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Autore: CowgirlSara    11/04/2012    3 recensioni
Ognuno ha i suoi piccoli sporchi segreti. Anche le persone più insospettabili. Un omicidio, un prezioso violino. Una vecchia amica di John. E Sherlock a sciogliere i nodi.
Genere: Commedia, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Eccoci col secondo capitolo! Scusatemi se aggiorno di rado, però purtroppo i miei tempi sono un tantino lunghi, ultimamente...  Ringrazio ancora chi ha commentato il primo capitolo e anche quelli che seguono la storia in silenzio.
Vi lascio alla lettura e aspetto, come sempre, la vostra opinione!

Baci
Sara



- Capitolo 2 -


John si stava preparando minuziosamente. Si era fatto la barba, messo una camicia pulita e stirata – dalla signora Hudson – e ora stava tentando di pettinarsi in modo decente, nonostante la grandezza dello specchio gl’impedisse di vedersi tutta la testa insieme.
“Ci siamo profumati.” Commentò una voce fin troppo acida per appartenere al suo proprietario.
Watson girò il capo. Sherlock era in piedi nel riquadro della porta, rivestito di pigiama e della sua vestaglia azzurra; lo fissava serio, mantenendo la sua postura impeccabile.
“È così che si fa per un appuntamento.” Affermò compunto John. “Ci si lava, ci si sbarba, si mette un vestito decente e pulito…”
“Sì, sì!” Lo interruppe l’altro, mentre gli dava le spalle e gesticolava in modo teatrale. “E si comprano dei fiori, si dicono frasi insulse e si fanno un sacco di altre cose inutili…” Continuò, tornando in soggiorno.
“Arido come un deserto…” Biascicò sottovoce John, mentre scuoteva il capo.
“Come?” Intervenne improvviso Sherlock, riaffacciandosi nel bagno e facendo sussultare il dottore.
“Niente, niente…” Divagò John, negando col capo. “E puoi smetterla di stare lì, come un avvoltoio sulla carogna: non ti dirò con chi esco, ne dove vado, ne quando torno.” Dichiarò poi, deciso.
Sherlock sbuffò una risata. “Non insultare la mia intelligenza, John.” Affermò quindi. “Vai a cena con la tua vecchia amica della Barts e, quanto al dove, sarebbe fin troppo facile scoprirlo… se m’interessasse.”
Detto questo, girò i tacchi – se questo si può dire di uno a piedi nudi – e sventolando la vestaglia tornò in salotto. John restò davanti al lavandino, in attesa del ritorno trionfale di Sherlock per la sua ultima parola. Ci vollero pochi secondi.
“E tornerai se e quando io ti chiamerò.” Sentenziò infatti, prima di sparire in via definitiva. E Watson sapeva che, nonostante la cosa gli desse fastidio, era del tutto vero.

Quando John fu uscito per il suo appuntamento galante, Sherlock poté smettere di interessarsi alla disposizione dei libri nella libreria, facendo finta che niente avesse più importanza. Buttò l’ultimo volume che aveva in mano sul tavolino e si sedette mollemente sulla poltrona nera.
Gli appuntamenti rientravano in quelle cose comuni al genere umano che proprio lui non comprendeva. Se due persone si piacevano, perché fare quella guerra di accerchiamento, quella giostra d’inviti, quel gioco a “voglio stupirti”?
Le poche volte che gli era capitato di avere appuntamenti – sì, perché era capitato anche a lui – non era mai stato lui a proporlo. Le ragazze lo portavano in luoghi inutili e noiosi. Perché fare certe cose, quando quello che si desiderava era tutt’altro? Se vuoi fare sesso, dimmelo e basta, se sono della stessa opinione, possiamo concludere, altrimenti… te lo dico in faccia. No?
Probabilmente John avrebbe pensato che lui era un gretto essere materialista e completamente privo di tatto… Stupido John!
Lo stare lì a rimuginare sulle inutili opinioni del dottor Watson avrebbe sicuramente mal giovato alla sua digestione, nonché al suo umore.
