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Autore: Alkimia    19/04/2012    1 recensioni
"C'era stato il tempo del dubbio, poi era venuto il tempo della speranza, poi era stata la volta della delusione, della rabbia, e infine della follia.
Erik si chiese cosa rimaneva di un uomo, una volta trascorsa anche la stagione della pazzia."

Anno 1871: non è più Parigi, non è più l'Opera Populaire, niente più angeli o muse, eppure l'uomo che si cela dietro la maschera sa che deve andare avanti, anche se non sa più il perché. Anno 1892: un giovane straniero arriva in Francia, con un vecchio diario da leggere e una storia di cui scoprire i misteri.
E sulle loro vite aleggiano i medesimi fantasmi.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo tredicesimo
Mastro Pulcinella


~ Napoli, 23 novembre 1870 ~

Aveva creduto davvero che sarebbe morta. Mentre il fumo copriva tutto e le toglieva l'aria, l'unica cosa a cui era stata in grado di pensare era quanto fosse tremendo morire poco dopo che si è trovata una ragione vera per cui vivere. Perché lei l'aveva trovata una ragione per cui vivere, ne era certa. Era certa che lui, il suo André, sarebbe stato lì ad aspettarla quella sera, quando sarebbe rientrata, che l'avrebbe portata via, lontano... sì, perché per lui avrebbe lasciato anche la sua amata città, avrebbe lasciato ogni cosa. E la paura che aveva avuto di perderlo il quei giorni, l'idea che ci fosse un'altra donna che si stava mettendo tra di loro, era solo un pensiero sciocco, la congettura assurda di un cuore troppo innamorato. Ah, perché lo amava, così irrimediabilmente, amava quel folle, vanesio, strambo ragazzo francese. E lui amava lei, certo. Anche se l'aveva lasciata andare da sola a quella festa in campagna, non voleva dire che fosse con un'altra, non voleva dire proprio niente, perché lei lo avrebbe trovato lì ad aspettarla per lasciarsi portare in capo al mondo, ovunque...
Ma il suo bellissimo André avrebbe atteso invano. Lei non sarebbe mai più tornata, non sarebbe uscita da quell'inferno e sarebbe stata confinata in un infinito girone di dannazione a rimpiangerlo per sempre.
Il crepitare del fuoco era un rumore fortissimo e assordante, non le era mai parso così tremendo quando da bambina guardava i pupazzi di paglia bruciare la notte di Sant'Antonio. Non le era mai parso così aggressivo, così ostile, così crudele.
Il fuoco sembrava avere una voce, sembrava ridere e sembrava gridarle: «Sei mia! Mia... miamiamia!».
Il dolore la inchiodava al pavimento più del peso di quella trave che le era crollata addosso. Era un dolore da smarrire il senno, che affondava dentro di lei come una lama, come mille lame che pugnalavano contemporaneamente lo stesso angolo di pelle. Lo aveva sentito, l'odore nauseabondo del suo corpo che bruciava, la stava accompagnando verso l'inferno ed era un viaggio senza ritorno.
Il fumo poi si fece più grande di qualsiasi cosa, come un'enorme muraglia fatta di briciole di cenere che danzavano nel vuoto, sovrastò tutto, l'aria, la luce, il fuoco stesso. Sovrastò anche lei e Lucia chiuse gli occhi pensando che non li avrebbe riaperti mai più.
Invece li riaprì, attorno a lei c'era l'azzurro dolce e accogliente della sua stanza all'Araba Fenice e un tremendo olezzo di fiori che le fece venire un conato di vomito. La stanza traboccava di fiori, come una cappella del cimitero subito dopo un funerale. Quei fiori erano l'ultimo omaggio di una città che l'avrebbe dimenticata nel giro di poche settimane, ma lei ancora non poteva saperlo.
Lucia spalancò gli occhi, l'azzurro e il colore dei fiori furono sommersi da scintille scure che le appannarono la vista. Il dolore alla spalla era lancinante, la giovane premette il viso contro il cuscino per soffocare il grido e pregò di perdere di nuovo i sensi, pregò di morire piuttosto che doverlo sopportare di nuovo.
Era stesa a pancia in sotto, quando fu in grado di guardarsi attorno vide il viso di Madame Fantine chino su di lei e sentì i bisbigli delle altre ragazze accalcate accanto alla porta.
«Si è svegliata, si è svegliata...» mormorarono
«Lassa ffà a Maronna*!».
«Ssst, oche! Andatevene a starnazzare da un'altra parte» le rimproverò Madame Fantine, agitando le mani come se stesse allontanando un insetto molesto.
Le ragazze sgusciarono via; nella stanza ora c'erano solo lei e Madame.
«Dov'è?» disse Lucia, mettendo assieme a fatica il fiato necessario a pronunciare quelle parole. Lo sguardo della donna al suo capezzale era colmo di risposte troppo tristi per essere anche solo prese in considerazione. Il dolore alla spalla la inchiodava lì, le spezzava il respiro, le annebbiava i pensieri.
«Potete... potete mandarlo a chiamare?...». Stava implorando.
«L'ho già fatto. Non è venuto».
Lucia credeva che non ci fosse niente di peggio di quel dolore assurdo che aveva sentito, ma adesso qualcosa di molto più terribile la stava straziando dall'interno.
Scoppiò in un pianto disperato, dibattendosi contro il materasso. Ad ogni movimento la spalla pulsava, bruciava, formicolava. Il dolore era esteso dalla scapola fino all'interno del braccio, e arrivava quasi ad altezza del gomito, ma non le importava.

