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Autore: Maylea    12/04/2012    1 recensioni
A distanza di anni penso spesso a quegli spiriti spauriti nella stazione e vorrei poter avere di nuovo il mio confetto colorato a colazione per poter parlare con lei, ma è un illusione, un artificio, non è una realtà come io credevo.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CONFETTI A COLAZIONE

 

Era il 1940 e la pioggia ticchettava rumorosa contro il vetro della mia camera, non vi era suono più dolce in quel momento, nessun rimbombo in lontananza, solo quella melodia regolare che accompagnava il mio dormiveglia. Quella, come anche tutte le altre notti passate a vegliare il cielo attraverso una finestra, non era una semplice notte, era l’ultima. L’indomani avremo dovuto lasciare l’albergo e partire alla volta di Berlino.

 

Quando mia madre mi svegliò il mattino seguente, il sole era già alto nel cielo ed i suoi raggi invadevano il mio letto in una sorta di danza esortativa per farmi alzare. Mi misi seduta sul letto, mentre mia madre usciva dalla stanza raccomandandomi di scendere al più presto per la colazione nella sala grande dell’albergo. Osservavo i miei piedini ciondolare nel vuoto e lontano il pavimento di legno con occhi minacciosi cercava di attirarmi a sé, non volevo partire.

 

Il nostro viaggio fino a Berlino fu accompagnato dallo sbuffare del treno che con un leggero ritardo arrivò nella stazione di quella grande città, non vi ero mai stata prima di quella volta.

 

Mi ricordo una cosa in maniera vivida, anche se mio padre mi rimproverò la mia malsana immaginazione, ma io vidi degli spettri, erano come ombre di ragazzi e ragazze che vagavano all’interno della stazione in cerca di un posto tranquillo dove stare. Alcuni di loro erano poco più che adolescenti. Uno di questi spettri venne verso di me, io sussultai leggermente, ma tanto bastò ad attirare l’attenzione dei miei genitori che mi guardavano incuriositi. Mio padre fu quello che mi sorprese di più, tirò fuori dal taschino del suo spolverino dei foglietti e cominciò a fare delle annotazione che ai miei occhi parvero casuali, come se stesse scrivendo un elenco della spesa, senza pensarci troppo su.

 

Lo spettro aveva un nome che ora non riesco a ricordare ma lo so perché lo sentì nella mia testa, era una sensazione strana, la mia mente sembrava essere aperta e recettiva di tutti gli stimoli di quell’ambiente. Era l’ombra o meglio l’anima di una bambina con le guance paffute e un sorriso angelico, se non fosse stata una torbida visione le avrei chiesto di giocare con me con le bambole, era una bambina che ispirava fiducia. Il suo sguardo si posò su di me e poi lentamente si voltò verso i miei genitori e il suo volto si trasformò, diventò cattivo, contorto dalla rabbia e da una sorta di risentimento. Risuonò nella mia testa in quel momento un ”non ti fidare” appena sussurrato, una comunicazione di quel flebile spirito o la mia fervida immaginazione non saprei dirlo, ma quello fu l’ultimo istante della sua presenza davanti a me prima di fluttuare lontano, uscendo lateralmente dalla stazione.

 

Sono passati molti anni da quell’avventura nella stazione di Berlino, ora sono una donna e mi ciondolo davanti ad un noioso programma Tv di intrattenimento per famiglie aspettando di vedere le notizie del giorno. Non me sono più andata da Berlino, ed ora è il 1977, ne è passato di tempo dalla prima volta che ho messo piedi in questa città con la mia famiglia. I miei genitori non ci sono più, la guerra li ha portati via con sé, ho poche informazioni sulla loro morte. Un ufficiale dell’esercito tedesco che si ferì ad una gamba appena all’inizio della guerra mi disse che aveva conosciuto mio padre nel reparto sanitario di un caserma a est di Berlino, non era un dottore ma un chimico, stava facendo esperimenti su pazienti oramai inabili al servizio come lui. Gli faceva prendere degli strani confetti colorati e poi annotava gli effetti che producevano sugli individui scelti come lui. Mi raccontò che aveva delle allucinazioni ogni volta che ne assumeva una dose per le seguenti 3 o 5 ore, dipendeva se era a stomaco pieno o meno. Mi disse che un giorno aveva visto degli spettri anche lui, ma di animali e uomini deformi che si aggiravano su un terreno brullo e desolato dopo una forte esplosione. Era convinto di aver visto il futuro perché poi ci fu la bomba atomica di Hiroshima e le scene che erano le stesse delle sue allucinazioni. Sicuramente ne aveva mangiati troppi di quei confetti, più di me. Si perché mio padre ne aveva dati anche a me quel giorno a colazione prima di prendere il treno per Berlino, tutti i nodi tornavano al pettine, per questo non ho più pensato a quegli spettri e a quella ragazzina dal volto angelico che ho sempre sperato di rincontrare. L’ufficiale concluse la sua visita nel collegio dove ero stata costretta a vivere dicendomi che gli studi di mio padre avrebbero portato alla creazione di potenti droghe da impiegare in guerra e per questo era stato giustiziato e mia madre come sua complice ugualmente processata e condannata.

 

A distanza di anni penso spesso a quegli spiriti spauriti nella stazione e vorrei poter avere di nuovo il mio confetto colorato a colazione per poter parlare con lei, ma è un illusione, un artificio, non è una realtà come io credevo. Il tempo aiuterà a dimenticare. Il mio flusso di pensieri si interrompe repentinamente per l’inizio del telegiornale, la sigla di apertura risuona nella stanza ed io mi concentro sul piccolo schermo.

 

Penso che siano solo pochi attimi e poi la vedo, è Lei, la bambina dal volto angelico appare sullo schermo, è morta ieri sera e le cause sono ancora da accertare. Si vocifera sia a causa della droga che riempie ogni anfratto della città ma non è importante, l’ho ritrovata, è reale come nei miei sogni.

  
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