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Autore: Blackvirgo    09/04/2012    6 recensioni
Salvatore Gentile non era abituato a essere confuso. La sua vita era sempre corsa su binari netti, perfettamente suddivisa fra il bianco e il nero: fra perdenti e vincitori, fra giusto e sbagliato, fra importante e inutile. E fino a quel momento ciò che non era il calcio, per lui, era sempre stato inutile. Sì, c’erano gli amici, i compagni di squadra. C’erano state delle storie di lunghezza variabile tra il tempo di una scopata e quattro mesi di mazzate nelle palle, ma non c’era mai stato un pensiero così fisso e fastidioso da diventare ossessivo.
[Altri avvisi: italian!ship, linguaggio a tratti scurrile. Niente di drammatico, ma di sicuro non hanno studiato a Oxford!]
Genere: Commedia, Romantico, Sportivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altri, Gino Hernandez, Salvatore Gentile
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Anteros'
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10 ottobre 2009

 

Una dannata e insensata sconfitta

Camminavano veloci per le strade di Tokyo: Hernandez, che aveva già studiato il percorso per arrivare al National Stadium, si muoveva a colpo sicuro, diretto verso la stazione della metropolitana, fermandosi solo di tanto in tanto per controllare la cartina. Gentile procedeva svogliato, la testa persa nei propri pensieri e le mani sprofondate nelle tasche, incurante del fitto e fastidioso chiacchiericcio dei suoi compagni. Era stato Marco a invitarlo a vedere la partita con loro e il difensore aveva accettato perché, ehi, aveva pensato, osservare gli avversari in azione è sempre utile. E il match avrebbe anche potuto essere interessante, soprattutto se non avesse giocato il Giappone, ma in fin dei conti era il paese ospitante e una cosetta come la partita di apertura bisognava pure concedergliela, no? Solo che si stava già pentendo di essere uscito dalla stanza d’albergo e soprattutto si stava pentendo di essere uscito con lui. Che cosa aveva Hernandez da essere tanto allegro, guardando a destra e a manca gli edifici della città e ciarlando di quello che gli sarebbe piaciuto andare a vedere da turista, proprio non riusciva a spiegarselo.
“Datti una mossa, Gentile!”
Il difensore alzò gli occhi e vide l’omino verde del semaforo che già lampeggiava mentre lui si trovava ancora in mezzo alla strada. “Cazzo!” imprecò sottovoce, raggiungendo il resto del gruppo con due rapide falcate.
“Ancora incazzato per stamattina?” gli chiese Alessio che aveva rallentato per aspettarlo.
Salvatore, trincerato nel suo silenzio ostile e ostinato, scoccò una democratica occhiataccia a tutta l’allegra comitiva.
Quella mattina, durante l’allenamento, si era preso una lavata di testa dal mister di quelle che sarebbero rimaste negli annali delle nazionali azzurre di tutte le età, nonché innumerevoli sfottò e rimbrotti dai compagni di squadra che, d’un tratto, avevano trovato un’incredibile coesione nel pigliarlo per il culo. Gentile era così conscio di meritarseli uno per uno che aveva evitato di rispondere a tono, stirando le labbra in un sorriso sardonico e forzando una risata di fronte a qualche uscita particolarmente fantasiosa.
“A che ti serve rimuginarci sopra se non a farti il fegato amaro?” gli domandò ancora Alessio. “Ieri sera hai fatto una cazzata tu, stamattina siamo stati coglioni noi a fartela pesare. È acqua passata, dai!”
Gentile non rispose, osservando come una macchia sulla punta della propria scarpa destra fosse perfettamente in tono con il colore del marciapiede. Non aveva fatto solo una cazzata, lui. Anche se non poteva negare che i suoi compagni di squadra fossero dei perfetti coglioni.
“Fai un po’ come vuoi,” aggiunse Alessio, grattandosi il naso. “Secondo me, dovresti ripensare a quello che ha detto Gino: abbiamo cose più importanti a cui pensare, ora. Il resto è inutile.”
