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Autore: Sylence Hill    14/04/2012    1 recensioni
Londra, 1835
Rachel Williams è un topo di biblioteca, sempre china con il naso infilato tra i libri. Ragazza di buona famiglia, con un padre fatto da sé e una madre che insiste sul matrimonio, ha un cuore buono e gentile, che ama incondizionatamente.
Ma è anche caparbia e testarda, che vuole affermare a quel mondo che tiene conto solo le apparenze che una donna può essere più che una semplice decorazione per la casa del futuro marito.
Non ha fatto i conti, però, con quello che il destino - al quale non crede - ha deciso per lei. 
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Genere: Romantico, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Sy Hill: Ringrazio a coloro che hanno recensito lo scorso capitolo.
LEGGETE E RECENSITE.
Baci, 

Sy Hill <3<3<3





Con movenze eleganti ed arroganti, sicure, Gabriel McHeart oltrepassò le porte del White’s. Com’era possibile?
*Perché era stato invitato lì da Lord Oscombt. Lui e Alarik.
Il suo amico Sioux, tuttavia, aveva declinato l’offerta. Considerava essere invitato in un club per soli uomini ricchi e facoltosi come andare in una tana di serpenti a sonagli.
Come dagli torto.
Anche Gabriel non si sentiva a proprio agio in quel posto pieno di sfarzo e ostentazione di ricchezze.
Lui, cresciuto in luoghi sconfinati, dove la ricchezza più importante era quelle che riuscivi a guadagnarti come il sudore e il sangue.
Le Highlands erano un territorio selvaggio dove un uomo veniva giudicato dal suo coraggio e non dal denaro che possedeva o il titolo di cui era investito.
Lui, che gia da quando aveva cinque anni, aveva dovuto combattere con i fratellastri per riuscire in qualunque cosa, che sia una corsa che uno scontro armato.
Lui, che aveva trincerato il suo cuore quasi privo di emozioni dietro un muro di ghiaccio e pietra.
Gabriel non si era mai sentito a suo agio da nessuna parte. Sia nel castello del clan McHeart che lì in Inghilterra, non aveva mai sentito quella forza che ti attrae, ti persuade a rimanere, e in parte era dovuto alle sue condizioni di nascita.
Era un bastardo, nato al di fuori del matrimonio, e per questo reietto della società scozzese.
Neanche sua madre aveva mostrato affetto per lui, poiché non l’aveva mai conosciuta. In un sera di ubriachezza, il padre si era lasciato scappare che era inglese e che ogni volta che lo guardava vedeva i suoi occhi. Ed era per quello che non poteva sopportare la sua vicinanza.
Bodherick McHeart, scozzese fino al midollo, lo aveva trattato con freddezza già appena nato.
Tutti quelli del villaggio lo trattavano come un appestato, le matrone quando incrociavano il suo sguardo, si facevano il segno della croce e sputavano a terra, come a scacciare il malocchio.
Ed erano proprio quel suo tratto in comune con la madre che aveva deciso di andarsene dalle Highlands e scoprire che cosa le era successo.
Sospirando, si lasciò cadere su una delle poltrone imbottite del club, mentre un cameriere gli portava un bicchiere di whisky, che aveva precedentemente chiesto.
Sorseggiando il liquido forte, si guardò intorno, pensando che inutile spreco di denaro.
Quel posto era il ritrovo di tutti gli uomini facoltosi, pieni di soldi da spendere. Giocavano a carte, puntando cifre assurde, si scommetteva su cose insensate, come in quanto tempo un tale lord avrebbe fatto capitolare una tale lady a concedergli le sue grazie.
Scosse la testa, definendoli un inutile massa di imbecilli senza giudizio né morale.
Come si poteva dare così poca importanza al denaro quando, sulla strada percorsa per l’avanscoperta della città, aveva visto la miseria che c’era per le strade dei bassi fondi?
Donne che si prostituivano, mercanti che imbrogliavano, bambini costretti a rubare per poter vivere un giorno in più…
« Laird McHeart. »
La voce gioviale di Lord Oscombt lo distolse dalle sue tenebrose elucubrazioni.
