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Autore: Beauty    20/04/2012    6 recensioni
Ciao a tutti! Questa storia è una mia personale rivisitazione de "La Bella e la Bestia", la mia favola preferita...
Catherine, diciottenne figlia di un mercante decaduto, per salvare il padre dalle grinfie di un misterioso essere incappucciato, accetta di prendere il suo posto. Ma quello che la ragazza non sa è che nelle vesti del lugubre e malvagio padrone di casa si cela un mostro, un ibrido mezzo uomo e mezzo animale. Col tempo, Catherine riuscirà a vedere oltre la mostruosità dell'essere che la tiene prigioniera, facendo breccia nel suo cuore...ma cosa succede se a turbare la felicità arrivano una matrigna crudele e un pretendente sadico e perverso?
Riuscirà il vero amore ad andare oltre le apparenze e a sconfiggere una maledizione del passato? E una bella fanciulla potrà davvero accettare l'amore di un mostro?
Genere: Dark, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Il mostro e la fanciulla'
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Si udì il canto di una civetta. Pochi secondi dopo, il rapace, una macchia bianca in mezzo a tutta quell’oscurità, lasciò il ramo su cui era appollaiata, levandosi in volo nella notte.

Catherine la osservò volare via, sistemandosi il cappuccio sul capo. Le venne immediatamente in mente che Lydia avrebbe di sicuro iniziato a fare una serie di riti contro il malocchio, alla vista di quell’uccello del malaugurio, ma la ragazza non era un tipo superstizioso; mai, neanche da bambina, aveva creduto alle storie di fantasmi o a tutte le frottole sull’Uomo Nero o il mostro sotto al letto che Henry cercava sempre di propinarle. Rosalie usciva da una favola dell’orrore letteralmente terrorizzata, ma lei si era sempre rifiutata di credere che cose come la magia o gli spiriti potessero esistere sul serio. Quindi, si impose di non farsi prendere dalla paura e di continuare dritta per la propria strada, sebbene la foresta, complice l’avvento del buio, si stava rivelando un luogo a dir poco spettrale.

C’era la luna nuova, e il bosco era completamente immerso nell’oscurità. Catherine non aveva idea né di dove si trovasse né di dove fosse diretta. Si diede mentalmente della stupida; era talmente preoccupata per suo padre che era uscita a cercarlo di volata, senza neanche pensare a quello che stava facendo. Tanto per cominciare, se n’era andata senza prendere nulla, né del denaro, né del cibo e nemmeno una lanterna per farsi un po’ di luce, solo con addosso quell’abito troppo leggero per la stagione fredda che si stava avvicinando e quel mantello mezzo consunto.

Il cavallo nitrì; arrestò la marcia, cominciando a muoversi nervosamente sul posto, facendo picchiare gli zoccoli sul terreno fangoso.

- Buono…- mormorò Catherine, accarezzandogli il collo e la criniera, tentando di spronarlo a riprendere la marcia.

La ragazza poteva vantarsi di essere una cavallerizza, se non bravissima, almeno minimamente capace di montare in sella e, sebbene Lady Julia trovasse inconcepibile che una fanciulla della sua età e di buona famiglia come lei non fosse in grado di cavalcare all’amazzone, Catherine riusciva ad entrare in sintonia con il proprio cavallo. Sin da quando era partita, si era resa conto che il cavallo era inquieto, nervoso, sentiva che aveva i nervi a fior di pelle. Scosse le briglie un paio di volte perché l’animale riprendesse a camminare.

Cominciò a soffiare un venticello pungente; la ragazza si strinse di più nel mantello.

Doveva trovare suo padre; gli era successo qualcosa, lo sentiva. Non era da lui ritardare così, senza neanche avvertire, sapeva quanto sarebbero stati in ansia. Avrebbe attraversato tutta la foresta, fino a che non fosse giunta al primo villaggio; lì, avrebbe chiesto informazioni su suo padre, anche se non sapeva dove, ma doveva pur essersi fermato da qualche parte, a mangiare qualcosa in un’osteria, o a riposarsi in una locanda, giusto? Se non l’avesse trovato, allora avrebbe proseguito fino alla casa di Von Rubens, ma di sicuro non sarebbe tornata indietro senza suo padre.

Il cavallo si arrestò di nuovo, stavolta con più decisione, nitrendo più forte e dimostrando tutto il suo nervosismo picchiando sonoramente gli zoccoli.

- Che c’è?- fece Catherine.- Avanti, non è questo il momento di fare le bizze…!

Cercò di spronarlo a proseguire, ma l’animale non ne voleva sapere.

- Andiamo, piccolo, dobbiamo trovare papà!

Niente, più che ad un cavallo sembrava di parlare ad un asino!

Catherine sospirò, smontando dalla groppa dell’animale; afferrò le briglie con decisione, tirandole fino a vincere le resistenze del cavallo.

- Vediamo se così ti decidi ad andare avanti…!

L’animale la seguì, lasciandosi guidare docilmente, ma senza perdere quel nervosismo che lo accompagnava sin dalla partenza; spesso si bloccava, e allora Catherine era costretta a tirarlo con tutte le sue forze.