Si alzò dalla poltrona in un balzo, sfilandosi teatralmente la vestaglia azzurra, poi si diresse verso la propria camera, deciso a vestirsi. Forse c’era qualcosa che poteva fare, per non pensare alle implicazioni dell’appuntamento di John.

Il dottor Watson entrò con una certa agitazione nel lussuoso appartamento di Chelsea dove viveva Angela. Era in ansia perché si era sempre sentito inadeguato all’ambiente frequentato dalla donna, dai suoi amici ricchi e belli, e alti.
Angela, fortunatamente fu così accogliente da sciogliere quasi subito la sua preoccupazione; dopo i convenevoli ed un necessario bicchiere di vino, si spostarono a tavola, senza mai smettere di sorridere. Per la prima parte della cena parlarono più che altro dei vecchi tempi, alla Barts.
“Insomma.” Esordì Angela, quando ebbero finito di gustare un ottimo arrosto di maiale che John aveva sognato praticamente ogni notte da quando stava a Baker Street. “Parlami un po’ di te, del tuo lavoro.” Lo spronò la donna.
John abbassò il capo timidamente. “Non è niente di che, la clinica è piccola, si occupa principalmente della gente del quartiere.” Affermò, prima di tornare a guardarla. “Il lavoro è di routine, soprattutto prescrizioni, piccole visite…”
“Perché non hai provato a tornare in ospedale?” Gli chiese Angela, mentre versava un altro bicchiere di vino ad entrambi.
“Beh, la clinica è un buon compromesso, è vicina a casa e poi… Mi lascia sufficiente tempo libero.” Spiegò lui, prima di sorseggiare ancora l’ottimo rosso.
“Ma come? Ti sei trovato un hobby?” Reagì sorpresa la donna.
Ecco, paragonare il suo rapporto con Sherlock ad un hobby era decisamente sottovalutarlo. Non che John avesse definizione più giusta. Ma un hobby era qualcosa di rilassante, da fare per staccare il cervello dai problemi della vita. Sherlock Holmes era uno che te li creava i problemi. Ma niente ti faceva sentire vivo come scappare con lui attraverso i vicoli di Londra.
“No, in realtà… do una mano al mio coinquilino…” Anche questo era riduttivo. “Lui… fa un lavoro un po’ particolare, si occupa di crimini, indagini, collabora con la polizia… A volte ha bisogno di un parere esterno, ecco…” Cercò di spiegare. Lei lo fissava interrogativa.
“Un parere medico?” Fece infatti.
“Non esattamente…” Il parere di una mente comune, avrebbe detto Holmes, ma John voleva sperare che la sua opinione contasse in quanto sua, che non sarebbe andato bene chiunque.
“Non capisco…”
“Ti prego, parliamo d’altro, non è così importante.” Replicò subito John, prendendole la mano sul tavolo. Lei la guardò, poi parve riscuotersi, si alzò.
“Vado a prendere il dessert, tu spostati sul divano.” Gli disse, prima di allontanarsi velocemente dal tavolo.

Poco dopo, un imbarazzato e rigido John, ricevette il suo piattino con un’ottima zuppa inglese. La mangiò distrattamente, mentre guardava Angela versare il caffè nelle tazze di fine porcellana bianca. L’atmosfera si era fatta improvvisamente più intima, le loro ginocchia si sfioravano e il dottore ripensava, con pena, ai pomeriggi passati a studiare con lei senza il coraggio di dirle che era cotto come un prosciutto.
“È stata una fortuna averti incontrato di nuovo, così per caso.” Affermò Angela, porgendogli la tazza; lui la prese per riappoggiarla subito sul tavolino.
“Già.” Annuì poi.
“Le notti passate a studiare con te, sono tra i più bei ricordi che ho della scuola di medicina.” Confessò la donna, guardandolo negli occhi.
