanotte, Vostra Maestà».
 

*  *  *


Il drappello venne avvistato con grande anticipo dalle sentinelle, grazie alla sua eterogeneità di andature e colori.

I mantelli scarlatti dei cavalieri di Camelot si stagliavano contro il cielo d’un azzurro abbagliante, sollevati dalla furia del vento, e le loro armature scintillavano, bagliori pungenti, sotto i raggi del sole caldo e infuocato che aveva preso il posto delle intemperie che avevano corroso le mura della cittadella in quell’ultima settimana. I tre cavalieri, sfavillanti d’argento e sangue vivo, erano seguiti da una miriade di figure abbigliate nelle tonalità più cangianti della terra e del mare.

La Famiglia Druida di Iseldir era un guazzabuglio, un affastellamento di colori e profumi: le vesti di lino e cuoio degli uomini, d’un verde che eguagliava in bellezza e intensità quello delle foreste rigogliose che circondavano Camelot, erano mescolate a quelle delle donne e dei bambini, screziate di sfumature fiordaliso, amaranto, pavone, melograno, pervinca. Gli anziani, invece, adagiati sui carri, chiudevano quella discreta parata di colori nelle loro semplici tuniche color mandorla, bronzo e ocra, splendido accompagnamento alla loro carnagione grinzosa e bruna, prova tangibile delle loro innumerabili estati. Il gruppo procedeva senza fretta, e nessuno rimaneva indietro. La figura alta di Iseldir, ammantata in una cappa d’inedito color zafferano, spiccava alla testa della Famiglia, slanciata e elegante, e procedeva con passo sciolto e costante al fianco di Sir Leon, che era smontato da cavallo per poter godere al meglio della conversazione.

I contadini interrompevano brevemente le loro occupazioni, sollevando la schiena dai campi per squadrare con sospetto il variopinto drappello, i visi riarsi dal sole coperti da striminziti cappelli di paglia, le mani abbronzate, vigorose e ricoperte di cicatrici, che tranquillizzavano i buoi da vomere con brevi carezze. Nonostante il Re avesse inviato messi ad ogni angolo del regno a divulgare esplicitamente a ogni fuoco che i Druidi godevano della protezione regia, era stato quanto mai arduo cercare di scalfire le placche di diffidenza e paura che Uther aveva forgiato, che avviluppavano il popolino in un’armatura di ignoranza da cui era apparentemente impossibile spogliarlo. I bisbigli degli abitanti dei villaggi abbarbicati intorno alla capitale, i gesti convulsi delle madri che si affrettavano con isteria a togliere i propri figli dagli usci e dalle strade, le canzoncine di scherno degli artisti itineranti davanti alle taverne, inseguivano, come uno strascico interminabile, il passaggio della Famiglia Druida. Gli stessi cavalieri di scorta – Sir Brannis e Sir Cador – si guardavano bene dall’avvicinarsi più del necessario ai Druidi: ma forse era nella loro connaturata superbia di rango, più che nel timore superstizioso, che andava ricercata la causa di tale astio.

Merlin e gli altri cavalieri seguirono l’arrivo pacifico e nel contempo straordinario della Famiglia di Iseldir dalla torre di vedetta, ognuno silenzioso e perso nei suoi pensieri. Arthur si era rifiutato di unirsi a loro, dicendo che il suo compito era quello di accogliere Iseldir come un suo pari, attendendolo nella corte d’onore del palazzo per poterlo guardare negli occhi, non di scrutarne l’arrivo come un falco pellegrino, altezzoso, dall’alto di una torre inespugnabile. Quella constatazione aveva strappato a Merlin un mezzo sorriso che però, considerato il recente battibecco, velato di cerimoniosità inutile, che era avvenuto tra loro, si era prodigato di non mostrare del tutto al proprio sovrano. Nondimeno, il fatto che Arthur ammettesse che l’autorità – politica, naturalmente, non magica – di Iseldir era addirittura pari alla propria era un passo avanti notevole nello sviluppo di una qualsiasi relazione tra il popolo scevro di magia e quello Druido.

