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Autore: RobTwili    16/04/2012    24 recensioni
Alexis sta scappando, non sa nemmeno lei da cosa. A due esami dalla Laurea in Medicina alla Stanford-Brown, decide di mollare tutto e tutti e fuggire lontano.
Attraversa l’America e approda nel Bronx.
Il sobborgo della Grande Mela non le offre un caldo benvenuto e subito si rende conto che non tutta l’America è come l’assolata Los Angeles.
Ryan ha sempre vissuto nel Bronx, sul corpo e sul cuore i segni di una vita vissuta all’insegna delle lotte tra bande e dell’assenza di una famiglia su cui poter contare.
Alexis comincia a cadere in quel vortice che Ryan crea attorno a lei. Vuole a tutti i costi salvarlo, portarlo sulla retta via; non c’è infatti qualche legge che costringe una ragazza ad aiutare chi è senza speranze?
Genere: Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Eagles don't gain honestly'
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YSM
 
 
Nei giorni successivi mi ritrovai catapultata in un vortice di emozioni che faticavo a gestire.
Lavoro, Eagles, Aria… dovevo assolutamente dedicarmi a chi stava soffrendo di più in quel momento. Su una scala da uno a dieci, il dieci apparteneva ad Aria: lei era più importante di tutti. Dopo la morte di JC, Aria si era lasciata andare: non veniva più al Phoenix e, quando passavo a casa sua di sera, la trovavo rannicchiata sul divano, con gli occhi arrossati dalle lacrime. Per questo, quando mi aveva raccontato che JC – suo zio – era il proprietario dell’officina della storia di Ryan, avevo capito perché i ragazzi avessero reagito così male alla notizia della sua morte.
JC era un po’ il loro mentore, forse quello che li aveva visti nascere, non portava il flag, ma ero sicura che fosse praticamente un Eagles a tutti gli effetti; e, anche se non ci avevo parlato spesso, sapevo che doveva essere un bravo ragazzo. Aria non parlava quasi mai di lui quando rimanevo lì di fianco a lei; piangeva, cercando di trattenersi senza successo.
E lo stava facendo anche in quel momento, mentre le circondavo i fianchi con un braccio, camminando di fianco a lei, sotto a quel viale alberato che conduceva a tutte quelle tombe.
I ragazzi erano davanti a noi: avanzavano silenziosi e a capo chino, lasciando che il flag uscisse dalle loro tasche, svolazzando per il vento afoso che c’era. Dietro di noi, una piccola folla di gente, probabilmente clienti abituali di JC e della sua officina.
Non c’erano nessuna compagna o figli, JC non aveva famiglia – come mi aveva spiegato Aria –, la famiglia era il suo lavoro. La famiglia era ritrovarsi con i ragazzi a tarda notte, quando l’officina era chiusa e potevano sistemare le moto, truccandole per farle correre più veloci e silenziose.
Mi sistemai di fianco ad Aria, in prima fila, poco distante da quella bara marrone, ricoperta dalla bandiera a stelle e strisce e da un cuscino di rose rosse. Continuavo a sentire i suoi singhiozzi, nonostante cercasse di trattenerli; ma sapevo che era impossibile. Aria considerava JC come un genitore, più che come uno zio. Non sapevo cosa fosse successo ai suoi veri genitori, ma sicuramente JC l’aveva cresciuta e amata come se fosse stata sua figlia. Per questo, Aria sembrò calmarsi solamente quando Dollar, sedutosi di fianco a lei, la fece appoggiare contro il suo petto, lasciando che si sfogasse e sussurrandole qualcosa all’orecchio.
«Tutto bene, lentiggini?» mormorò Ryan, sedendosi di fianco a me, con un sospiro stanco. Annuii solamente, cercando di non peggiorare la situazione: avevo un groppo alla gola che sapevo mi avrebbe fatto tremare la voce se solo avessi cercato di parlare. Vedere i ragazzi e Ryan così provati poi, mi faceva stare ancora più male. Perché anche loro erano umani, nonostante le armi, nonostante le battute idiote e nonostante tutto: sapevano amare, provavano emozioni vere, oltre alla rabbia e all’odio.
Per questo, ne ero sicura, lasciai sfuggire una lacrima quando il pastore cominciò la funzione. Continuavo a guardare la foto stampata sulla lapide, quel nome e quei numeri, troppo vicini per pensare che JC avesse potuto davvero vivere fino in fondo la sua vita.
Quando, all’ordine di dire qualcosa, Dollar si alzò dalla sedia, schiarendosi la voce, lo guardai sorpresa: credevo fosse Ryan a parlare di JC, raccontando a tutti quello che aveva detto a me, la sua infanzia all’officina, il suo creare gli Eagles e considerare JC come uno di loro.
«Io… io non sono tanto bravo con le parole, ma vorrei davvero dire qualcosa per JC. Ecco, lui… lui era come un padre per me. Non voglio offendere Ryan e gli altri ragazzi che mi hanno insegnato a vivere, ma JC, lui è stato come un papà, perché mi ha insegnato ad amare, mi ha concesso di amare». Il suo sguardo, con un sorriso amaro si posò su Aria, che sorrise, asciugandosi una nuova lacrima che scivolò sulla sua guancia. «Insomma, quando mi ha trovato fuori dalla sua officina perché mi avevano abbandonato non ci ha pensato due volte e mi ha portato a casa con lui. Poi si è comportato da coglione e mi ha fatto conoscere Ryan, ma prima ha cercato di proteggermi, insegnandomi a fidarmi delle persone. E io l’ho fatto Jay, io mi sono fidato di te, perché la fiducia dovevi meritartela, no? Eri un pezzo di merda con i clienti, ma non ti sei mai lamentato quando ti accorgevi che ti rubavo venti dollari per prendermi le caramelle prima e la roba dopo. Sei stato tu che mi ha dato questo soprannome, no? Perché prendevo i soldi dollaro per dollaro, nascondendoli dentro alle mutande». Dollar si interruppe, lo sguardo distante e triste, nonostante ci fosse un sorriso sulle sue labbra. «E poi, quando ha visto che Aria non mi interessava solo per copiare i suoi compiti, mi ha dato anche il permesso per trombarmela. E lo ringrazio per questo, insomma…». Di nuovo il suo sguardo saettò verso Aria, allibita da quello che aveva sentito. Il pastore si schiarì la voce, attirando l’attenzione di Dollar che si scusò per il linguaggio che aveva usato. «E poi… niente, grazie a JC sono diventato l’Eagles più giovane e portavo il flag già a scuola, vantandomi. Solo che mi sento di non averlo mai ringraziato a sufficienza, insomma. Era JC e lo prendevo sempre in giro, ma lui è stato buono con me, forse a quest’ora, se non fosse per lui, non sarei qui. Sì, quel coltello mi ha distrutto la faccia quando l’ho difeso, ma sai cosa ti dico, Jay? Che ne vado fiero, perché l’ho fatto per te. E forse, amico, lo rifarei altre mille volte, perché della mia faccia non me ne fotte un cazzo, ma vorrei averti con me, ancora. Sei uno stronzo e voglio che tu lo sappia. E forse, per una volta, sei tu che mi hai fottuto, ma me la pagherai». La mano di Dollar si appoggiò sulla bara, esattamente come se avesse lasciato una pacca sulla spalla a JC. Forse lo fece davvero, perché scosse lentamente la testa, tornando a sedersi di fianco ad Aria, che lo abbracciò, lasciandogli un dolce bacio sulla guancia.
