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Autore: Brin    13/04/2012    1 recensioni
Non si può restare a guardare quando una mano sconosciuta porta via ciò che di più caro hai al mondo: questo è quanto Sari Kalabis sperimenta sulla propria pelle nel momento in cui uno dei pilastri della sua vita le viene strappato per sempre.
Non sa, però, che il desiderio di sapere perché la porterà su strade pericolose, lastricate di interessi a cui non dovrebbe avvicinarsi. Verso i sotterranei di un carcere da cui non si può uscire, nella pancia di un incubo folle e delirante che non dovrebbe esistere.
Genere: Fantasy, Mistero, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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12



12.

IL CERCHIO SI STRINGE


*




Victor Silver sapeva bene quello che faceva: immaginava che quei volantini avrebbero creato molto trambusto tra gli abitanti del villaggio, ma non poteva fare altrimenti. Il crepuscolo era calato già da diverse ore, ma nonostante il buio e il freddo le stradine della città erano popolate di gente.
Il brusio sembrava non dover mai finire, e l’inquietudine serpeggiava infida tra gli abitanti del posto, che si scambiavano occhiate perplesse e commentavano con preoccupazione la foto del ricercato.
«Questo qui è un criminale.»
«Dicono che arrivi da Artika.»
«Il carcere di sicurezza? Com’è possibile?»
«Lascio la città stasera stessa!»
Silver aveva sentito di tutto e dentro di sé non poteva fare altro che essere d’accordo con quello che coglieva dai discorsi degli abitanti di Naima. Anche lui era perplesso e non si capacitava di come fosse stato possibile che un pericoloso assassino di massa riuscisse a evadere da un carcere di massima sicurezza.
E soprattutto, di come potesse essere ancora vivo.
Non riusciva a non rimuginare su questo dettaglio importante, malgrado fosse preoccupato per Sari.
Stentava a credere che non fosse stato giustiziato. L’ineluttabilità della pena era una certezza garantita dalla legge, che tuttavia aveva risparmiato Warknife. Nonostante si arrovellasse su come fosse potuto accadere, il vero motivo continuava a sfuggirgli.
Sentì quel familiare senso di frustrazione fare nuovamente capolino, insistente e fastidioso. Aveva mandato lui stesso Warknife in carcere sette anni prima e la pena capitale non poteva essere stata rimandata così a lungo: doveva esserci una spiegazione, ma Silver aveva la strana sensazione che se fosse riuscito a scoprirla, quel senso di impotenza non l’avrebbe più abbandonato.
Quando svoltò l’angolo, vide tre uomini in uniformi nere. Impugnavano lunghe armi dalla forma affusolata, apparentemente una sorta di bastoni. Armi elettriche. Sul petto, brillava una targhetta dorata.
C.S.M.
Silver si fermò, gelato. Avrebbe dovuto immaginare che l’esercito sarebbe stato ancora in città, e se quei tre soldati erano da quelle parti voleva dire che Rider non era lontano.
Pregò di non incontrarlo. Non gli piaceva per niente: era troppo ambizioso, troppo calcolatore in ogni più piccola cosa. Trattare con il generale era molto snervante per una persona semplice e umile come Silver.
«Agente Silver?»
Non è possibile!
Quando si voltò verso la fonte da cui proveniva la voce, si ritrovò a guardare negli occhi proprio il generale Rider. Si sforzò di sorridere.
«Generale.»
«Avevo il timore che non foste voi, ma a quanto vedo non ho sbagliato persona» un leggero sorriso di circostanza gli increspò le labbra. Era controllato fino nel più piccolo muscolo; Silver se ne accorse subito.
«Buon per voi generale. Ora scusate, ma ho parecchie cose da fare.»
Tentò di porre fine al discorso per svignarsela, ma Rider a quanto sembrava non aveva la benché minima intenzione di lasciare che ciò accadesse.
«La tua presenza mi fa supporre che tu stia cercando di catturare l’evaso.»
Silver sostenne lo sguardo del militare. Sorrideva arrogante, con aria di superiorità. Il poliziotto cercò di trattenersi dal cominciare un diverbio inutile. Doveva mantenere la calma, o avrebbe fatto il suo gioco.
«E se fosse?»
«C’è già il C.S.M. che si occupa del caso, e penso che siamo entrambi d’accordo sul fatto che l’esercito sia più competente di un semplice poliziotto da ufficio in questa circostanza» concluse con un sorrisetto mellifluo.
Non raccogliere la sua provocazione. Non abbassarti al suo livello.
Probabilmente Rider accolse il silenzio di Silver come un consenso per continuare a infierire. Opportunità che non si fece scappare. L’espressione sul suo volto divenne ancora più irritante.
«Sto facendo piazzare uomini davanti a ogni porta d’accesso alla città, per controllare chiunque attraversi il posto di blocco, e i miei soldati hanno già cominciato a perquisire ogni edificio. Come vedi puoi tornartene a Rosya. Al fuggitivo ci penso io» l’espressione sul suo volto era palesemente trionfante. Si allontanò a testa alta senza neppure salutare, tronfio e sicuro persino nel portamento.
Mentre lo guardò confondersi tra la folla, Silver si accorse di provare un sollievo curioso. Scosse il capo, sospirando.
«Pallone gonfiato.»
La conversazione con il generale l’aveva irritato, ma dovette ammettere con se stesso che senza volerlo gli aveva dato delle informazioni utili. Ora sapeva come si stava muovendo l’esercito; nonostante non provasse simpatia per Rider, dovette ammettere che stavano facendo un lavoro eccellente. Presto avrebbero catturato Warknife, e senza di lui Sari sarebbe tornata libera.