“Permettimi di dubitare.” Replicò disilluso John. “Tu avevi un sacco di amici, andavi a certe feste, frequentavi il circolo del tennis…”
“Oh, John, non farlo!” Esclamò Angela, prendendogli il braccio. “Non sminuirti! Lo hai sempre fatto e non l’ho mai sopportato. Sei sempre stato intelligente e dolce, una persona sensibile, dall’animo nobile…”
“Non farmi tutti questi complimenti.” Ribatté lui, abbassando lo sguardo.
“John.” Mormorò la donna, prima di prendergli il mento con le dita per fargli rialzare il viso.
Si guardarono, lei aveva una luce strana negli occhi. Una luce che forse Sherlock avrebbe interpretato nel modo giusto, ma che riuscì solo a confondere John. Angela, ormai, gli teneva il volto tra le mani e lo fissava intensamente.
“John, se solo tu avessi creduto più te stesso, io…” Sussurrò Angela.
“Non dirlo… non…” Tentò di replicare lui.
Ma non finì la frase, perché lei gli strinse le braccia intorno al collo, baciandolo appassionatamente. John si ritrovò schiacciato contro lo schienale del divano, con il corpo soffice e caldo di Angela aderente al proprio. Dopo un attimo di smarrimento, le posò delicatamente le mani sulla vita sottile e rispose al bacio. In fondo, lo aveva sognato per anni.
Il contatto fu lungo e sensuale, o forse lo sembrò a lui, perché quel gesto inaspettato gli fece perdere la cognizione del tempo. Poi, però, all’improvviso Angela si fece rigida e si staccò da lui, abbassando il capo e tenendo John lontano con le braccia.
“Mio Dio, cosa ho fatto…” Esalò la donna, quindi si alzò in piedi, continuando a non guardare lui.
“Angela, io…” Provò John.
“Dio, non so cosa mi sia preso, scusa!” Lei continuava a rammaricarsi senza ascoltarlo. “Io… è un periodo difficile, però… Santo cielo! Forse è meglio se vai a casa, adesso.”
John, con la testa che ancora gli girava un po’, si alzò dal divano, aggiustandosi la camicia, quindi seguì Angela verso l’atrio, dove lei gli consegnò la sua giacca.
“Angela, io… Ecco…” Balbettò il dottore, incerto su cosa dire per la repentina fine della serata; era imbarazzato e incredulo. “È stata una bella… cena, grazie.”
“Scusami ancora.” Mormorò timidamente la donna, mentre gli apriva la porta. “Buona notte.”
“Buona… notte.” Fece lui, ma finì la frase che la porta si era già richiusa davanti alla sua faccia.
John scrollò il capo sconsolato, dicendosi che quella non era che la sua ennesima serata sfigata della quale Sherlock gli avrebbe letto i segni addosso per almeno tre giorni. Arreso, si diresse verso la via principale, deciso a fermare un taxi.

Sherlock, nel frattempo, era reduce da un’uscita ben più fruttuosa e stava tornando verso Baker Street con qualcosa che, se non era una prova, era per lo meno un immenso tesoro.  

Il mattino dopo John fu svegliato dal suono armonioso di un violino. Non ne era infastidito, come a volte capitava con le performance di Sherlock, che sembrava ingegnarsi per stridere l’archetto sulle corde. Il suono, quella mattina, era più profondo, più vibrante, più delicato.
Incuriosito, il dottore scese le scale ancora in pigiama.
Sherlock era in piedi davanti alla finestra e suonava apparentemente molto preso. John sorrise, mentre metteva sul fuoco l’acqua per il the. Lo sorprendevano sempre piacevolmente queste mattinate tranquille e familiari. Il finale della serata precedente era quasi dimenticato.
Quando il the fu pronto, John si mise a sorseggiarlo appoggiato allo stipite della cucina, gustandosi la musica che ancora stava producendo il suo coinquilino.
Uno svolazzo di melodia più acuto concluse la privata esibizione, seguita da un sorriso più ampio del dottore, mentre Sherlock toglieva lo strumento da sotto il mento e scuoteva i riccioli.
