Note
Inizio Capitolo: Come sempre le parti in corsivo
indicano un flashback;
il testo in formato normale, invece,
il presente.
La pavimentazione
irregolare del marciapiede la stava
mettendo decisamente in difficoltà; si distrasse un attimo e
subito inciampò in
una piastrella più alta, barcollò leggermente sui
tacchi e si aggrappò prontamente
al lampione alla sua destra.
Si produsse in un’imprecazione biasciata.
“Tutto bene, Tsunade?”
Jiraya la seguiva a distanza di qualche passo, anche lui
piuttosto provato dall’alcol.
“Si.” gli rispose leggermente superba raddrizzando
la
schiena e procedendo a passo un po’ più sicuro:
odiava mostrarsi debole di
fronte agli altri. “E comunque sono arrivata.”
Si appoggiò al portone del suo condominio, cercando le
chiavi dell’appartamento che si era comprata da poco. Una
volta trovate infilò
la chiave nella serratura –non senza qualche
difficoltà- e aprì l’uscio.
“A domani, Jiiraya.”
“Notte, Tsunade.” le rispose lui prima di voltarle
le
spalle e attraversare la strada.
Salì attentamente le scale, uno scalino alla volta, e
finalmente arrivò al suo appartamento; entrò e
accese le luci, poi buttò
malamente la borsa sulla sedia vicino all’entrata e si
diresse in camera.
“Maledetti tacchi.” inveì contro le sue
stiletto ad alta
voce e, a sentire la sua voce rimbombare per la stanza deserta, si
produsse in
un risolino decisamente poco
sobrio:
ora si metteva pure a parlare da sola? Stava decisamente peggiorando;
poi anche
la risata si spense nel silenzio e tornò seria.
Si girò verso il comò, posizionato sotto
l’unica finestra
della stanza, e si avvicinò per osservare da vicino le foto
incorniciate: in
prima fila –al posto d’onore- stava la sua
preferita di Dan e Nawaki,
leggermente spostata indietro c’era invece una foto che
raffigurava lei insieme
a Orochimaru, Jiiraya e al sovraintendente Sarutobi, tutti e quattro
sorridenti. Le spostò leggermente per scoprirne
un’altra, particolarmente
nascosta, che la ritraeva –anni prima, come ne erano
testimoni i capelli
raccolti in una coda alta e sbarazzina- affianco a Orochimaru: era una
foto
strana; nessuno dei due accennava ad un sorriso e le loro posizioni
erano
piuttosto rigide… la teneva esposta solo perché
era l’unica che raffigurasse
solo loro due.
Sentì i ricordi del passato riaffiorare e perse un
po’ la
testa: in uno scatto d’ira lanciò la foto che si
andò a schiantare contro la
parete, spargendo frammenti di vetro e legno dappertutto. Senza fare
una piega
si liberò dei vestiti e si mise sotto le coperte tentando di
prendere sonno e
ignorare la voce di Orochimaru che le ronzava nelle orecchie.
Quella mattina si era
dovuta auto-imporsi di scendere dal letto e vestirsi per andare al
corso di
polizia: era ancora piuttosto confusa e turbata dagli avvenimenti del
giorno
prima e trovarsi a stretto contatto con la causa del suo nervosismo
l’agitava
parecchio.
Nella sua mente si
accavallavano disordinatamente pensieri e considerazioni: stava
cercando la
maniera migliore per affrontare Orochimaru una volta arrivata a
destinazione.
Era così concentrata che a momenti saltò la
fermata ma, per fortuna –il cielo
minaccioso prevedeva un acquazzone in poco tempo-, riuscì a
scendere dal bus a
forza di spintoni e a salvarsi da una camminata di un quarto
d’ora
Entrò in caserma con
il passo di una condannata a morte e aprì la porta
dell’aula; con suo sommo
dispiacere l’unico occupante era il bel moro, seduto
all’ultimo banco e immerso
nella lettura di un libro. Si richiuse lentamente la porta alle spalle,
cercando di non far rumore e di non farsi notare: non ci
riuscì per niente. Al
suono dell’impatto con lo stipite, Orochimaru alzò
lo sguardo dal libro e, una
volta che l’ebbe notata, le rivolse un leggero, neutrale,
cenno del capo per
poi tornare alla lettura del suo libro.