«Grazie» mormorò poi, nascondendo un singhiozzo contro il petto di Dollar. Nonostante le lacrime mi offuscassero la vista, non riuscii a non sorridere, guardandoli: Aria e Dollar erano dolci e, dopo le parole di Dollar, non riuscivo a non pensare che, da piccoli, dovevano per forza essere stati terribili, uniti e bellissimi.
«Sei un fottuto bastardo, e mi manchi. Fottiti». Ryan si era alzato e continuava a stringere un pugno, appoggiato sopra al legno scuro. La mano gli tremava, non quanto la voce. Sembrava quasi dispiaciuto, ma non riuscivo a capirlo perché, come ogni volta, c’era quella patina di rabbia che nascondeva tutte le sue vere emozioni. Ryan era come un camaleonte, si nascondeva dietro la rabbia per non farsi vedere, perché la gente non potesse capire quello che realmente stava provando.
Lasciai che tutti gli Eagles salutassero JC, con una frase emblematica o solo una parola; nessuno era però riuscito a eguagliare il discorso di Dollar, forse perché non ci avevano davvero provato. Dollar, lui aveva scatenato qualcosa anche dentro di me, delle emozioni intense, probabilmente perché sentire l’impatto che JC aveva avuto sulla sua vita non era stato facile.
E non riuscivo a non pensare ancora a quelle parole mentre, seduti tutti taciturni attorno a quel tavolo del Phoenix, sorseggiavamo una birra. Aria continuava a piangere silenziosamente, cullata da Dollar che le accarezzava il braccio e la spalla delicatamente e in modo continuo. Non poteva che essere lei la Signora di Dollar, quella che lui segretamente ancora amava. Perché con me scherzava e faceva lo stupido, ma con lei… si comportava esattamente come una persona innamorata.
Lasciai che il mio sguardo vagasse su tutti loro: Aria e Dollar, Josh e Paul, Sick, Brandon e Ryan. Fu su di lui che mi soffermai, notando quanto fosse stanco e provato. Era da quando aveva ricevuto la notizia della morte di JC che non riuscivo nemmeno più a scorgere il suo ghigno che mi dava sempre i nervi.
Ryan si era… spento da quando eravamo tornati da Coney Island. Improvvisamente collegai tutti i puntini, inorridendo davanti alla verità che non volevo vedere.
«Mi dispiace, è colpa mia» mormorai tenendo lo sguardo basso, incapace di sostenere la visione dei loro occhi tristi. Era tutta colpa mia, perché se non mi avessero accompagnata a Coney Island, non sarebbe successo nulla e i Misfitous non avrebbero ucciso JC. Era tutta colpa mia, di nuovo. Forse non avrei mai dovuto socializzare con loro, non dovevo fare in modo che abbassassero la guardia, visto che la loro vita era sempre in pericolo. Ero una stupida.
«Che cazzo dici, lentiggini?» sbottò Ryan, strattonandomi un braccio per costringermi a lasciare il boccale di birra mezzo vuoto e voltarmi verso di lui. Non potevo sostenere il suo sguardo, non ero pronta e non volevo. Ryan era di sicuro infuriato con me per la morte di JC, e aveva ragione, anche io ero arrabbiata con me stessa.
«Sì, è tutta colpa mia se... se è morto, non dovevamo andare a Coney Island». Continuavo a guardare le mie mani, intrecciate sul mio ventre. Sentivo gli sguardi di tutti addosso a me, ma non avevo il coraggio di affrontarli. La verità era che mi sentivo codarda. Codarda perché avevo aspettato tre giorni per ammettere che ero la causa della morte di JC, codarda perché non avevo avuto il coraggio di dirlo al funerale e codarda perché non riuscivo a guardare nessuno negli occhi, troppo colpevole per quello che avevo fatto.

«Lexi, non è colpa tua». La mano di Brandon si appoggiò sulla mia spalla sinistra, cercando di consolarmi. Era gentile da parte sua, ma non ci credevo e di certo non servivano due parole per togliere il mio senso di colpa. Cercai di rispondergli, ma Aria, con la voce rotta dal pianto, intervenne, facendomi gelare il sangue nelle vene.
«Lexi, non dirlo nemmeno per scherzo, non è colpa tua. Tu non c’entri». Allungò la mano sopra al tavolo, cercando la mia che non si mosse, troppo schiacciata dal senso di colpa. Non potevo guardarla, non quando sapevo di averle portato via un parente. E non potevo nemmeno contare su Dollar, visto quello che JC aveva rappresentato per lui.
«No, è solo colpa mia. Non vi disturberò più. Cercherò un nuovo appartamento, così non morirà più nessuno per colpa mia. Mi dispiace». Aria non ritirò la mano, come se cercasse di farmi capire che non c’era niente di male in me e non fosse davvero colpa mia.
