Libri > Harry Potter
Segui la storia  |       
Autore: Nykyo    11/11/2006    9 recensioni
Quale rapporto lega Albus Silente e Severus Piton? Qual è la vera natura di Silente: è solo un abile stratega, un condottiero che muove le sue pedine sulla scacchiera della guerra, o è anche un uomo, capace di paterno affetto? La vicenda dei diciassette anni trascorsi da Piton e Silente, fianco a fianco, raccontata dal punto di vista di chi, come il Preside, ha fiducia in Severus Piton.
Questo racconto ha vinto il primo premio al concorso "Piton e la Giustizia" del Sotterraneo di Piton
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Albus Silente, Severus Piton
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
 <<    >>
Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

PARTE QUINTA: Ciò che è giusto.

 

1. Una spia che non sa mentire a se stessa.

 

 

Anche se aveva voltato le spalle al Preside con fare spavaldo e determinato, chiudendo bruscamente il discorso, Severus Piton non era affatto sereno.

Raggiunti i suoi alloggi nel sotterraneo si era lasciato cadere sui rigidi cuscini della sua alta poltrona, scuro in viso come un tempestoso temporale invernale.

Era agitato più di quanto non fosse solito tollerare da se stesso e si detestava per aver lasciato che Silente gli parlasse con tanta sincerità.

Quando il vecchio manteneva determinate distanze era tutto più semplice; lui poteva fingere che quel divario tra loro esistesse davvero. Poteva mentire, raccontando a se stesso che, sì, stimava immensamente il canuto stregone, sia come uomo che come combattente, ma niente altro che questo.

Ogni volta che Silente si comportava come quel giorno, però, al giovane mago bruno era impossibile nascondere che provava anche e soprattutto affetto e riconoscenza per il Preside.

Normalmente questo non gli causava altro che forte imbarazzo.

Non era avvezzo a quel tipo di sentimenti tanto filiali, così diversi da quelli che aveva provato in passato per i suoi pochi amici e che ancora provava, nonostante tutto per Lucius Malfoy e per la sua famiglia.

Non che gli paresse strano o in qualche modo sgradevole provarli, ma lo facevano sentire scoperto e vulnerabile, nonché inadeguato e debole.

Era felice che Silente fosse affezionato a lui ed era certo che così fosse, anche se, per vari motivi, non ultima una muta convenzione tra loro, il vecchio non lo dimostrava quasi mai con parole dirette o con i normali gesti con cui solitamente si dichiara agli altri il proprio bene.

Se si fermava a riflettere, si rendeva conto che gli sarebbe parso insopportabile stare accanto a Silente se questi davvero avesse visto in lui solo un Professore e un’abile spia; solo uno strumento privo di dignità.

L’affetto del Preside, sebbene spesso, a causa dei propri rimorsi, pensasse di non meritarlo affatto, lo riempiva d’orgoglio e lo faceva sentire più vivo.

Perché sei ancora qualcuno quando c’è chi si preoccupa per te, soffre con te, spera in te.

Altrimenti, non sei che un nome su un registro e quando l’inchiostro sbiadisce del tutto, nemmeno tu esisti più.

Sì, Severus era felice che Silente tenesse a lui.

Ma non sapeva rapportarsi facilmente a questo tipo di sentimenti tanto profondi. Ne aveva paura e, imbarazzato, finiva sempre col diventare ancora più arcigno, ogni volta che doveva affrontarli.

Le poche volte che Silente – e in qualche occasione, a dire il vero, gli era accaduto anche con Minerva McGranitt – si permetteva un comportamento particolarmente aperto e affettuoso, gli alunni di Hogwarts finivano, senza sapere il perché, col maledire un Professor Piton più che mai acido e intrattabile.

Ma questa volta era diverso. Silente aveva parlato troppo e mostrato, volontariamente, troppo di sé e non si trattava di un’occasione qualsiasi.

C’era in gioco la vita del vecchio.

Questa volta Piton non provava solamente imbarazzo, né poteva fingere che il problema fosse il proprio carattere schivo.

Il problema è l’assurdità che pretendi di farmi digerire, Albus.

E’ la cosa orribile e impensabile che vuoi farmi fare.

Il problema è che detesto anche solo l’idea di poter compiere ciò che mi chiedi, che ne sono nauseato e sconvolto e mi fa orrore, ma, dannazione, me lo chiedi in un modo che mi distrugge.