Arthur si trovava infatti in attesa ai piedi della scalinata, segno tangibile della sua volontà di accogliere Iseldir quale suo eguale. Rispetto all’ultima visita ufficiale, quando la principessa di Nemeth si era recata a Camelot, i toni dell’evento erano volutamente attenuati, quasi intimi, familiari. Il sovrano, pur non astenendosi dall’indossare tessuti di ottima fattura e qualità degni del suo rango, aveva rinunciato al mantello purpureo bordato d’ermellino delle grandi occasioni, così come alla corona a piastre d’oro smaltate, tempestata di perle e pietre preziose provenienti da ogni provincia del regno, che era rimasta rinchiusa nelle camere del Tesoro Reale. La chioma dorata, scintillante di riflessi perlacei nella luce del mattino, e lo sguardo limpido e ceruleo del giovane sovrano risplendevano quel giorno come i più preziosi tra gli ornamenti, e superavano di gran lunga i tesori della Corona; la sopravveste damascata, dai colori di Camelot, e i calzoni scuri esaltavano il suo fisico atletico, pur non dando sfoggio di eccessivi sfarzo e ostentazione.

Quando Iseldir, Leon e la Famiglia Druida, dopo un tempo che parve infinito, varcarono l’arco più maestoso del maniero, che separava la corte d’onore dalla cittadella, una folla di curiosi aveva fatto in tempo ad accalcarsi nello spiazzo arenoso, per lo più contro le massicce mura. Percival, Merlin e Gwaine si tenevano rispettosamente ritti alle spalle di Arthur, il capo appena sollevato per poter osservare i nuovi venuti. Sir Elyan, in quanto fratello della Regina, aveva l’onore di trovarsi alla sinistra di Arthur, mentre Gaius alla sua destra, essendo la figura che più si avvicinava a quella, autorevole e ancora vacante, del Gran Consigliere del Re.

Leon s’inginocchiò al cospetto di Arthur e lo salutò con discreta deferenza, benché la sua voce fosse udibilmente vergata dall’emozione: «Vostra Maestà».

Arthur gli fece cenno di raddrizzarsi e lo abbracciò, dandogli dei colpetti vigorosi ma affettuosi sulle spalle: «Sir Leon, bentornato». Quando il cavaliere riccioluto, impataccato dalla testa ai piedi ma soddisfatto, ebbe presto posto tra Gwaine e Percival – ricevendo vigorose pacche di apprezzamento che avrebbero mandato per aria un uomo ben più corpulento di lui – il sovrano si rivolse a Iseldir, che aveva osservato con serafiche pazienza e approvazione l’interazione affettuosa tra Arthur e Leon: «Mio signore, vi do il benvenuto a Camelot» Chinò il capo, imitato immediatamente da tutta la corte.

Iseldir gli sorrise con cortesia e gli afferrò le braccia, come a volerlo rincuorare: «Siamo noi a ringraziare voi, Arthur della Stirpe della Testa del Drago» Quando Arthur lo guardò con vistosa confusione, la Guida Druida proseguì: «Abbiamo avuto occasione di verificare di persona la gentilezza che ci avete usato e l’impegno che avete profuso nella costruzione di una sistemazione, seppur provvisoria, per la nostra gente. Di questo vi ringraziamo».

E, alla maniera Druida, si sporse per stringere la mano sinistra di Arthur.

Un silenzio pieno di soggezione piombò nella corte d’onore al seguito delle parole pacate del Druido e del suo amichevole gesto, silenzio che scaturiva dalle più disparate emozioni che vorticavano, atone ma ineluttabili, in quello spazio sorprendentemente così angusto e affollato. Il popolino, accalcato contro le mura, non riusciva a distogliere gli occhi, sgranati dal timore superstizioso e dalle paure più primordiali, dalla Guida Druida; i cavalieri scrutavano la Famiglia in silenzio, emanando un alone quasi solido di compattezza e onore; Gaius osservava quietamente il proprio sovrano e la Guida, le loro mani intrecciate in segno di pace, come ponderando le conseguenze di quel semplice gesto; Merlin aveva il fiato mozzo per l’emozione indescrivibile causatagli dalla percezione dell’aura magica intensa sprigionata dai Druidi, onde di saggezza e bontà; Arthur, invece, fissava Iseldir con i suoi occhi d’azzurro liquido, sperando che la Guida vi leggesse tutta l’urgenza, la supplica, il rimorso, come se la sua magia ancestrale e pura potesse farli svanire.