«Apri quelle cazzo di orecchie, lentiggini: non è colpa tua se hanno ucciso JC. La gente muore da queste parti, la gente muore ovunque: qui, dove cazzo abitavi e anche in altri posti. La gente muore, questo è il succo. JC è stato ucciso? Sì, hai ragione, ma non c’entri un cazzo tu e non è colpa tua se è successo. Aspettavano il momento opportuno, che sarebbe stato il giorno dopo, se solo il mio fottuto piano fosse stato messo in atto. Quindi non inventare palle dicendo che JC è morto per colpa tua. JC si è fottuto da solo quando ha deciso di starci vicino e di appoggiarci. Sapeva a cosa andava incontro e non se ne è mai pentito, mai. Sa… sapeva che la sua vita sarebbe stata in pericolo, ma ha deciso di rischiare perché per lui gli Eagles e quello che rappresentavano avevano un senso. Ci credeva. E non voglio più sentire queste fottute parole uscire dalla tua bocca. Tu non c’entri con JC, cazzo». La mano di Ryan era sempre più salda sul mio braccio che continuava a scuotere con forza, come se volesse svegliarmi da un incubo. Certo, il suo discorso non faceva una piega, ma parlava così semplicemente perché loro non sapevano. Se solo avessero saputo…
«Non capite… sono io che faccio morire le persone, porto sfortuna». La presa della mano di Ryan si allentò di colpo, mentre tutto il tavolo cominciava a ridere. Alzai lo sguardo, accorgendomi che nemmeno Aria –nonostante avesse una lacrima che solcava la sua guancia – si era trattenuta. Cosa avevo detto di tanto divertente?
«Cosa sei, tipo un gatto nero?» ghignò Ryan, cercando di calmare la sua risata con un sorso di birra. No, non ero un gatto nero, ero addirittura peggio.
«No, io… io…» balbettai, rigirandomi il boccale mezzo vuoto tra le mie mani. Dovevo dirlo; sapevo che mi sarei levata un peso e soprattutto avrebbero capito che non era colpa loro se JC era morto.
«Lexi, che cosa è successo?». Sapevo che la domanda di Brandon non era posta perché voleva ficcanasare nella mia vita, era il suo modo di fare, come se avesse capito che c’era qualcosa che mi bloccava, qualcosa che mi impediva di essere la Lexi spensierata che faceva tardi la notte, si ubriacava e il giorno dopo si sentiva talmente in colpa da chiudersi in camera e studiare per ore, pur di passare l’esame.
«Nie… niente» mormorai, scuotendo la testa lentamente, mentre cercavo di cacciare via quelle lacrime traditrici che volevano a tutti i costi uscire per farsi vedere. Inutile, visto che una scese lungo la mia guancia prima che potessi toglierla con la mano.
«Perché sei scappata da Los Angeles?». Dollar, così serio e attento, continuava a tenere il braccio attorno alle spalle di Aria, senza però staccare lo sguardo da me.
In verità, gli sguardi di tutti erano su di me: Dollar, Aria, Lebo, Josh e Paul, Brandon e Ryan, entrambi di fianco a me. Guardai alla mia sinistra, verso Brandon, il suo sguardo era dolce, quasi come se non volesse veramente obbligarmi a parlare di quel segreto che cercavo di nascondere a tutti, come se, in qualche modo, sapesse quello che era successo.
Ryan… lui invece continuava a osservarmi con un sopracciglio alzato, in attesa di sentire la mia storia, la mia vera storia.
«Io… il, il primo di giugno c’era l’esame di Anatomia. Io l’avevo già superato l’appello prima, ma… Sophie ed Edge no. Loro sono… erano, i miei migliori amici. Dovevamo festeggiare assieme, perché entrambi erano riusciti a superarlo con una A-, ma quella sera avevo il turno di volontariato all’ospedale e non potevo non presentarmi. Così ho assicurato a Sophie che li avrei raggiunti al bar del campus, non appena avessi finito: dovevo accompagnarli a casa io, perché sapevo che si sarebbero ubriacati. Poi un bambino si era ferito gravemente e io non potevo abbandonarlo, così ho mandato un messaggio a Edge, gli ho detto che ci saremmo rivisti a casa e… e dopo hanno chiamato l’emergenza perché c’era stato un incidente e…». Smisi di parlare, cercando di scacciare dalla mente quei ricordi che avevo cercato di cancellare. Nessuno di loro parlava, tutti stavano aspettando che io concludessi il mio racconto, così presi un respiro profondo, prima di tornare con la mente a quella maledetta sera. «Siamo usciti in ambulanza, correndo disperatamente verso quell’incrocio, io mi sono dimenticata di guardare il mio cellulare. E quando siamo arrivati, non volevo nemmeno guardare la targa di quella BMW, perché non volevo trasformare in certezza la paura che mi faceva tremare le ginocchia. Edge era in mezzo alla strada, non… non c’era più nulla da fare per lui; era balzato fuori dall’auto a causa dell’urto contro quell’albero, probabilmente perché non aveva la cintura di sicurezza. Edge non la metteva mai, soprattutto quando guidava. Sophie però, lei… lei siamo riusciti a tirarla fuori dalla macchina con l’aiuto dei Vigili del fuoco; era viva, così le abbiamo messo il collare e dopo averla caricata in barella siamo subito partiti in ambulanza verso l’ospedale. Io… io non sono riuscita a fare quello che dovevo, non ero lucida, non… non ci sono riuscita, perché continuavo a piangere e Sophie mi chiedeva perché, visto che non riusciva a vedere la sua gamba dilaniata. È stata tutta colpa mia, se solo fossi andata in quel bar al posto di andare a fare quello stupido turno di volontariato non sarebbero… loro sarebbero con me». Non mi ero nemmeno accorta di quanto stessi piangendo, non fino a quel momento, quando appoggiai la fronte sulle braccia, nascondendo il viso a tutti. Era la prima volta che raccontavo quello che era successo nei minimi dettagli. Nemmeno i miei genitori sapevano tutti quei particolari e forse, proprio per quel motivo, non avevano compreso la mia scelta di andarmene e abbandonare tutto. Per loro mi ero dimostrata debole, come se la mia vita si fosse sempre basata su Edge e Soph. Loro non capivano che era colpa mia, se non c’erano più. Io, che avevo sempre sognato di fare Medicina per salvare le persone, avevo fallito proprio nel salvare quelle a cui tenevo di più. Per questo mi spaventava l’idea di tornare in sala operatoria, l’idea che la vita di una persona potesse dipendere da me, dalle mie mani. Nessuno riusciva a capire la sensazione che provavo.
E probabilmente non lo capiva nemmeno la persona che mi aveva appoggiato la mano sulla testa, in un accenno di carezza. Ero talmente provata da quel ricordo, che non avevo nemmeno la forza per alzarmi e guardare chi fosse.