Il tuo affetto può essere un arma, Albus, anche se tu non lo capisci. Un arma che può ferirmi e da cui non so come difendermi.

Merlino! Quanto vorrei che tu fossi davvero solo un vecchio pazzo. Poter dire a me stesso: Ad Albus ha dato di volta il cervello, sarà l’età, sarà la sua salute incerta, è impazzito.

Ma non amo negare l’evidenza; tu non sei pazzo, non hai perso un briciolo della tua dannatissima invidiabile lucidità.

Come vorrei non tenere così tanto a te, che tu fossi soltanto il Preside e il comandante d’uomini per me, non Albus Silente.

Se solo tu non fossi importante per me, ma solo un mezzo per raggiungere i miei fini: sconfiggere una volta per tutte il mio passato.

Ma sapeva fin troppo bene che non era così. Contro ogni evidenza, per quanto questo rischiasse di fargli saltare i nervi, già fin troppo tesi, doveva riconoscere che non era così.

Merlino, quanto ti odio a volte per quel tuo aver sempre ragione, per la causa, perché mi conosci così intimamente, perché non riesco a non volerti bene!

No, non ci riusciva, così come non riusciva a soffocare con l’usuale gelo il turbamento dovuto all’ultima discussione col vecchio.

Tutto quel che avrebbe voluto, che bramava con tutto se stesso, gli pareva terribilmente irraggiungibile.

Avrebbe desiderato che non esistesse alcun Voto. Non per timore di perdere la propria vita; ormai era arrivato a considerare la morte una liberazione. Chiudere gli occhi per sempre non poteva che significare finalmente l’oblio. Niente più rimorsi, niente più dolore, non più il ricordo di capelli rossi scomposti dal vento scozzese e occhi verdi che avevano saputo guardarlo con compassione e simpatia, ma mai con l’amore che avrebbe voluto leggervi. Mai più quella sensazione straziante di avere nelle narici l’odore del sangue o un aroma sottile, che sapeva di primavera e di fiori, ma che, solo sulla pelle di qualcuno che non sarebbe tornato mai più, aveva saputo inebriarlo fino a stregarlo.

No, non temeva la morte, ma se non ci fosse stato alcun Voto Infrangibile, Silente non avrebbe potuto domandargli quell’enormità. Lui avrebbe potuto lottare, a costo di giocarsi la sua copertura di spia; battersi accanto al Preside per fermare Draco e salvare la vita che gli veniva chiesto di spegnere.

Avrebbe voluto trovare una formula, un’indicazione, su come spezzare definitivamente la maledizione che anneriva e bruciava la mano di Silente, spandendosi sempre di più nelle vene del vecchio.

Ma non c’era ancora riuscito, anche se la sua scrivania, solitamente così ordinata, era divenuta una selva di libri e pergamene. Alte pile di un sapere che per la prima volta gli pareva tremendamente inutile, perché non vi aveva trovato la risposta che cercava con ansia.

Avrebbe voluto che non ci fosse in gioco anche l’anima di Draco, a ricordargli di continuo il secco ragazzo bruno che lui stesso era stato, inginocchiato a lasciarsi marchiare a vita, come un’animale da macello.

Avrebbe preferito non leggere mai nella mente di Silente, ciò che aveva scorto, con una certa nitidezza e che gli era impossibile negare. Tutti quei sentimenti lasciati liberi di fluire fino a lui, senza più maschere. Quel cuore che Silente aveva deciso, una volta tanto, di portare sul bavero, come avrebbe desiderato disconoscerlo, non vederlo, ignorarlo.

Altrettanto avrebbe voluto fare con ciò che il vecchio gli aveva confessato sul proprio rimpianto.

Com’è possibile, Albus, che tu provi tanto rincrescimento per non aver tentato di fermarmi in tempo? Non ero nessuno per te allora, nessuno. Solo uno studente tra tanti.

Possibile che tu mi avessi già compreso così a fondo, solo osservandomi?

Ma sentiva che il Preside era stato sincero; realmente la sua coscienza lo tormentava per il fatto di essere rimasto solo a guardare.

Del resto, negli ultimi tempi era chiaro che Silente non ne poteva più del suo solito modo di agire: attendere, aspettare fino all’ultimo momento possibile, prima di muoversi e far scattare qualunque meccanismo strategico avesse architettato.