Il dottore le aveva detto che doveva restare immobile il più possibile perché la ferita da ustione si rimarginasse al meglio. Lo sfregio sarebbe rimasto per sempre, ma se fosse riuscita a far risanare la pelle nel modo adeguato non avrebbe corso il rischio di perdere la funzione muscolare e quindi l'uso del braccio. Veniva a somministrarle regolarmente generose dosi di morfina per il dolore, le disse che lentamente sarebbe sparito anche quello.
Non le importava, c'era un dolore assai più profondo per il quale non esistevano medicine.
Ah, ma doveva esserci una spiegazione. Andrè non l'avrebbe mai lasciata, non così. Forse l'aveva creduta morta, forse il messaggio di Madame Fantine non gli era arrivato. Doveva vederlo.
«Non esiste proprio che voi lasciate questa stanza!» aveva esclamato Madame quando lei le aveva detto che sarebbe uscita e sarebbe andata a cercarlo.
Non aveva la forza di questionare, lasciò che la donna sbuffasse e imprecasse e che poi se ne andasse. Lasciò che il medico venisse a somministrarle la dose serale di morfina, e lottò per lunghi minuti contro l'effetto del farmaco, non voleva dormire, voleva solo che le andasse via il dolore quel tanto che bastava per reggersi in piedi.
Vestirsi fu un supplizio tremendo; la pelle dalla spalla all'avambraccio era tesa, i muscoli non sembravano rispondere a dovere, ma alla fine ce la fece. Uscì di nascosto, dal retro del palazzo, avvolta in un pesante mantello di lana per proteggersi dal freddo. Percorse quasi trascinandosi il labirinto di viuzze che spuntava sul viale davanti al San Carlo, costeggiò Palazzo Reale e poi voltò a destra, verso il lungomare con le gambe che tremavano e sembravano sul punto di spezzarsi per l'effetto della morfina, ma lei proseguì e spuntò in quella strada dove affacciavano tutti gli alberghi e i ristornati che attraevano i turisti e i signori benestanti. C'era stata tante in volte in quasi tutti quei posti bellissimi, c'era stata anche con André, sapeva che lui doveva essere lì, alla Ginestra, era il suo preferito.
Si avvicinò cauta alla vetrina, all'interno era tutto bianco e giallo, con enormi ginestre disegnate sulle pareti. E lui era lì... lì con lei, le loro mani erano intrecciate sulla tovaglia color oro, i loro visi sorridevano. Erano lontanissimi, oltre quel vetro, lontanissimi da lei, dalla sua pena, dal suo dolore.
«Vattenne!» borbottò una voce aspra. Un cameriere era uscito e l'aveva spinta via con fare brusco, forse l'aveva presa per una mendicante.

No, no... voglio stare qui e guardare... voglio che mi si fermi il cuore con la loro gioia!

L'avevano trovata la mattina dopo, all'alba, sotto il porticato del teatro. Lei non ricordava nemmeno come aveva fatto ad arrivarci, con quale forza aveva percorso la strada del ritorno fin lì, prima che la disperazione e la morfina avessero la meglio.
Si era risvegliata nuovamente nella sua stanza. Madame Fantine era furiosa, ma cercava di trattenersi.
«Cosa vi ho fatto, eh? Lucì, cosa vi ho fatto per farmi morire di paura? Come vi è venuto in testa?». La donna ripeteva ossessivamente quelle domande, tormentandosi la gonna e alzando le mani al cielo.
«Dovevo vedere...» rispose debolmente la ragazza.
«Dovevate vedere? Ma che cosa volevate trovare?! Non lo sapete che per quelli come noi l'amore non ci sta?».
Era vero. Era stata sciocca lei a credere il contrario...
«E comunque» continuò Madame con il tono colmo di ansia. «Il dottore dice che vi è andata bene stavolta! Ma se fate un'altra sciocchezza va a finire che quel braccio ve lo dobbiamo tagliare!».
Che lo tagliassero! Che la facessero a pezzi... tanto ormai di lei rimaneva così poco...