Il gentiluomo, di nome e di fatto, si sedette nella poltrona davanti alla sua, facendo segno ad un cameriere.
« Le ho spiegato che non sono più Laird. »
Lord Oscombt agitò una mano con noncuranza. « Mi scusi. Viene spontaneo chiamarla in quel modo, a sentire le storie che racconta il suo amico, Alarik Sunders. A proposito, dove si è cacciato? »
« Chiedo scusa a suo nome. Non è potuto venire, aveva un impegno improrogabile. » mentì Gabriel.
Il dispiacere pervase il gentiluomo. « Che disdetta. Mi sarebbe piaciuto scambiare altre quattro chiacchiere con lui. »
« Anche a lui. » Bevve un sorso di whisky, mentre Oscombt prendeva il suo appena portato dal cameriere. « Per quale motivo mi avete invitato… in questo luogo? »
Il gentiluomo ridacchiò. « Siete una persona molto schietta, nevvero? Mi piace. Non sopporto il girare intorno alla questione con sproloqui e simili. Meglio centrare subito il punto e toglierselo di torno. » Oscombt bevve un  sorso di liquore, facendo una smorfia al sapore amaro e forte. « Scommetto dieci sterline che il vostro è migliore. » disse, accennando con bicchiere.
« Vincereste la scommessa. » Gabriel posò il suo. « Allora? Perché mi avete chiesto questo incontro? Non mi sembra che abbiamo una qualche cosa in comune. Inoltre, mi pareva che gli inglesi non vedessero di buon occhio gli scozzesi.»
L’uomo fece in verso disgustato. « Non mi importa un’accidenti di quello che pensano le altre persone. Che voi siate scozzese o inglese o americano, poco importa. Preferisco valutare una persona dalla sostanza e non dalle dicerie che le persone senza cervello e paurose mettono in giro. » Bevve un sorso di whisky per schiarirsi la gola. « Vedete, vi ho chiesto di incontrarvi perché mi incuriosite. non è usuale che un highlander venga in Inghilterra, non senza un buon motivo. E mi sono chiesto: che motivo avete voi di lasciare le vostre montagne per venire nel nido di vespe? » Lo guardò fisso negli occhi. « Voglio mettere in chiaro una cosa. Non pensate che io sia uno di quegli uomini doppiogiochisti che girano per Londra, cercando la più vicina fonte di notorietà e gloria. Non ho intenzione né l’inclinazione a tirarmi un vantaggio da questa storia. Vedete, avete qualcosa, in voi, che rispecchia ciò che avrei voluto nel figlio che non ho mai avuto. » Il suo sguardo si adombrò. « La mia adorata moglie, che Dio l’abbia in gloria, è morta poco dopo avermi dato la mia adorata figlia, sua immagine sputata. Ma non è la stessa cosa. Sapete quanto può essere dura la vita per una donna in questi tempi e, non avendo potuto avere un erede maschio, ho istruito mia figlia come se lo fosse, ma facendola rimanere quello che è. »
« A cosa vi servo io, allora? » chiese Gabriel, dopo alcuni attimi di silenzio.
« Oh, voi non potete aiutarmi. Ma, come ho detto, voi sembrate il figlio che non ho mai avuto e… vorrei che consideraste l’ipotesi di voler lavorare nella mia azienda. »
La proposta sorprese Gabriel che non lo diede a vedere. Perché un inglese avrebbe dovuto offrirgli un impiego nella sua azienda? Partendo dal presupposto che non avrebbe accettato, la curiosità era forte.
« Dovrei considerarmi insultato da una simili proposta. » disse Gabriel, impassibile.
« Oh, no! Non è mai stata mia intenzione! Il mio amico, Lord Crafter, mi ha aveva informato che voi eravate in cerca di un’attività remunerativa. Per questo motivo, ho azzardato la mia proposta. Non ho mai avuto scopi offensivi. »
Gabriel gli credeva. Aveva un sesto senso per le persone bugiarde o false e Lord Oscombt non era né l’uno né l’altro.