Albus era diventato impaziente e insofferente al fatto di rimanere indietro e lasciare che i suoi collaboratori portassero a termine i suoi piani.

Vuoi combattere in prima linea, Albus, non è così? Uscire da dietro le quinte.

Sì, non hai fatto altro ultimamente: sei andato di persona al Ministero e a cercare quel dannatissimo anello.

Perché? Per Potter? O perché non sopporti più il tuo ruolo esclusivamente da saggio stratega?

Ti sei stufato di essere la mano che muove le pedine sulla scacchiera? Vuoi diventare tu stesso un pezzo che avanza, casella dopo casella, per dar scacco al re?

Ora, con la scusa della maledizione che non sono ancora riuscito a fermare, vorresti metterti ancora più in gioco, totalmente.

Ma non è al nemico che stai offrendo la vita, vecchio, e a me, e io non voglio e non posso accettarla.

Eppure le ultime parole di Silente continuavano a tormentarlo: “Draco è come te, Severus… posso ancora stendere la mano e frenare la sua caduta prima che si ferisca come è accaduto a te… non mi resta molto tempo, ma ti assicuro che me ne andrò in pace con me stesso, sapendo quel ragazzo al sicuro… “.

Draco è come te. Come te…

Sì, Draco era come lui, in bilico, sull’orlo di un precipizio senza fondo e Severus per primo non voleva che cadesse.

Quel giorno lontano in cui era corso da Silente a domandare aiuto non aveva potuto fermare il se stesso dei ricordi. Aveva stretto solo un pugno di niente, dentro il pensatoio, mentre gli pareva di impazzire a causa del rimorso e dell’impotenza.

Aveva pregato, lo ricordava ancora distintamente, perché Silente facesse smettere quel ventenne immaturo e sbagliato, perché lo facesse smettere di essere ciò che era; ciò di cui provava orrore e disgusto.

Anche per questo, ormai lo sapeva, era andato dal vecchio, tanti anni prima, perché qualcuno lo aiutasse a cessare di essere ciò che non voleva più essere.

E tu, Albus, hai esaudito quel mio desiderio. Mi hai teso la mano e mi hai mostrato chi ero realmente e cosa avrei potuto fare di me stesso.

Ma nemmeno tu, quando eravamo immersi nel pensatoio, hai potuto fermare la follia dell’odioso assassino che ero stato, perché il passato non si cancella, solo il futuro può essere ancora mutato.

Nemmeno tu, Albus, hai potuto far cessare quello strazio, ma hai ragione: io e te non possiamo tornare indietro e levare la bacchetta di mano al Severus Piton che era, prima che si macchi indelebilmente l’anima, però possiamo fermare Draco.

Possiamo farlo smettere, prima ancora che cominci realmente il suo incubo. Non siamo impotenti rispetto al ragazzo.

Questo non poteva assolutamente ignorarlo.

E Silente aveva ragione anche nel dire che lui non viveva più. Non una vera vita da tanto, troppo tempo.

Certo, c’era chi credeva che a lui bastasse il piccolo mondo in cui si era rinchiuso: insegnare, senza negare nulla del proprio carattere tagliente agli studenti, essere il più temuto professore di Hogwarts. C’era chi credeva che questa fosse la sua massima soddisfazione e gli bastasse, che potesse essere definita vita.

Rise, amaramente, senza alcuna gioia. Una risata che tagliava più di una lama, facendolo sanguinare dentro.

Ma sì, perché non dovrebbero pensarlo? Perché non dovrebbero credere che mi basti un trastullo simile, che io sia tanto meschino e piccolo da chiamare questa esistenza vita?

Che possono saperne tutti gli altri del fatto che ho freddo e nemmeno al più incandescente dei bracieri riesco a scaldarmi?

Perché mai Severus col suo animo contorto e la sua indole corrosiva dovrebbe desiderare di più; volere ciò che tutti vogliono: calore, amore, una famiglia? Che senso avrebbe? Nessuno, io sono sempre stato diverso perché non dovrei esserlo anche in questo? Non è così?

Che possono saperne gli altri del fatto che ormai mi sento vivo davvero solo quando la mia vita è in gioco; sotto gli infuocati occhi di rettile dell’Oscuro Signore, mentre la sua mente violenta la mia e tutto corre veloce su una corda sottilissima e affilata.