«Lexi, non è colpa tua, hanno deciso loro di guidare da ubriachi. Se ci fossi stata anche tu in quella macchina adesso non saresti nemmeno viva, non ci hai mai pensato?». Brandon e il suo voler tranquillizzarmi, ma questa volta non aveva ragione, no. Eppure, come a voler supportare la sua idea, Dollar e Aria cercarono di calmarmi, ripetendomi che non era colpa mia, che era stata una loro decisione.
«Dai, Doc, non è colpa tua, no? Hanno deciso di non aspettarti e se ne sono andati. Tu avevi detto che avresti fatto tardi, potevano prendere un taxi. Non puoi pensare che sia stata colpa tua, andiamo». Dollar continuava a sorridere, con quella smorfia che gli increspava la pelle della cicatrice, rendendolo pauroso. Ma, forse perché un po’ lo conoscevo, non riuscivo a vederci niente di pauroso in quegli occhi verdi; anzi, mi sembrava addirittura buffo, con quell’espressione.
«Se vuoi, Lexi, possiamo chiuderci in bagno per cinque minuti. Potresti uscire piangendo di nuovo, ma di sicuro non per lo stesso motivo».  Sick, oltre alla battuta che mi fece ridere tra le lacrime, ci aggiunse anche un ammiccamento così comico da farmi dimenticare, per qualche istante, tutto quello che avevo appena raccontato.
C’era uno strano silenzio dentro di me che contrastava con il suono delle risate dei ragazzi attorno; come se il continuo borbottare  confuso dei fantasmi che mi accompagnavano da un paio di mesi si fosse interrotto. Come se, parlarne a voce alta con qualcuno, mi avesse tolto un piccolo – grande – peso.
«Su, lentiggini. Bevi un po’ per dimenticare, è così che si fa da queste parti». Ryan mi punzecchiò il fianco con il gomito, ghignando. Apprezzavo il suo – il loro – tentativo di sollevarmi il morale, evitando di farmi pensare a quello che era successo; in fin dei conti, con una birra o due, cosa sarebbe mai potuto succedere?
 
Chissà perché continuavano a fare battute divertenti, tanto che non riuscivo a smettere di ridere. Dollar e Sick poi erano davvero esilaranti. Ryan parlava poco, ma quando lo faceva diventava davvero ironico. Aveva ragione: con una birra tutto si era risolto; pensavo poco a Sophie ed Edge e mi stavo godendo quella serata.
«Vorrei… vorrei un’altra birra, sì!» strillai, appoggiando il boccale vuoto sopra al tavolo e cercando di richiamare l’attenzione di John che vagava tra i tavoli quasi deserti con un’aria triste. Forse, con qualche sorso di birra si sarebbe divertito anche lui lì, assieme a noi.
«Sei ubriaca. È meglio se smetti di bere». Eccolo lì, pronto a rovinarmi tutto il divertimento come il suo solito. Cosa gli interessava se bevevo un altro po’ di birra? In fin dei conti non era il mio O.G., quindi non dovevo di certo sottostare ai suoi ordini, no?
«No. Non son-biaca, ho sete» specificai, senza smettere di ridere e ammonendolo con l’indice perché la smettesse di criticare ogni mio gesto o comportamento.
«Stai ridendo da mezz’ora e hai la testa che ciondola a destra e a sinistra; nel tuo corpo c’è più birra che sangue e sei andata in bagno sei volte. Non sei ubriaca?». Cosa c’era di tanto divertente in quello che aveva detto che lo faceva ridere? No, un momento, la risata che sentivo non proveniva dalle labbra di Ryan.
«Mi scappa la pipì» protestai, incrociando le braccia sotto al seno e guardando arrabbiata il bicchiere davanti a me. Spostai lo sguardo sul tavolo di legno, accorgendomi che non c’era solo un bicchiere, ma ce n’erano tanti, la maggior parte vuoti. Quanto avevano bevuto? «Siete degli ubriaconi, lo sapete? Gua-guardate quanti bicchieri vuoti». Cercai di contarli, ma era difficile, visto che continuavano a spostarsi di qua e di là, senza che riuscissi a fermarli.
«Portala in bagno che poi torniamo a casa. Ho l’impressione che il tragitto sarà lungo» sospirò qualcuno di fianco a me. Mi voltai arrabbiata, cercando qualcosa di cattivo da dire, ma non appena guardai Ryan, non riuscii a trattenermi e cominciai a ridere, così, senza un apparente motivo. In verità, non riuscivo a rimanere seria guardando la sua faccia buffa. Ero sicura che assomigliasse a qualche personaggio di un film che avevo visto, ma non ricordavo il nome.
«Lexi, andiamo in bagno» ridacchiò Aria, mentre Ryan mi prendeva per le spalle, mettendomi in piedi a forza. Che modi! Non ero mica incapace di camminare, insomma.
«Oh» mormorai, ritrovandomi con il sedere per terra e le gambe all’aria. Guardai davanti a me, in alto: Ryan continuava a fissarmi, indeciso se ridere o rimanere serio. Aria invece, trattenendo a stento un attacco di risa, cercò di aiutarmi, dandomi la mano perché potessi alzarmi. Chissà perché ero caduta.
«Dovremmo filmarla e farle vedere il video quando è lucida» propose Ryan, quando, assieme ad Aria, mi incamminai verso il bagno. Chi dovevano filmare, Aria? Era così ubriaca da aver detto qualcosa senza senso?
La guardai, mentre teneva la porta del bagno aperta perché entrassi, ma non stava dicendo niente, aveva solo un sorriso sulle labbra che non se ne voleva andare; un sorriso che un po’ contrastava con i suoi occhi arrossati per il pianto.
Quando uscii dal bagno, sussultai accorgendomi che c’era qualcuno davanti a me, che imitava tutti i miei gesti. «Aria» mormorai, avvicinandomi a lei perché la strana persona non potesse sentirci, «c’è una che imita tutto quello che faccio io». Senza che la ragazza davanti a me potesse notarmi, indicai con un gesto del mento il punto esatto in cui si trovava, ma Aria non guardò nemmeno, cominciò a ridere, appoggiandosi a me per sostenersi. Non sapevo perché, ma era talmente divertente che cominciai a ridere anche io, mentre, sostenendoci l’una con l’altra, uscivamo dal bagno sotto lo sguardo confuso di John.
C’era qualche problema per il fatto che stavamo ridendo? Non potevamo essere felici anche se c’era stato, poche ore prima, il funerale di JC? Ero sicura che, anche se non lo conoscevo bene, non si sarebbe arrabbiato perché ci eravamo scolate un paio di birre. O forse tre, avevo perso il conto.