Interdetta rimase
ferma in mezzo all’aula, a metà tra
l’essere sollevata che Orochimaru non
accennasse alla sera prima e la delusione –per non dire
orgoglio ferito- della
poca attenzione che il ragazzo dedicava all’avvenimento.
Si riscosse dai suoi
pensieri quando la porta si aprì di nuovo per far entrare
Jiraya, sorridente e
casinista come al solito; ancora interdetta prese posto al primo banco,
dalla
parte opposta dell’aula rispetto alla posizione del moro.
Quella mattina non
riuscì a concentrarsi nemmeno per un minuto, le lancette
dell’orologio
ticchettavano in sottofondo alla lezione di Ibiki Morino mentre lei
tentava di
dare un senso ai pensieri, di mettere ordine in quella cacofonia di
emozioni e
sentimenti contrastanti tra di loro. Iniziò ad avere mal di
testa: non vedeva
l’ora che la lezione finisse; per
di più aveva iniziato a piovere
e lei –ovviamente-
aveva lasciato l’ombrello a casa.
“Che vuoi?” gli
chiese, una volta rinsavita dalla sorpresa, sostenendo il suo sguardo.
“Niente di che. Ti sei
già dimenticata di giovedì sera?” La
stava guardando con quell’espressione subdola
e sicura, a tratti anche terrificante.
“No.”
“Stazione di Shibuya,
nove e mezza, stasera.” Come al solito non chiedeva mai.
“No.” Continuava a
sostenere il suo sguardo, fiera.
“Non ti è forse
piaciuto? Perché non sembrava così, sai,
l’altro giorno quando mi baciavi,
quando ti sei sdraiata sotto di me… quando urlavi il mio
nome.” le disse,
aprendosi nel solito sorrisino.
Sentì le lacrime
pizzicarle gli occhi e tentare di uscire. Le represse con rabbia: non
voleva
assolutamente piangere.
“Lasciami stare. Non
succederà più…non posso” E
diede un forte strattone al braccio ancora bloccato
nella mano del ragazzo e, di risposta, sentì la stretta
intorno al suo polso
farsi più forte… quasi dolorosa.
“Non puoi o non vuoi?”
le domandò lui, beffardo.
“Non posso… non
voglio.. non posso..” prese a farfugliare, senza dare un
senso alle parole che
le uscivano di bocca, poi lui prese ad avvicinarsi al suo viso.
Tentò di
divincolarsi, ma Orochimaru le cinse la vita con l’altro
braccio tentando di
avvicinarla. Fece un ultimo, debole, tentativo di fuga ma poi
sentì le labbra
fini del ragazzo premere contro le sue e la sua lingua tentare di
intrufolarsi
nella sua bocca e non potè fare a meno di lasciar cadere
tutte le difese e
abbandonarsi al bacio, aggrappandosi alle spalle magre ma forti di
Orochimaru e
rispondere con foga. Dopo un paio di lunghi, interminabili, stupendi e
terribili instanti sentì tornarle la volontà e
spinse via, con violenza e
rabbia, il ragazzo prima di girare sui tacchi e fuggire via a gambe
levate.
Correva sotto la
pioggia scrosciante, bagnata fradicia, urtando contro le persone che
camminavano in strada, sprofondando con rumorosi
“splash” nelle pozzanghere,
piangendo a dirotto con la voce di Dan che le rimbombava nelle orecchie
e si
sovrapponeva alla sua voce interiore che le urlava insistentemente:
“stupidastupidastupidastupidastupidastupidastupida”.