“Complimenti.” Esordì John. “Stamattina sei stato particolarmente bravo.”
“Sarà stato merito del violino.” Replicò Sherlock, ancora voltato verso la finestra.
John spalancò gli occhi, nell’esatto istante in cui il suo cervello fece il collegamento; si avvicinò immediato al coinquilino.
“Non sarà quel violino?!” Domandò allarmato.
“Naturalmente.” Rispose tranquillo l’altro, riponendo lo strumento nella sua custodia.
“Mio Dio, Sherlock! Hai toccato il violino! E se c’erano delle prove, delle impronte…”
“Stai tranquillo.” Lo rassicurò lui, con quella sua flemma schifosamente britannica. “Sullo strumento non c’erano impronte, è stato pulito. Ce ne sono alcune sulla custodia, ma scommetto che risulteranno assolutamente irrilevanti al fine del caso, anche dopo l’analisi della scientifica.” Aggiunse, dopo essersi versato a sua volta una tazza di the.
John si avvicinò alla scrivania, dove era stato posato lo strumento. Il legno rosso e lucido brillava quasi, colpito dal sole proveniente dalla finestra. Era veramente bello, si capiva che era prezioso. Il dottore non ebbe il coraggio di toccarlo.
“Dove lo hai trovato?” Domandò a Sherlock. Lui sospirò, tornandogli vicino.
“Ieri sera sono uscito per dimostrare la mia teoria e, infatti, ho riscontrato la conferma che cercavo.” John lo guardò, spronandolo con gli occhi a proseguire, qualcosa che Sherlock adorava. “Ho trovato la custodia in un sottoscala a qualche isolato dalla casa della vittima.”
“Nessuno che lo avesse rubato per il suo valore, uccidendo per giunta, lo avrebbe mai buttato via così.” Commentò il dottore. Sherlock lo fissò sorpreso.
“Vedo che sei brillante anche tu, stamattina.” Affermò poi compiaciuto. John avrebbe mentito a se stesso, dicendosi che i suoi complimenti non gli facevano particolarmente piacere. “Ad ogni modo…” Riprese l’investigatore. “…chi ha abbandonato il violino, o non ne conosceva il valore, o lo ha semplicemente fatto per intorbidire le acque e confonderci sul movente del delitto.”
“Già.” Confermò John annuendo. “Quindi sei sempre più convinto che il delitto sia legato alla gravidanza?” Sherlock semplicemente annuì, mentre cercava qualcosa sulla scrivania.
“È per questo che dobbiamo cominciare col lavoro serio.” Dichiarò quindi, rialzandosi con sguardo trionfante; si girò verso John e gli mise in mano due biglietti. “Tira fuori lo smoking, stasera andiamo a teatro.”
Il dottore abbassò gli occhi sui due tagliandi per il concerto della London Simphony Orchestra, diretto da Wolfgang Stoltz. Sospirò.
“Sherlock, io… non ho uno smoking.” Ammise infine, con una smorfia.
Il suo coinquilino si voltò di scatto verso di lui con un’espressione incredula e un po’ sconvolta.
“Non hai uno smoking?” Ripeté. “Oh, andiamo! È come dire che non hai un tight per le cerimonie!”
John fece un sorrisetto retorico. “Veramente non hai un tight?”
“Io non so dove sei cresciuto tu.” Ma bastava vederlo per dire «buona famiglia, buone scuole», pensava John. “Però dove sono cresciuto io, non si mette molto il tight…”
“Hm.” Fece Sherlock, con uno svolazzo di mano. “Non importa puoi prendere lo smoking in affitto.” Aggiunse, mentre si dirigeva in camera.
“Sh… Sherlock, io… Mi costerà mezzo stipendio, cazzo…” Biascicò arreso il dottore.