«Aria, sei ubriaca?». Dollar si avvicinò a lei, appoggiandole una mano sulla spalla e portandole l’altra sotto al mento, costringendola ad alzare lo sguardo verso di lui. Lo sguardo che ci scambiammo io e Aria, prima di cominciare a ridere, sembrò irritare Dollar, che le circondò le spalle, borbottando qualcosa sul portarla a casa sua.
«Aspetta. Io voglio stare con lei, mi diverto». Perché doveva dividermi da Aria? Ci stavamo divertendo così tanto. Probabilmente Dollar fraintese quello che avevo detto, perché cominciò a ridere, assieme a tutti gli altri, avvicinandosi verso l’uscita con Aria, prima di dire a Ryan che li avrebbe raggiunti il più presto possibile.
«Forza, lentiggini, è ora di andare a casa» sospirò Ryan, alzandosi dallo sgabello e avvicinandosi a me. Perché si stava muovendo così, a destra e a sinistra, come se stesse ballando?
«Perché ti muovi in quel modo strano?» chiesi, portandomi un indice al mento, pensierosa. Quello strano modo di muoversi l’avevo visto da qualche parte, forse studiato a scuola…
«Non sono io che mi muovo lentiggini, sei tu. Andiamo a casa» mi riprese Ryan, agitandosi ancora di più. No, era lui che si muoveva, inutile che mentisse con me, non ero ancora scema.
«Ti muovi come se… come la teoria della tettonica delle placche, sai? Hai un piede in Africa e uno in America, che potrebbe anche essere visto che sei alto come un gigante». Ecco cosa c’era di così strano. Si muoveva con un moto ondulatorio – o era circolatorio? –.
«Tettonica delle… andiamo a casa, è completamente andata». Ryan parlava con Brandon e Sick, di fianco a lui, visto che Lebo e quelli che si assomigliavano stavano parlando con John, poco distante da noi. Brandon annuì, dandogli ragione, Sick invece non la smetteva di ridere, divertito da qualcosa.
«Io so che le tette si muovono, la tettonica non la conosco, ma conosco una tettona». Sick si divertiva proprio tanto, e, in fondo, la sua battuta non era così brutta, tanto che cominciai a ridere, avvicinandomi a lui per stringergli la mano: era così divertente quello che aveva detto che volevo congratularmi con lui.
«Sick, cazzo, non darle corda, guarda come si è ridotta. Andiamo a casa». Di nuovo Ryan, con quella sua voce odiosa, bassa e roca e con qualche strano potere che ti faceva voglia di dirgli di sì. Ma non potevo andarmene. No, non volevo andare a casa, volevo rimanere lì, con quel ragazzo che per tutta la sera mi aveva guardato con un sorriso sulle labbra.
«No, voglio stare qui con lui» protestai, indicando il ragazzo moro all’angolo, quello che mi aveva guardato. Ryan cominciò a ridere, spingendomi verso l’uscita con forza, visto che non volevo muovermi. I ragazzi ci seguirono, separandomi ancora di più dal mio uomo. «Perché? Volevo conoscerlo, l’avrei sposato» piagnucolai, avvicinandomi alla porta per entrare prima che Ryan si parasse davanti a me, senza il ghigno divertito di poco prima.
«Sei ubriaca, lascia stare. Adesso andiamo a casa. E ricordatemi che la prossima volta che si ubriaca devo portare una videocamera, cazzo, chissà quanto si vergognerà domani, visto il concerto che hanno inscenato lei e Aria». La mano di Ryan circondò il mio braccio, costringendomi a camminare verso la parte opposta rispetto al locale. Lontano dal mio uomo, lontano dai suoi occhi castani. Perché?
«Voglio andare da lui. Lasciami». Cercai di spostare il braccio ma Ryan strinse di più la presa, sollevandomi quasi da terra. Cercai di protestare, ma quando guardai il suo volto capii cosa avevo pensato dentro al bar. L’aria fresca della sera mi faceva ragionare più lucidamente. Avevo capito.
«Adesso torni a casa per dormire». La mascella contratta e lo sguardo arrabbiato, come se avessi fatto qualcosa di male a lui. Ma perché gli interessava se rimanevo con quel ragazzo così bello al bar? Non volevo mica che mi seguisse! Ero grande, vaccinata e consenziente, lui poteva tornarsene a casa da Butt… Butterfly o quello che era.
«Sai a chi assomigli? Sei la versione cattiva di Falkor. Perché lui ha gli occhi scuri e tu chiari e poi… lui era più bello. Tu sei cattivo, non mi lasci nemmeno tornare lì». Indicai la porta del Phoenix che improvvisamente si era allontanata. Quando ci eravamo mossi così tanto? Perché non mi ero accorta di aver camminato?
«Merda, Brandon, non è quel cane bianco del film?» ghignò Ryan, che aveva il viso stranamente poco distante dal mio. Quando ero diventata così alta? O era Ryan che si era abbassato? Magari si era tagliato un pezzo di gambe, per diventare come tutte le persone normali.
«Ehi! Non è un cane, Falkor è il Fortunadrago de La storia infinita, sei un ignorante, porca vacca» sbuffai frustrata. Nessuno che si ricordava che Falkor era il Fortunadrago. Non era un cane, non era un cane bianco.
«Ha detto porca vacca? Sick, Brandon, ha detto porca vacca? L’ho sentito davvero?». Perché Ryan era tanto divertito da quello che avevo detto? E soprattutto perché continuavamo a camminare così velocemente? Non mi sentivo nemmeno le gambe, concentrata com’ero a fissare Ryan e quello strano neo che aveva sulla tempia. Non me ne ero mai accorta, chissà se era finto; magari se l’era disegnato.
Sick e Brandon ridacchiarono, aprendo il portone del nostro palazzo e aspettando che entrassimo prima di chiuderlo alle nostre spalle. Ma dove erano finiti Lebo e gli altri due, i gemelli?
«Siamo arrivati, riesci a stare in piedi?» domandò Ryan, piegandosi un po’. Perché si stava piegando? Voleva forse fare qualche battuta sulla mia non-altezza?
«Ehi! Perché state ballando di nuovo?» ridacchiai, indicando Brandon, Ryan e Sick davanti a me. Continuavano a muoversi come al bar, con quello strano movimento che mi ricordava quella cosa di Scienze. Ryan sospirò, strofinandosi il viso con una mano in un gesto stanco; Brandon cercò di non ridere. Sick, invece, si avvicinò a me, con il solito ghigno che usava quando voleva parlarmi di qualcosa di porno.