« Non sono in cerca di un impiego, milord. Ho abbastanza denaro da potermi comprare una fabbrica e ristrutturarla. »
« Allora per quale motivo siete venuto in Inghilterra? » chiese francamente il gentiluomo, un tratto che anche Gabriel apprezzava.
« Motivi personali. » disse, evasivo, Gabriel.
« Se posso aiutarvi in qualche modo… » si offrì il gentiluomo.
« Non preoccupatevi, milord. » disse, alzandosi, subito imitato dall’altro. « È qualcosa che posso affrontare anche da solo. Ora, se volete scusarmi, ho un impegno improrogabile. »
« Certamente. È stato un piacere aver potuto parlare con lei. Spero di rivederla presto. » Allungò una mano.
Gabriel la strinse. « Anche per me. »
Uscirono fuori dal club. Gabriel osservò l’uomo salire sulla sua carrozza con lo stemma dorato e verde, cercando si schiarirsi le idee su quello che avrebbe fatto adesso.
 
*   *   *
 
Mentre richiudeva la porta della sua stanza alle spalle, sospirò profondamente.
Quella giornata era stata delle più stressanti e frustranti.
Si tolse la giacca sdrucita, che aveva indossato come camuffamento, gettandola sulla sedia accanto al letto dell’appartamento che aveva affittato per un mese, sedendoci poi sopra per togliersi gli stivali rovinati.
Sentiva di rumori di Alarik mentre prendeva una bottiglia di whisky dalla credenza nel salotto.
Era stata sua l’idea di travestirsi da garzoni, per poter girare liberamente nei bassifondi, senza dare nell’occhio, anche era quasi impossibile data la sua stazza e l’aspetto dell’amico.
Avevano setacciato quasi tutta la città, chiedendo in giro ad ogni donna e uomo se avesse mai servito in una casa, la cui padrona aveva i suoi stessi occhi.
Ma non aveva riportato alcun risultato, solo muscoli doloranti per colpa di una maledetta rissa di taverna per una qualche inverosimile accusa.
Alarik entrò, portando con sé la suddetta bottiglia e due bicchieri.
Per quanto beveva poteva essere considerato di patria scozzese. Da quando aveva assaggiato per la prima volta il liquore ambrato, non era riuscito a trovare un qualsiasi altro che potesse competere.
« Stai bene, amico mio? »
Gabriel, posandosi un avambraccio sugli occhi, reclinò la testa, emettendo un gemito.
« Non avrei mai pensato che avrei trovato un’attività più estenuante di allenarsi con la spada. Ma a quanto pare mi sbagliavo. »
L’amico ridacchiò. « Bevi questo. » Gli porse il bicchiere di whisky. « Ti aiuterà a sentirti meglio. E credo che potrebbe aiutarti anche fare un bagno. Sai, il tuo profumo di cavallo e bassifondi non è proprio il più soave degli odori. » ironizzò.
« Come se il tuo lezzo fosse più sopportabile del mio. » protestò Gabriel, mentre beveva.
Alarik suonò il campanello e, da lì a poco, comparve sulla porta un valletto.
« Desiderate, signore? » domandò rivolto a Gabriel.
« Preparateci il bagno. »
Senza una parola, il valletto scomparve alla vista.
« Non credo che mi abituerò a queste cose. » disse Alarik, mentre di fermava vicino alla finestra della stanza, che si affacciava sulla via sul retro dell’appartamento. « Essere serviti e riveriti, avere degli estranei che ti girano per casa, che ti preparano da mangiare, che ti vestono… » Scrollò le spalle. « Certo, ha un suo vantaggio, ma le cose basilari posso svolgere anche da solo. Non sono un’incapace. »
« Nessuno dice questo. » disse Gabriel, togliendosi la tunica sporca di dosso. « Tu sei abituato a cavartela da solo, dalle situazioni più banali alle più difficili. La tua diffidenza è più che giustificata, dopo tutto quello che l’uomo bianco ti ha fatto passare. È devo dire che sono contento di quel pizzico di fiducia che hai in me…»
« Io ti devo la vita, Gabriel. Se non fosse stato per te, quei bastardi di americani mi avrebbero torturato fino a ridurmi in fin di vita o sull’orlo della pazzia. »
Un sentimento fraterno passò tra di loro, riconoscendosi a vicenda come simili di uno stesso destino.