Ma lo sguardo di Iseldir, nonostante tutta la pressione e le aspettative che lo circondavano, rimase luminoso e penetrante. Sempre stringendo saldamente la mano del sovrano, esordì: «Il viaggio è stato lungo e spossante, Arthur Pendragon. Chiedo a nome della mia Famiglia il permesso di ritirarsi nell’accampamento a lei adibito, mentre noi discuteremo delle questioni più urgenti».

La voce della Guida, così profonda e nel contempo chiara, e la sua presenza, così straordinariamente intensa, rendevano quella richiesta praticamente un ordine cortese, che era impossibile declinare senza commettere la più ingiuriosa delle offese. Arthur fece cenno a Sir Cador di scortare, con il resto della Guardia Reale, la Famiglia Druida fino all’accampamento, e di far defluire il popolino.

Una volta che il drappello fu svanito dietro la saracinesca della cittadella, nella corte erano rimasti soltanto Arthur, Merlin, Gaius, Leon, Percival, Elyan e Gwaine – gli unici membri della Tavola Rotonda – di fronte ad Iseldir, che aveva trattenuto presso di sé soltanto un’esile figura ammantata da una veste color pervinca, il cui viso era coperto da uno spesso cappuccio. In risposta allo sguardo interrogativo dei presenti, Iseldir disse soltanto: «Non temete: costei è la migliore Guaritrice della nostra Famiglia. Mi aiuterà ad adempiere al meglio il compito di cui mi sono fatto carico».

Il gruppo così formato risalì la scalinata e si addentrò nel castello, tirato a lucido per l’occasione. Iseldir parve non badarvi: il suo sguardo chiaro e sereno stava fisso di fronte a sé, come raccolto in una vigile meditazione, e mai una volta si abbassò ad osservare il percorso inedito che i suoi piedi stavano compiendo, come se conoscesse a menadito la forma di ogni gradino, le crepe di ogni lastra di pietra. La figura ammantata gli camminava accanto, silenziosa e aggraziata, e le loro vesti frusciavano sul pavimento, quasi all’unisono – se solo fosse stato possibile al fruscio di una veste d’essere melodico e corale – come se volesse contrastare il clangore delle cotte di maglia dei cavalieri.

Le stanze della regina erano dominate dalla penombra, com’era stato sin dal giorno della fatalità. La dama di compagnia di Guinevere spalancò loro le porte di legno pregiato, affrettandosi poi a socchiudere tende e finestre. Un tenue raggio di sole si posò, impalpabile, sul viso della regina, non potendo purtroppo interromperne il sopore, mentre i cavalieri indietreggiarono rispettosamente, per permettere ad Arthur di chinarsi su Guinevere con ogni agio e di baciarle la fronte. Gaius, nel frattempo, aveva estratto dalla sua sacca di cuoio un fagotto di tessuto. Pochi istanti dopo, la Coppa della Vita sfolgorò nella luce pur timida della stanza, liberata dal panno di tela scadente che l’aveva fino ad allora celata: Gaius la posò sulla superficie liscia e rilucente della specchiera della regina, perché tutti potessero contemplarla.

Arthur esordì, lasciando per la prima volta trasparire, sotto la gloriosa maschera di sovrano, tutta la sua ansia: «Vi prego…»

Iseldir lo interruppe: il suo tono era ora inflessibile, completamente diverso da quello cortese che aveva impiegato fino ad allora: «Arthur Pendragon, non è necessario che ci supplichiate. Siete perfettamente a conoscenza degli straordinari prodigi che la Coppa della Vita può elargire, e altrettanto consapevole che essi non sono né gratuiti né alla mercé del mondo degli uomini. Noi siamo solo il privilegiato tramite di una realtà infinitamente più potente, grazie alla quale la Coppa ha visto la luce agli albori di questo mondo: pregarci e riverirci non basterà ad estinguere il debito che contrarrete con essa» Tacque, per permettere ad Arthur di comprendere a fondo le sue parole e forse, a se stesso, di calmare il proprio tono di voce. Infatti proseguì, con meno enfasi: «Ciò che vi chiediamo, giovane Re, e che non esitiamo a chiedervi nuovamente, è se siete pronto ad assumervi le conseguenze dei vostri desideri e delle vostre azioni».

Arthur non ebbe esitazioni e replicò con forza appassionata, come se Iseldir avesse attentato al suo onore, implicando la sua umanità: «Farei qualunque cosa per salvare mia moglie!»

