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Autore: sayuri_88    10/04/2012    12 recensioni
« Senta… » iniziai raccogliendo tutto il coraggio « io avrei un paio di gruppi che vorrei davvero lei sentisse » ma mi bloccai quando vidi il suo sguardo esasperato mentre poggiava la tazza di caffè sul tavolo di vetro. Il rintocco che ne seguì risuonò come una marcia funebre nella mia mente.
« Ho i postumi della sbornia, sette linee telefoniche che suonano e una ragazza che non capisce che è stata solo una questione di una notte… »
«Ho afferrato il concetto » lo interruppi incassando il colpo e dandogli le spalle feci per uscire dalla stanza.
« Swan, » mi richiamò e io mi voltai speranzosa.
Il mio capo mi squadrò da capo a piedi prima di dire « sei carina » commentò facendomi arrossire, tanto da assomigliare a un peperone, a causa del complimento inatteso e soprattutto per l’inopportunità della cosa. « Slacciati un bottone e ti faccio partecipare alla scelta mattutina dei nomi ».
Lo guardai come se fosse pazzo e sperai con tutta me stessa di aver capito male.
« Un bottone e una canzone » ripeté confermando che avevo capito bene la sua richiesta.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Coppie: Bella/Edward
Note: OOC, Otherverse | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun libro/film
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1 parte

 

Nella musica "industriale" è immanente l'irreversibilità del tempo. Essa è musica entropica, musica che si distrugge da sé. La musica leggera è la fattispecie dell'autodissolvimento della musica. E tuttavia è l'unica forma di musica che ha senso per tutti.

( Manlio Sgalambro, La conoscenza del peggio, 2007 )

 

  
« Sono qui da quattro anni e cosa ho ottenuto? Niente. Sono rimasta l’assistente dell’assistente del capo » sbottai mentre conficcavo un cucchiaio nella vaschetta di gelato di nocciola - una vaschetta da due kili - e ne raccoglievo uan bella porzione per poi aprire la bocca e ficcarcelo dentro. Quando lo tolsi il gelato, sembrava una piccola duna del deserto.
« Che devo fare? » mi lagnai alzando lo sguardo per guardare negli occhi la mia coinquilina, placidamente appollaiata sul bracciolo del divano vicino alla mia testa che sembrava completamente indifferente al mio problema.
« Tu si che non hai problemi » borbottai finendo il gelato rimasto sul cucchiaio. Presi il cucchiaino dal piattino, sistemato sul tavolino, e dopo averlo riempito, glielo porsi. L’ingorda non se lo fece ripetere due volte e lo leccò tutto.
« Adesso me lo dai un consiglio? »
La sua risposta fu un lungo e acuto miagolio.
« Coca-Cola, tu si che sei di grande aiuto » mormorai alla gatta che stanca dei miei sproloqui, saltò giù dal suo alto giaciglio, e a passo lento si trascinò in camera da letto, certamente per appisolarsi sopra il cuscino che ormai era diventato suo.
E così, stanca e disillusa dalla vita, me ne andai a letto, sperando che il giorno dopo si rivelasse migliore.
Purtroppo quando mi risvegliai, non era cambiato nulla.
 
« Buon girono, Angela » salutai la segreteria già all’opera dietro alla scrivania. La ragazza mi salutò con un cenno del capo senza smettere di parlare al telefono.
Come quello degli assistenti, il lavoro da segretaria è il peggiore di sempre. Probabilmente gli schiavi nell’antica Roma erano trattati meglio.
Recuperai una scatolina di cartone dalla borsa e gliela lasciai vicino al telefono e le si illuminarono gli occhi. Ogni volta che mi dilettavo a preparare qualche dolce ne portavo sempre qualcuno alle mie amiche alla casa discografica. Erano poche effettivamente, la concorrenza era molto agguerrita ma con Angela, Jessica e Rose, avevo creato una solida e duratura amicizia.
Lasciai una scatolina a ognuna di loro, sapevo che amavano la mia cucina ed era per quello che ogni sabato me le trovavo sul pianerottolo di casa, con una buona scorta di vino, affamate e pronte a divorare qualsiasi cosa preparassi.
Cucinare aveva il potere di rilassarmi, quindi, quando ero stressata e avrei voluto spaccare il mondo con la prima cosa che mi capitava tra le mani, mi mettevo ai fornelli e cucinavo qualche dolce, giusto per addolcirmi, che poi avrei condiviso con le mie amiche o se no addio linea.
 