*******

~ Napoli, 22 aprile 1871 ~

«E dai, com'è che non ci volete dire niente? Così brutto è stato?» disse Carla, una delle più giovani ragazze che lavoravano all'Araba Fenice, versando altro olio sulle verdure lessate.
Madame Fantine aveva fatto di quella casa una sorta di collegio. Aveva attrezzato il retro della palazzina perché fungesse da cucina e refettorio, aveva assunto delle cameriere che si occupassero di sistemare le stanze e preparare i pasti. Le ragazze vivevano lì, tutte assieme, e non sentivano la miseria. Era più di quanto potevano aspettarsi giovani donne sventurate come loro e Lucia era certa che tanto bastava a Madame per essere in pace con se stessa. Certo, doveva dargliene atto, aveva sentito di altre case di malaffare dove le cose andavano veramente male per chi ci lavorava. Lì, tutto sommato, tra la clientela di alto rango e il posto confortevole, quelle esistenze da esiliate potevano assomigliare a vite normali.
«E dai, Lucì, raccontate!» aggiunse un'altra ragazza.
«Eh, raccontate, che mi sta venendo il curioso pure a me» si intromise Madame Fantine. «Com'è sto signore?».
Lucia si strinse nelle spalle. Quei discorsi erano di prassi, le ragazze non facevano altro che parlare dei loro clienti e non c'era segreto che potesse essere tenuto tra quelle pareti, anche se nessuno di quei segreti sarebbe mai uscito dalla palazzina; era una sorta di dovere che Madame Fantine riteneva di avere verso i suoi clienti. Le ragazze potevano spettegolare tra loro quanto volevano, ma di quei pettegolezzi nemmeno una virgola doveva varcare la soglia dell'Araba Fenice.
«Non c'è veramente niente da dire» disse Lucia scuotendo il capo.
Oh, in realtà ci sarebbe stato molto da dire, ma non del genere di cose che alle ragazze si sarebbero divertite ad ascoltare.
Certo, il fatto che Erik non fosse mai stato con una donna prima di quella sera avrebbe potuto essere un interessante argomento di discussione, ma non era un pettegolezzo che Lucia aveva voglia di condividere e il resoconto della serata non avrebbe avuto molto senso se avesse celato quel particolare. Non sarebbe riuscita a spiegare in altro modo la strana, goffa dolcezza di Erik nel momento dell'amplesso, né il suo algido e imbarazzato distacco dopo.
«E voi mi volete far credere che uno come quello lì è normale?» sbottò Madame Fantine ridendo.
«Assai più di molti altri uomini con i quali ho avuto a che fare» dichiarò Lucia. Il che, da un certo punto di vista, era vero.
«Ma che ha detto? Che torna?» chiese Carla con interesse.
«E certo che torna! Quando mai uno non è tornato da Lucia!».
Questo invece non era affatto vero.

*

Guglielmo si alzò di scatto, buttando per aria lo sgabello che cadde facendo una baccano di inferno quando andò sbattere contro le assi di legno del palcoscenico.
Erik non lo credeva possibile, ma il giovane Marchesi era arrossito più del solito, in quel momento la sua faccia si sarebbe mimetizzata perfettamente tra le pieghe del sipario color cremisi.
«Oh, Maestro» squittì il direttore del San Carlo. «Mi avete spaventato».
Erik gli si avvicinò e gli batté una mano sulla spalla. Il gesto sorprese entrambi gli uomini.
«Stavate suonando. Non sapevo che sapeste suonare» disse il musicista straniero.
Guglielmo si passò i palmo delle mani sul davanti della giacca e boccheggiò nel tentativo di mettere insieme qualche parola.
«Io... ehm, sarei diplomato al Conservatorio, sapete? Ma la parola suonare pronunciata da voi assume tutto un altro significato».
Erik inarcò il sopracciglio. Era lì da un mese e non aveva mai saputo che Marchesi era un musicista – un discreto musicista, a giudicare da ciò che aveva appena sentito. Quando il duca gli aveva raccontato la storia del figlio del banchiere si era limitato a spiegargli che Guglielmo si era ritrovato, del tutto impreparato, a ricoprire la carica di direttore del teatro solo perché costretto dalle ambizioni della famiglia. Lui non si era mai dato pena di scoprire di più.
Aveva sempre considerato gli altri come degli strumenti ed era certo che in quella situazione fosse egli stesso nient'altro che un mezzo per salvare Marchesi dalla triste figura che avrebbe fatto se non fosse riuscito ad allestire lo spettacolo secondo i desideri del sindaco. Non c'era nient'altro, era certo che le azioni umane fossero, per lo più, spiegabili con l'opportunismo, lui stesso non era stato mosso che da quello... anche quel giorno di tanti anni prima quando aveva raccontato a una bambina di essere il suo Angelo della Musica, e aveva usato quella bambina per portare nel mondo un po' del suo genio rinchiuso nell'oscurità. Poi quella bambina era cresciuta ed era diventata il mezzo attraverso il quale il Figlio del Diavolo avrebbe potuto perseguire la propria salvezza.