Già, Gino Hernandez. Era stato proprio lui – ovvero la persona che più di tutti avrebbe potuto disquisire di come Salvatore Gentile fosse stato in grado di giocarsi ogni briciolo di dignità con l’alcol e perdere platealmente – a riprendere i compagni, chiedendo loro di concentrarsi sull’allenamento e sulle partite a venire piuttosto che su una festa in cui più di una persona aveva tenuto un comportamento alquanto sopra le righe. Ed era riuscito a farli smettere.
“E farsi i cazzi propri non lo è mai,” rispose Salvatore piccato. Non aveva bisogno di essere difeso da nessuno, lui. Non era mica come quell’impiastro di Aoi.
“Cosa?” gli chiese Alessio, non riuscendo a seguire il salto logico del difensore.
“Inutile.”
 
Riprese a camminare in silenzio, Salvatore, passandosi una mano sullo stomaco, nel vano tentativo di sciogliere quel nodo che si era piazzato lì la sera prima e non accennava a sciogliersi. Non era nausea e neppure dolore: era più simile alla sensazione di avere un pezzo di piombo fermo lì, senza alcuna intenzione di andare avanti o indietro, né di lasciarsi convincere con le suppliche o con le lusinghe.
“Tutto bene?”
Salvatore aprì la bocca, pronto a mandare a quel paese Alessio e le sue tanto buone quanto fastidiose intenzioni, ma quando si trovò davanti il viso impensierito di Gino, la richiuse stringendo i denti e deglutendo forzosamente. Perché?, si chiese una volta di più, stupito dal comportamento del portiere: era amichevole e sorridente, proprio come con tutti gli altri compagni di squadra. Non era arrabbiato a morte con lui?
Gentile non aveva chiari tutti i dettagli della serata precedente – anzi, da un certo punto in poi aveva un black out completo –  ma quello che ricordava era abbastanza da aspettarsi qualcosa di totalmente diverso. Tipo un cazzotto con frattura del setto nasale annessa, seguito da silenzio stampa fino al Giorno del Giudizio. Soppresse l’impulso di chiedergli Come diavolo fai a startene così tranquillo, a ciarlare e a ridere come se nulla fosse successo?, perché sapeva che le parole giuste sarebbero state Mi sono comportato da perfetto idiota, ma quelle non le avrebbe pronunciate neanche sotto tortura. Perché avrebbero implicato scoprirsi ancora, scoprirsi troppo. E scoprire qualcosa a cui preferiva non pensare.
Gino sospirò, abbassando a sua volta lo sguardo. Da un lato era infastidito per l’accaduto, dall’altro, se si soffermava a pensare alla seconda parte della serata, gli veniva da sorridere. E comprendeva perfettamente l’imbarazzo che quella situazione doveva creare a Gentile, imbarazzo che lui stesso cercava di nascondere alla meno peggio. Si grattò il braccio destro per far sparire quel formicolio che ogni tanto lo importunava proprio lì, dove indossava la fascia e che aveva velleità da grillo parlante: non siete venuti dall’altro lato del globo terrestre per fare gli idioti, avete un mondiale da giocare. Lui era il capitano ed era suo il dovere di tenere insieme la squadra in campo e fuori. Non poteva permettersi di essere causa di squilibri e rancori.
Ok, si disse Gino, ingoiando quel rospo fatto di rabbia, imbarazzo e inopportuna tenerezza. Doveva ricordare a Gentile che il suo orgoglio tanto virile quanto ferito non era la principale preoccupazione della squadra né la propria. Basterà comportarsi come se nulla fosse successo, decise alzando il capo, risoluto a rinunciare una volta per tutte a ottenere quelle spiegazioni che gli sembravano quantomeno dovute, ma che avrebbero peggiorato ulteriormente la loro instabile intesa. Tanto non ci devo stare insieme per tutta la vita.
“È il nostro,” disse Gino, richiamando il difensore e  indicando un treno in arrivo. Gli altri erano più avanti, lo avrebbero preso di sicuro. “Facciamo una corsa o aspettiamo il prossimo?”