Terminato il giro, raggiunsi la mia scrivania piena di fogli e foglietti vari, tutti avevano la stessa calligrafia, disordinata e spigolosa.
Sbuffai.
James, mi aveva lasciato un sacco di lavoro da fare mentre lui era in giro a “scoprire nuovi talenti”, traduzione: era a casa della sua fidanzata a scoprire suoi nuovi talenti, che comprendevano loro due e il letto o qualsiasi altra superficie che ritenessero adatta.
Lessi distrattamente i diversi post it, erano le solite cose: Contratti, rapporti, l’agenda di Masen da sistemare…
Ma per far iniziare bene la giornata c’era una cosa che non dimenticavo mai di fare, recuperai i documenti richiesti e raggiunsi il piccolo piano bar, dove mi versai una generosa tazza di caffè per darmi la carica per affrontare quella lunga giornata. Come ogni giorno vi trovai già Jake, tranquillamente seduto su uno degli sgabelli a sorseggiare la sua tazza. Lavorava già alla C-Major quando arrivai io, eravamo andati subito d’accordo e da qualche tempo avevo iniziavo a considerarlo più di un semplice amico.
Spesso quando lo vedevo parlare con qualche ragazza, una rabbia non mia mi saliva in gola e a volte avevo l’impressione che da un momento all’altro sarebbe esplosa come una fiammata dalla mia bocca, per incenerire la malcapitata.
Parlammo per qualche minuto poi, assieme a plico di fogli mi diressi nell’ufficio del capo. Ovviamente era ancora deserto, la scrivania piena di porta CD e cassette e la parete dietro di essa piena di dischi di platino e d’oro.
Girai attorno al tavolo e mi accomodai alla sua poltrona e, dopo aver terminato il mio lavoro, mi lascia andare su di essa e guardando fuori dall’ampia finestra che dava sul lago Michigan e i grandi grattacieli che un tempo avevano il primato di essere i più alti degli Stati Uniti ma che hanno poi dovuto cedere il primato alla Grande Mela. Era una cosa che facevo sempre quando non c’era nessuno. Certo, se lo avesse saputo, sarei morta appena l’avesse scoperto.
Me ne stavo seduta su quella poltrona di pelle nera, immaginando che un giorno ne avrei avuta una tutta mia, in uno studio tutto mio e magari in una casa discografica tutta mia. Pensavo in grande? Beh… Sognare non aveva mai ucciso nessuno.
« Ho sbagliato studio? » sobbalzai quando sentì la voce del mio capo provenire dalla porta spalancata. Se ne stava poggiato sullo stipite della porta, in una mano reggeva una tazza di caffè fumante mentre l’altra era infilata nella tasca dei pantaloni, nella più classica delle posizioni sexy di tutti i film che avevo visto.
I capelli erano scompigliati come se si fosse appena svegliato dopo una notte molto impegnativa - e probabilmente era così -, in faccia aveva quel fastidioso sorriso sghembo, che metteva in mostra una dentatura bianca, probabilmente risultato di molte sbiancature. Indossava una camicia azzurra con i primi bottoni slacciati, le maniche arrotolate fino ai gomiti, e dei jeans chiari ne fasciavano le gambe toniche.
Masen guardò la targhetta attaccata alla porta con sguardo fintamente curioso ed io avrei voluto che sotto di me si aprisse uan voragine che m’inghiottisse all’istante.
« Ah no è mio. Edward Masen, » lesse « presidente della casa discografica e tu sei Isabella Swan, l’assistente dell’assistente del suddetto presidente e la tua scrivania è… dov’è la tua scrivania? » disse sempre con tono sarcastico guardandosi attorno.
« Mi… mi dispiace » balbettai alzandomi subito dalla sua poltrona e tornando dall’altra parte della scrivania mentre lui occupò posto dove poco prima c’ero io. « Stavo sistemando i suoi contratti, i rapporti settimanali, aggiornando la sua azienda e ammirando la sua vista. » me ne uscì alla fine, per smontare un po' la tensione.
Masen da canto suo non mi degnava di uno sguardo, troppo intento a bere il suo caffè e controllare i fogli di uno dei contratti. Forse si aspettava che me ne andassi, infatti, mi guardò aggrottando se sopracciglia quando realizzò che non lo avevo fatto.
« C’è altro? »
Sì, c’era dell’altro. Erano tre giorni che mi portavo dietro un CD che volevo sottoporgli. La sera, spesso giravo per locali assieme a Rose e Jessica, spesso c’era anche Angela, quando non era impegnata con il suo ragazzo, Ben.
« Senta… » iniziai raccogliendo tutto il coraggio « io avrei un paio di gruppi che vorrei davvero lei sentisse  » ma mi bloccai quando vidi il suo sguardo esasperato mentre poggiava la tazza di caffè sul tavolo di vetro. Il rintocco che ne seguì risuonò come una marcia funebre nella mia mente.
« Ho i postumi della sbornia, sette linee telefoniche che suonano e una ragazza che non capisce che è stata solo una questione di una notte… »
«Ho afferrato il concetto » lo interruppi incassando il colpo e dandogli le spalle feci per uscire dalla stanza.
« Swan, » mi richiamò e io mi voltai speranzosa.
Il mio capo mi squadrò da capo a piedi prima di dire « sei carina » commentò facendomi arrossire, tanto da assomigliare a un peperone, a causa del complimento inatteso e soprattutto per l’inopportunità della cosa. 
« Slacciati un bottone e ti faccio partecipare alla scelta mattutina dei nomi ».
Lo guardai come se fosse pazzo e sperai con tutta me stessa di aver capito male.
« Un bottone e una canzone » ripeté confermando che avevo capito bene la sua richiesta.
Avevo sempre odiato certi mezzucci per attirare l’attenzione e ottenere favori e mi ero promessa di non cedere mai ma il peso dei quattro anni d’insuccessi e di fallimenti, mi piombò addosso come un macigno da cento tonnellate come succede in quei cartoni giapponesi. Era la mia occasione, la prima dopo quattro lunghi anni.
Intrappolai il labbro inferiore tra i denti e liberai un bottone dalla sua asola, lasciando così intravedere i bordi neri in pizzo del mio reggiseno in rosa antico. Misi le mani suoi fianchi e attesi mentre mentalmente m’insultavo e mi prendevo a testate per il mio cedimento.
Dopo averlo fatto, me ne ero subito pentita.
« Portami un’aspirina » disse con un sorriso malizioso e riportando gli occhi sui fogli.
Senza aggiungere altro me ne andai e tornai alla mia scrivania e la prima cosa che feci, fu chiudere il bottone, poi aprì il primo cassetto della piccola scrivania e ne astrassi un CD, quello per cui avevo ingoiato i miei principi.
Quella sarebbe stata la prima e ultima volta, promisi che non l’avrei mai più fatto. 

