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Autore: Blackvirgo    15/04/2012    4 recensioni
Salvatore Gentile non era abituato a essere confuso. La sua vita era sempre corsa su binari netti, perfettamente suddivisa fra il bianco e il nero: fra perdenti e vincitori, fra giusto e sbagliato, fra importante e inutile. E fino a quel momento ciò che non era il calcio, per lui, era sempre stato inutile. Sì, c’erano gli amici, i compagni di squadra. C’erano state delle storie di lunghezza variabile tra il tempo di una scopata e quattro mesi di mazzate nelle palle, ma non c’era mai stato un pensiero così fisso e fastidioso da diventare ossessivo.
[Altri avvisi: italian!ship, linguaggio a tratti scurrile. Niente di drammatico, ma di sicuro non hanno studiato a Oxford!]
Genere: Commedia, Romantico, Sportivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altri, Gino Hernandez, Salvatore Gentile
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Anteros'
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12 ottobre

Cosa ti fa più male?

  “Finalmente ti sei degnato di rispondere al telefono! Hai idea di quanto fossimo preoccupati quando ti abbiamo visto uscire zoppicando dal campo? Cosa ti è successo?”
Buonasera anche a te, mamma, pensò Salvatore. O buongiorno? Non si ricordava mai se doveva aggiungere o togliere quelle benedetto otto ore di fuso. “Ho preso una distorsione a un ginocchio,” sospirò frustrato. “Niente di grave, ma dovrò stare a riposo per almeno una settimana: niente allenamenti né partite.”
“Meno male,” esalò sua madre, sollevata. “Almeno per un po’ non starai a correre come uno scalmanato dietro a un pallone.”
“Mamma, hai idea di cosa significhi per me non poter giocare?”
“E tu hai idea cosa significhi per me perdere la voce per cercare di farti capire che correre dietro a un pallone non porta a niente? Un ginocchio rotto, ecco cosa!”
Salvatore sbuffò rabbioso: “Grazie al cielo, il mio ginocchio non ha niente di rotto...”
“Ecco, esatto,” lo interruppe la madre, “hai detto bene: grazie al cielo! Non certo grazie al pallone.”
“Gli incidenti capitano!” rispose Salvatore, ma la madre continuò imperterrita: “Quando ti deciderai a costruirti un futuro che non preveda ginocchia e caviglie continuamente martoriate?”
Salvatore sospirò: sua madre non avrebbe mai capito. Ci aveva provato un sacco di volte a spiegarle che una partita di calcio non era una guerra di trincea e che esistevano sport in cui era molto più facile farsi male, ma lei da quell’orecchio – semplicemente – non ci sentiva. Quella sera però era troppo nervoso anche solo per rispondere con i soliti neutrali mmh mmmh: “Mamma, piantala! Non me ne faccio nulla delle tue paranoie!” sbottò. “Mi parli come se mi fossi fatto male alla partita di calcetto del mercoledì sera che fanno quei quattro sfigati amici di papà per scappare dalle mogli. È un mondiale questo, un mon-dia-le. Per una volta potresti anche provare – non dico riuscire, ma almeno provare! – a capire quello che io sto passando ed è maledetta frustrazione perché abbiamo perso e perché dovrò saltare le prossime partite, cazzo!”
“Non essere scurrile!” Oddio no, pensò Salvatore: ora si mette a piangere. “E io capisco benissimo come ti senti, sono tua madre! Sei tu che fai sempre di testa tua: se facessi quel che ti si dice, io non sarei qui a piangere per un figlio invalido dall’altra parte del mondo!” singhiozzò.
“Mamma, non sono invalido! È solo una dannatissima distorsione: fa un male cane e basta!”
Ormai i singulti avevano preso il posto alle parole. Salvo dovette sopprimere con viva forza la voglia di sbatterle il telefono in faccia, ma gli si stringeva il cuore sentirla così. “Dai mamma, smettila di piangere: non è nulla di grave,” commentò, cercando di evitare che la voce tradisse tutta la sua amarezza.
“Promettimi che darai un taglio a quelle sciocchezze una volta per tutte,” singhiozzò la donna, tirando su con il naso.
Salvatore strinse i denti, ingoiando le parole che gli salivano spontanee alle labbra: “Ora devo andare, mamma, saluta papà.” Riagganciò prima che la madre potesse fare qualche altro irritante commento. Inutile continuare a parlarne: non riuscivano a capirsi faccia a faccia, figurarsi quando si ritrovavano dall’altro capo del mondo.