Il teatro, tirato a lucido per la serata di gala, era luccicante e pieno di gente sofisticata grondante di abiti firmati e gioielli. Il dottor Watson aggiustò la giacca del suo smoking senza riuscire a togliersi la sensazione di disagio che aveva addosso. Il completo, oltre ad essergli costato 250 sterline di cauzione, gli andava un po’ corto di cavallo, cosa che lo stava infastidendo più del dovuto. In più…
Lanciò un’occhiata a Sherlock, che osservava attento e curioso la folla. Si muoveva elegante e padrone della situazione e lo smoking gli stava tanto bene che ci sembrava nato dentro.
Merda… Sospirò John nella propria testa. Moriva dalla voglia di grattarsi le parti basse, ma non sarebbe stato esattamente da lui, ne adatto alla circostanza…
“Penso che dovremo agire nell’intervallo, ho già valutato la situazione e le possibilità sono…” Esordì Sherlock, tanto vicino all’orecchio di John che lui poteva quasi sentire la condensa.
“Devo andare in bagno.” Mormorò il dottore.
“Sì, ma sbrigati, non mi va di entrare da solo.” Ribatté l’investigatore.
“Ah… Vuoi che ti prenda a braccetto?” Fece Watson ironico.
“Non mi sembra il caso, ancora non siamo sposati.” Replicò serio l’altro; si scambiarono uno sguardo e risero.
“Conserva la tua virtù, torno subito.” Affermò infine John, allontanandosi verso la toilette.

John dovette ammettere che lo spettacolo era stupendo. Gli orchestrali erano veramente dotati e, pur non capendo niente dell’argomento, doveva esserlo anche il maestro Stoltz, per riuscire a fargli produrre tali armonie.
Si godette la musica per tutta la prima parte, accanto ad uno Sherlock concentrato e, all’apparenza, compiaciuto. I suoi occhi chiari brillavano nella penombra. John si distrasse un attimo osservandoli e trasalì, quando la mano di Sherlock gli afferrò il polso. Il detective, senza staccare gli occhi dal palco, si abbassò lievemente verso di lui, per sussurrargli.
“Agiremo tra poco.” Gli disse. “So per certo che il maestro esce velocemente dal retro alla fine del concerto, quindi dobbiamo farlo prima.”
“O… ok…” Balbettò John.
“Stammi dietro, appena comincia l’interruzione.” Ordinò Sherlock, prima di lasciarlo e tornare a dedicarsi alla musica.
Quando, però, arrivò l’intervallo, i due furono separati dalla folla. John ricevette un messaggio scocciato di Sherlock che gi comunicava di aspettarlo al bar, così il dottore si spostò in quella direzione. Ed ebbe una bella sorpresa.
“Angela…” Mormorò, stupito davanti all’amica.
“John! Che sorpresa…” Replicò lei, splendida nel suo abito da sera color petrolio.
Si salutarono con un bacio sulla guancia, poi il dottore le offrì da bere e si spostarono al bancone. John si era già colpevolmente dimenticato dell’accordo con Sherlock.
“Vorrei scusarmi di nuovo con te, John.” Riprese la donna, mentre aspettavano di essere serviti.
“E per che cosa?” L’interrogò lui, retoricamente, perché sapeva bene di cosa stava parlando lei.
Angela abbassò gli occhi e si tormentò nervosamente un anello. “Il modo in cui mi sono comportata ieri sera è stato inopportuno e spiacevole…” Affermò quindi.
“Oh, no.” Rispose lui. “Forse un tantino imbarazzante, ma di certo non spiacevole, anzi.” Aggiunse, ripensando al corpo profumato della donna contro il proprio ed al bacio che li aveva uniti.
“Non so proprio come farmi perdonare per essere stata così spudorata, io di solito…” John la interruppe, prendendole la mano. Lei lo guardo e lui le sorrise dolcemente.
“La prossima volta forse dovremmo uscire in pubblico, così sarà più facile controllare i nostri istinti.” Suggerì garbato, ma con un filo di malizia.
“Oh, John…”
“John, ti voglio adesso.” Intervenne una voce profonda, interrompendo il discorso. Un’ombra alta aveva coperto la luce alle spalle del dottore e lui roteò gli occhi arreso.