«È nella tua anima la vera deformità»

Era vero, tremendamente vero, più di quanto Christine stessa aveva potuto intuire, più di quanto tutta quella gente che si chiedeva cosa ci fosse dietro la sua maschera o dentro al suo passato avrebbe potuto immaginare. 
«Sapete, ho riflettuto» disse all'improvviso Guglielmo, mettendosi a passeggiare su e giù per il palco. La sua voce si perdeva nel maestoso silenzio del teatro vuoto. «Ho riflettuto su quello che mi avete detto, riguardo a Graziana».
Erik dovette sforzarsi di ricordare quando avevano parlato di Graziana e cosa si erano detti. Era stato uno dei suoi pochi slanci davvero umani e disinteressati verso il suo prossimo e lo aveva già quasi rimosso.

«È nella tua anima la vera deformità»

«Non volevo turbarvi con quel discorso, credetemi» dichiarò cupo.
«No, certo che no. È che, vedete, anche se potreste aver ragione... io la amo. Ecco, l'ho detto». Guglielmo si lasciò scappare un forte sospiro liberatorio. Non che la cosa non fosse evidente anche alle statue sul frontone del teatro, ma quell'uomo doveva aver tenuto dentro di sé quelle parole così a lungo che avrebbe rischiato di esplodere se non le avesse pronunciate davanti a qualcun altro in grado di ascoltarle.
Ma perché, con tante persone, aveva scelto proprio lui per discutere la faccenda?
«Sono l'ultima persona al mondo con la quale dovreste parlare di queste cose» disse con semplicità.
«Voi dite, Maestro? Siete la persona con la quale io abbia parlato di più in vita mia».
Se per parlare, Marchesi intendeva le interminabili sequele di ciarle snocciolate davanti alle infinite tazze di caffè, allora forse poteva anche essere vero. E se era vero, era molto triste, quasi più triste del fatto che quel suo amore non gli avrebbe portato altro che pena.
All'improvviso Marchesi ridacchiò, una risatina acuta e nervosa,
«E, perdonate l'impudenza, ma ho il sospetto che anche io sia la persona con cui  voi abbiate parlato di più. Da diverso tempo a questa parte, almeno» asserì scuotendo il capo.
Erik stava per dargli ragione, ma si ricordò di un'altra persona con la quale aveva trascorso assai meno tempo di quanto ne aveva passato con lui, ma con la quale aveva parlato almeno il doppio: Lucia. Quella sera, nel seminterrato, avevano discusso di spettacoli teatrali per ore, e poi due giorni prima, quando aveva passato la notte con lei, lo aveva ascoltato per un tempo che doveva esserle sembrato interminabile, lo aveva ascoltato parlare di Parigi, della neve che trasformava il piazzale dell'Opera in una immensa distesa di bianco, della Senna che scorreva sotto i ponti e che lui aveva visto solo di notte, come un laccio di seta nera accarezzare la città... tutte cose che a lui stesso erano sembrate sciocche e insignificanti ma che ora ridisegnavano il profilo di ricordi carichi di rimpianto. Se solo avesse provato allora a fidarsi un po' di più del mondo... ma il mondo per lui si era condensato tutto negli occhi di una fanciulla che gli aveva voltato le spalle ai primi sospiri di un bellissimo e imberbe corteggiatore.
Chissà, forse Lucia sarebbe stata capace di ascoltarlo persino se le avesse parlato di Christine. Il cuore di quella ragazza dai capelli corvini era spezzato come il suo... forse in pezzi meno piccoli, forse meno marcio, ma di certo non era intatto né immacolato.
«Mi piace pensare che sia all'amore che devo la mia pena e la mia condanna» disse Erik, con lo sguardo che si perdeva nel vuoto, fuggendo lontano a ricalcare il profilo di ombre infinite che si trascinavano sotto terra, fino alle sponde di un lago sepolto in mezzo al buio. «Ma a volte ho l'impressione che l'amore vero sia ben altra cosa rispetto a ciò che ho provato io. A ciò che, mi duole dirlo, provo ancora».