 

 Oggi l'arte musicale, complicandosi sempre più, ricerca gli amalgami di suoni più dissonanti, più strani e più aspri per l'orecchio.
Ci avviciniamo così sempre più al suono-rumore.

( Luigi Russolo, L'arte dei rumori, 1913 )

 
«It's Friday, Friday
Gotta get down on Friday.
Everybody's lookin' forward to the weekend, weekend.
Friday, Friday 
Gettin' down on Friday.
Everybody's lookin' forward to the weekendMasen spense lo stereo liberando le mie orecchie da quel fastidioso rumorio. Cavolo ma come facevano a definirla musica?
Il mio sguardo corse subito a James che sorridente presentava la sua candidata - non riuscivo nemmeno a definirla cantante e candidata era il termine meno offensivo che mi era venuto in mente.
« Si chiama Rebecca Black. Ha un programma in tv tutto suo di grande successo, per il marketing è un enorme potenziale ».
« Già ma le sue canzoni sono uno schifo » obbiettò Masen e fui perfettamente d’accordo con lui. Era bello ma almeno non stupido.
« È giovane e sexy e i ragazzi stravedono per lei, sarebbe un platino sicuro » insistette James, certo di quello che pensava. Soldi, soldi, soldi… questo era il solo problema ma lì si stava parlando di musica!
« Io avrei una band » intervenni alzando a mezz’aria il CD del mio gruppo. James mi fulminò con lo sguardo ma non ci diedi peso. Avevo dovuto slacciare un bottone per essere lì, quindi mi avrebbero dovuto ascoltare.
« Perché no? Non potrebbe essere peggio » accettò il capo e carica di una nuova speranza, sostituì il CD di James con il mio.
« È un ragazzo che ha un grosso seguito in internet e le sue canzoni sono geniali » dissi entusiasta mentre premevo il tasto di avviamento.
« Is it really necessary /
Every single day
/ You’re making me more ordinary / In every possible way /
This ordinary mind is broken /
You did it and you don’t even know /
You’re leaving me with words unspoken /
You better get back because /
I’m ready for more than this /
Whatever it is
Baby, I hate days like this caught in a trap /
I can’t look back /
Baby I hate days like this when it rain and rain
And rain and rain…** ».
Masen bloccò la riproduzione e dopo qualche minuto di religioso silenzio, da parte di tutti quelli nella sala riunioni, pronunciò il suo verdetto.
Avevo atteso, piena di aspettative, certa che non avrebbe potuto dire di no al mio cantante. Insomma era mille volte meglio eppure quando parò tutte le mie speranze mi erano crollate addosso come un grande castello di carte spazzato mia dalla prima folata di vento.
« Vada per la tua attricetta » disse facendo esultare James che con sguardo di superiorità mi ricordò qual’era il mio posto in quel luogo.
« Swan, perché non ci porti il pranzo? »
 
« Non ci posso credere… » dissi con un tono di voce abbastanza alto « insomma, ha preso quella… quella che nemmeno sa cosa sia una nota e ha rifiutato il mio artista! »
Il mio interlocutore era Rose che seduta a fianco di Emmet, il tecnico del suono, discutevano della canzone che il loro artista stava cantando nella sala di registrazione.
« Rose, mi ascolti » cercai di attirare la sua attenzione.
La mia amica sbuffò e girandosi mi riservò uno sguardo apprensivo.
« Bella, non poi farci nulla. Si sceglie chi può portare più soldi e per quanto concordi con te, purtroppo ho avuto la sfortuna di incontrarla, non possiamo farci nulla ».
« Rose ha ragione, Bella » interviene Emmet smettendo di trafficare con il mixer.
« Ma non è giusto » mugugnai lasciandomi cadere sul divanetto addossato alla parete.
« C’est la vie» fu l’illuminate parere della mia amica.
 
Stavo giocherellando con il mio cupcake mentre ripensavo alla giornata trascorsa. Avevo appena spento il computer dopo aver tentato di ascoltare almeno tre canzoni di quelle presentate. Non lo avessi mai fatto, era tremenda non c’erano altre parole per descriverla, avevo spento il computer ancora prima che finisse la seconda canzone.
Avevo sputato addosso ai miei principi e non era servito a nulla. Non avevano accettato il mio artista per prendere una ragazzina che rappresentava lo stereotipo della bella e stupida.
Ora potevo capire Viola Fields che in “Quel mostro di suocera” all’inizio del film attaccava la cantante vestita in stile country e con solo due stelline sui capezzoli. Era avvilente rendersi sempre più conto di dove stavamo andando a finire.
 