Solo allora, specialmente mentre riesco a ingannarlo, mentre la mia anima ruggisce di rabbia per il modo disgustoso in cui si permette di insozzare anche i miei pensieri, come se non avessero alcun valore, mi sento vivo sul serio. Mentre spero, a volte, che Lui comprenda i miei veri intenti e mi legga il disprezzo nel cuore, perché tutto sia finito, allora io esisto davvero.

Ed è una sensazione che odio! E’ orribile che il sangue che mi pulsa nelle vene acquisti un senso solo quando Lui mi piega e mi umilia, quando godo del fatto di potergli resistere, o mentre spero che il mio cuore cessi di battere.

Non è questa la vita che vorrei, ma quella che tutti gli altri possiedono, che non manca di dolori, noia, banalità infinita, ma che è vera, sensata, pulita.

Una vita che, nonostante tutto, a volte bramo così tanto che mi detesto, perché non ha più senso sperare. Nessun senso, perché non la merito, non è fatta per me.

Non posso confondermi tra le persone comuni, non voglio, perché sono diverso, lo sono sempre stato, e ho finito col diventarlo ancora di più, quando ho fatto di me stesso un assassino.

Non sono come tutti gli altri, faccio parte di una ristretta cerchia, cui farei qualunque cosa per non appartenere.

Oh, il giovane mago figlio di un umile mediocre babbano ha fatto strada, quando ha lasciato la scuola, è entrato a far parte di una meravigliosa sceltissima elite. E il prezzo? Mi è stata domandata in cambio solo la dignità e l’anima, ma ho ricevuto una splendida maschera, che non vuol saperne di abbandonarmi e incubi in abbondanza con cui forgiare il mio allegro carattere.

Una risata ancora più vuota e sterile gli fece fremere le labbra sottili.

No, non posso vivere davvero, non con i rimorsi che mi bruciano il petto; non la vita di un uomo qualunque e nemmeno quella di chi come me ha soffiato sull’esistenza altrui spegnendola, come si fa con la fiamma di una candela.

No grazie, ho pagato comunque il prezzo, che l’Oscuro Signore non si preoccupi, salderà il conto ma non domanderò a Lui la mia anima indietro. Dovrà ridarmi solo la mia dignità e che si tenga pure il suo mondo di aristocratiche terribili glorie.

Sono in bilico tra due vite, che altro potrei fare se non limitarmi a sopravvivere, Albus?

Ma era vero, inesorabilmente vero, quel che aveva detto Silente: Draco aveva ancora un avvenire, speranze appena dischiuse dinnanzi a sé. Draco non avrebbe mai dovuto trovarsi in quella situazione orribile, a scegliere tra l’esistenza piena ma folle che Voldemort elargiva ai suoi e un gelo interiore, senza fine.

Il ragazzo poteva ancora decidere di abbracciare una vera vita.

Si strofinò le tempie con le dita, vigorosamente, come a tentare di schiarirsi le idee, ma le parole del Preside erano penetrate troppo a fondo e non gli davano tregua.

Come un sasso gettato in acque immobili, si diffondevano in cerchi sempre più ampi, inarrestabili.

Me ne andrò in pace con me stesso…

Un altro cerchio ancora ad increspare il liquido nucleo dei suoi sentimenti, impedendo al ghiaccio che lui avrebbe voluto riportarvi di riformarsi.

Oh, Albus. In pace, io non lo sono mai stato. Mai.

L’ironia dipinta sul suo viso si fissò dolorosamente agli angoli della bocca, segnandogli il viso con rughe troppo profonde per la sua età.

Mai. Anche prima di avere rimorsi così feroci da dilaniarmi l’anima.

A volte sono stato sereno, magari comunque fiero di me, ma mai realmente in pace. Ho sempre avuto troppi tarli a rodermi dal di dentro.

Non so cosa voglia dire essere in pace con se stessi, ma so bene cosa significa non esserlo.

So che gelo portano con se i rimorsi e le colpe che ti schiacciano il petto; il rimpianto per ciò che poteva essere fatto e per ciò che non avresti mai dovuto fare.

Lo so con certezza lancinante, perché lo sperimento ogni giorno, da una vita.

Soltanto, ho sempre creduto che tu, Albus, ne fossi immune, che non conoscessi quella sensazione di amaro che ti pervade la bocca e il cuore, quando ti volti indietro a guardare e quel che vedi è un altro te stesso con il volto di un giudice, accusatore.