Bastò un cenno del capo – uno sguardo complice – e iniziarono a correre verso la fermata.
***
 
“Sembra che il Giappone stia soffrendo parecchio contro una squadra come il Messico,” commentò Gentile, sarcastico. Nonostante i le numerose azioni offensive da parte di entrambe le squadre, il primo tempo era finito sullo zero a zero.
 “Tsubasa non mi sembra in forma,” rispose Hernandez pensieroso, seduto accanto a lui, in attesa dell’inizio del secondo tempo. Aveva notato che i movimenti del numero dieci del Sol Levante più lenti e impacciati del solito. “E il Messico non è un avversario di terza categoria: non sarà facile neanche per noi sfondare la loro difesa.”
“Pare che il Giappone non ne voglia sapere di perdere: ha schierato tre difensori capaci,” continuò Gentile. Parlare della partita, coi suoi schemi, giocatori e magagne arbitrali, lo aveva messo a proprio agio, nonostante fosse finito proprio vicino a Hernandez mentre gli altri compagni si erano seduti qualche fila più indietro. “Oltre al solito incapace a centro campo,” non riuscì a contenersi, ripensando all’errore con cui Aoi aveva aperto la partita.
“Hai mai incontrato qualcuno intenzionato a perdere?” lo punzecchiò Gino, deciso a non lasciarsi irritare dalle battutine velenose di Salvatore. “Per entrambe le squadre non sarà facile segnare. E finora il Giappone ha schierato un’unica punta, Hyuga, contro il portiere messicano Espadas...” 
“Il primo goal sarà decisivo: i giocatori stanno soffrendo questa stasi. La prima squadra che segnerà avrà la vittoria in pugno.”
Gino scosse la testa: “La fai troppo facile,” commentò pensieroso. Aveva studiato le due squadre, aveva osservato le loro mosse in campo, il loro atteggiamento: non avevano finalizzato, ma nessuno dei giocatori si era mai tirato indietro. Non Tsubasa che aveva palesemente qualcosa che non andava, né Espadas che stava lottando come un leone per difendere la sua porta e sostenere i compagni nell’attacco. “Finché avranno fiato in corpo continueranno a lottare. Non sarà la prima rete a fare la differenza, ma l’ultima.”
“Sempre così filosofico, il nostro capitano,” ironizzò Gentile.
“Ehi, guarda,” lo ignorò Gino, indicando le due squadre che stavano rientrando in campo. “Espadas ha cambiato maglia: quella bianca significa che giocherà in maniera più offensiva, giusto? Sottovaluta troppo gli avversari, soprattutto se il Giappone deciderà di far vedere ciò che sa fare in attacco.”
“Cosa sentono le mie orecchie? Dispiacere per la possibile sconfitta del portiere dei miracoli? O temi il paragone con quel pagliaccio di Espadas?” gli chiese Gentile.
“Ricardo Espadas è un ottimo portiere, sono contento di confrontarmi con lui,” rispose Gino, stuzzicato nel suo spirito agonistico.
“Dicono che non sia male neanche come attaccante,” commentò Gentile.
“Così avrai anche tu l’occasione di confrontarti con lui,” lo canzonò Gino.
“Risparmiami  la tua ironia, Hernandez: non ti viene bene,” replicò Salvatore, senza riuscire a non piegare le labbra in un ghigno
divertito.
“E dire che in questi giorni ho la possibilità di imparare sul campo dal migliore dei maestri,” fece Gino serio, poggiando il mento sulle mani.
“Che fai? Sfotti?” Gentile si voltò, di nuovo sulla difensiva.
“Mai stato più serio in vita mia!” sorrise Gino, un’espressione di finta innocenza negli occhi chiari. “E poi un difensore non ha così tante occasioni di confrontarsi con un portiere, no?” aggiunse ammiccando.
“Di solito basta e avanza quello della propria squadra che ti urla nelle orecchie per tutta la partita,” rispose Gentile, sornione. “Quando poi si ritrova con la fascia da capitano e i motivi per urlare raddoppiano, è la fine.”