«Il punto non è cosa siete disposto a fare, giovane Re, ma cosa siete disposto a perdere» lo blandì Iseldir, con placida fermezza, come se Arthur si fosse comportato troppo scioccamente, rispondendo con tale energia.

La replica di Arthur, tuttavia, non mutò: «Qualunque cosa».

Merlin passò con apprensione lo sguardo dall’uno all’altro, temendo nel profondo del proprio cuore, che gli stava implodendo nel petto, che Iseldir, di fronte alla richiesta che era stata formulata da Arthur con la testardaggine e la disperazione di un giovane innamorato anziché con la pacata lungimiranza che si addiceva ad un potente sovrano, si rifiutasse di aiutare Gwen. Tuttavia i suoi dubbi – quanto mai assurdi, avrebbe riflettuto negli anni a venire, conoscendo la bontà infinita di Iseldir – vennero fugati quando la Guida Druida annuì brevemente e fece cenno alla figura incappucciata di avanzare e rendere manifesto il proprio volto.

Fu solo quando sentì Percival, che si trovava talmente vicino a lui da sfiorarlo con un braccio possente, irrigidirsi percettibilmente che il giovane mago si costrinse a distogliere lo sguardo da Iseldir e a degnare la figura d’attenzione. E rimase incantato.

Le mani esili e bianche che avevano scostato il cappuccio avevano rivelato il volto di una giovane donna. A parte l’espressione molto seria, che non era in ogni caso sufficiente per adombrare il volto diafano ed etereo, era una ragazza dall’aspetto singolare, nulla che Merlin avesse mai incontrato a Camelot. Non perché fosse particolarmente avvenente, considerò il mago esaminandone il profilo del volto, dai lineamenti sì aggraziati, ma tondi e comuni, il naso impercettibilmente spruzzato di efelidi, le labbra sottili e gli occhi di un castano chiaro in sintonia esotica e curiosa con il biondo caldo dei capelli. No, non possedeva certo la bellezza sfolgorante che Morgana aveva avuto negli anni migliori, ma c’era qualcosa in lei che lo aveva attratto dal primo istante. Qualcosa che lo intrigava più di qualsiasi sorriso incantevole o fattezza aggraziata del viso. La ragazza s’inchinò ad Arthur, poi si volse verso Merlin e i presenti, per salutarli con un cenno del capo.

Fu allora che la selvaggia ondata d’estati che lo aveva sopraffatto settimane prima nei sotterranei del castello si ripresentò, ancora più pungente, nitida e invincibile. La drammatica e famigliare sensazione di avere degli aghi che gli perforavano impietosamente la pelle e le meningi prese possesso delle sue membra, e la stanza cominciò a svanire, una mescolanza cangiante e opaca di suoni e colori. E poi, dal profondo della sua mente, riemerse rombando una voce squillante, femminea e terribile.

Ricorda ciò che giurasti, Signore dei Draghi.

Merlin sussultò, sconvolto, e cozzò contro la massiccia figura di Percival. Quando la stanza ritornò a fuoco, si aspettò che Arthur o Gaius lo riprendessero per il suo mancamento o per il suo strambo comportamento, come Percival aveva fatto tempo addietro. Ma, con sua massima sorpresa, nessuno parve essersene accorto. In quell’istante Iseldir stava articolando dei suoni, che soltanto con grande sforzo Merlin fu in grado di decifrare: «Costei è Blanche, figlia di Gurnemanz, una delle ultime Sacerdotesse dell’Antica Religione, inviata nella nostra Famiglia da Dindrane, la Somma Sacerdotessa dell’Isola delle Mele».

La giovane donna s’inchinò nuovamente ad Arthur, e il movimento della sua chioma fu accompagnato dal tintinnare leggero di un sottile pendente di almandini dalla singolare forma a mela, simbolo della sua provenienza magica, che portava intrecciato tra le ciocche: «Mio signore» Quando si raddrizzò rimase talmente immobile che il pendente divenne quasi un filo a piombo, ricalcando la verticalità del suo collo e portando l’attenzione su una spessa cicatrice che partiva al di sotto della mandibola, per scomparirle nel tessuto della veste. «Sono qui in nome della Mia Signora, e sono latrice di una sua semplice richiesta. Vi chiedo di rendere ciò che è stato sottratto alle Sacerdotesse, in cambio della guarigione della Regina Guinevere».