«Lexi, se vuoi, questa sera sono libero» mormorò, ammiccando. Dovevo dirgli, una volta per tutte, che non mi interessava fare niente con lui. Non era il mio tipo. Mi piacevano i californiani, quelli che facevano surf. Belli, alti, biondi e con gli occhi azzurri. Sick non rispecchiava quelle caratteristiche, soprattutto perché, i fissati con i porno erano decisamente… inquietanti.
«Buonanotte Sick. Guardati un bel porno stasera e divertiti tanto tanto. Sai che mi sei simpatico, di solito? Ma quando vuoi trombarmi mi fai paura. Chissà quante cose sai fare con tutti i film che hai visto, magari un giorno mi insegnerai qualcosa». No, forse non era il modo migliore per fargli capire che non mi piaceva, ma non ero riuscita a rimanere seria di fronte alla sua espressione sconvolta. Dovevo però salutare anche Brandon e Ryan, visto che sapevo era maleducazione non farlo. «Brandon, grazie. Di cuore. Sei davvero gentile, l’unico gentile. Grazie per le birre di stasera». Lo abbracciai, prima di prendere un respiro profondo e prepararmi a salutare Ryan: «e tu, versione cattiva di… Falkor, ciao. Salutami Butterfly che stanotte si rotolerà nei vostri letti e buonanotte». Cercai la chiave di casa in borsa quando mi sfuggì dalle mani, facendomi ridere: era caduta a terra con un suono davvero buffo.
«Ryan, è completamente fuori» mormorò Brandon, aiutandomi a prendere la borsa, ma soprattutto a rialzarmi. C’era qualcosa che mi premeva all’altezza delle tempie e sentivo un rumore fastidioso.

«Te ne sei accorto adesso? È da quando ha parlato della tettonica a placche che ne ho avuto la conferma. Lentiggini, ascoltami, ce la fai a entrare in casa e arrivare in camera senza sbattere contro pareti o mobili?». Perché Ryan mi stava parlando a pochi centimetri dal viso e lentamente, come se avesse paura che non riuscissi a capire le sue parole?
«Ma hai gli occhi azzurri, azzurri, azzurri. Mai visto occhi così tanto azzurri». Mi avvicinai di più al suo viso, per guardarlo meglio. Poi, mi ricordai degli occhi di quel ragazzo che al Phoenix mi aveva guardata per tutta la sera e presi una decisione. «Notte. Io torno al Phoenix, devo parlare con quel ragazzo con gli occhi castani». Stavo quasi per scendere le scale quando qualcosa mi bloccò, stringendo attorno al mio polso. Quando mi voltai vidi la mano di Ryan che mi teneva ferma, impedendomi di avanzare. «Dai, lasciami, voglio andare al Phoenix a bere una birra con quel ragazzo» piagnucolai, cercando di impietosirlo. Per tutta risposta Ryan mi trascinò lungo tutto il pianerottolo, fino alla porta del mio appartamento.
«Arrangiati, non so che cazzo farci con lei e mi ha stufato» sbottò, prendendo poi una sigaretta dalla tasca dei jeans e scendendo le scale per uscire a fumare. Non salutò nessuno, né Brandon né Sick, né me. Gentile, certo. Ero sempre più convinta che fosse la versione cattiva di Falkor il Fortunadrago.
«Dai Lexi, andiamo a dormire» propose Brandon, aprendo la porta del 3C. Quando aveva preso le mie chiavi? E soprattutto chi gli aveva dato il permesso di entrare in casa mia? Come se per lui fosse stato tutto normale, si avvicinò al divano, sedendosi con un sospiro e guardandomi, perché lo imitassi.
Mi avvicinai a lui titubante, perché non sapevo bene che cosa fare, ma soprattutto perché mi veniva da ridere, vedendolo così stanco. Socchiudeva gli occhi lentamente, come se si stesse addormentando. Con un ghigno indietreggiai lentamente, avvicinandomi alla porta e chiudendola il più piano possibile per non svegliarlo. Sarei andata al Phoenix, da quel ragazzo!
 
«Cazzo» mi lamentai, portandomi le mani alle tempie. Era da mesi che non mi svegliavo con un dopo sbronza del genere. Mugolai, rigirandomi tra le lenzuola, incapace di guardare che ora fosse. Oddio. Il turno al Phoenix. Mi misi a sedere di scatto e… pessima mossa. Di nuovo quelle fitte alla testa che mi costringevano a rimanere con gli occhi chiusi perché la stanza stava girando. Ma non riuscivo a capire come mi ero addormentata, visto che vedevo – con gli occhi socchiusi – la luce arrivare da destra. Io però sapevo di avere la finestra a sinistra del letto.
Mi guardai attorno, improvvisamente sveglia e dimentica del mal di testa: quella non era la mia camera. Dov’ero? Cercai di ripercorrere la serata per capire cosa fosse successo, ma era impossibile, visto che ricordavo solo episodi sporadici, come il ridere assieme ad Aria nel bagno del Phoenix o gli occhi azzurri di Ryan. Quello che mi preoccupava maggiormente era il mio ultimo, confuso, ricordo: Brandon si era addormentato sul mio divano e io ero uscita da casa per andare al Phoenix, dal ragazzo che mi aveva guardata per tutta la sera. Mi guardai attorno, cercando di capire dove fossi: c’erano un paio di poster di ragazze mezze nude appese alle pareti, una sedia con sopra un cumulo di vestiti, una chitarra appoggiata all’angolo e un pianoforte a muro.
Incuriosita e spaventata, cercai di alzarmi dal letto per guardarmi attorno e sospirai sollevata quando mi accorsi che indossavo l’intimo. Non potevo aver… no, non ero così ubriaca da non sapere quello che avevo fatto, vero?
Quando il mio piede toccò il pavimento freddo rabbrividii, sollevando la gamba istintivamente. Ci dovevo riprovare, dovevo assolutamente capire dov’ero. Trattenendo il respiro tornai ad appoggiare il piede per terra, alzandomi lentamente e con movimenti cauti e misurati, sapevo per esperienza che ogni movimento brusco poteva farmi cadere per terra, o peggio, vomitare.
Mi avvicinai al pianoforte vecchio e logoro: c’era un posacenere pieno sopra e un pacchetto di sigarette vuoto, accartocciato di fianco. Portai i polpastrelli a sfiorare i tasti, senza premerli per suonarli; bianco e nero che si alternavano, tasti ingialliti dal tempo e addirittura scalfiti da qualcosa. Chissà di chi era quel pianoforte.