Guglielmo deglutì,
«Voi? È per una donna dunque che...» tentò di dire, non sapendo fin dove poteva osare.
«È così. Ho fatto cose tremende, Guglielmo, cose che vi farebbero tremare di orrore se ve le raccontassi e credevo che non ci fosse ragione più grande dell'amore per giustificarle. Troppo tardi ho compreso che ero in errore».
«Credo, amico mio, che gli errori si commettono quando si è troppo soli perché qualcuno ci aiuti a trovare la via. E credo che se un uomo come voi ha avuto la sfortuna di una solitudine così profonda, allora dev'essere colpa di chi non vi ha compreso, non certo vostra».
Era una lacrima quella che Erik sentiva pizzicargli l'angolo dell'occhio? No, era sicuramente solo un granello di polvere. Forse però quella che luccicava tra le ciglia di Guglielmo era una lacrima sul serio.
Una luce brillò in fondo alla sua mente, da qualche parte, forse in quel luogo nel quale aveva relegato la speranza pensando che era un sentimento del quale non avrebbe avuto più bisogno. Nelle parole e negli occhi di Marchesi c'era l'assoluzione che Erik aveva implorato silenziosamente fin dal momento in cui aveva lasciato il teatro due mesi prima.
Gli sorrise, sorrise al suo interlocutore e sorrise per se stesso. Fu solo un istante, ma l'idea che aveva accarezzato durante le festività pasquali a casa del duca tornò a bussargli alla testa, e sì, era un'idea che lo faceva davvero sorridere, qualcosa di buono senza alcun secondo fine.
«Ho bisogno di un favore, Guglielmo» disse, mentre accompagnava l'uomo verso l'uscita. «Ho bisogno di questo teatro, per una sera. Ho un'idea che mi piacerebbe attuare, un regalo per una persona che mi è cara».
Marchesi si picchiettò l'indice contro il mento con aria pensosa.
«Mi sto abituando a credere che ogni vostra idea sia meravigliosa, ma mi piacerebbe saperne di più, Maestro».
«In teatro non vengono rappresentati che due o tre spettacoli a settimana, giusto?» esordì Erik, Guglielmo annuì. «Ebbene, c'è una piccola cosa che vorrei mettere in scena, una sera, tra due settimane, in cui il teatro sarà libero e lo si potrà lasciare aperto a tutti».
«A... a tutti?» squittì il direttore del San Carlo strabuzzando gli occhi.
«Sì, esattamente. Pensateci, tutte le persone che non avrebbero mai occasione di visitare questo posto o assistere a uno spettacolo»
«Ehm... temo che al signor sindaco verrebbe un infarto, e probabilmente anche a me».
Erik agitò la mano in un gesto di disinteresse,
«Sono certo che i vostri cuori reggeranno» borbottò. «Sarebbe una cosa unica, in città non si parlerebbe d'altro e il vostro nome diventerebbe assai più stimato».
«E il vostro?».
Il musicista scrollò le spalle,
«Non sono solito fare qualcosa per niente. Ebbene, questa è l'eccezione che conferma la regola» dichiarò. «Lasciatemi fare».
Quelle ultime parole erano suonate perentorie come un ordine, anche se erano state pronunciate con la solita composta cortesia. Guglielmo era sulla soglia del portone del teatro, si voltò a guardare il suo interlocutore e lo scrutò per lunghi secondi.
«C'è qualcosa di strano in voi, qualcosa di nuovo» asserì. «E, se posso permettermi, qualcosa di più luminoso».
Forse era vero. Non c'era un motivo particolare, eppure dai giorni di festa a palazzo Giusso, qualcosa si era smosso dentro di lui, qualcosa che grattava via il nero e ne faceva emergere minuscole insperate scintille.
«E ritengo che la cosa meriti di essere festeggiata, per cui, d'accordo, prendetevi il teatro» concluse Marchesi con un sospiro di resa.