Arthur parve piacevolmente stupito dalla richiesta, come si fosse atteso qualcosa di sicuramente più arduo. Con lentezza, come a cercare conferma che il suo intelletto non lo avesse tradito, chiese: «Quindi ciò che chiedete in cambio è di compiere una ricerca?»

Blanche sorrise amabilmente e replicò, come a voler dare risposta positiva alla sorpresa del sovrano: «Ciò che vi chiediamo, Sire, è che la Coppa della Vita, dopo avervi reso un servigio di tale potenza, torni in nostra custodia, dalla quale è stata trafugata molti anni orsono. Voi sarete l’ultimo ad aver richiesto un servigio alla Coppa; dalle vostre mani, e dal vostro sangue, il Custode della Coppa dovrà riceverla».

Merlin non riusciva proprio a sovrapporre quella voce argentea e venata di paziente dolcezza con quella detonante e disumana che per ben due volte gli aveva attraversato la mente, prostrandolo. Nessuno degli astanti, nemmeno Gaius, di solito molto perspicace, aveva dato segno di aver notato nella ragazza Druida atteggiamenti sospetti, o di aver provato sensazioni insolite. Anzi, Gwaine aveva dato a intendere, grazie alle sue occhiate interessate e a vari ammiccamenti, che la ragazza non gli era affatto indifferente. Percival e Leon, uno rigido come un palo, l’altro troppo pieno di senso dell’onore per lasciarsi andare a tali pensieri in un così drammatico frangente, tenevano il proprio sguardo rispettosamente a terra, mentre Elyan aveva occhi solo per la sorella.

Il flusso di pensieri di Merlin venne interrotto quando Arthur si piantò in tutta la sua altezza di fronte a Blanche: «Vi renderò quanto vi è stato tolto, mia signora» La sua voce risuonò vibrante e chiara. Per suggellare il proprio impegno, il biondo sovrano si inchinò di fronte alla Sacerdotessa. «Prendo questo impegno sul mio onore».

Dopo aver scambiato un fuggevole sguardo con Blanche, Iseldir si diresse al tavolino da toeletta della regina e sollevò la Coppa dorata: Merlin non poté evitare di notare che Iseldir la reggeva con la punta delle dita, come se fosse incandescente, le labbra serrate come a trattenere un gemito. La Guida Druida consegnò il prezioso Calice alla Sacerdotessa che, sotto gli sguardi attoniti dei presenti, dopo averlo sollevato dinanzi a sé, le ampie maniche della veste che ricadevano verso terra, si avvicinò al capezzale di Guinevere. Arthur fece uno scatto malfermo, come se improvvisamente si fosse pentito della promessa appena proferita e volesse impedire alla Sacerdotessa di praticare un qualsivoglia incantesimo sulla regina.

«Butan þæt cwalu. Hrðe þon aidlian. Hrðe þon eðian. Bot ond tile».

La voce della Sacerdotessa divenne incorporea, mentre le sue iridi castane si infiammavano. La Coppa divenne incandescente, e i simboli cesellati sul bordo baccellato si fecero incredibilmente manifesti: un vapore bluastro e sibilante cominciò ad affiorare dall’interno del recipiente, sempre più denso, finché improvvisamente il silenzio esterrefatto della stanza venne infranto da un gorgoglio sommesso. Blanche si chinò su Guinevere e le posò una mano candida dietro la nuca, sollevandole il capo ed accostandole il calice alle labbra. Fu solo allora che i presenti si resero conto che nel calice era comparsa dell’acqua, o qualcosa che tale sembrava, dall’aspetto perlaceo e fumante. La Sacerdotessa fece inghiottire il liquido alla regina a poco a poco, badando che Guinevere lo ingerisse del tutto; poi, con un tovagliolo che Iseldir le aveva offerto, asciugò le labbra della regina, tamponandole con delicatezza. Infine indietreggiò rispettosamente, tenendo in grembo la Coppa, che ora aveva perso il suo fulgore, ritornando ad essere all’apparenza un calice ordinario.

Seguirono istanti di pesante silenzio, carico di sgomento e attesa, d’incredulità e panico. Arthur, che aveva tenuto la mano di Guinevere stretta tra le sue per tutta la formulazione dell’incantesimo, se la portò sul viso, coprendosi gli occhi, già lucidi di lacrime, la testa china nel terrore che anche quell’ennesimo tentativo di guarigione fallisse.