«Oh, buongiorno». La voce parlò alle mie spalle, facendomi sussultare spaventata. Non avevo nemmeno il coraggio di voltarmi per guardare a chi appartenesse. Non sapevo nemmeno se avevo passato la notte con lui e forse non volevo nemmeno saperlo. Rimasi immobile, aspettando non sapevo nemmeno cosa. «Lentiggini?». Sentendo quella parola sospirai sollevata: era Ryan. Mi voltai tranquilla, prima di rendermi conto che, se mi trovavo nella sua camera…
«Ho dormito con te questa notte?» domandai, cercando di non far notare quanto fossi preoccupata da quella risposta. Ero sicura che non fosse successo nulla, non con Ryan; ma ero ubriaca, e continuavo a non ricordare cosa fosse successo.
«Dormito non è il termine che userei, ma se vuoi chiamarlo così…». Fece spallucce, sedendosi in fondo al letto e stiracchiandosi la schiena e le braccia.
Oddio. No. Non poteva essere vero, non ero così ubriaca da aver fatto qualcosa di inopportuno con Ryan. Probabilmente mi stava prendendo in giro, come il suo solito. Ricordavo di essere scappata dal mio appartamento mentre Brandon si addormentava, potevo usare quella scusa per vedere quanta verità ci fosse nelle sue parole.
«Cosa è successo?». Mi appoggiai con la schiena al bordo del piano, attenta a non rompere o spostare nulla. Ryan sospirò, come se ammettere quello che mi stava per dire gli costasse un grande sforzo. Si sistemò meglio sul letto, appoggiando i gomiti alle ginocchia e guardandomi senza nessuna traccia di ironia nel suo viso: era davvero serio.
«Siamo arrivati a casa e Brandon ti ha accompagnata nel tuo appartamento, ma poco dopo sei uscita, mi hai visto mentre stavo fumando, ti sei avvicinata a me, hai tolto la sigaretta dalle mie labbra e mi hai baciato. Per essere più precisi direi che mi hai assalito, eri aggrappata a me e mi hai intimato di andare in camera mia perché altrimenti avresti usato la rivoltella che ti abbiamo regalato. Così siamo venuti qui, e poi…». Si fermò, senza smettere di guardarmi, scrutandomi in cerca di qualche gesto da parte mia. No, non ci credevo. Non avrei mai fatto una cosa del genere nemmeno da ubriaca, tantomeno con Ryan.
«È una bugia, non ci credo» mi impuntai, incrociando anche le braccia sotto al seno per sembrare più convinta. Improvvisamente mi ricordai che ero solo in intimo e spalancai gli occhi, guardandomi attorno in cerca dei miei vestiti. Li trovai sparsi per terra. Male, questa cosa supportava la tesi di Ryan, ma potevo anche essermeli tolta io per il caldo durante il sonno; sì, doveva essere così.
«Chiedi a Sick che si è lamentato per le tue urla tutta la notte». Non riuscì a trattenere un ghigno soddisfatto, mentre mi infilavo la maglia il più in fretta possibile. Urla, Sick? No, mi stava prendendo in giro; sicuramente credeva che non avessi il coraggio di chiedere conferma a Sick e si era inventato una bugia per prendersi gioco di me, come il suo solito.
«Dov’è?» domandai, infilandomi i pantaloni e indossando velocemente le scarpe che avevo trovato poco distante dal piano. Gli avrei parlato, mi sarei fatta dire la verità che, ne ero sicura, non era quella che mi stava raccontando Ryan.
«In cucina, sta facendo colazione con i ragazzi». Ryan si alzò, seguendo i miei movimenti quasi come un automa: sembrava la mia ombra mentre, dalla camera, camminavo verso la cucina a passo spedito curiosa di scoprire la verità.
«Lexi, mi hai stupito. Io… non ti facevo così, vorrei davvero congratularmi con te. Il modo in cui urli… sei quasi meglio di Stoya, credimi. Per non parlare di tutto quello che dovete aver fatto; il letto che sbatteva contro al muro e il rumore delle molle. Io… volevo essere al posto di Ryan». Lasciò cadere il biscotto nel latte, alzandosi e avvicinandosi a me per stringere la mia mano con foga. I suoi occhi mi guardavano quasi con ammirazione. No, mi stavano prendendo in giro, si erano concordati tra di loro per deridermi, ne ero sicura. Sick e Ryan l’avrebbero fatto, ma Brandon no. Lui era il più leale di tutti e di sicuro non mi avrebbe mentito.
«Brandon?» domandai, una nota isterica nella voce perché cominciavo a temere davvero che fosse la verità. Non potevo aver fatto sesso con Ryan e non ricordare niente, era impossibile.
«Io ho preso sonno sul tuo divano e quando mi sono svegliato credo che la vostra sessione fosse finita, perché non ho sentito nulla» spiegò, tenendo le mani alzate e parlando con la bocca piena di biscotti al cioccolato.
No, non poteva essere vero. Io non avevo fatto sesso con Ryan, non era mai successo nemmeno in California, durante le vacanze di primavera, quando bevevo molto più di un paio di birre. Mi stavano tutti prendendo in giro per deridermi.
«Ci credi?» domandò Ryan, aprendo il frigo e bevendo del succo di frutta direttamente dal contenitore. No, no che non ci credevo. Non potevo davvero essermi comportata in quel modo. Non era nella mia natura e soprattutto non era mai successo.
«No, mi state prendendo in giro. E poi… no, non ero io. Non posso essere stata io». Ne ero convinta e non mi avrebbero di certo fatto cambiare idea. Me ne sarei ricordata, non potevo dimenticare quello che succedeva. Invece, dopo il ricordo confuso di essere scappata da Brandon, c’era solo un enorme buco nero, come se mi fossi addormentata.
«Che palle. Ryan, non ci è nemmeno cascata» sbuffò Sick, irritato, tanto che sbatté il pugno sulla tavola, facendo tremare le tazze che c’erano sopra. Quindi avevo ragione, mi avevano solo preso in giro, non era successo niente.
«Che stronzi! Perché mi avete detto che ero andata a letto con Ryan? Credete che fossi così ubriaca da non ricordare quello che ho fatto? So che siamo andati al Phoenix e so che vi ho raccontato quello che è successo a LA» conclusi in un sussurro, abbassando lo sguardo al ricordo di tutto quello che avevo detto. Nonostante il mal di testa dovuto alla sbornia della sera prima, non mi ero di certo dimenticata di Sophie ed Edge. Quello non sarebbe mai successo.