Gino si lasciò andare a una risata: “Non credevo di essere così molesto... o è il grande Gentile a lasciarsi infastidire con poco?”
Salvatore si morse un labbro, in un’espressione a metà strada tra un sorriso trattenuto e una riflessione profonda. “Diciamo che, a volte, hai una certa utilità.”
“Wow, grazie tante!” rise Gino allungandosi per sgranchirsi braccia e gambe. “È bello sentirsi indispensabili!”
Gentile sorrise: gli piaceva da morire il suono della sua risata. E anche il suono della sua voce: era morbida e aveva una sfumatura calda che veniva fuori soprattutto in quei rari momenti di chiacchiere tranquille, ma che riusciva a emergere anche in campo, quando tirava fuori il suo carisma assieme al fiato.
“Tutto sommato c’è di peggio,” fece Gentile, condiscendente. “Sia come portiere che come capitano.”
“Ah, beh!” rispose Gino continuando a ridacchiare e appoggiando il viso a una mano. “Se la metti così allora posso anche morire felice.”
La loro attenzione venne improvvisamente catturata dalle azioni in campo. “Ahia!” commentò Gino nel vedere l’infortunio dei due gemelli Tachibana mentre l’arbitro tirava fuori il cartellino rosso per il messicano Garcia. Il numero uno italiano si focalizzò quindi su Espadas che, abbandonato il suo posto tra i pali, si era portato in attacco andando a concludere l’azione cominciata a centro campo con un gol spettacolare. “Wow,” mormorò Gino, esalando il respiro che aveva trattenuto sino a quel momento, sinceramente ammirato. “Ma questa non ci voleva,” aggiunse a denti stretti, cercando Shingo in campo che si stava guardando attorno, nervoso, nell’attesa che il gioco riprendesse.
“Deduco che la tua simpatia in questa partita vada ai giapponesi,” sentenziò Gentile cupo. Sì, Espadas se la cavava davvero bene anche in attacco. Chissà se sarebbe capace di superare anche la sua, di difesa...
“Niente di personale contro il Messico, ma tifo Giappone,” rispose Gino. Sperava che Shingo potesse mantenere la sua promessa e sfidare di nuovo Gentile in campo. E, in fondo, non vedeva l’ora anche lui di confrontarsi con l’amico.
 “Ti piace stare dalla parte dei perdenti?” rincarò Gentile sarcastico, osservando le facce demoralizzate dei padroni di casa mentre l’arbitro fischiava la ripresa del gioco.
“Scommetto che vincerà il Giappone. 2 a 1, come fece contro di noi al campionato Juniores di Parigi. Gol di...” Gino si fermò, pensandoci un po’ su: in campo mancava Misaki che, assieme a Tsubasa, quella volta lo aveva fatto dannare. E anche il capitano nipponico sembrava accusare la fatica più del dovuto. Sentì però una voce nota urlare in una lingua sconosciuta: Shingo stava correndo instancabile da un lato all’altro del campo, confermando una volta di più il meritatissimo soprannome di dinamo del centrocampo o, come lo chiamavano loro all’Inter, trottola o terremoto, a seconda dei casi. Sorrise: “Gol di Shingo e di Hyuga, entrambi su azione di Tsubasa.”
“Tsk, illuso,” rispose Gentile, risentito. Stimava così tanto Aoi da scommettere addirittura su di lui? Che cavolo ci trovava in quella scimmia esibizionista tanto da difenderlo ogni volta? L’aveva fatto durante i ritiri, l’aveva fatto durante le partite, lo aveva fatto anche la sera prima. Meglio non pensare alla sera prima. “E cosa ci sarebbe in palio?” volle sapere Salvatore, pentendosi di quella domanda appena finito di formularla. Non voleva impelagarsi in stupidi giochetti, lui. Non doveva. Non con lui.
“Potresti smettere di prendere in giro Shingo, ad esempio. O, per lo meno, smettere di umiliarlo ogni volta che ne hai l’occasione, in campo e fuori,” sentenziò Gino, serio.