“Dobbiamo farlo ora, l’intervallo durerà ancora poco.” Era normale che il suo tono fosse così allusivo e calcante sui doppi sensi della frase?
“È l’unico momento in cui possiamo agire senza troppi fastidi…”
“Stai disturbando la mia conversazione.” Dichiarò John infastidito. Sherlock alzò la testa dando un’occhiata vaga alla situazione.
“Non è importante.” Sentenziò, prima di afferrare il medico per un braccio.
“La mia vecchia amica Angela Blythe, il mio coinquilino Sherlock Holmes.” Presentò velocemente Watson, cercando di non essere strappato via dallo sgabello.
La donna si sporse incuriosita, ma anche l’investigatore, sentito il nome dell’interlocutrice del dottore, alzò un sopracciglio chiaramente interessato. Allungò una mano, quasi scostando il dottore.
“È un piacere.” Affermò, stringendo delicatamente la mano che gli veniva porta da Angela.
John si accorse immediatamente dello sguardo scanner che era partito dagli occhi di ghiaccio di Holmes. Conosceva troppo bene quel tipo di analisi e non gli piaceva affatto che il soggetto fosse Angela.
“John mi ha parlato di lei, Signor Holmes.” Disse la donna, mentre lui le lasciava la mano e si aggiustava elegantemente la giacca.
“Spero non troppo male.” Replicò garbato. E ruffiano come solo lui sapeva essere.
Angela rise appena. “Oh, no! Però non ho esattamente capito di cosa si occupa…”
“Sono un consulente investigativo.” Rispose Sherlock.
“Stiamo collaborando con la polizia per il delitto della violinista.” Intervenne John, che era piuttosto infastidito dalla piega che stava prendendo la faccenda.
“Dio mio, ho letto… che tragedia…” Commentò colpita la donna.
“Sì… a tal proposito… Non abbiamo qualcosa da fare, Sherlock?” Riprese il dottore, scostando l’amico dal bancone.
“Oh, sì…” Mormorò l’altro, colto di sorpresa.
“Mi dispiace, ma è urgente.” Aggiunse il dottore rivolto alla donna. “Ti chiamo domani, Angela, buona serata.” E detto questo, portò via Sherlock quasi di peso.
Camminarono sbrigativamente verso la porta del backstage e, seppure questo non dispiacesse al detective, era curioso di sapere da dove era uscita tutta quella fretta.
“Non sembravi così pronto ad abbandonare la tua chiacchierata, prima che arrivassi io.” Affermò Sherlock, quando si fermarono.
“Lo so che cosa stavi facendo con lei.” Sibilò il dottore. Holmes fece un’espressione innocente. “Oh, sì! Le stavi facendo la radiografia e non mi sta bene!”
“Invece, ci sono due o tre cose che…”
“Tienile per te!” Sbottò John, interrompendolo. “Non voglio sapere niente di quello hai capito di lei, non voglio conoscere le tue deduzioni e le tue certezze, voglio vivere questa cosa così come viene, quindi ingoia il rospo e taci.”
Sherlock alzò incredulo le sopracciglia, ultimamente John stava diventando un po’ troppo suscettibile. L’investigatore, ad ogni modo, decise di tenere per se le conclusioni tratte dalla sua osservazione di Angela, potevano tornargli utili in un altro momento. C’era Stoltz di cui occuparsi.
“Bene.” Assentì quindi, glissando sulla permalosità del dottore. “La porta del backstage è laggiù, se tu riuscissi a distrarre per qualche secondo la guardia, io potrei entrare e…”
John lanciò un’occhiata al nerboruto uomo vestito di scuro che stazionava proprio sotto il cartello indicante il backstage. Era più alto di Holmes e pesava almeno cinquanta chili di più.
“Forse ho un’idea per entrare entrambi.” Affermò, dopo qualche attimo di osservazione.
“Davvero?” Fece Sherlock; lui lo guardò male.