Poiché anche Alarik era un mezzo sangue per parte di padre, era stato sempre emarginato nella sua tribù. I capi tribù avevano appreso dallo sciamano che, tramite una visione inviatagli dal Grande Spirito, se lui fosse rimasto con la tribù avrebbe portato sventura su tutti loro.
Per questo, era stato scacciato alla stregua di un cane randagio, a perseguitato da chiunque incrociasse il suo cammino. All’epoca era solo un bambino.
Uno sciamano Cheyenne lo aveva trovato quasi morto dalla fame nel mezzo di una selva inaridita dal  caldo.
L’amico gli aveva raccontato che, da come il vecchio gli disse, lo aveva visto in una visione e avrebbe dovuto aiutarlo a raggiungere l’età in cui avrebbe potuto cavarsela da solo.
Così, lo aveva preso sotto la sua ala severa ed esigente, portandolo con sé su una montagna, dentro una grotta da cui aveva ricavato un rifugio.
Lì, lo aveva istruito come guerriero, insegnandogli l’arte della guerra, e come sciamano, trasmettendogli il suo saggio sapere e le sue arti magiche.
Gabriel aveva avuto un assaggio d’entrambe, ma contro le armi da fuoco degli eserciti coloniali neanche il migliore guerriero o sciamano riesce a resistere.
« Che cosa hai intenzione di fare, questa sera? » gli chiese il sioux, mentre si sdraiava sulla chaise longue. « Ti presenterai alla gabbia dei leoni per farti sbranare? »
Gabriel fece una smorfia a quelle parole, raddrizzandosi. « Non voglio neanche pensare a tutte quelle donne e quelle ragazzine che sbattono ciglia e civettano come cortigiane per attirare un povero allocco nella loro rete. » Finse di rabbrividire. « Però non posso mancare, visto che l’invito mi è stato perpetrato da Lord Oscombt. Sarebbe un insulto. »
« Perciò ci andrai. » concluse Alarik al suo posto, finendo il terzo whisky come se fosse acqua. « Mi dispiace per te, amico mio. »
Ma Gabriel alzò un sopracciglio e lo guardò con un mezzo sorriso compiaciuto. « Guarda che l’invito era anche per te, perciò il lord si aspetterà che ci sia anche tu con me. »
« Te lo puoi scordare! Io non mi immolo volontariamente alla forca! »
« Andiamo, non è che devi per forza stare nel salone con tutte le gentildonne e le debuttanti. Puoi anche salutare il padrone di casa e sua figlia e poi sparire per tutto il resto della serata nella sala gioco. »
Per un qualche motivo a Gabriel sconosciuto, gli occhi di Alarik si adombrarono.
« Che succede? »
L’altro scosse lentamente la testa. « Preferisco non parlarne. E non verrò al ballo. » annunciò.
« Oh, sì che ci verrai. Non mi lascerai da solo ad affrontare il pericolo, come non lo hai fatto finora. Mi serve appoggio e un paio di occhi in più, per vedere se riusciamo a trovare una qualche pista. »
Vedendosi messo alle strette, Alarik cedette con un sospiro. « Perché non mi hai lasciato morire in quella prigione? Mi sarei evitato tutto questo. »
Gabriel scosse la testa, stendendo un braccio abbronzato e muscoloso verso quello dell’amico, ancora più dorato, perché si stringessero l’avambraccio a vicenda, segno del loro legame fraterno.
« Perché non avrei mai lasciato mio fratello nelle mani di quei bastardi. »
Alarik, con un accenno d’assenso, li trasmise un messaggio: neanche lui avrebbe permesso che l’amico facesse quella stessa fine.
 
*   *   *
 
Aspettando che l’amico finisse di prepararsi, Gabriel andò nella piccola biblioteca e si versò due dita di whisky, guardando le carrozze apparire e scomparire sulla strada.