Non avrei mai pensato che io e te condividessimo addirittura il medesimo rimorso.

Non hai idea di quante volte, nel buio della notte e nella mia oscurità personale ho rivisto quel ragazzo appena diplomato, pallido e cupo, con i capelli neri sempre sugli occhi, che mi guardava col rancore del rimprovero nei lineamenti. I miei stessi lineamenti, a rinfacciarmi che ho sbagliato, che non dovevo compiere scelte folli e tremende, che comunque avrei dovuto trovare la forza di tirarmi indietro molto prima.

Il mago bruno dovette lasciar andare un prolungato sospiro che ruppe l’immobilità in cui si era cristallizzato il suo corpo mentre rifletteva, facendo affiorare più vita del solito dai suoi composti, affilati, lineamenti.

Lo vedi anche tu? Fa visita anche a te, quella giovinezza gettata via? E’ questo che cercavi di dirmi? Che anche contro di te, il ragazzo che ero punta il dito accusandoti per quel che nessuno gli ha impedito di diventare?

Sbagli, vecchio. E’ un errore, dannazione, non è tua la colpa è mia, solo mia e di nessun altro.

Ma fa male che tu non lo capisca, che voglia rimediare al punto di donare te stesso per me e Draco.

Fa male pensare che non te ne andresti in pace, se fosse Draco ad ucciderti o se, comunque, non ci fosse via d’uscita per lui.

Sarebbe il peggiore dei fallimenti per te, lo so, l’ho capito, essere ucciso proprio da Draco.

Ma credevo che bastasse fermare la sua mano quando tenterà ancora di levarla contro di te.

Invece non ti basta, è questo che volevi farmi capire.

Non è sufficiente.

Lentamente riaprì gli occhi e sollevò in alto la manica a scoprire per l’ennesima volta l’avambraccio. Seguì rudemente i tratti del Marchio che gli deturpava la pelle, premendo con i polpastrelli con forza, fin quasi a graffiare l’epidermide tesa.

Una volta, Albus, pur non sapendo che ti ascoltavo, hai promesso che avremo lottato insieme per far sparire dal mio braccio il Marchio Nero. So che non intendevi parlare soltanto del simbolo, di questo teschio ghignante.

Parlavi di me, delle mie macchie, e della mia libertà. Hai promesso di lottare perché io non fossi mai più uno schiavo, perché gli incubi lasciassero finalmente le mie notti.

E io te ne sono stato grato e ti ho sentito accanto più che mai.

Ora ti sei messo in testa che vuoi fare lo stesso con Draco, anzi di più, che vuoi che lui non arrivi nemmeno al punto dolorosissimo di rendersi conto che non ha più speranze, futuro, e dignità; ma solo incubi e un padrone che, nonostante tutto, può sempre arrogarsi il diritto di umiliarlo come un servitore.

No, non sono più lo schiavo dell’Oscuro Signore, ma non sono nemmeno libero da lui, anche se lo combatto.

Essere trattato da lui come un servo non è meno umiliante solo perché la mia obbedienza è pura finzione, non è meno degradante portare il suo Marchio ignobile. Serve solo a farmi detestare di più le mie colpe e colui davanti al quale devo ancora costringermi a piegare il capo e le ginocchia.

Voldemort. Non ho mai smesso di chiamarlo Oscuro Signore, perché non desidero negare a me stesso la realtà: ero suo, e porto ancora il segno del suo possesso, questo simbolo che detesto con tutto me stesso.

Sì, Oscuro Signore, così lo chiamerò sempre, finchè non potrò davvero rivendicare apertamente la mia libertà e dignità dinnanzi ai suoi occhi di fuoco.

Allora, quando questo accadrà, solo allora, non avrò più motivo di dargli altro nome che il suo, quello che ha scelto per sé, per portare il terrore e possedere ogni potere.

Allora non avrò né timore né ritegno nel chiamarlo Voldemort, o forse addirittura Tom, come l’uomo che vuol negare di essere.

Sì, Tom, Tom Riddle, perché ho sempre pensato che sarebbe venuto il momento in cui avrei potuto affrontarlo da pari a pari, solo un uomo dinnanzi ad un altro uomo.

Ma forse non accadrà mai, posso rinunciarci, se il prezzo da pagare è la tua vita Albus.