Ci era ricascata di nuovo.
Giorno dopo giorno le
cose peggioravano.
Arrivava a casa la
sera e sentiva la voce di Dan, carica di rimprovero, che le domandava
come
potesse averlo tradito in quella maniera ma nel frattempo sentiva il
cuore
perdere qualche battito mentre sentiva il ricordo dei baci di
Orochimaru. E non
riusciva a dormire, prendeva a pungi il cuscino per sfogare la sua
frustrazione…
imprecava, lanciava il libro che aveva sul comodino e poi crollava
sfinita nel
letto.
Non si sapeva spiegare
cosa le stesse accedendo. Lei era una ragazza forte, fin da
bambina…; non aveva
mai contato sull’aiuto di nessuno –le faccende
preferiva sbrigarsele da sola,
contando sulle sue forze-, possedeva una buona dose di orgoglio che
molto
spesso sfociava in presunzione. Era sicura di sé, tenace:
riusciva sempre a
rialzarsi dopo ogni caduta, dopo ogni sconfitta, dopo ogni
dolore… perfino
quelli da cui pensava non si sarebbe mai più ripresa
–come la morte di Dan e
Nawaki- ma ora sembrava una bambola di porcellana, una ragazzetta
ingenua e
sciocca che si faceva condizionare dagli altri: perché
diavolo Orochimaru
riusciva a scombussolarla in quella maniera? Ogni dannata volta
distruggeva le
sue difese e la rendeva vulnerabile, sempre con quel sorrisino
strafottente
stampato in viso... come cazzo ci riusciva?
Lei non voleva
Orochimaru, non voleva trovarsi ogni mattina a risvegliarsi in quel
letto
–ormai così famigliare-, non voleva lasciarsi
andare con lui… non voleva infangare
la memoria del suo Dan in quella maniera.
O forse invece si? Forse,
in realtà, voleva Orochimaru, desiderava quel corpo che si
muoveva sopra di
lei, cercava il contatto con le sue labbra, bramava
quell’annebbiamento che la
pervadeva ogni volta che incrociava il suo sguardo… forse
erano solo i sensi di
colpa che la bloccavano, che le mozzavano il respiro… lei
voleva quel
sorrisino beffardo e strafottente.
“Nononononononononononono!”
prese a ripetersi tra se e se, le mani premute contro le tempie per il
mal di
testa che le sembrava spaccare il cervello in due. Frustata si
girò e tirò un
poderoso pugno al muro, aprendosi le nocche così che il
sangue prese a
sporcargli la mano e il dolore ad offuscarle la mente.
Annaspava
affannosamente cercando di sopravvivere ad ogni giorno, cercando di non
farsi
abbattere dai ricordi di Dan e Nawaki –che le riaffioravano
ogni volta che
posava lo sguardo su qualunque oggetto-, tentando di sopravvivere ai
sensi di
colpa che la invadevano tutte le volte che incrociava gli occhi duri di
Orochimaru, provando a studiare per ottenere la nomina a poliziotto -.
Non ci
stava riuscendo per niente… era ad un passo
dall’affogare.
E poi arrivò la
scialuppa di salvataggio, e lei ci si aggrappò con tutte le
forze che aveva in
corpo… come un naufrago che tenta
di
mettere in salvo la propria vita con la volontà della
disperazione; una vecchia
zia l’aveva invitata per due settimane
a casa sua, dall’altra parte del Giappone, per aiutarla a
traslocare in cambio
di un po’ di soldi. Accettò senza tentennamenti.
Quello che le serviva
era proprio cambiare aria per un po’; quindi
comprò i biglietti, preparò la
valigia, comunicò a Sarutobi che si sarebbe prese una
piccola pausa e salutò i
compagni di corso.
Infine, in quel
pomeriggio di fine primavera, si imbarcò
sull’aereo e volò verso le sua
scialuppa di salvataggio.
Al prossimo capitolo!
Eikochan.