« A che pensi, Swan? » mi girai di scatto. Edward Masen stava venendo verso la mia scrivania e non riuscì a trattenere la rabbia e la delusione che avevo covato per tutta la giornata. La lasciai libera.
« Penso che aveva ragione sull’artista che ha scritturato oggi. Quindi perché l’ha fatto? »
Masen si appoggiò alla scrivania e incrociò le braccia al petto.
« Da quanto sei a Chicago? Di dove sei? »
« Sono di Forks, Stato di Washington, e sono qui da quattro anni » i suoi occhi lampeggiarono per un momento, poi tornarono attenti.
« Quattro anni… e perché sei venuta? »
« Volevo scoprire e lanciare nuovi gruppi che avrebbero cambiato la vita a qualcuno, come quelli che hanno cambiato la mia ».
Masen si aprì nel suo famoso sorriso sghembo e scosse la testa, divertito, anche se gli occhi si adombrarono.
« Ah… sei una di quelle… una volta lo ero anch’io » disse usando un tono amaro presto sostituito da quello spavaldo che più lo caratterizzava « poi ho aperto gli occhi. Se si chiama show business ci sarà un motivo. Dobbiamo fare soldi » terminò scandendo ogni singola parole.
« Anche se il prodotto fa schifo… » mormorai disgustata dalla politica che governava il mondo della discografia.
« Soprattutto » concordò con un sorriso saccente. « Mi spiace deluderti ma mi risulta che il Rock and Roll non può salvare il mondo ».
E  fu come se un’ape mi avesse punto sul sedere perché quello non lo potevo proprio accettare. Mi alzai dalla mia sedia, poggiando il cupcake sulla scrivania, e mi piazzai davanti a lui ergendomi in tutto il mio metro e sessantacinque e lo fronteggiai.
« Vede io non sono d’accordo, entri in qualsiasi locale e guardi i ragazzi negli occhi. Cercano qualcosa in cui credere e sono convinta che la musica li possa aiutare ».
« È per questo che sei ancora l’assistente dell’assistente. » rispose lui con fervore « Vanno nei locali perché hanno avuto una giornataccia e vogliono solo divertirsi. Ubriacarsi e portarsi a letto qualcuna ».
Mi chiesi da dove venisse tutto quel cinismo, lui stesso aveva confessato che c’era stato un tempo in cui credeva nelle mie stesse idee e doveva essere successo qualcosa per fargli cambiare opinione.
« Isabella » disse in un sospiro, « sei la più intelligente e capace qui dentro, secondo me, » confessò lasciandomi piacevolmente stupita « ma andresti più avanti se riusciresti ad accettare il lato commerciale del nostro lavoro e stare al gioco ».
« Forse a me non interessa stare al gioco  ».
« Ma l’hai fatto per venire alla riunione » ed ecco la frecciatina « Slaccia anche gli altri e probabilmente mi soffierai il posto ».
« Un giorno avrò il suo posto, Signor Masen » dissi sicura di me « ma non così ».
Avrei fatto strada, poco ma sicuro, ma mettendo la musica al primo posto non avrei più fatto compromessi per guadagnare più soldi.
Il mio capo mi guardò assottigliando gli occhi prima di scuotere la testa sconsolato. Si raddrizzò e riprese il suo atteggiamento spavaldo.
« Allora divertiti nei locali stasera. Assistente dell’assistente » disse e sotto il mio sguardo curioso si chinò verso di me. Per un momento pensai che volesse baciarmi ma invece recuperò il cupcake e dopo averlo osservato per un po' ne addentò un pezzo.
« Buono » biascicò continuando a masticare « l’hai fatto tu? »
« Sì ». 
« Beh… se questo lavoro ti va male saprai che fare ». 

La prima cosa per fare musica è non fare rumore.

( José Bergamin )

 

 

 

Il giorno dopo la sveglia non suonò e così mi ero presentata al lavoro in ritardo, anche a causa della mia moto che non ne aveva voluto sapere di accendersi ed ero stata costretta a usare la bici.
La giornata passò lenta e monotona mentre portavo avanti e indietro caffè, scatole di ciambelle, fascicoli vari e così discorrendo fino alle sette di sera, quando finalmente uscì. La gioia durò poco perché appena misi la bici sul marciapiede con mio disappunto, iniziò a cadere una goccia dopo l’altra fino a che non scese il diluvio.
Tornare a casa in bici con quel tempaccio era fuori discussione, come minimo avrei fatto un incidente. Così guardandomi attorno riconobbi in lontananza l’insegna al neo di un locale che, all’inizio della mia vita qui a Chicago, frequentavo spesso quando ancora non avevo la mia moto e quindi mi fermavo a mangiare per non mettermi a cucinare a sera tarda.
Era un locale abbastanza piccolo che come sottofondo metteva della musica orribile e a volume troppo alto per permettere una conversazione decente e che ti causava un tremendo mal di testa. Una volta ero pure andata dal proprietario per dirgli di spegnerla perché così avrebbe di certo guadagnato clienti.
Ecco, quella deve essere stata l’ultima volta che avevo messo piede in quel locale.
Una delle ragazze dell’agenzia mi aveva detto che avevano cambiato gestione e che avevano istallato anche un piccolo palchetto dove, chi voleva, si poteva esibirsi.
Legai la bici a un palo riparato dalla tettoia del palazzo e sollevai la giacca per coprirmi la testa e correndo attraversai la strada per ripararmi sotto un terrazzo, prima di riprendere a correre fino al locale.
Quando entrai, a causa dello sbalzo di temperatura mi venne la pelle d’oca. Una leggera musica di sottofondo permetteva alla gente di parlare tranquillamente e non era per nulla fastidiosa.
Mi guardai attorno, studiando il nuovo arredamento. Piccole lampade che cadevano dal soffitto illuminavano ognuna un tavolino di legno al cui centro era sistemato un cartoncino, che doveva essere il menù. Addossato alla parete di fondo, in posizione centrale, un piccolo palco su cui era sistemato uno sgabello e un microfono.
Presi posto vicino ad esso e ordinai da mangiare ripensando alla giornata appena trascorsa.
Non era stata certo la peggiore. Il primato, l’aveva il mio primo giorno di lavoro.
Quel giorno mi ero svegliata prestissimo, volevo essere puntuale e presentabile. Solo che l’universo sembrava essere contro di me. Coca-Cola mi aveva graffiato la mano quando avevo cercato di salutarla con una carezza, poi appena uscita mi sono fermata al bar vicino alla fermata del pullman per prendere un caffè per iniziare bene la giornata. Quando poi era arrivato, circa cinque minuti dopo, questo era già pieno di lavoratori che iniziavano anche loro una lunga giornata lavorativa, stavo per mettere il piede sul primo gradino quando un uomo scese a razzo, venendomi letteralmente contro e macchiandomi la camicia di caffè e scottandomi. L’infame non si era fermato, era corso via senza nemmeno guardarmi o scusarsi. Gli avevo lanciato così tante imprecazioni ed epiteti poco lusinghieri, senza contare le maledizioni, che gli avranno fatto fischiate le orecchie per molti giorni.
Così, ero dovuta tornare indietro, cambiarmi, e con disappunto avevo visto il mio petto completamente rosso - potevo vedere il segno del mio reggiseno - a causa della scottatura. Ero poi tornata alla fermata ed ero riuscita a prenderne uno volo ma non era finita lì, quando ero in prossimità della mia fermata, un bambino un po' troppo vivace mi aveva scambiato per un foglio da disegno e aveva lasciato due scie colorate, di due pennarelli indelebili, lungo la mia manica. La madre si era scusata in mille modi.
Scesa dal pullman ero corsa verso l’ingresso della casa discografica, arrivatavi di fronte, mi fermai per riprendere fiato e sfortuna volle che un piccione o qualche altro uccellaccio mi usò come bersaglio, lasciandomi i suoi escrementi sulla testa e sulla spalla. Avevo osservato quella sostanza viscosa bianca per minuti interminabili. Sembrava che la sfortuna ce l’avesse con me per non so quale motivo.
Per colpa di tutto l’incatenarsi di questi episodi, arrivai con un quarto d’ora di ritardo al lavoro e quindi ero stata richiamata appena avevo messo piede nell’ufficio di James, l’assistente di Edward Masen il capo della C-Major, che con una faccia disgustata mi aveva ordinato di andare in bagno a darmi una sistemata.
Il capo non era ancora arrivato, si presentò un’ora dopo, fresco e profumato, guardando i suoi dipendenti dall’alto del suo piedistallo.
Era un uomo affascinante quanto sfrontato nei modi, consapevole del suo aspetto e dell’effetto che faceva ed era pronto a usarlo e sfoggiarlo. I belli dominano la società, questo era risaputo.
Il suo obiettivo era fare soldi, dovevo solo convincerlo che si poteva fare soldi anche con buona musica. Forse sarebbe stato un guadagno che sarebbe arrivato col tempo, ma avrebbe avuto il sapore della bellezza e sarebbe stato il risultato di un buon lavoro, un lavoro che sarebbe riuscito a trasmettere un messaggio e magari una speranza. La musica poteva salvare il mondo, di questo ne ero convinta.
 