Dal riflesso sul vetro, si coglieva solo l’immagine della giacca nera fatta su misura, del panciotto bordeaux ricamato e della camicia bianca. I pantaloni richiudevano le cosce muscolose e scattanti, e la cravatta candida e perfettamente annodata sottolineava la linea decisa della mascella fresca di rasatura.
Se fosse stato nelle Highlands, il pantalone non sarebbe mai stato indossato, la giacca sarebbe stata un tartan con i colori del suo clan e le scarpe lucide due paia di robusti stivali per poter cavalcare, correre e combattere.
Doveva ammettere, però, che con quei vestiti da damerino faceva la sua figura. Dava quasi l’illusione di potersi confondere con i nobiluomini di Londra.
Eppure, qualcuno era riuscito a cogliere la sua vera natura.
Il ricordo di quella piccola lady gli riempì la mente.
Il suo viso dorato, così diverso dal pallore cadaverico che ogni debuttante si ostinava ad esaltare, gli occhi di un colore indefinito tra il castano dorato quando era calma e un verde bosco quando era in collera o sopraffatta dalla passione… come era capitato a lui.
Il corpo dalle forme ingannevolmente sottili alla vista, ma piene nei punti giusti al tatto. I capelli che variavano al seconda della luce, da un castano scuro ad un biondo dorato alla luce delle candele.
Ma quello che più lo aveva affascinato di lei erano state le parole pronunciate innocentemente, inconsapevole dell’effetto che avrebbero avuto su di lui.
L’imbarazzante situazione in cui erano entrambi capitati era spiacevole già di per sé e Gabriel aveva pensato che l’innocente ragazza avrebbe fatto una scenata, facendoli così scoprire in una posizione compromettente, in modo tale da intrappolarlo in un matrimonio riparatore, oltre che estremamente imbarazzante.
Ma, contro ogni sua aspettativa, non lo aveva fatto.
Fortunatamente, quella casa era appartenuta ad un Lord amico del suo Laird, al quale era stata prestata per qualche tempo – in seguito venduta ai Crafter –, prima di ritornare in Scozia e di divulgargli tutti i passaggi segreti che erano stati scoperti, tra qui quello della biblioteca.
E per mera coincidenza, loro erano capitati proprio vicino a quell’entrata.
Il suono soffocato dei passi di Alarik, distrasse Gabriel dalle sue elucubrazioni.
Il Sioux faceva la sua figura nell’abito tagliato su misura, simile a quello di Gabriel, ma con un panciotto grigio perla che richiamava il colore dei suoi occhi neri, mentre la camicia candida metteva in risalto il colore scuro come oro brunito della sua pelle.
« Vestito in questo modo mi sento maledettamente impagliato. » si lamentò Alarik, con una smorfia d’insofferenza.
« Vestito così, non sarò l’unico a richiamare l’attenzione delle donne nubili stasera. » ironizzò Gabriel.
« Ma io non sono un buon partito come te. » ciarlò l’altro.
« Neanche io lo sono, amico mio. Sono scozzese, anche se per metà, ma comunque scozzese. E questo per un inglese è peggio che essere un indiano d’america! »
 
*   *   *
 
Il ballo dato da Lord Oscombt era appena iniziato quando i due forestieri entrarono nel salone illuminato a giorno, richiamando l’attenzione generale su di loro, ultima cosa che entrambi volevano.
« Mi sembra di entrare in un arena con i leoni. » sussurrò Alarik, mentre il suo sguardo vagava per la sala  con timore.
Non poteva dargli torto. Qualcuno doveva aver sparso in giro la voce sul suo sangue scozzese perché molti dei nobili che, la prima volta che lo avevano incontrato e lo avevano salutato con sorrisi e strette di mano, in quel momento lo guardavano con diffidenza, persino con disprezzo, mentre altri lo guardavano con timore, scambiandosi le varie impressione tra loro, creando un brusio di sottofondo.
Alcune delle signore presenti in sala gli scoccavano delle occhiate di riprovazione, altre ancora lo guardavano con palese lascivia.