*

Lucia era seduta alla finestra, in grembo aveva una catasta di biancheria da rammendare e stava approfittando degli ultimi scampoli di luce prima del tramonto per portare a termine quei piccoli lavori.
Le giornate erano diventate più lunghe e si facevano via via più calde e soleggiate. Il mare calmo già occhieggiava all'estate riflettendo l'azzurro limpido del cielo e nel giro di poche settimane, certamente, sarebbero comparsi i primi temerari che si sarebbero tuffati tra le onde tranquille.
Madame Fantine bussò alla sua porta, quando entrò aveva un'aria quasi sconvolta. Era piuttosto presto per l'arrivo dei clienti e lei non si era ancora preparata a riceverli, al posto dei suoi abiti sgargianti indossava una gonna di tela rattoppata in più punti e una camicia, non c'era nessuna parrucca a coprire i capelli crespi e grigi, solo una cuffia di cotone annodata sotto al mento.
«Quello lì è di nuovo qua» annunciò con un sospiro seguito da un sorriso furbesco. Non si capiva se la cosa le faceva piacere o la turbava – ma di certo non doveva essere contenta dell'essersi fatta trovare in abiti così sciatti. «Così presto, poi! Comunque... che gli devo dire?».
Lucia corrugò la fronte, perplessa. Era certa che Erik sarebbe tornato, raramente si sbagliava, ma che si presentasse lì persino prima di cena le pareva strano.
«Fatelo entrare» concesse con un'alzata di spalle.
«Non si può presentare qui a quest'ora!» replicò la maîtresse strabuzzando gli occhi. «Che cosa sfacciata!».
La ragazza ridacchiò. C'era davvero qualcosa di sfacciato o sconveniente in un luogo come quello? Le regole implicite di quella casa non avevano mai davvero dissuaso nessuno; il fatto che in genere i signori non bussassero a quella porta se non dopo cena era dovuto unicamente al fatto che avevano altri impegni fino a quell'ora, una casa, un lavoro, una famiglia... Erik non doveva avere molto al di fuori del teatro.
«Se la cosa vi rincresce, mandatelo via» concluse la giovane con fare tranquillo.
Madame Fantine le lanciò un'occhiata stringendo le palpebre, quello era il suo sguardo da sono più vecchia di te e la so lunga. In realtà non avrebbe mai mandato via un cliente, nemmeno se si fosse presentato a ora di pranzo, meno che mai avrebbe mandato via qualcuno che veniva per Lucia.
«Ah, figlia mia! Voi mi farete morire di crepacuore, io lo so!» borbottò la donna uscendo e alzando gli occhi al cielo.
Erik bussò alla porta dopo una manciata di secondi. Entrò nella stanza e Lucia fu lieta di constatare che aveva un'aria molto meno agitata delle volta precedente.
«Mi occorre il vostro aiuto, signora» le disse senza troppi preamboli.
La ragazza lo guardò stupita. C'era sempre qualcosa che le sfuggiva di quell'uomo, era certa che sarebbe tornato, ma non che avrebbe esordito con una frase del genere.
«Venite avanti, sedete. Cosa posso fare per voi?» chiese incuriosita, poi gli indicò la sedia vuota accanto allo specchio.
«Devo parlare con quell'uomo vestito da Pulcinella e con quelli che suonano con lui. Potete aiutarmi a trovarlo?».
Lucia lo guardò sorpresa. Non capiva il motivo della richiesta ed era certa che Erik non fosse uomo da amare le domande né da dilungarsi in spiegazioni che non riteneva necessarie. Tuttavia, non le dispiacque l'idea di poterlo aiutare a realizzare qualcosa, qualsiasi cosa la sua mente certamente un po' folle stesse architettando.
«Ho una mezza idea riguardo a dove possiamo trovarlo, in effetti. So dove abita, ma non vi prometto niente» disse.
«Ottimo. Possiamo andarci?» fece lui con uno strano scintillio negli occhi.
«Intendete dire adesso?»
«Avete altri impegni?».
Lucia ridacchiò e scosse il capo.
«Mi è concesso almeno il tempo di indossare il cappotto, signore?» domandò ironica.
«Dipende da quanto tempo vi occorre...».