« Ciao, sono Alice Brandon e suonerò una mia canzone per voi » una voce bassa, amplificata dal microfono, mi riportò alla realtà.
Era una ragazza minuta dai capelli neri, occhi azzurri e dallo sguardo gentile, doveva avere all’incirca diciotto anni.
Sistemò meglio la chitarra sulle gambe e con il plettro iniziò a suonare, pochi secondi e la sua voce si diffonde nella sala. Leggera e soffice come un batuffolo di cotone.
La ascoltai incantata e quando ebbe finito la sua esibizione, la avvicinai.
Scoprì che non era poi così giovane come credevo, si era appena diplomata all’università di Chicago, lavorava in uno studio commerciale, anche se il suo sogno era proprio quello di cantare. Ci ritrovammo a parlare per ore, della musica, dei gruppi emergenti e in molte cose potevamo dire che avevamo lo stesso punto di vista.
Scoprì in Alice una ragazza molto esuberante e piena di entusiasmo, il suo carisma e la sua faccia acqua e sapone avrebbero potuto fare molta strada, ne ero certa. Bisognava solo convincere del fatto anche il capo.
Facile.
Sabato sera, obbligai le ragazze a seguirmi al bar, avevo chiesto ad Alice quando avrebbe partecipato ancora e lei mi aveva segnalato quella data.
Attesi per tutta l’esibizione, tesa, come una corda di violino e mi rilassai solo dopo che Rose disse che aveva potenziale, così anche Jessica che trovava la sua musica emozionante, ma entrambe concordarono nel dire che non l’avrebbero mai scritturata. Non era il genere richiesto.
Questo la sapevo anch’io, ed era per quello che volevo farlo diventare il genere richiesto.
 
Non persi tempo e all’inizio della settimana successiva cercai di parlare con Masen, ma questi con una scusa o per un'altra, riusciva a svignarsela.
« Due bottoni e potrei ascoltarti » mi disse la terza volta che riuscì a braccarlo in ascensore, a metà settimana.
« Se lo scordi. Queste sono molestie sessuali sul posto di lavoro. Potrei denunciarla, sa? » lui sghignazzò mandandomi ancora più in bestia. « Sono seria ».
L’ascensore si bloccò e le porte si aprirono.
« Oh, lo so. Purtroppo nessuno le darebbe retta. La sua parola, contro la mia » e se fece per allontanarsi ma lo bloccai per un braccio, appena fuori dall’ascensore, obbligandolo così a tornare a prestarmi attenzione.
« Senta, qui sotto c’è un bar dove la gente si può esibire e c’è questa ragazza che davvero merita di essere ascoltata ».
« Non stiamo cercando cantanti, ora come ora ».
« Ma quella Rebecca l’avete presa » obbiettai. Ricordavo ancora quando fece il suo ingresso come una grande Diva.
« Isabella, è encomiabile il tuo impegno e dedizione ma non sei pagata per fare il talent scout, okay? » e così mi lasciò in mezzo al corridoio, con l’umore sotto i piedi, a guardarlo andare via.
 