 
Salvatore inspirò profondamente, gonfiando le guance e trattenendo l’aria: odiava ferocemente i pianti e i ricatti di sua madre, erano un bieco affronto alla dignità di entrambi. Tutte le volte la stessa storia, si disse svuotando i polmoni: lei che lo accusava di non capire, di non saperne abbastanza della vita per decidere da solo, lui che le faceva presente che era la sua vita. Lei che lo accusava di perdere tempo, di non valorizzarsi, di non pensare al futuro, lui che rispondeva che era maggiorenne, che – a differenza della maggior parte dei suoi coetanei – era già un professionista e che, alla sua età, poteva almeno permettersi di provare a realizzare un sogno che aveva condiviso con tanti altri bambini da piccolo, ma che per lui – a differenza di molti altri – stava diventando possibile. Non aveva garanzie di riuscire, ma provarci, cazzo!, quello sì. E il suo non era un provarci tanto per fare: era un provarci con tutta l’anima, con tutto il fiato, senza badare ai lividi, alle botte, alle delusioni, ma rialzandosi ogni volta. E invece lei faceva una tragedia per ogni botta, livido e delusione, come se affrontarle fosse disdicevole, come se rialzarsi fosse sbagliato, perché lui non avrebbe dovuto cadere. Ovvio! Quando ci si rialza si è sporchi, infangati. Persino insanguinati. E sua madre non tollerava di vederlo meno che impeccabile.
Salvatore appoggiò la fronte sul palmo della mano: avrebbe dovuto ringraziarla se eccellere per lui era diventata una necessità, se essere il migliore era un dovere. Se fallire era una colpa imperdonabile.
Si passò la mano tra i capelli, nervoso, e si alzò in piedi di scatto: aveva bisogno di muoversi, di farsi un giro. Di starsene da solo. Al diavolo il ginocchio malandato e le raccomandazioni sul riposo adeguato, si disse muovendo il primo passo con la gamba sana. Al diavolo quello stupido paese di musi gialli, aggiunse caricando il peso sul ginocchio infortunato e digrignando i denti. Al diavolo i genitori, la squadra, il World Youth e anche il calcio, inveì zoppicando sulla gamba sana. Al diavolo tutto!, imprecò quando il ginocchio cedette, costringendolo – una volta di più in quella giornata di merda – col culo per terra.
***

Gino si era attardato con alcuni compagni dopo cena, ma non era serata per nessuno. Alla fine si era avviato stancamente verso la sua stanza: aveva bisogno di dormirci su per chiudere quella giornata, di alzarsi con il sole e di ritrovare il suo spirito battagliero. Entrò in camera silenzioso per non disturbare Salvatore. Il difensore si era ritirato subito aver spiluccato un po’ di cibo: non aveva spiccicato parola dalla fine della partita e sembrava pronto a mordere chiunque gli si fosse avvicinato oltre una distanza di sicurezza perfettamente delimitata dallo sguardo con cui aveva fulminato ogni temerario che avesse anche solo tentato di accostarsi. Gino compreso.
L’unica luce che rischiarava la stanza era l’abat-jour sul comodino di Gentile. Gino si era aspettato di trovare il difensore sotto le coperte e magari già addormentato. Di certo non si era aspettato di ritrovarlo seduto per terra, in mezzo alla stanza, e venne assalito da una sconcertante sensazione di dejà vu.
“Che succede?” chiese Gino avvicinandosi.
“A parte il fatto che non riesco neanche a stare in piedi, nulla,” ribatté sarcastico Salvatore.
“Aspetta, ti aiuto,” fece Hernandez chinandosi e allungando un braccio nella sua direzione.
“Lasciami in pace,” rispose l’altro, tenendolo alla larga con la mano aperta e tesa di fronte a sé.
“Fa molto male?” chiese Gino, indicandogli il ginocchio infortunato. Aveva la fronte corrugata, il portiere, e sembrava preoccupato. “Vuoi che chiami il medico?”
“Ti ho detto che non ho bisogno di niente,” replicò Salvatore brusco. Ci mancavano solo le premure di San Hernandez!
“A me non sembra,” ribatté Gino. Continuava a osservare l’altro che si teneva le mani a coppa sul ginocchio e che aveva in faccia un’espressione così arrabbiata e sofferente da far male. “Salvo, lo so che non mi consideri un amico, ma se vuoi parlarne...”