Cosa che gli faceva venire la nausea.
Alarik non se la passava altrettanto bene. Se per il suo amico scozzese la gente lo guardava male e basta, ad lui era toccato un trattamento peggiore, visto che chiunque si trovasse sul suo percorso si scostava da lui.
A volte, si chiedeva cosa diamine avessero da recriminare a qualcuno che non avevano mai conosciuto e che non aveva mai fatto loro del male.
Ma si ravvedeva subito, poiché qualsiasi cosa pensassero di lui, ad Alarik non importava più di tanto, considerato che non li avrebbe rivisti nuovamente.
In quel momento, si fece largo tra la folla Lord Oscombt, che venne loro incontro con un sorriso amichevole in volto, per poi stringere ad entrambi la mano.
« Che piacere vedervi. » sorrise. « Mi stavo chiedendo se avrei aspettato in vano o se vi fosse successo qualcosa nel tragitto. »
Magicamente, la musica ritornò a riempire la stanza, mentre la folla di curiosi continuava a spettegolare come una massa di comari.
Gabriel diede loro la stessa importanza che si dà ad una mosca, rispondendo al suo interlocutore.
« Non potevano non venire. Sarebbe stato scortese. E come promesso, mi ha accompagnato il mio amico, Alarik Sunders. »
Quest’ultimo strinse la mano al gentiluomo. « Sono contento di conoscervi. Vedo che quello che Gabriel mi ho detto è vero. Voi non siete come la marmaglia che avete invitato a questo ballo. » Un’occhiataccia dal suo amico lo fece smettere di parlare.
Ma Lord Oscombt, invece di sbatterlo fuori come si era prefigurato gridandogli dietro i peggiori improperi che conosceva, scoppiò in una sonora risata, assestandogli un paio di energetiche pacche dietro la schiena.
« E proprio come McHeart mi ha detto: voi non avete peli sulla lingua. » Asciugandosi una lacrima d’ilarità, gli indicò il lato destro del salone. « Venite, voglio farvi conoscere i miei amici più fidati. »
Condusse entrambi da una coppia che sembravano novelli sposi, a dispetto dell’età, osservando gli sguardi che si scambiavano, quasi stessero avendo una conversazione tutta personale, in un linguaggio precluso agli altri. Il braccio dell’uomo, alto e con la pelle baciata dal sole, con capelli indefiniti tra il castano scuro e il biondo dorato e con un’espressione gioviale in volto, stringeva il vitino di vespa della donna, con i capelli biondi e gli occhi più azzurri che Gabriel avesse mai visto.
Dovevano avere circa quarant'anni, ma si notava a malapena.
Quando Lord Oscombt li raggiunse, loro gli sorrisero cordiali e, a differenza delle altre persone, non li guardarono con diffidenza o disgusto.
« Williams, spero ti stia godendo la serata. » disse, mentre prendeva una mano della donna e le sfiorava le nocche con un baciamano. « Milady, siete incantevole come sempre. Molte gentildonne si chiedono quale sia il vostro segreto. »
« Il solito cascamorto, eh, Oscombt. » affermò Williams con un sorriso di falso rimprovero, stringendoli la mano. « E chi sono questi gentiluomini con cui vai in giro? Non mi sembra di conoscerli. »
« Permettetevi di presentarvi Gabriel McHeart e il suo amico, Alarik Sunders. »
Lord Williams si fece avanti a stringere loro le mani, scrutandoli con occhio indagatore. « Mi sembra di aver già sentito il vostro nome, sir McHeart. »
Gabriel strinse la sua mano, rispettando la fermezza della sua stretta. « Credo che lo abbiate sentito vociferare alla festa di compleanno, di una settimana fa, a casa di Lord Crafter. »
« Possibile, anche se non c’è stata occasione di presentarci visto che siamo dovuti tornare a casa per una malessere della mia signora. » sorrise a sua moglie, le cui cote si imporporarono di imbarazzo.