*


Da quando quel ragazzo, Abidos, era piombato nella fucina, Namar era diventato ancora più nervoso. Andava avanti e indietro per il negozio, controllava la situazione all’esterno, sempre attento a cogliere anche il più piccolo rumore sospetto. Sembrava prossimo a un collasso nervoso.
L’elfo invece era seduto esattamente nello stesso angolo che aveva occupato in precedenza, le mani serrate in una presa decisa, le nocche quasi bianche. Era spazientito.
Quando Sari si voltò verso Abidos, fu sorpresa. Era calmo, il suo volto non era affatto turbato né spaventato. Sedeva a terra, la schiena contro il muro, lo sguardo imbambolato a fissare il pavimento. Sereno.
Si domandò come potesse essere calmo in una circostanza come quella, e si ritrovò a invidiarlo. Quando guardò Namar, poi, sentì l’angoscia montarle dentro. Quella situazione era snervante, quell’attesa la logorava, e lui non migliorava certamente le cose. Sbuffò, esausta.
«Non risolvi nulla continuando così.»
Lui non le badò minimamente, continuando a camminare per la stanza con il respiro che cominciava a farsi pesante.
Sari perse ogni speranza di farlo calmare. Decise di desistere da quell’inutile perdita di tempo, capace solamente di farla innervosire.
Ripiombò nel proprio silenzio, seguendo il filo dei pensieri. Da quando quella rocambolesca avventura era iniziata, non aveva più pensato ai motivi che l’avevano condotta ad Artika. Non ne aveva avuto il tempo, ed erano irrimediabilmente passati in secondo piano. Era così presa dai sentimenti ambivalenti che le suscitava Namar, da aver quasi scordato quel momento confidenziale, quel secondo in cui aveva compiuto un passo avanti verso la verità.
Verso l’identità dell’assassino di suo padre.
Quando Namar aveva accennato a Gaynor.
Un piccolo tassello che, nonostante tutto, non era abbastanza. Sperava in qualcosa, qualunque cosa. Sapeva che Shem era lì fuori, libero e alla continua ricerca di ciò per cui aveva ucciso suo padre.
All’improvviso, il cuore le mancò di un battito: l’orologio. Come aveva potuto dimenticarsi di quel dettaglio? Adrian aveva trovato la morte per proteggere quello che era nascosto all’interno di quel piccolo oggetto in argento, che ora era nelle mani di Sari. Era sicura, non poteva esserci altra spiegazione. Quel piccolo orologio nascondeva un segreto, qualcosa di importante in cui quasi sicuramente era implicata anche la Corporazione. Qualcosa di pericoloso, se aveva portato suo padre alla morte.
Sapeva che Shem non si sarebbe fermato, ne era sicura. Si era sporcato le mani nel modo più ignobile per ottenere ciò che voleva, e non avrebbe desistito. Probabilmente in quel momento era già sulle sue tracce, e presto o tardi l’avrebbe trovata. Era solo questione di tempo.
Quella consapevolezza la fece sentire inquieta, e fu costretta ad ammettere una cosa: non era libera di agire, finché rimaneva con Namar. Non poteva indagare su Shem, il che voleva dire farsi trovare impreparata. Un lusso che non poteva concedersi.