Eravamo in pausa pranzo, c’eravamo sistemate in terrazza e avevo appena raccontato i miei tentatiti falliti di far ascoltare le canzoni di Alice a Masen o anche solo a James. Angy fu la prima a proporre un’idea.
« Io suggerisco di bucargli la ruota della macchina e con una scusa lo porti da Alice ».
« No, dico. Hai visto la sua macchina, Angy? » intervenne Jessica dopo aver soffiato fuori il fumo della sigaretta.
« Su questo le devo dare ragione. Non basterebbero tutti gli stipendi che prenderò fino alla mia morte per ripagare i danni ».
« Devi solo insistere ».
« È tre gironi che insiste, Rose ».
« E dimmi, tu che proporresti, Jess? » disse l’altra sprezzante.
« Beh… alla vecchia maniera » e il tono malizioso che aveva assunto la sua voce non preannunciava niente di nuovo. « Ci provi e te lo porti a letto e ottieni il contratto ».
Diretto, semplice e pulito.
« Non andrò a letto con Masen per far scritturare qualcuno. Non mi adatterò al sistema » dichiarai con fervore.
« Già, lei non si chiama Jessica Stanley » rispose acida Rose. C’era da dire che le due non erano mai andate molto d’accordo. Avevano due caratteri completamente opposti che spesso le portavano a discussioni molto animate. Era un incontro di pugilato ma con le parole.
E quella che avevano stipulato era una pace armata. 
Jessica non rimase offesa dal commento, era una che se ne fregava di quello che gli altri pensavano di lei. La ammiravo per quello, andava dritta per la sua strada e faceva quello che voleva senza curarsi di altri.
« Edward Masen, non mischia il lavoro con la vita privata. È la sua prima regola » continuò Rose.
« Scusate ma la mia idea? Io la trovo fantastica. Certo non deve sapere che sei stata tu » insistette Angela, più che convinta che la sua idea fosse quella più giusta.
 
Essendo io una persona razionale preferì seguire il consiglio di Rose e ogni giorno cercavo di convincere Masen ad ascoltarmi.
Il punto di svolta arrivò il mercoledì sera della settimana dopo. Stavo uscendo dalla C-Major per tornarmene a casa a sfogare la mia frustrazione in una coppa di gelato alla nocciola.
La mia forza di volontà stava cedendo, una settimana e mezzo e non ero riuscita a convincere Masen a sentire Alice, ero incapace di convincere le persone a fare qualcosa, ero inadatta per fare quel lavoro, che al contrario richiedeva ingenti doti persuasive.
Alla faccia dell’oroscopo che diceva che quel giorno ci sarebbe stata una grande svolta nella mia vita.
Ma si sa, a volte il destino agisce per vie misteriose.
« No! Cazzo, no » la soave e delicata voce di Masen, che vicino alla sua macchina, faceva avanti e indietro come un animale in gabbia, bloccò i miei passi.
Alla casa discografica non c’era nessuno. Solitamente era Angela a chiudere ma quel giorno era l’anniversario di fidanzamento e mi aveva chiesto di chiudere al suo posto. Masen, invece, che di solito usciva molto prima, si era attardato per non so quale motivo ed era rimasto in ufficio fino all’orario di chiusura.
Quindi c’eravamo solo io e lui.
« Tutto bene, Signor Masen? » chiesi avvicinandomi.
« Ti sembra che vada tutto okay? » sbottò fulminandomi con lo sguardo. Deglutì vistosamente. Faceva paura con quegli occhi assottigliati fino ad assomigliare a due fessure, che sembravano lampeggiare di rosso e il viso contratto in una smorfia rabbiosa. Con un forcone e una coda rossa, sarebbe stato un perfetto diavolo.
« Scusa, » disse sospirando e riservandomi uno sguardo rammaricato « tu non c’entri nulla » disse guardando la macchina. La guardai anch’io ma non trovai nulla di strano. Perché era così arrabbiato?
« Che è successo? »
« La gomma » e la indicò « è sgonfia. Ora devo chiamare un caro attrezzi e  aspettare chissà quanto ».
Un brivido mi corse lungo la colonna vertebrale. Era un caso che proprio qualche ora prima Angela parlava di bucare la gomma della macchina di Masen per convincerlo a venire al locale?
Sperai con tutto il cuore che la mia amica non c’entrasse nulla con quel piccolo episodio, insomma lei era quella tranquilla e composta che non superava mai il limite di velocità e che non parcheggiava mai in divieto di sosta, nemmeno se si trattava di due minuti!
Come si dice, presi la palla al balzo e cercai di sfruttare l’occasione, mentalmente ringraziando la mia amica - se davvero c’era lei dietro tutto ciò - e giocai le mie carte sperando che fossero quelle vincenti.
« Beh… intanto potrebbe venire al locale. Ho fame e le posso offrire qualcosa. È là, non è distante » e con un gesto nervoso della mano indicai alle mie spalle.
« Il famoso bar » mormorò sogghignando e lanciandomi un’occhiata eloquente. Alzai le spalle e sorrisi annuendo.
« Non ti arrendi, vero?  »
« Arrendersi, non è una parola contemplata nel mio dizionario » ed era irrilevante che pochi minuti prima stessi accarezzando proprio quell’idea. Mi scrutò per qualche minuto, sospirò sconfitto e recuperò la giacca dalla sua macchina.
« Andiamo » si limitò a commentare mentre si incamminava verso l’uscita del parcheggio.
 