Stava già cominciando a imbrunire quando lasciarono la palazzina e si lanciarono nel labirinto di vicoli e stradine. Di tanto in tanto incrociavano qualche manovale che rientrava da una giornata di lavoro al porto, o massaie che rincasavano con figli al collo.
Lucia pensò che non ci sarebbe voluto molto tempo prima che tutta Napoli cominciasse a parlare di loro, del misterioso straniero e della fanciulla sventurata che chissà come si erano ritrovati assieme. La cosa non le importava, ed evidentemente non doveva importare nemmeno a Erik, se non si dava alcun pensiero nel farsi vedere in sua compagnia.
L'uomo camminava svelto, tanto che la ragazza faticava a tenere il passo. Lucia sollevò l'orlo della veste e corse per raggiungere il suo compagno che era già un metro avanti a lei, gli si aggrappò al braccio per trattenerlo.
«Non correte, non ce n'è bisogno» disse con il fiato corto.
Lui rallentò,
«Non sono abituato ad avere dei complici» ammise lasciando che lei gli rimanesse sottobraccio, come se fosse una passeggiata di piacere. «Non vi è mai capitato di avere così tanta voglia di realizzare un progetto da non riuscire a trattenere la foga?»
«Onestamente, non ho mai avuto grossi progetti da realizzare. Posso sapere a cosa è dovuto tanto entusiasmo?».
Erik strinse le labbra, come se stesse cercando di mettere assieme le parole giuste per spiegarsi,
«Fingiamo che sia un esperimento, una piccola sfida con me stesso» mormorò. «Diciamo che ad un certo punto mi sono accorto di aver fatto ben poche cose buone nella mia vita e mi è venuta voglia di provare a rimediare».
La ragazza non chiese altro. Lo condusse fuori dal quartiere, di nuovo verso le stradine laterali che si districavano alle spalle di piazza del Plebiscito. Le prime stelle cominciavano ad apparire sbiadite sopra la cupola della chiesa.
La stradina che avevano imboccato era stretta e tutta in salita. Porte tarlate si affacciavano su quel minuscolo vicolo dove le ombre di misere costruzioni aggiungevano altro buio a quello della sera che stava ormai calando. Nel silenzio era possibile udire il verso di un gruppo di piccioni appollaiati su un davanzale, pochissime luci brillavano oltre le finestre.
Lucia si fermò davanti a una bassa palazzina al margine del vicolo. C'era un'apertura al pian terreno, a livello della strada, chiusa solo da una tenda lacera e impolverata. Erik la guardò vagamente perplesso, la ragazza gli mormorò all'orecchio,
«Lasciate fare a me». Scostò appena la tenda e simulò un leggero colpo di tosse. «È permesso?».
Una donnina magra, dai capelli arruffati comparve oltre la tenda e la sollevò, mostrando agli occhi dei visitatori una piccola abitazione composta da un'unica stanza, con dentro un tavolo, pochi mobili e un letto disfatto celato a malapena da un paravento bucherellato.
La donna guardò qualche secondo i suoi visitatori e fece loro un mezzo sorriso di benvenuto,
«Volete entrare?» disse scostandosi per farli passare.
Erik sembrava basito, non si capiva se per la disponibilità della padrone di casa o per il misero spettacolo che aveva dinnanzi. Era l'espressione più umana e spontanea che Lucia gli avesse mai visto in viso; gli strinse un po' di più il braccio in una sorta di muto incoraggiamento e lo trascinò con sé dentro la casa.
Un odore forte di legumi e tuberi messi a bollire si alzava da una pentola fumante poggiata sulla brace del camino.
«Buonasera, signora» salutò Lucia, affabile.
La donna continuava a sorridere, amichevole e tranquilla.
«Scusate, ma volevamo parlare con vostro marito» fece la ragazza lanciando un'occhiata all'uomo seduto accanto al tavolo, intento a sbocconcellare una fetta di pane.
«Eh, un signore e una signora a casa mia!» esclamò questi alzandosi e accennando un goffo inchino con fare reverenziale. «E cosa vorranno mai da me?».
L'uomo, quello che cantava nel seminterrato vestito da Pulcinella, era un tipo di mezz'età, con ispidi capelli brizzolati e con una brutta cicatrice che gli solcava lo zigomo sinistro. Le rughe marcate sul suo viso avevano lo strano effetto di ingentilire quel volto che non doveva essere stato particolarmente bello nemmeno nei suoi anni migliori.
«Lui» disse Lucia inclinando la testa a indicare Erik, «è il Maestro del San Carlo».
«E certo che lo è!» esclamò l'uomo quasi ridendo. «Servo vostro, Maestro».
La ragazza sentì Erik irrigidirsi accanto a sé.
«Certo... e avrebbe un favore da domandarvi. Appena gli si scioglierà la lingua, suppongo» concluse.
Il padrone di casa dondolò la testa e fissò il suo ospite,
«Volete un bicchiere d'acqua?» chiese, come se l'acqua dovesse essere una medicina contro il mutismo improvviso.
Erik si riscosse,
«No, vi ringrazio» borbottò impacciato, liberandosi dalla stretta di Lucia e avvicinandosi all'uomo. «Vi ho sentito cantare qualche sera fa in quella cantina, con voi c'erano anche due ragazzi che suonavano»
«Eh, i figli miei»
«Sì, bene. E vorrei che suonasse per me, una sera nel mio teatro».
L'uomo spalancò gli occhi, così tanto che Lucia temette che gli sarebbero rotolati via.
«Che avete detto?!» esclamò.
«Che avete detto?!» gli fece eco sua moglie.
«Avete capito. Voglio che suonate su quel palco, tra due settimane, scegliete voi le canzoni, cinque o sei andranno benissimo».
Pulcinella si allentò il colletto della camicia e deglutì più volte, spostando lo sguardo dall'uomo alla ragazza, come se si aspettasse che da un momento all'altro loro scoppiassero a ridere e gli dicessero che era uno scherzo.
«Ma... ma veramente fate?» balbettò, lasciandosi cadere sulla sedia. «Nina, portamelo a me il bicchiere d'acqua! Anzi mettici pure un poco di zucchero dentro».
Lucia rise e batté una mano sulla spalla di Mastro Pulcinella, mentre la donna scioglieva davvero un cucchiaino di zucchero nel bicchiere d'acqua.
«Ora, dovete dirmi il vostro prezzo» aggiunse Erik.
Pulcinella lo guardò da sopra l'orlo del bicchiere, gli andò di traverso un sorso d'acqua e cominciò a tossire.
«Dovrei pagare io a voi perché mi fate suonare nel teatro!» esclamò con una smorfia. «Facciamo che mi comprate un costume nuovo e siamo a posto».