“Perché, tu invece mi consideri un amico?” Non aveva voglia di ipocrisia in quel momento, Salvatore.
Gino, seduto sui talloni e con i gomiti appoggiati alle cosce, si guardò la punta dei piedi. No, lui e Gentile non erano amici, ma non gli sarebbe dispiaciuto se lo fossero stati. Sarebbe riuscito a comprenderlo meglio, se lo fossero stati. Forse sarebbe addirittura stato in grado di avvicinarsi abbastanza da tirargli su il morale e da farsi scivolare addosso il suo sarcasmo. “Te l’ho detto,” rispose, cercando di suonare allegro. “Quando non sei stronzo, mi sei quasi simpatico.”
“Allora stasera non è aria,” rimbeccò Gentile, guardandolo di tre quarti, ancora più torvo. “Né per me di non essere stronzo, né per te di trovarmi simpatico.” Fanculo anche te, Hernandez, aggiunse tra sé, sperando di levarselo di torno. Perché cazzo non lo lasciavano in pace? Aveva chiesto qualcosa, lui, a parte di starsene per conto proprio? No. Aveva per caso chiesto a sua madre di telefonargli e di avvelenargli ulteriormente l’anima? No. L’aveva chiesto lui di essere in stanza con Capitanovolemmosebene? No. Eppure doveva aver fatto qualcosa di male per meritarseli, dato che non gli era stata concessa neppure la possibilità di svignarsela. Non bastava la sconfitta?, pensò stringendo più forte le mani attorno al ginocchio fasciato e mollando la presa quando iniziò a provocargli ulteriore dolore. Serviva anche una punizione così sadica?, aggiunse serrando gli occhi e i denti con tutta la forza che aveva.
Gino riportò lo sguardo su Salvatore: l’immagine attuale si sovrapponeva con quella del difensore per terra, semi-incosciente e bagnato fradicio di pochi giorni prima. E lo stesso istinto di aiutarlo, la stessa premura che, quella sera, l’aveva portato a infilarlo a letto e rimboccargli le coperte, lo pungolò con insistenza. Probabilmente, avere a che fare con un Gentile semi-incosciente è più facile che avere a che fare con un Gentile incazzato, sospirò Hernandez. E comunque, non sarà mio amico, ma nulla mi vieta di comportarmi come tale, aggiunse tra sé, posando la mano sinistra per terra e sedendosi accanto a Salvatore. Appoggiò la schiena al bordo del letto, portò le mani sull’addome e lo sguardo alle ombre sul soffitto: non voleva lasciarsi distogliere dalle sue buone intenzioni dalle occhiate minacciose del difensore.
“Guarda che la sconfitta non brucia solo a te,” buttò lì Gino. Nonostante tutto, non voleva farsi prendere la mano dal malumore.
“Dovrebbe quindi bruciare di meno perché equamente ripartita?” chiese di rimando Gentile, scoccandogli un’occhiata truce.
“No,” rispose Gino, incrociando le mani dietro la nuca e allungando le gambe. “Ma ormai questa è andata così e piangerci sopra non cambierà le cose.”
“Non ti pesa neanche un po’ l’umiliazione?” Salvatore alzò la testa e lo trapassò con un altro dei suoi sguardi duri e taglienti.
“Hanno vinto con un solo gol di differenza dopo che ci hanno letteralmente spezzato braccia e gambe: io più di questo non ci potevo mettere e neanche tu,” lo riprese severamente Gino. “Non è una gran consolazione, ma sapere di aver dato il tutto per tutto mi toglie dai cupi meandri mentali dell’umiliazione. E non è ancora detta l’ultima parola: abbiamo perso una partita, ma ne abbiamo ancora due da giocare. Non siamo ancora fuori e non possiamo permetterci di ragionare come se lo fossimo.”
“Tu, forse: io devo starmene fermo e buono abbastanza a lungo da saltarle entrambe,” sbottò Salvatore.
Lo sguardo di Gino si posò nuovamente sulla gamba sinistra del compagno, coperta da un’elaborata fasciatura: le bordate di Hino dovevano avergli fatto parecchio male e dovevano ancora farne. “Non sei l’unico a lottare.”
Gentile lo guardò truce: “Spiegami perché questo dovrebbe farmi stare meglio.” Salvatore odiava dipendere dagli altri. Era abituato ad affrontare da solo le proprie battaglie, a non affidarle a nessun altro. Nessuno sarebbe stato in grado di lottare come lui.