Eppure vorrei davvero che Draco non diventasse l’ennesimo degradato servo di un simile padrone.

Non vorrei che tu avessi simili rimpianti, Albus, perché so quanto possono ferire.

Stese le lunghe gambe e socchiuse gli occhi, respirando piano, tentando di scacciare dalla mente il ricordo di quella notte in cui il Preside aveva parlato troppo, credendolo addormentato.

Inutile; la figura snella di Silente, china su di lui, senza alcuna finzione o schermo a sussurrargli parole paterne solitamente trattenute, non voleva abbandonarlo.

“Quelli come noi, Severus, raramente muoiono nel proprio letto, ma almeno cadono dignitosamente, adempiendo al dovere, lottando per ciò in cui credono” – la voce del vecchio gli rimbombava nelle tempie, mentre il sangue pulsava e pulsava, inesorabilmente dolorosamente.

“Tu sei come me” – aveva detto il Preside – “Io e te, se proprio dobbiamo morire, preferiremo farlo combattendo con onore, non come vigliacchi che tentano di sottrarsi al nemico”.

No non come vigliacchi, Albus, è vero, e tu mostri coraggio nel voler rinunciare alla tua vita.

Ma io? Hai idea di quanto coraggio mi ci vorrebbe per fare ciò che mi chiedi?

“Dannazione, sì che ce l’hai!” – ruggì alla stanza vuota, incapace di trattenere quelle parole solo nella mente.

Si alzò, voltandosi di scatto, e spazzò la scrivania col taglio della mano, facendo crollare le pile di libri e rovesciando il calamaio colmo di inchiostro scurissimo.

Il liquidò si sparse sul piano di legno, imbevendo alcune pergamene e schizzando sulle rilegature dei libri, macchiandone le costole istoriate.

Era furioso, con se stesso, col vecchio e con il mondo intero. Talmente colmo di rabbia da sentirne il metallico sapore sulla lingua, mentre si mordeva a sangue il labbro inferiore.

Essersi lasciato andare accese ancora di più le fiamme dell’ansia che premeva per farsi furia e trovare finalmente sfogo.

Raccolse la boccetta dell’inchiostro e la scagliò con forza contro il muro segnato dal tempo, dinnanzi a sé.

Nemmeno il secco schiocco del vetro che esplodeva in minutissime schegge servì a placarlo.

Aveva bisogno di tirar fuori tutto ciò che gli strozzava la gola, e si era già trattenuto abbastanza davanti a Silente.

Non gli bastava più lasciar correre i pensieri, il dolore che aveva preso a tormentargli il petto doveva farsi voce, o l’avrebbe sommerso.

Pensò intensamente all’incantesimo di insonorizzazione; le spalle che si alzavano e abbassavano troppo bruscamente, mentre il respiro si faceva più corto.

Poi esplose, con foga selvaggia, come sempre gli accadeva le poche volte che il suo ferreo autocontrollo lo abbandonava.

“Come puoi chiedermi di uccidere ancora; di uccidere te, Albus?” – gridò, come se avesse davvero il canuto stregone davanti agli occhi, ora ridotti a due fessure di tenebra – “Dannato vecchio, tu lo sai cosa vuol dire per me. Come puoi chiedermi proprio questo? Dici che soffri ogni volta che mi sai fuori nell’oscurità, dici che ti rimorde la coscienza per aver lasciato che buttassi via l’anima e ora vuoi condannarmi a tornare realmente nell’incubo? A immergermi nelle tenebre senza più te e Hogwarts a cui tornare, a cui pensare per resistere ogni volta che sto per crollare? Oh, certo, tu hai mille ottime ragioni: la causa, Draco, il tuo dannato affetto per me e la maledizione dell’Horcrux. Ottima scusa la maledizione, Albus, davvero ottima… e immagino che dovrebbe essere più facile e indolore ucciderti dato che probabilmente hai comunque i giorni contati. Che dovrebbe essere nulla più che un attimo, senza rimorsi, tanto si tratta di spegnere una vita già segnata e io comunque sono e resto un assassino. Nulla che io non abbia già fatto in passato. Semplice, normale… avrei perfino il tuo consenso; nulla di cui io debba soffrire o rimproverarmi. Bella scappatoia, Albus. Comoda, comodissima scusa per un eroico sacrificio paterno che non ti ho mai chiesto. E’ egoista la tua pretesa, è un affetto che mi fa male, non lo voglio!”.