Non vincerà, rimuginò Gentile, vedendo l’ennesima azione dei giapponesi bloccata dal portiere messicano. O azteco, come preferiva farsi chiamare. Ma si rendevano conto di quanto fossero ridicoli con tutti quei nomignoli? Bah... “Dovrei lasciarlo  vincere, allora, la prossima volta in campo?” chiese Gentile provocatorio, ignorando volutamente il senso della richiesta del portiere.
“Perché, lo faresti?” rise Gino, mangiando la foglia.
Gentile scosse la testa: “No. E tu lo faresti in nome dell’amicizia?” controbatté, salace.
“Secondo te?” chiese Gino, senza perdere il sorriso.
No, si rispose da solo Salvatore sbuffando. Si farebbe spezzare entrambi le mani piuttosto. “E, nella remota e alquanto improbabile ipotesi che tu possa riscuotere, perché mi hai chiesto di lasciare in pace quell’australopiteco che ha mancato qualche tappa evolutiva?”
Gino sorrise, torturandosi il labbro inferiore con i denti. Aveva una luce divertita negli occhi chiari: “Perché quando non sei stronzo, mi stai quasi simpatico.”
“Ah, beh!” lo scimmiottò Salvatore, portandosi teatralmente le mani al cuore e scimmiottando il portiere. “Se la metti così allora posso anche morire felice.”
Scena che strappò una risata di cuore a Gino. “E tu cosa scommetti?”
“Vince il Messico 2 a 0, secondo goal a opera di Espadas. E mi riservo di palesare il pegno solo in caso di vittoria,” rispose.
“Nonononono,” replicò Gino, ponendogli l’indice sotto il naso e facendolo oscillare da un lato all’altro come un metronomo. “La posta in gioco deve essere chiara. Su! Cosa metti nel piatto?”
“Che tu non mi scocci più con Aoi, in qualunque modo io mi comporti con lui,” rispose Gentile tagliente, contrariato che la prima richiesta a cui aveva pensato fosse di ben altra pasta e che riguardasse solo loro due. E invece no: quel dannato Aoi era sempre in mezzo! Bene, così avrebbe potuto ripagare il portiere con la sua stessa moneta. Al diavolo Hernandez, Aoi e la loro cazzo di amicizia. Ammesso e non concesso che fosse solo amicizia. E al diavolo anche quella fottuta fissa che gli era presa per il suo capitano e che lo stava portando a comportarsi come... come non era da lui, ecco.
Gino distolse lo sguardo, ferito dalla ritrovata arroganza di Gentile più di quanto gli fosse lecito aspettarsi. Era stato facile abituarsi a quel lato di Salvatore che pareva aver abbandonato il cinismo in favore di una più mite e simpatica ironia. Era stato facile trovare subito la complicità più unica che rara che in campo avevano condiviso sin dal primo momento in cui avevano giocato insieme e che, fuori, non avevano mai saputo costruire. E ora il difensore gli sbatteva di nuovo in faccia quel suo lato odioso. Gino riportò tutta la sua attenzione al duello in campo sempre più serrato benché ormai il tempo fosse agli sgoccioli. Chissà qual era stato il motivo di quel repentino cambio d’umore... chissà perché Salvatore sembrava farlo apposta a rendersi odioso a tutti costi.