“Perché hai ventidue compagni che hanno il tuo stesso obiettivo,” gli rispose Gino, irritato per quell’incomunicabilità che c’era sempre stata tra loro. Ma all’improvviso farsi capire – e magari capirlo – era diventato terribilmente importante. “E quegli stessi compagni faranno di tutto per permetterti di giocare ancora in questo torneo,” concluse infervorato, battendo ritmicamente l’indice sul pavimento, a sottolineare le sue parole, una per una.
“Dì un po’, Hernandez,” gli chiese Gentile, facendo schioccare la lingua. “Ma ci pensi di notte a questi bei discorsetti o ti vengono spontanei, così su due piedi?”
Gino abbassò lo sguardo, azzardando un sorriso sghembo. “Un po’ e un po’,” ammise, incontrando lo sguardo dell’altro.
“E immagino che tu sia anche convinto che questo compendio di stronzate aiuti gli altri a sentirsi meglio,” continuò Salvatore.
“No?” Gino spalancò gli occhi, con la faccia delusa: primo tentativo fallito.
Gentile sbuffò, fissando lo sguardo in un punto imprecisato, sull’anta dell’armadio.
“Cosa ti fa più male: il ginocchio o l’orgoglio?” gli chiese Gino, serio, incrociando di nuovo le braccia dietro la testa e seguendo la direzione del suo sguardo: le venature del legno creavano un intreccio surreale che aveva un che di ipnotico. C’era da perdersi a fissarlo troppo a lungo.
Gentile gli scoccò di nuovo un’occhiata tanto malevola quanto fugace: facevano male tutti e due. Solo che il dolore al ginocchio era qualcosa di tangibile, localizzato in un punto preciso e sarebbe bastata una maledetta compressa di antidolorifico per farlo passare, mentre il dolore che aveva dentro era di una pasta diversa. Era la delusione di aver perso, era lo sconforto di non aver ottenuto il risultato che si era prefissato, era la frustrazione di essere giudicato per questo, era la sensazione di non essere all’altezza delle aspettative proprie e altrui. Era il dubbio che sua madre avesse ragione e che giocare a calcio non gli avrebbe portato altro che botte, lividi e delusioni.
“Che cazzo te ne frega, Hernandez?” sbottò.
Gino sospirò. Gliene fregava un sacco, in realtà, e per un sacco di motivi: perché era il capitano della squadra, ad esempio, e per lui era sempre stato un dovere cercare di tirare su il morale di tutti – Gentile compreso – anche quando il proprio era a pezzi. Quel pomeriggio ci aveva provato a mantenere una faccia passabilmente ottimista mentre era con gli altri: non potevano – non dovevano! – arrendersi alla prima difficoltà, proprio come in campo lui non poteva mettere in discussione se stesso solo se prendeva un gol. Avrebbe avuto tempo dopo per pensare al fallimento, in partita doveva solo rialzarsi, chiedere ai compagni di restituirlo con gli interessi e dare loro la consapevolezza che avrebbe fatto di tutto pur di non lasciarne passare un altro. Come spaccarsi le braccia contro un palo, pensò. Ma da se stesso non si aspettava di meno. E neppure dai suoi compagni.  
Gino riportò le braccia in grembo e cominciò a muovere lentamente le dita intorpidite: tenerle in alto e appoggiarci sopra la testa non era stata un’idea geniale.
A Salvatore non sfuggì: “E tu come stai?” gli chiese a bassa voce. Si era dimenticato che anche il portiere non era uscito incolume da quella partita e che, forse, neanche lui avrebbe potuto disputare gli incontri successivi. Forse, dopotutto, Hernandez poteva davvero capire come si stava sentendo.
Gino sorrise, senza distogliere gli occhi dalle proprie mani. “Ho passato momenti migliori,” rispose. “Ma anche momenti peggiori.”
“Mi spieghi una cosa, Hernandez?” continuò Salvatore. “Come cazzo fai a prenderla così? No, davvero, non ti capisco: siamo una delle squadre favorite e siamo riusciti a perdere la prima partita nonché a farci mettere fuori uso almeno per le partite del girone. Come cazzo fai a stare sereno e a blaterare riguardo i prossimi incontri?”