Si voltò svelto verso la finestra a feritoia che si apriva nel muro alle sue spalle, mentre le parole gli morivano nuovamente in gola. Aveva bisogno d’aria; non poteva credere che stesse accadendo realmente. Non a lui.

Com’era possibile che proprio lui si trovasse a lottare ancora con il sentimento, dopo una vita spesa a sopprimere ogni emozione, ad annegare nel sarcasmo ogni scintilla di sciocca emotività?

Come, quando aveva deciso da una vita di divenire solo ferrea logica e beffarda ironia, assecondando il lato peggiore del suo carattere anche per scordare ciò che avrebbe potuto essere e non era mai stato?

Ti odio, Albus!

Merlino! Quanto ti detesto per quel che mi stai facendo, per quel che vuoi farmi.

Ti odio perché hai ragione, su troppe cose, come sempre; perché mi vuoi bene al punto di voler morire per me. Perché mi vuoi bene davvero.

Perché non puoi disprezzarmi e basta, Albus? Disprezzami, come tutti gli altri.

Perché non puoi solo usarmi? Perché vuoi donarmi ciò che non chiedo e non merito?

Ti odio perché non vuoi lasciarmi andare e pretendi di condannarmi a vivere.

Ti odio perché finisco sempre col perdonarti, perché non riesco a detestarti davvero, perché mi fa male l’idea di uccidere, ma se è la tua vita fa ancora più male.

Ti odio perché mi è difficile negarti qualunque cosa, quando me la domandi col cuore.

Ti odio perché mi chiedi di mostrarti ancora una volta la mia lealtà in questo modo atroce, perché mi stai domandando di dirti che ti voglio bene con il lampo verde di un incantesimo terribile, lacerandomi l’anima.

E ti odio perché hai ragione anche su questo: sì, tengo a te, ci tengo maledettamente! Ci tengo come se tu fossi mio padre. Più che alla causa o al mio desiderio di rivalsa. Più che alla mia vita.

Ti detesto, perché mi hai perdonato per quel che sono, perché mi hai assolto dalle colpe da cui io non so assolvermi e questo non riesco a scordarlo. Non posso dimenticare che tu credi in me e che non ti importa delle macchie che mi sporcano l’anima.

Lasciami andare, Albus, per favore, lasciami andare.

Quanto mi detesto per il fatto che non posso odiarti davvero.

Ti prego, Albus, lasciami andare.

Chinò il capo e lo tenne premuto contro la pietra per lunghi, interminabili, minuti.

Non si sentiva meglio, e la rabbia continuava a roderlo dal di dentro, ma finalmente fu di nuovo in grado di riprendere la propria flemma esteriore.

Tutto purché non venissero anche le lacrime. Non avrebbe sopportato di piangere. Sarebbe equivalso ad arrendersi, a confessare a se stesso che il vecchio aveva vinto.

Il respiro era tornato a farsi regolare, mentre spingeva con forza i palmi delle mani aperte contro la ruvida pietra del muro, ai lati della minuscola finestra.

Un ennesimo sorriso sghembo e contratto gli si era disegnato sul viso, mentre una lama di luce brillava nell’onice delle sue iridi lucide.

Che perfetta spia sei Severus Piton – si disse con sferzante sarcasmo – Davvero impeccabile. Non un muscolo fuori posto davanti all’Oscuro Signore, nulla che possa essere catturato e definito, nulla che possa dirsi certezza, nulla che trapeli oltre una maschera ben più profonda di quella d’argento che indossi nei tuoi viaggi nell’incubo. Sei come fumo, impalpabile e sfuggente, puoi ricomporti in mille forme.

Che spia perfetta, che non sa mentire al suo cuore e non è capace di fingere con se stessa.

Era inutile dibattersi nell’angoscioso tentativo di negare la verità, più ci provava e più quella gli si stringeva addosso soffocandolo, come una rete che avesse il potere di levargli il fiato e la ragione.

Era vano lottare per negare che lui non odiava affatto Albus Silente, ma che se avesse dovuto uccidere proprio il vecchio non avrebbe mai smesso di maledire se stesso.

 

   
 
Leggi le 9 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Harry Potter / Vai alla pagina dell'autore: Nykyo