Doveva essere pronta ad affrontare l’assassino di suo padre, o non ne sarebbe uscita indenne.
Poteva sentire chiaramente l’orologio premere sulla coscia, attraverso il tessuto dei pantaloni. Shem non l’avrebbe fatta franca, non avrebbe avuto ciò che voleva.
Lo giuro, papà.
«Non ti preoccupare, ce la faremo a scappare. Ho un piano.»
Sari si voltò verso Abidos con il cuore in gola: non l’aveva sentito alzarsi, né sedersi accanto a lei e quando le aveva sussurrato nell’orecchio, aveva creduto di esser prossima a morire d’infarto.
Respirò profondamente per calmarsi, e si sforzò di sorridere. Solo allora, guardandolo così da vicino, si accorse che quel ragazzo aveva gli occhi nocciola.
«Se ci aiutiamo a vicenda, abbiamo buone probabilità di riuscire a scappare. La cosa importante è cercare di farlo restare calmo, o la sua reazione potrebbe essere devastante» Abidos guardò Namar di sottecchi, ma l’evaso non si accorse ciò che stava accadendo. Sari annuì, ma dentro sentì un dubbio farsi strada lentamente.
Era giusto così? Doveva abbandonare Namar al suo destino? Si sentì spregevole, ma non poteva rifiutare. Dopo che si era infiltrata ad Artika creando tutto questo putiferio, non avrebbe più potuto muoversi liberamente. Se si fosse fatta trovare assieme a Namar al momento della cattura, sarebbe stata sotto controllo costante, tanto più se Amos voleva mantenere il riserbo su quello che la Corporazione stava macchinando.
Non poteva permetterselo, o non avrebbe mai fatto luce sulla morte di suo padre. Annuì di nuovo, con maggior decisione.
Che Namar possa perdonarmi per ciò che sto per dire.
Si protese verso Abidos, la voce ridotta a un filo.
«Andiamocene da qua.»
Abidos accolse la sua risposta con un sorriso silenzioso. Si alzò, lo sguardo ora rivolto su Namar.
«Conosco un passaggio sotterraneo che ci permetterà di uscire dalla città senza essere scoperti. Dobbiamo muoverci ora, però.»
Il fuggiasco non lo guardò. Non rispose; le labbra serrate in una smorfia. Sembrava stare sull’attenti, pronto a cogliere qualsiasi rumore proveniente dall’esterno.
Fu allora che Sari lo sentì: un vociare insistente, caotico, cresciuto in sordina fino a raggiungere toni inquietanti. Le strade erano invase dai cittadini sopraffatti dall’agitazione e dalla paura.
«Cosa ci ricavi?» il tono di Namar era accusatorio, ma il fuggiasco non guardò Abidos, neppure in quel frangente.
«Sono la tua unica possibilità di salvezza. Non puoi fuggire dalla città senza essere scoperto, lo sai.»
Solo allora Namar si girò a guardare il ragazzo. Gli occhi tradivano diffidenza, ma Sari capì chiaramente che il fuggiasco aveva la piena consapevolezza che quello che Abidos aveva detto era vero.
Il C.S.M. doveva aver allertato la popolazione, per questo la gente si era riversata nelle strade. Con tutto quel caos forse sarebbero riusciti a confondersi con la gente, ma era troppo azzardato.
Namar non avrebbe mai corso il rischio di farsi catturare, se avesse potuto intraprendere una strada più sicura: Sari ne era convinta.