Gino si mordicchiò il labbro inferiore, pensieroso, quindi tornò a guardare il suo viso. “Io gioco per me stesso e per la mia squadra: non mi interessa se siamo favoriti o sfavoriti,” rispose, arricciando le labbra. “L’unica cosa che posso promettere è che mi impegnerò alla morte sempre, che farò il possibile in ogni momento. E quando non basta, come oggi, mi rimarrà comunque la consapevolezza di essere stato battuto da avversari degni. Non mi piace perdere, ma la vera sconfitta sarebbe arrendermi. Oggi sono stati più forti gli uruguaiani, la prossima volta magari lo saremo noi. E demoralizzarmi non mi renderà più forte né mi aiuterà a sostenere le prossime sfide.”
Gino! L’ottimismo!” lo motteggiò Gentile, facendo il verso a Tonino Guerra con tanto di s strascicata. E le labbra stiracchiate nell’accenno di un sorriso che non voleva concedersi.
Hernandez rise per un attimo, poi tornò serio: “Non fraintendermi: anch’io odio perdere. Odio quando sfioro la palla con le dita senza raggiungerla o quando non calcolo bene una distanza o la traiettoria. Quando mi rendo conto di non aver guidato la difesa come avrei dovuto o quando non riesco a prevedere le mosse degli avversari. E odio anche quando devo ammettere che l’avversario è più forte di me.”
“E allora come fai a essere così calmo?” sbottò Gentile, strisciando all’indietro e appoggiando a sua volta la schiena contro il letto, di fianco al portiere. Lo sguardo limpido di Hernandez aveva un che di rasserenante: come la certezza di non essere messo alla gogna per un errore, di continuare a valere qualcosa nonostante una sconfitta. Ed era una sensazione a suo modo disturbante, capace di graffiare convinzioni radicate nel suo animo da una vita. Salvatore lo osservò per lunghi istanti, chiedendosi come potesse essere la vita vissuta alla Hernandez, senza aggiungere problemi ai guai, senza pretendere di essere perfetti in ogni momento, solo accontentandosi di fare il massimo.
Di nuovo una mezza risata da parte del portiere, con una nota di allegria che prima mancava. “Marchio di fabbrica,” rispose Gino, ammiccando. “In parte credo sia la mia indole, in parte quello sono diventato.”
“Quello che piglia i gol?”
“Esatto.”
“Perché non ti incazzi quando ti dico queste cose? Me lo spieghi come fai?”
“Paro,” rispose Gino serafico.
“Cosa devo fare per farti imbufalire? Chiamarti frocio? Menare Aoi?”
“Così mi deludi e basta,” sospirò Gino, aggrottando la fronte.
“Cazzo, quando fai così sembra quasi che tu abbia un’opinione positiva di me.”
“Dipende. Come giocatore ho una gran stima di te, come persona...”
“Sì lo so: quando non sono stronzo, ti sono quasi simpatico. Peccato che io sia stronzo.” Ormai Salvatore era troppo sfiancato persino per cercare la lite. E, in quel momento, troppo poco arrabbiato.
“Non credo,” rispose Gino, studiando l’espressione severa del difensore. “Secondo me lo fai, ma non lo sei. Non del tutto almeno.”
“E da dove uscirebbe questa fiducia?” chiese Salvatore stupito, mentre una sensazione di calore – fragile eppure schietta come la fiammella di una candela – si accese nel suo petto.
“Oggi hai chiesto scusa a Shingo per non aver mantenuto la promessa di arrivare a giocare con loro senza aver perso neppure una partita,” commentò Gino soddisfatto. A volte il difensore riusciva a spiazzarlo con le sue uscite. E quel Scusa mormorato a labbra strette gli aveva scaldato il cuore, nonostante l’amarezza di quella sconfitta. Lui non era neanche riuscito ad affrontare Shingo a viso aperto, ma sapeva che l’amico giapponese avrebbe capito comunque come si sentiva. In quel momento non se l’era sentita di caricarsi anche la sua, di delusione.
“Ho perso una scommessa, mi pare,” rispose Gentile seccato. Possibile che quella scimmia c’entrasse sempre? Si erano promessi di incontrarsi in campo imbattuti e lui quelle parole, al contrario di Aoi, se le era già dovute rimangiare. Che, tutto sommato, quel giapponese fosse veramente migliore di lui?
“Avresti potuto sputtanarmi e non l’hai fatto,” aggiunse Gino, abbassando la voce a un bisbiglio e abbracciandosi le ginocchia.