Quando lasciarono la casa, Lucia dovette fare un enorme sforzo per trattenersi dallo scoppiare a ridere.
«Ho la sensazione che vi stiate ancora burlando di me» commentò Erik.
«Sto solo cercando di decidere se mi fa più ridere il ricordo della vostra espressione o della sua» rispose lei.
«Sono lieto che, in ogni caso, vi ho dato motivo di essere divertita. Già che ci siamo, avete idea di dove si possa trovare un costume da Pulcinella?».
La ragazza spinse la mani nelle tasche del cappotto e scrollò le spalle,
«Immagino che la sartoria del teatro vi sarà di aiuto. Si può sapere cosa vi ha reso così perplesso?».
Erik si fermò a guardarla, scrutandola con aria seriosa,
«Lo splendore di certi sorrisi in mezzo alla miseria» mormorò come se fosse un pensiero pronunciato a fior di labbra, poi sollevò lo sguardo a fissare lo spicchio luna che faceva capolino sopra i tetti delle case, anche quello sembrava un sorriso stagliato contro il nero del cielo.
«Credo che la miseria possa avere due effetti sulle persone: o le rende cattive o le rende immensamente buone. Sono orgogliosa di dire che in questa città molto spesso si tratta del secondo caso» replicò lei.
Napoli cominciava già a pulsare dei folli palpiti della sua vita notturna attorno a loro mentre tornavano verso l'Araba Fenice.
Lucia sentiva un inaspettato senso di leggerezza e compiacimento mentre camminava in silenzio accanto al suo strano compagno. Non è che avesse compreso molto di quello che Erik stava architettando ma era certa che sarebbe stato qualcosa di bello e il ricordo della faccia di Mastro Pulcinella la faceva ancora sorridere. Da quanto tempo non sorrideva così?
«Immagino che non abbiate cenato, proprio come me» disse quando arrivarono davanti alla porta della palazzina. Erik la guardò come se non avesse capito, lei alzò gli occhi al cielo e lo afferrò per un braccio. «Avanti, venite con me».
Attraversarono l'ingresso sotto lo sguardo torvo di Madame Fantine, la ragazza disse all'uomo di aspettarla in camera sua e sgusciò nelle cucine. Questionò con la cameriera per qualche minuto, ma alla fine riuscì a mettere insieme un vassoio con del pane e del formaggio, tornò in camera sua dove Erik era rimasto ad attenderla in piedi accanto alla finestra.
Posò il vassoio sul letto e si lasciò cadere stesa a pancia in giù.
«Oh, santi numi, venite qui! Non comportatevi come se ci fossero serpi in agguato ad ogni angolo!» esclamò.
L'uomo finse una smorfia di sopportazione e andò a sedersi vicino a lei. Mentre consumavano quella cena frugale, lui le spiegò come mai era andato a cercare Pulcinella e cosa aveva in mente di fare. Alla fine lei lo guardò con un misto di stupore e ammirazione,
«Non vi facevo così... tenero» rispose lei, sinceramente colpita.
«Non ho mai creduto di esserlo. Non lo sono, in effetti» borbottò lui precipitosamente, preso alla sprovvista.
«Forse vi sono solo mancate le occasioni».
Il volto di Erik si incupì, il suo sguardo si fece lontano e distante, puntato su chissà quale orizzonte denso di malinconia. Lucia era certa che quell'uomo non solo avesse ferite profonde che non era ancora stato in grado di curare, ma era anche sicura che ci fossero ancora le lame conficcate in quei tagli e si chiese perché una persona che certamente doveva avere dello straordinario non era stata in grado di estrarle. Certo, era lo stesso anche per lei, ma lei non si sentiva affatto straordinaria...
Di colpo, l'uomo si voltò a fissarla e allungò una mano a prendere la sua, trascinandola con delicatezza accanto a sé.
«Insegnatemi» le disse guardandola in quel suo modo serio, irremovibile.    
«Certe cose davvero non si possono insegnare» replicò lei, posandogli una mano sulla guancia scoperta.
Erik sospirò,
«Provateci» mormorò, e sembrò quasi una preghiera.
 

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* Letteralmente sarebbe "lascia fare alla Madonna", si usa in senso di "grazie al cielo".

Scusate per il ritardo. Questo è un periodo notevolmente turbolento e spesso non sono a casa, ma cercherò comunque di aggiornare con constanza e non saltare più settimane.
Al prossimo mercoledì (spero)
  
   
 
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