Poi la voce flebile e arrochita di Guinevere lo raggiunse, ancora avvolta dalla coltre di nebbia del torpore e del sonno: «Arthur…?»

 

 

Ed eccoci anche al termine di questo capitolo.

So che molti amano il rapporto tra Merlin e Arthur, ma sentivo di dover rimanere fedele alla storia: faccio fatica ad immaginare un Arthur che non venga scalfito minimamente dalle esperienze più dure della vita, che scherzi e rida e dia pan per focaccia a Merlin come accadeva nei periodi più luminosi. Stesso discorso per Merlin: sarà sempre il valletto gioviale, ma mi rifiuto di accettare l’idea che il suo rapporto con Arthur, ad un punto come questo, sottoposto alla pressione di eventi tragici, possa limitarsi ad un po’ di banter. Insomma: voglio di più per questi due, ma mi sembra più realistico se questo “di più” sarà frutto di un percorso che implica sofferenze e incomprensioni. E di… cadute dalla grazia, per rimanere in tema.

A livello estetico, per amor di precisione: so che la corona che ho descritto potrebbe sembrare pesante e femminile, e fin troppo pittoresca. Tuttavia quella specie di corona da Sagra che il povero Arthur aveva in testa il giorno della visita della delegazione di Nemeth causa in me un senso di repulsione non indifferente. Descrivendo la corona in questo capitolo mi sono ispirata alla Corona del Sacro Romano Impero, conservata al Kunsthistorisches Museum di Vienna (http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/7/7c/Weltliche_Schatzkammer_Wien_%28190%292.JPG : arco, croce e cappello di velluto sono aggiunte decisamente posteriori: non lo dice soltanto Wikipedia, ma anche la mia professoressa di storia medievale, per cui potete benissimo immaginarvela senza). Mi sembrava sempre migliore di quella… cosa di cartone dorato che hanno messo in capo ad Arthur nella serie.

Altre annotazioni generali: il titolo di ‘Somma sacerdotessa’ ricorre nel Ciclo di Avalon di Marion Zimmer Bradley (o perlomeno, nella sua traduzione italiana). Mi è sempre sembrato il più calzante dei titoli, più che altro perché non cacofonico come ‘Eminentissima Sacerdotessa’: intendetelo, se possibile, come un omaggio alla scrittrice che mi ha avvicinato sin da piccina alla materia arturiana. Naturalmente, le sacerdotesse della mia storia, anche per ragioni di diritto d’autore, non hanno nulla a che spartire con l’eccellente e complessa costruzione gerarchica ideata dalla Zimmer Bradley (Casa della Foresta, Casa delle Vergini e via dicendo, insomma, per chi è famigliare con la serie).

Infine: la formula utilizzata dalla Sacerdotessa per guarire Guinevere è la medesima usata da Iseldir per salvare il nostro prode Sir Leon nella serie. Poiché pur amando il latino medievale e il Mittelhochdeutsch non possiedo conoscenze sul Middle English, ho preferito non inventare formule impronunciabili e assurde.

Ma lascio a voi lettori il verdetto sul mio operato! E come di consueto, mi scuso vivamente per qualsiasi errore troviate nel testo.

Da ultimo: care/i lettrici e lettori – esonerati le/i mie/i fedelissime/i che mi lasciano sempre le loro stupende recensioni – vi prego: so che ci siete, o almeno lo spero. Lasciatemi un commento, anche solo per comunicarmi cosa secondo voi non va nella storia, cosa apprezzate, gli aspetti che potrei migliorare, le vostre aspettative, i vostri commenti (non sono particolarmente forte nella caratterizzazione dei personaggi, sia canonici che inediti, e questo capitolo in particolare mi ha dato dei problemi: una vostra opinione, anche breve, mi aiuterebbe molto, soprattutto ora che la quête ha finalmente avuto inizio). Insomma un vostro aiuto “verbale” mi spronerebbe, più che a scrivere, a migliorare, perché diciamocelo: le persone che scrivono e pubblicano, nonostante spesso dicano di farlo per sé, in realtà lo fanno per condividere qualcosa di sé con gli altri. Mi piacerebbe avere un dialogo con tutte/i voi!

A presto! E… Buona Pasqua, naturalmente!

Quainquie

  
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