 
Il risultato si sbloccò quando mancava una manciata di minuti alla fine della partita. Espadas si era battuto come un leone, giocandosi il tutto per tutto. Si vedeva che era ammaccato e Gino, nell’animo, soffriva con lui. Quella partita gli ricordava tantissimo quella che aveva disputato contro quella stessa nazionale a Parigi, ma – ora – non aveva potuto fare a meno di esultare quando Shingo e il pallone si erano insaccati nella rete del messicano. E vedere Shingo appeso a testa in giù – nonché sentire Gentile commentare: “Che ti aspettavi da una scimmia ammaestrata se non un gol da circo?” – gli fece piegare le labbra in un largo sorriso. In parte Salvatore aveva ragione: in bene o in male, Shingo riusciva sempre a mettersi in mostra, ad accalappiare gli sguardi e l’attenzione di tutti. Era stata proprio quella spontaneità scevra da imbarazzo che li aveva portati ad essere subito amici, sin dal primo gol che il giovane giapponese gli aveva segnato il giorno che aveva decretato il suo ingresso nelle giovanili dell’Inter. Gino aveva ammirato quel coraggio imprudente che a soli quindici anni lo aveva portato a quasi diecimila chilometri da casa, in un paese straniero e più xenofobo di quanto a Gino piacesse ammettere. All’inizio Shingo parlava un italiano che di comprensibile aveva ben poco, tuttavia la capacità comunicativa del piccolo giapponese era inarrestabile: parlava con le parole, con gli occhi, con il viso, con le mani. E trasmetteva energia. Erano simili in questo, Gino e Shingo, così tanto che la loro intesa era cresciuta fino a condensare tutto in un occhiata, in una smorfia, in un gesto della mano. Un’intesa che in campo aveva dato ottimi risultati e che, fuori dal campo, era sfociata in un’amicizia che aveva portato Shingo a diventare presto parte della tanto numerosa e quanto rumorosa famiglia Hernandez.
Gino non poté fare altro che esultare di fronte all’impresa appena compiuta dall’amico, ottenendo in cambio un’occhiata astiosa da parte di Gentile.
Astio che divenne feroce quando il fischio di fine partita decretò il 2 a 1 per il Giappone, secondo goal segnato da Hyuga su azione suicida di Tsubasa.
Astio che si tramutò in livore quando Aoi si voltò verso di loro, in un saluto che Hernandez ricambiò con la mano aperta e con un largo sorriso.
Gentile invece lo sapeva che – per lui – era solo l’ennesimo gesto di sfida, l’ultimo atto di quel loro dannato e insensato confronto iniziato in campionato e proseguito di partita in partita. E ora che aveva perso quell’altrettanto dannata e insensata scommessa con Hernandez, non poteva neppure rispondere a tono, come avrebbe meritato. Al diavolo!, si disse voltando le spalle a Hernandez e ad Aoi e guadagnando l’uscita dello stadio con ampie falcate.
***
 
Note dell’autrice:
- nel manga si vede che Gino e Salvatore sono andati a vedere la partita in camicia e cravatta. Mi sono presa la libertà di mandarceli in jeans e maglietta. E pure di mandarceli con qualche altro elemento della squadra.
-le prime battute del dialogo fra Gino e Salvatore sono tratte dal manga e da me modificate liberamente. In particolare, tale dialogo nel manga avviene alla fine della partita mentre io l’ho inserito durante la stessa. Me la passate per buona? =)
- i nomi dei compagni di squadra di Gino e Salvo sono presi dalla formazione dell’Italia Youth che il Taka ci fornisce alla partita contro il Giappone (mi pare). Quindi l’Alessio nominato sarebbe il buon Tacchinardi (o, come dice il manga, Tacchinaldi); tuttavia questa fic non vuole essere un cross-over con una RPF. Non che io abbia qualcosa contro il genere, ma mi manca la voglia e la motivazione di informarmi riguardo carattere, abitudini e interessi della gente della tv/sport/spettacolo. (Vuoi mettere la soddisfazione di informarsi riguardo carattere, abitudini e interessi di un personaggio fatto di carta? XD). Tutto questo per dire che per amor di coerenza mantengo i nomi più o meno reali che il Taka ci fornisce, ma sono da considerarsi dei semplici casi di omonimia che nulla c’entrano (né vogliono c’entrare) con i personaggi reali. Perché Alessio Tacchinardi quindi? Perché, in assenza di qualcuno che militasse nella Primavera della Juve e che quindi potesse avere un po’ più di confidenza con Salvatore, sono andata a simpatia. In pratica: Alessio è un gran bel nome.
- un affettuoso ringraziamento a chi continua a seguire questa storia, in particolare a Ale, Melantò e Releuse. Buona Pasquetta, tesori!
   
 
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