« So che può sembrare trasandato come posto e mi creda, prima era anche peggio, ma vedrà che non se ne pentirà » dissi quando, entrati del locale, il mio capo aveva fatto scorrere il suo sguardo per tutto il locale con disappunto.
« Mai giudicare un libro dalla copertina? » mi chiese con un sopracciglio alzato e il suo sorriso sghembo a piegargli le labbra.
« Esattamente, mi segua ».
Ci sistemammo in un punto abbastanza appartato e rimanemmo in silenzio fino a che una cameriera non venne a ritirare le nostre ordinazioni.
« Allora, Isabella » fu lui a rompere il ghiaccio. Io ero troppo nervosa per parlare, nemmeno si trattasse di un appuntamento galante.
« Bella, lo preferisco » dissi.
« Okay, Bella, parlami di questa ragazza ».
Si sistemò meglio sulla sedia poggiando i gomiti sul tavolo e il mento sulle dita intrecciate.
« Si chiama Alice e lavora in uno studio commerciale… »
« Impiegata commerciale? Oddio, sono così noiosi… posso solo immaginare le sue canzoni ».
« No » e quasi lo urlai, diversi clienti si erano girati a guardarmi come se fossi matta.
« Scusate » bisbigliai con un sorriso imbarazzata. Al mio fianco sentivo il mio capo sghignazzare e quello rendeva la cosa ancora più umilinte.
« Dicevo… » dissi schiarendomi la gola  e tornando a guardarlo « le sue canzoni sono magnifiche e per nulla noiose. Ha una voce pazzesca che sono sicura, la porterà lontano ».
Parlai con tutto l’entusiasmo che possedevo, ero convinta che Alice potesse farcela se solo le si fosse data una possibilità.
Masen, mi ascoltava in silenzio e con sguardo attento che, se da una parte mi tranquillizzava, perché voleva dire che mi stava prendendo seriamente, dall’altro mi spaventava, perché non riuscivo a capire che gli passasse per la testa.
Non passò molto prima dell’arrivo di Alice che mi raggiunse subito e lui fece una cosa che mi stupì. Si alzò e strinse la mano della ragazza e si risedette solo quando Alice prese posto. Chi si alzava più quando arrivava una donna? Non succedeva dai tempi di Jane Austen!
Ripresami, lo presentai come un amico che mi stava facendo compagnia. Le dissi di unirsi a noi e lei accettò con gioia.
« Perché non gli hai detto chi sono? » mi chiese una volta che la ragazza si allontanò per raggiungere il bar.
« Perché non voglio darle false illusioni visto quello che lei pensa sulla musica e il suo scopo nella società ».
Incassò il colpo con un accenno di sorriso « e voglio che lei la conosca, credo che la aiuterà a capire anche la sua musica ».
Edward, sembrò voler aggiungere qualcosa ma il ritorno di Alice bloccò qualsiasi altro tentativo di tornare sull’argomento.
A un certo punto il suo telefono suonò, la chiamata durò poco e da parte sua ci furono solo dei monosillabi, terminata, si concentrò su Alice.
Le fece diverse domande, sembrava quasi un colloquio di lavoro, ma anche la ragazza fece molte domande: dove c’eravamo conosciuti, da quanto ci conoscevamo, che lavoro faceva Edward, se aveva una ragazza.
Era stato divertente, soprattutto la prima domanda.
« Gli ho rovesciato del caffè addosso » io.
« Uscita con amici comuni » lui.
Ovviamente Alice ci aveva guardato disorientata.
« Una mia amica doveva conoscere un ragazzo e mi aveva portato con lei perché anche l’altro era assieme a un amico, Edward, appunto. Io ero in coda per le ordinazioni e quando mi sono girata per andarmene, sono andata addosso a lui. Che poi ho scoperto essere l’amico » spiegai arrampicandomi su per gli specchi. Fortunatamente Edward confermò la mia storia e Alice sorrise divertita senza mettere in dubbio le mie parole.
Parlammo ancora un po' prima che Alice fosse chiamata. Per tutta l’esibizione alternai lo sguardo tra il mio capo e Alice come se stessi guardando una partita di tennis. Il primo aveva lo sguardo attento ma non faceva trasparire nessuna emozione. Gli piaceva? Che cosa pensava? Tra quanto si alzerà e imboccherà l’uscita senza più voltarsi?
Tante domande che mi assalirono anche dopo il termine dell’esibizione seguita da un piccolo e timido applauso, visto che già un altro aveva già preso posto sul palchetto e pronto a iniziare la sua esibizione.
 