«Perché volevo sentire cosa avresti detto. Ieri sera mi hai stupito con un paio di battute  e la tua volgarità e volevo sentire fino a che punto stamattina ci avresti creduto. Cosa ti ha fatto capire che era una bugia? Ryan, vero? Se ti avessimo detto che eri venuta con me non avresti avuto dubbi, no?». Sick era davvero deluso, come se fosse stato lo scherzo dell’anno. Ma mi credeva così stupida? Certo, forse, un po’, all’inizio ci avevo creduto, ma mi ero resa conto quasi subito che non era possibile una cosa del genere.
«Forse perché l’hai fatta apparire come una pornostar, Sick. Urla, letti cigolanti e sbattuti contro il muro… un po’ troppo. Se ti fossi fermato a gemiti e urla ci avrebbe creduto. Non ce la vedo lentiggini così pornostar». Ryan mi guardò, scrutandomi, come se stesse cercando di capire qualcosa. Ma come si permetteva? Non sapeva niente di me, voleva anche indovinare come facevo sesso?
«Sentite, andate tutti a fanculo! Non permettetevi di dire certe cose su di me, e soprattutto non vi interessa di certo se urlo, grido, faccio cigolare i letti o chissà cosa. Non sono fatti vostri». Ero davvero irritata dal loro comportamento. Chi credevano fossi, Butterfly? No, decisamente, visto che non mi interessava essere la Signora di nessuno e tantomeno volevo provarci.
«Sei stata tu che ieri sera, mentre cantavi Bruce Springsteen continuavi a dire che a letto sei una tigre. E questo non me lo sono inventato, chiedi ad Aria. Spero solo che se lo ricordi, visto che duettavate al Phoenix, cantando Born in the USA». Ecco, questo era tipico di me, lanciarmi in cover a cappella, improvvisandomi cantante con qualsiasi cosa avessi sottomano. Ma non riuscivo a ricordare nemmeno quel passaggio, quindi, per quanto ne sapevo, poteva benissimo essere una bugia anche quella.
«Brandon, mi fido solo di te. Non dirmi che ti eri addormentato sul mio divano perché c’eri al Phoenix, quindi non hai scuse. È vero?». Sapevo che non mi avrebbe mentito, Brandon era buono e di certo non riusciva a raccontare bugie, non poteva. Avevamo creato uno strano rapporto, sapevo che lui era sincero con me.
«Come canti tu Bruce non lo fa nessuno» ridacchiò, cominciando a dondolarsi sulla sedia in modo quasi pericoloso. Se fosse caduto avrebbe battuto la testa da qualche parte, causandosi magari qualche tipo di trauma. Cercai di avvertirlo, ma sembrò capirlo dal mio sguardo, perché ridacchiò, sedendosi poi composto. «Io vi iscriverei a una gara di karaoke Lexi, potreste vincere, dico sul serio». Non riuscì a rimanere serio, cominciando a ridere senza nemmeno trattenersi.
Bene, insomma. Per una volta in cui mi ero lasciata un po’ andare e avevo abbassato la guardia mi ritrovavo tutti a prendersi gioco di me: sembrava che avessi cantato a squarciagola sopra ai tavoli del Phoenix, che fossi tornata a casa urlando le mie doti a letto e che poi mi fossi data alla pazza gioia con Ryan. Ma c’era qualcosa di vero, in tutto quello? Ero sicura che l’unica persona sincera fino in fondo, che non si sarebbe mai presa gioco di me, fosse Aria.
«Sentite, voi continuate a ridere da soli per qualcosa che non è successo, io invece vado a fare  la spesa e dopo vado da Aria». Presi la borsa che avevo appoggiato sulla sedia e senza salutare nessuno uscii, per andare a casa mia a prendere un po’ di risparmi – gli ultimi –per la spesa.
Speravo solo che John mi pagasse a fine mese, altrimenti avrei dovuto trovare un impiego che mi permettesse di pagare l’affitto per quel mese.

 
 
 
 
Salve!
Sì, lo so, è passata meno di una settimana dall’ultimo aggiornamento, ma il capitolo era pronto e non ho resistito. Anche perché, lo ammetto, non so nemmeno quando pubblicherò l’altro.
Quindi, niente… spero che questo capitolo un po’ “a sorpresa” vi sia piaciuto. Diciamo che possiamo dividerlo in due: la prima parte decisamente seria con la storia di Lexi (ve l’avevo anticipato più e più volte, avevo detto che il video di You Found Me dei The Fray aveva uno spoiler sul passato di Lexi). Insomma, magari è improbabile come cosa e forse addirittura esagerata, vista la sua sfiga, ma io credo che sia possibile. Come se la sua vita fosse stata perfetta fino al primo giugno e poi avesse cominciato a vedere l’altro lato della medaglia.
E poi c’è la storia di Dollar, una cosa a cui tenevo particolarmente. L’ho scritta con una canzone in sottofondo e piangevo da sola, perché c’era qualcosa nel tono della sua voce che mi ha davvero commossa. E si spiega anche il mistero di Aria e il suo legame con JC (che, nel caso non fosse chiaro, era il meccanico amico di Ryan e Brandon, ma non lo zio di Ryan).
E si passa alla seconda parte, quella demente (ma non tanto). Ci sono delle piccole cose che ho messo dentro e che logicamente non vi elenco. Qualche curiosità, ecco. Forse su un paio di personaggi o forse più :P ditemi se le trovate.
Per quanto riguarda Falkor e La tettonica a Placche… le ho inserite!:P (per chi non è nel mio gruppo FB, non sono pazza, semplicemente ho indetto una sfida: voi mi dite due parole strane che io devo inserire nel capitolo; questa settimana erano quelle).
Infine, come sempre, vorrei ringraziare preferiti, seguiti da ricordare, chi mi inserisce tra gli autori preferiti e chi commenta la storia. Ma anche chi legge.
Grazie grazie grazie! <3
Infine, come sempre: Nerds’ corner è il gruppo spoiler, trovate tutto lì e di solito rompo le palle con spoiler e altro ogni giorno, tanto che sono sicura sono già stanchi di me.
Al prossimo capitolo (che, ripeto, non so con precisione quando arriverà).
Un bacione.
   
 
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