“Guarda che non sono un totale idiota, come credi tu.” Replicò offeso.
“Oh, John, caro… Sottovaluti sempre la considerazione che ho di te.” Scherzò sarcastico l’altro.
“Se fai così, me ne vado subito…”
“Non farmi perdere altro tempo!” Sbottò autoritario il detective. “Vai e dimostrami il tuo genio.” Aggiunse, spingendo il medico verso la guardia.
Sherlock guardò il dottore partire un po’ esitante e raggiungere l’uomo in scuro, ci parlò per qualche secondo, indicandogli l’investigatore. L’espressione della guardia mutò da diffidente a sorpresa, ad interessata, mentre Watson continuava a parlargli. Infine, anche il dottore si girò verso Holmes e lo invitò a raggiungerli. Lui si avvicinò subito.
“Milord, il Signor Jones, qui, ci permette di parlare qualche minuto col Maestro Stoltz, solo in considerazione della sua posizione.” Affermò il medico. Sherlock lo guardò un po’ strano, ma come sempre si capirono al volo e lui si preparò ad interpretare la parte.
“Oh, la ringrazio veramente molto Signor Jones!” Esclamò Sherlock, all’apparenza estremamente riconoscente. “Stia certo che la menzionerò… nelle alte sfere…” Aggiunse allusivo e ammiccante.
La guardia sorrise compiaciuta. “È stato un onore, My Lord.” Disse compito, prima di aprirgli la porta e far entrare entrambi nel backstage.
Quando la porta si richiuse alle loro spalle, John ridacchiò, mentre precedeva Sherlock verso il camerino di Stoltz.
“Come hai fatto a convincerlo?” S’informò il detective.
“A quanto pare tu sei il figlio di un visconte, molto ben introdotto in… certi ambienti, e appassionato di musica classica.” Spiegò il medico.
“E tu?”
“Addetto alla tua sicurezza.” Si presentò John con un inchino. Ridacchiarono. “Avanti.” Spronò poi Watson, indicando la targhetta del direttore d’orchestra.

La porta del camerino era leggermente scostata, ma il dottore bussò ugualmente. Nessuno rispose ma, dopo uno scambio di sguardi, i due decisero di entrare.
“Che diavolo volete?” L’interrogò una voce brusca dal chiaro accento teutonico.
Wolfgang Stoltz era un uomo di mezz’età poco più alto di John, coi capelli brizzolati. Stava davanti allo specchio sopra al lavandino e si era tolto la giacca dello smoking.
“Il mio nome è Sherlock Holmes.” Esordì il detective. “Sono un consulente investigativo e questo è il mio amico…”
“Collega.” Lo corresse John.
“…il Dottor John Watson, stiamo collaborando con Scotland Yard nelle indagini sull’omicidio di Holly Barnes.” Concluse Sherlock.
Durante la presentazione, il direttore d’orchestra aveva finito di asciugarsi il viso ed ora li stava fissando con la fronte aggrottata. Posò l’asciugamano e si portò dietro la scrivania.
“Ah, la povera piccola Holly…” Sospirò. “Era una dolce, talentuosa ragazza, la sua morte è stata una grande tragedia.” Nonostante le parole sentite, il suo tono rimase freddo, forse anche per colpa dell’inflessione tedesca.
“Lei la conosceva bene?” Provò a chiedere il medico.
“Era una persona molto aperta e disponibile.” John non si stupì della scelta delle parole, visto quello che avevano scoperto sulla vita privata della vittima.
“Parliamoci chiaro, Maestro.” Intervenne Sherlock, che stava camminando per la stanza in raccolta d’indizi. “Il vostro rapporto era di natura più… personale?”
L’uomo fece un’espressione tra lo stizzito ed l’incredulo. “Non ho niente da nascondere, Signor Holmes, sono un uomo libero, divorziato, e non ho paura di ammettere che, sì, abbiamo avuto una relazione, mesi fa, ormai terminata.” Rispose poi, autoritario, senza trasmettere un’emozione, con il volto di pietra. “I nostri rapporti erano rimasti amichevoli, ma del tutto professionali.”