« Julius! » lo rimproverò lei, per poi girarsi verso i sue forestieri. « È un piacere fare la vostra conoscenza, signori. Non capita tutti i giorni che due aitanti gentiluomini facciano tanto scalpore quanto ne avete provocato voi questa sera. Ma, contrariamente a quanto dicono le malelingue, preferisco prima conoscere i soggetti di tale strepitio, prima di emettere una qualsivoglia sentenza. »
Un profondo rispetto invase i due uomini, portandoli ad apprezzare quella strana coppia londinese.
« Sono contento di sentirvelo dire, milady, poiché la maggior parte di quello che malelingue dicono di noi non sono altro che affermazioni dettate dalla fantasia e dalla voglia di avere qualcosa da dire, anche se poi è del tutto infondata. »
Un luccichio brillò negli occhi della gentildonna che, con un vago sorriso, si volse verso Alarik.
« E voi, silenzioso signore? Che cosa ne pensate di questa festa? »
« Posso essere sincero? »
« Non chiedo altro che la verità. »
« Credo che la gente debba imparare a preoccuparsi della propria vita, invece di inventare panzane su soggetti che non hanno neanche visto. »
Una cristallina risata sgorgò dalle labbra rosa della donna, il cui marito accolse con un sorriso le parole di Alarik.
 «Posso solo dire che è il ballo più delizioso a cui abbia partecipato in assoluto, Lord Oscombt. » affermò Lady Williams.
« Oh, troppo gentile. Ma, oltre alla notevole compagnia offerta da questi due gentiluomo, la magnifica organizzazione è merito di mia figlia. Se non ci fosse stata lei, avrei dovuto cancellare questa piacevole serata. A proposito di mia figlia, dove si è cacciata quella ragazza? Non la vedo da un po’.»
« Ora che mi ci fate pensare, » aggiunse Lord Williams, scrutando la sala. « Non vedo neanche mia figlia. Che siano insieme? Di solito, quando hanno occasione di vedersi, si appartano da qualche parte a chiacchierare. »
« Oh, non preoccuparti, Julius. Rachel è una ragazza responsabile ed è in compagnia di Wilhelmina. Sono certa che sono in giro con le loro amiche. » assicurò Lady Williams, agitando una mano.
Quello che la gentildonna non sapeva è che le due giovani donne erano sì nella sala ma, paralizzate dallo stupore, incapaci di credere a quello che i loro occhi vedevano.
 
*    *    *
 
Rachel Williams POV.
 
Eravamo appena tornate dalla toilette, dove Wilhelmina mi aveva raccontato alcuni pettegolezzi freschi di serata, quando avevo sentito come una sensazione di avvertimento, che mi aveva fatto rabbrividire.
« Che cosa succede, cara? Hai freddo? » mi aveva chiesto Wilhelmina.
« No, non è niente. » avevo risposto, scrollandomi di dosso quella sensazione.
Ora quasi arrivate al salone le chiesi: « Hai ancora incontrato le Gemelle Odiose? »
Un sorriso scaltro curvò le labbra della giovane. « No ma, a quanto mi ha detto la mia cameriera, Sue, la cui sorella lavora presso Lord Crafter, non potranno venire, poiché hanno entrambe un terribile mal di pancia. »
« E per quale motivo? » chiesi, con un’identica espressione sulla mia faccia.
« Le Gemelle hanno fatto indigestione di torta e sono confinate a letto da dopo il giorno del loro compleanno, con mal di pancia e nausea. »
Ridacchiando come due ladre appena entrate in possesso di un cospicuo bottino, attraversammo le porte che conducevano al salone, dove ci arrestammo di botto.
Il fiato mi rimase in gola, mentre il cuore accelerava i battiti.
Ecco a cosa era dovuto quello strano presentimento, pensai.
Dall’altra parte della sala, proprio accanto a i miei genitori, se ne stava la figura imponente, fasciata alla perfezione da un abito nero, di Gabriel McHeart.
« Non può essere. »
Non potevo credere che l’uomo, il quale solo una settima addietro mi aveva salvata da una situazione compromettente per poi farmi provare per la prima – e credevo ultima – volta l’ebbrezza della passione, fosse nella stessa sala, nella stessa casa in cui c’ero anche io.