Per un attimo le sembrò che Namar la guardasse, che volesse cercare in lei un consiglio su come agire, ma fu uno sguardo fugace. Non si fidava. C’era qualcosa in quella situazione che non lo convinceva.
Sari guardò di sottecchi Abidos, ne studiò il profilo regolare, ma nel suo sguardo non vide nulla di anomalo.
Qualunque cosa inquietasse Namar, era certa che non lo avrebbe mai indotto a compiere un gesto violento nei loro confronti. La situazione stava precipitando pericolosamente, facendo di lei e Abidos dei pesi fastidiosi di cui l’evaso avrebbe potuto facilmente liberarsi.
In condizioni normali non si sarebbe fatto remore a ucciderli, Sari ne era consapevole, ma in quel momento Abidos rappresentava l’unica speranza che Namar aveva per uscire da quel pasticcio.
Non avrebbe mai potuto rinunciarvi, se voleva difendere la sua precaria libertà.
Il vociare all’esterno si fece all’improvviso più forte e vicino, e Sari capì che dovevano prendere una decisione in fretta. Stranamente si ritrovò a sperare che non li trovassero; si stava abituando a pensare che quella non era più solo la fuga di Namar, ma anche la sua, e si chiese se davvero l’idea di abbandonarlo una volta lontani da Naima fosse la soluzione migliore.
Si costrinse a pensare a suo padre, al suo viso che non avrebbe più potuto rivedere, e al volto del suo assassino, sparito nel nulla. Era quella la sua personale missione: scoprire se i suoi sospetti erano fondati, se Shem aveva davvero ucciso suo padre e, soprattutto, se l’orologio c’entrava davvero qualcosa in ciò che era accaduto. Namar se la sarebbe cavata, in un modo o nell’altro.
Quando lo guardò, le sembrò di vederlo tremare appena. Il vociare divenne sempre più vicino, fin quasi a raggiungere la porta d’ingresso della bottega. Namar rivolse ad Abidos uno sguardo tagliente, minaccioso.
«Al primo scherzetto ti ammazzo.»
«Dobbiamo muoverci ora» Abidos si limitò a rispondere con un tenue sorriso, prima di rivolgersi al fabbro «c’è un’uscita secondaria?»
Il fabbro sorrise e, quando guardò Namar, assunse un’espressione soddisfatta.
«L’unica uscita è quella della bottega. A quanto sembra per poter fuggire dovrai mascherarti per bene.»
Senza neppure rendersene conto, l’elfo si ritrovò con le spalle al muro e un dolore sordo che si diffondeva sulla schiena. La gola era stretta nella mano di Namar, che digrignò i denti assumendo un’espressione che deturpò il suo volto già segnato dalla prigionia.
Fu un attimo, veloce come un battito di ciglia.
Sari si precipitò a dividere i due.
Abidos, alle sue spalle, la seguì.
La carnagione dell’elfo cominciava a diventare blu.
Tutti i rumori provenienti dall’esterno scomparvero, e l’unica cosa esistente fu solo un silenzio innaturale.
Poi, all’improvviso, lo sentirono.
Un rumore, tre colpi alla porta d’ingresso.
Una voce maschile.
Un ordine.
«Per ordine della Corporazione, aprite la porta!»
Sari si sentì morire, ma ciò che vide in Namar non sarebbe mai riuscita a descriverlo: era devastante.
Non avevano più via di scampo.
Li avevano trovati.

   
 
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