“Quindi non avrà problemi a dirci dove si trovava ieri mattina prima delle nove.” Soggiunse Watson. Stoltz lo guardò male.
“Ero al telefono col mio agente negli Stati Uniti, sto organizzando un tour.” Rispose sintetico, poi abbassò gli occhi sulla scrivania in cerca di qualcosa. “Questo è il suo recapito.”
“La ringrazio.” Fece Watson, quasi intimidito dall’atteggiamento spiccio del direttore d’orchestra.
“Se volete sapere di più, riguardo a Holly.” Riprese Stoltz, mentre si rimetteva la giacca. “Dovreste chiedere a Gwendolyn Parker-Lloyd, secondo violoncello, era la sua migliore amica.”
“Lei ci è stato davvero molto utile, Herr Stoltz.” Affermò improvviso Sherlock, prendendo per un braccio John e tirandolo verso la porta. “Ci perdoni per averle fatto perdere tempo.” Così dicendo, senza guardare l’uomo, portò entrambi all’uscita del camerino.
“Aspetti un attimo, Holmes.” Li fermò Stoltz. “Mi vorrei assicurare della cosa più importante.”
“Ancora non abbiamo un sospettato…” Affermò John.
“Ma cosa ha capito… Io parlavo del violino, spererei che il Guarnieri sia restituito all’orchestra il prima possibile.” Dichiarò glaciale il direttore. A Watson venne quasi da vomitare per la sua mancanza di considerazione per la vittima.
“Il violino è un elemento di prova, non sappiamo quando potrà essere restituito.” Affermò freddo; era bene che Stoltz penasse un po’. Quindi spinse Holmes fuori dalla stanza.
Quando furono nel corridoio, John guardò Sherlock; lui camminava sicuro fissando dritto davanti a se. Se faceva così, voleva dire che aveva qualche nuova certezza.
“Perché mi hai trascinato via? Non c’erano altre domande da fare?” Gli chiese quindi.
“Non hai notato la sua sudorazione eccessiva, il rossore della pelle e le pillole sul ripiano del lavandino?” Rispose Holmes.
“Ehm, no… Ero impegnato a fare le domande ed ascoltare le risposte…” Biascicò John.
“Non è il nostro uomo.” Affermò l’investigatore. “Ha subito, negli ultimi sei mesi direi, un intervento alla prostata.”
“Ah, prostata…” Soffiò il dottore, mentre uscivano nuovamente nel ridotto del teatro. “Quindi non può essere il padre del bambino.”
“Già, niente più pesciolini nell’acquario.” Scherzò Sherlock senza umorismo. “Piuttosto, pensiamo ad altro, ora. Domani vedi d’informarti su questa Parker-Lloyd, voglio parlarci.”
“Me ne occuperò.” Annuì John.
“Adesso vado a godermi la seconda parte.” Riprese Holmes. “Il nostro secondo violoncello sarà all’opera… Tu, se vuoi, puoi raggiungere la tua amica.” Aggiunse. John lo guardò con tanto d’occhi.
“I… io… lei… noi…” Balbettò il dottore.
“Oh, tranquillo John.” Lo rassicurò Sherlock posandogli una mano sulla spalla. “So che avete avuto un incontro piuttosto ravvicinato la scorsa notte, niente sesso, ma un bacio decisamente intenso probabilmente sì… Anzi, dal colore della tua faccia adesso, direi senza dubbio sì.”
Detto questo, dopo una pacca abbastanza vigorosa sulla sua spalla, Holmes lasciò John in mezzo al salone, immobile e con la faccia sconvolta, dirigendosi in sala.
C’erano dei momenti, come questo, in cui John avrebbe voluto essere tornato dall’Afghanistan con una gamba di legno, pur di avere a portata di mano qualcosa con cui picchiare Sherlock.

CONTINUA



   
 
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