“Non sono affari miei. Chi ti porti a letto, intendo,” rispose acido, Salvatore. Anche se vorrei che lo fossero, si lasciò scappare fra sé, mandandosi al diavolo un secondo dopo. “E poi non vedo perché sparare sulla croce rossa,” aggiunse, imbarazzato dai suoi stessi pensieri e preoccupato che potessero trasparire. Dio, quanto odiava perdere il controllo!
Gino si morse il labbro inferiore, scuotendo il capo. Scoprire il fianco con Gentile significava solo indicargli il bersaglio da colpire. Ormai non sapeva più se quella fitta che provava era di rabbia, delusione o un misto di entrambe le cose. Sapeva solo che per quel giorno ne aveva passate abbastanza anche lui e non aveva voglia di concludere quella chiacchierata con un litigio. Doveva rassegnarsi: non erano amici e non lo sarebbero mai diventati. Portò avanti le braccia e puntò i piedi, pronto ad alzarsi con un colpo di reni, ma si trovò invece a voltare il capo, stupito, verso Salvatore.
“Scusa.”
Lo aveva mormorato con un fil di voce e la faccia contrita.
“Mi sa che sono più stronzo di quanto tu creda.”
Gino rimase immobile, in silenzio, prendendosi lunghi attimi per studiare il difensore che aveva riportato il proprio sguardo sul ginocchio dolente. No, in quel momento non gli sembrava per niente stronzo, anzi. Gli sembrava piuttosto un ragazzino con un tremendo bisogno di una parola o di un gesto affettuoso, di quelli che suo fratello non gli faceva mai mancare quando era demoralizzato.
Al più mi morde, si disse Gino, allungando la mano e posandogliela sulla spalla. “Non mi hai ancora detto come va il ginocchio.”
 
Salvatore osservò la mano sulla sua spalla, la sua presa ferma e gentile. Risalì con lo sguardo lungo le dita, lungo quei pochi centimetri di pelle scoperta tra la fasciatura e la manica della maglietta, per poi percorrere il collo, il profilo della mandibola, indugiare sulla linea morbida delle labbra e arrivare agli occhi. La penombra della stanza nascondeva il colore delle sue iridi, ma neanche il buio più completo avrebbe potuto nascondere la sua espressione rassicurante.
Salvatore si avvicinò, lento, fino a posare la testa nell’incavo fra la spalla e il collo del suo capitano, fino a sfiorarlo con il naso e inspirare il suo odore: sapeva di pulito, di aria fresca e di sole. Magari ha anche un buon sapore, considerò, senza avere il coraggio di trovare una risposta. Piegò appena le labbra in un sorriso, socchiudendo gli occhi: “Sei comodo, Hernandez, lo sai?”
“Lo devo prendere per un complimento?”
Gentile si strinse nelle spalle: “Vedi un po’ tu.”
Gino sorrise, facendo scivolare un braccio sulla sua nuca a circondargli entrambe le spalle.
“Te le insegnano alla scuola per capitani perfetti, queste tecniche?” chiese ancora Gentile, accoccolandosi meglio addosso a lui e lasciandosi avvolgere da quell’abbraccio rubato.
“Naaah!” rispose il portiere, arricciando il naso e passandogli la mano libera tra i capelli perché smettessero di fargli il solletico. “Imparata sul campo di battaglia della famiglia Hernandez.”
Forse non è così impossibile diventare amici, si disse Gino, stupito da quell’improvvisa – e piacevole – intimità. Chiuse gli occhi, poggiando a sua volta la guancia sulla testa del compagno e assaporando quel momento di tregua così agognata: quei gesti d’affetto non riuscivano a cancellare le frustrazioni, ma aiutavano a lenirle un po’. Forse potrebbe essere difficile rimanere amici, considerò il portiere, scacciando subito quel pensiero dalla mente. Basta problemi per quel giorno: ora voleva solo godersi la tenerezza.
“Sai una cosa, Gino?” mormorò Salvatore, accarezzando con un dito le fasciature che coprivano il polso sinistro del suo capitano. “Fa più male l’orgoglio.”
***
 
Note dell’autrice:
- a dire il vero non ho nulla da dire, se non che questo capitolo mi ha fatto dannare e il prossimo potrebbe essere anche peggio... e, considerando che non avrò una settimana clemente dal punto di vista lavorativo, è probabile che il prossimo capitolo arrivi con qualche giorno di ritardo!
- grazie a tutti quelli che seguono questa fic! In particolare Ale, Melantò, Releuse e Kara! Vi voglio bene! ♥
   
 
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