Mi accorsi, con un po’ di ritardi che le mie parole erano state echeggiate da Wilhelmina, la quale guardava anche lei con occhi sgranati nella stessa direzione.
Che stesse guardando anche lei McHeart?
Inaspettatamente, una fitta di quella che non volli riconoscere come gelosia, mi attraversò.
Ci guardammo in volto nello stesso istante.
« Tu… » dissi io.
« Lui… » sopraggiunse lei.
Ci guardammo negli occhi e dicemmo insieme: « Riunione. »
Così come eravamo entrate, uscimmo dalla sala per rifugiarci in una alcova poco distante, lontano da orecchie indiscrete.
« Non ci posso crede! » proruppe lei, stringendo i pugni. « Come ha potuto, quel… verme venire qui!? Argh, avessi il suo collo tra le mani io…»
« Wilhelmina calmanti. Dimmi una cosa. Di chi stai parlando? »
« Di chi sto parlando?! » esclamò.
« Ssh! Abbassa la voce, potrebbero sentirti. »
« Sto parlando di quel maledetto indiano, proprio davanti a mio padre! » rispose, abbassando il tono.
Un fastidioso senso di sollievo mi invase. « Quindi non stai parlando di… » m’interruppi, chiedendomi se avrei dovuto dirle di Gabriel McHeart.
« Di chi dovrei parlare? A chi ti riferisci? » mi chiese, guardandomi con attenzione.
« Ecco… io… c’è una cosa che… non ti ho detto. Ma non arrabbianti. L’ho fatto solo… beh… il fatto è che… » le raccontai a grandi linee di quello che era successo al compleanno delle gemelle, evitando di esporle anche la parte passionale della serata.
Lo sguardo ferito di Wilhelmina mi fece rimpiangere di non avergliene parlato subito. « Ti chiedo scusa, se non te l’ho detto subito. Il fatto è che… »
« Avevi paura che ti avrei giudicata male?»
« In parte e perché mi vergognavo di dirti a quello a cui avevo assistito, anche se non prettamente visto. »
« Va bene, posso capirti. »
Restammo in silenzio per qualche istante, entrambe perse nei nostri pensieri.
« Che facciamo? » chiese poi Wilhelmina. « Ho… timore di quello che potrebbe succedere. Non saprei come comportarmi con quella canaglia. E se poi iniziamo a litigare nel mezzo della serata? No, faccio mandare una cameriera ad avvisare mio padre che non mi sento bene e mi rinchiudo in camera fino a che non se ne va. »
« Wilhelmina! » la rimproverai. « Ma che dici? Non è quello che mi sarei a spettata di sentirti dire! Di solito sei tu quella coraggiosa, che affronta ogni ostacolo a testa alta. »
« Lo so. È solo che… » sospirò, appoggiandosi al muro. « È come se, quando mi trovo vicino a quell’uomo, questi tirasse fuori la parte peggiore di me. Mi sprona a rispondere tono su tono, anche se quello che dirò sarà una cattiveria. Io non mi sono mai comportata così con un uomo. »
« Allora non permettergli di farti comportare così. Non permettergli di comandare su di te. Affrontalo a testa alta e con grazia, rispondendo a qualsiasi cosa offensiva o vagamente tale con una carezza tagliente. »
Prendendo un respiro profondo, Wilhelmina raddrizzò le spalle e annuì a sé stessa.
« Giusto. Io sono una gentildonna e non mi abbasserò al livelli di uno scaricatore di porto. »
« Un po’ esagerato, ma va bene. »
« E tu? » chiese poi lei. « Cosa farai? »
« Niente. » risposi, dopo aver riflettuto sulla questione. « Farò finta di non conoscerlo e cancellerò dalla mia testa l’esperienza che abbiamo vissuto. »
Ma sarei stata in grado di cancellare anche il ricordo di quel magnifico bacio?
Scossi la testa, per non pensarci. Presi a braccetto la mia amica ed entrambe, annuendo a vicenda, uscimmo dal nostro nascondiglio pronte ad affrontare le nostre sfide.
 
  
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