« Allora? » chiesi una volta che rimanemmo soli. Eravamo fuori dal locale e Edward si era acceso una sigaretta, per mio disappunto.
« Non è male… » e lasciò la frase in sospeso.
« Ma non è quello che il mercato vuole » terminai per lui con tono amaro. A che serviva impegnarsi, cercare di dare qualcosa di bello agli altri se poi ti trovavi ad affrontare un muro di cemento armato? Mi sarei sfasciata la testa a furia di testate e non avrei ricavato nulla se non un trauma cranico.
« Ci devo pensare » disse per poi recuperare il suo cellulare. « Salve, avrei bisogno di un taxi a Baker Street, dieci » disse. « Come nessun taxi è disponibile? » la sua voce era leggermente alterata e la cosa, ne ero certa, non avrebbe influito positivamente sulla sua decisione su Alice.
« La posso accompagnare io » intervenni bloccando la sua risposta al centralino.
« Non fa nulla, sono a posto grazie e buona serata » borbottò alla cornetta e riattaccò senza aspettare risposta.
« Bene, allora andiamo ».
« Ma la macchina? Non doveva aspettare il carro attrezzi? » ricordandomi il motivo per cui ero riuscita a trascinarlo al locale.
« Il tizio mi ha chiamato prima e gli ho detto di portarla alla concessionaria ».
Probabilmente si riferiva alla chiamata a monosillabi, ma era un buon segno, no? Avrebbe potuto andarsene, infondo non aveva promesso di ascoltare Alice. Aveva deciso di rimanere.
Così correndo raggiunsi il mio capo e lo scortai fino al parcheggio.
« Scusa e quello che sarebbe? » mi chiese lui fermandosi e guardando dubbioso la mia bellissima moto.
« Il mio mezzo » risposi orgogliosa mentre recuperato il casco dal portaoggetti glielo porgevo. « Ecco a lei il casco da imbranato ».
Mi osservò con un sopracciglio alzato ma lo accettò senza proteste.
« Non farà questo effetto su di me. Allora? » mi chiese dopo aver indossato il casco bianco.
« Mi spiace ma è infallibile » dissi con tono fintamente dispiaciuto. Misi anch’io il casco e salì sulla moto e la accesi.
Bugiarda! Ero una bugiarda! Stava benissimo, era un vero schianto.
« Sembra vecchia » fu il suo commento mentre lo sentivo prendere posto dietro di me.
« È una Vespa 150GS VS5 del 1959 ».
« Ti sarà costata molto » commentò mentre ingranata la prima mi apprestavo ad uscire dal parcheggio. Le sue mani andarono subito ai miei fianchi, stringendoli con delicatezza. Non avevo mai portato un uomo in giro con la mia Vespa, era un po' imbarazzante. Ancora di più se quell’uomo era il mio capo.
« No, era di mio nonno. L’hanno sistemata e me l’hanno regalata quando mi sono trasferita qui, ci ha messo qualche mese ad arrivare ma alla fine è arrivata. Da che parte? »
« A destra, al semaforo a sinistra e dritta fino a Roosvelt Sreet. Mesi? » mi chiese con un tono di voce altro per superare i rumori della strada.
« È arrivata dall’Italia ».
« Ma non sei di Forks? ».
« Mio padre, mi madre è di Como, dove ha la villa George Clooney, per intenderci » spiegai.
« Quindi lo conosce… » scherzò lui.
« Certamente, l’ha anche invitata a casa sua una volta e quando ha saputo di me mi ha detto di andare a trovarlo la prima volta che sarei andata in Italia ».
 
La casa di Masen si trovava a mezz’ora di strada dalla casa discografica, nel quartiere più lussuoso della città. Ovviamente.
Il suo appartamento era collocato in un grande edifico moderno e dall’aspetto molto lussuoso aveva persino una Hall con omino in divisa.
« Eccoci arrivati » dissi quando mi fermai davanti al cancello.
« Grazie » disse scendendo e dopo essersi tolto il casco, me lo porse « Buona serata, Bella ».
« Anche a lei » e mi diede le spalle per raggiungere il cancello che scattò con un clik metallico, « Signor Masen! » lo richiamai obbligandolo a voltarsi ancora verso di me. Scesi e raggiunsi il cancello, dove mi attendeva l’uomo con sguardo curioso. Quello era l’ultimo turno ed io mi stavo giocando l’ultima carta, sperando che si rivelasse quella vincente.
« Ha detto che un tempo lei credeva nelle stesse cose in cui credo io, ecco vorrei che provasse a ritornare quel ragazzo amante della musica mentre decide del futuro di quella ragazza ».
Rimase in silenzio scrutandomi, forse alla ricerca di qualche ombra nella mia determinazione ma il sospiro che emise mi fece supporre che non trovò nulla.
« Ci proverò » promise e sorrisi felice. Quello mi bastava.
« Grazie e ancora buona notte ».
« Anche a te ».
Indietreggiai qualche passo senza voltarmi, ma ovviamente il mio senso dell’equilibrio doveva metterci lo zampino in qualche modo, così misi male il piede e per poco con caddi con il sedere per terra.
« Tutto bene? » mi chiese ignaro del mio precario equilibrio.
« Sto bene, benone. Nessun danno » dissi imbarazzatissima, raggiungendo il mio mezzo a passo sostenuto e partendo a tutto gas immergendomi nelle strade più vive che mai di Chicago. Attorno a me le luci dei semafori, delle insegne e dei lampioni, sfrecciavano creando scie luminose e multicolori simili all’arcobaleno. Sorrisi fiduciosa mentre davo gas per godere appieno del vento sul mio viso.
 
Anche una tempesta inizia con una singola, piccola, goccia di pioggia e forse, quel giorno, rappresentava la mia goccia che avrebbe dato inizio a una tempesta che avrebbe portato molti cambiamenti.






 
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Ehi! Ciao a tutti quelli che sono arrivati fino a qui. Questa volta ho imparato la lezione, la storia è già conclusa così non dovete aspettare ere prima di un aggiornamento ( lettori: chi ti dice che ci interessa, io: sigh ). La storia prende spunto da un episodio di One tree hill, la biondina che lavora alla casa discografica e poi si licenzia per tornare a casa e aprirne una sua, e i primi dialoghi tra Bella e Edward sono ispirati a quello. Le canzoni sono, la prima di Rebecca Black, se andate su youtube e la ascoltate credo che concorderete con me nel dire che è orribile ( viva Glee che l'ha resa più bella^^) la seconda è di Mika! il povero ragazzo è stat rifiutato da molte casa discografiche prima di vedere il suo primo CD in vendita. Saranno tre capitoli e forse degli extra, quelli non li ho ancora fatti perchè dipenderanno da come verà accolta questa storia.
Spero di leggere qualche vostro parere. Ciao!
   
 
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