- Non pretenderai mica che ti porti in groppa, bestiaccia!

Procedettero così, per un paio di chilometri; la ragazza cercava di concentrarsi sul pensiero di suo padre, ignorando i nitriti di protesta del cavallo, le ombre sinistre proiettate dagli alberi e gli strani rumori che sembravano provenire da ogni dove.

D’un tratto, senza smettere di camminare, Catherine incominciò ad avvertire uno strano odore, che si faceva sempre più acuto e penetrante man mano che avanzava. Era puzza di marcio, di carne e terra, un odore di putrefazione…odore di morte.

Il sospetto della ragazza che qualcosa di morto da un bel pezzo si nascondesse in qualche angolo di quel labirinto verde venne avvalorata quando, proprio di fronte a lei, a pochi metri di distanza, vide uno strano agglomerato di carne, ricoperto da terra e foglie.

La ragazza si avvicinò, col cuore in gola, per scoprire che quell’ammasso di carne era effettivamente la carcassa di un animale. Era lurida e mezza putrefatta, e le carni erano state lacerate e divorate da morsi così profondi che a stento si poteva ancora distinguere la forma di quel povero animale. Ma la ragazza lo riconobbe immediatamente: era il cavallo di suo padre!

- No…- fece in tempo a mormorare, prima che il cavallo marrone s’impennasse all’improvviso con un nitrito di terrore. Catherine prese le briglie con entrambe le mani, lottando per calmare quell’equino idiota.

- Fermo! Sta’ calmo, sta’ calmo!- ordinò, riuscendo infine a tranquillizzarlo con alcune carezze sul muso, senza distogliere lo sguardo dalla carcassa ai suoi piedi.

Sperando che il suo destriero non le facesse altri scherzi, Catherine montò di nuovo in sella, spronandolo al galoppo.

- Forza, andiamo!

Il cavallo prese a correre, proseguendo dritto di fronte a sé.

Ti prego, ti prego, fa’ che stia bene…, supplicava mentalmente la ragazza.

D’un tratto, proprio di fronte a lei, scorse un’imponente costruzione; tirò le briglie, in modo che il cavallo rallentasse la propria corsa.

La ragazza rimase a bocca aperta, contemplando ciò che aveva di fronte. Un altissimo cancello in ferro battuto dava accesso ad un maestoso e cupo maniero. La costruzione era scura e dall’aspetto vagamente inquietante, con torri così alte che svettavano quasi stessero per toccare il cielo, e sulle balconate e le tettoie c’erano spaventose statue di pietra, draghi, idra, grifoni, gargoyle dalle espressioni demoniache e le fauci spalancate che pareva stessero per saltarti addosso, mettendo in mostra le loro immense ali di pietra.

Catherine era talmente presa ad ammirare quello spettacolo che non si accorse che una vipera aveva preso a strisciare di fronte a lei; il cavallo, non appena la vide, s’impennò nuovamente sugli zoccoli posteriori, lanciando un sonoro nitrito; prese a dimenarsi, ma Catherine non fu abbastanza pronta per aggrapparsi alle briglie.

L’animale la disarcionò, scaraventandola a terra con un grido, per poi voltarsi e intraprendere una folle corsa nella direzione opposta.

Catherine cercò di rialzarsi, emettendo un mugolio di dolore e portandosi una mano al fianco; il cappuccio le era calato, e le ciocche corvine le si erano sparpagliate disordinatamente di fronte al viso.

- Stupida bestia…- borbottò, rialzandosi a fatica e scostandosi una ciocca ribelle dagli occhi.

Non appena si fu assicurata di essere ancora tutta intera, e aver lanciato al cavallo innumerevoli maledizioni, tornò a rivolgere la propria attenzione a quello strano castello.

La visione del cavallo di suo padre morto e sbranato l’aveva resa ancora più preoccupata. Si chiese se mai suo padre potesse aver trovato rifugio in quel maniero da qualunque cosa l’avesse attaccato – non aveva dimenticato la serie di omicidi avvenuti nella foresta – o se almeno lì dentro sapessero qualcosa di lui.

Si fece coraggio e aprì il cancello, il quale emise uno scricchiolio metallico, rivelandosi quasi completamente arrugginito. Catherine entrò, dirigendosi verso il portone d’ingresso.  Picchiò due o tre volte il batacchio d’oro massiccio, il quale emise un rumore sordo contro il legno di quercia del portone, ma nessuno venne ad aprire. La ragazza ritentò, ma in quel posto non sembrava esserci anima viva.

Sbuffò, pestando i piedi dalla rabbia; d’un tratto, si accorse che, poco più in là, c’era una botola di legno, mezza nascosta dalle foglie, scavata nel terreno. Catherine vi si avvicinò, sciogliendo senza problemi la catena arrugginita arrotolata intorno alla maniglia. L’aprì.

Se non poteva entrare dalla porta principale, beh, poco male, sarebbe passata per l’entrata di servizio.

Gettò un’occhiata all’interno. Buio, niente di più. Si sedette sulla soglia, infilando le gambe per prime all’interno dell’apertura; quando toccò terra con i piedi, si lasciò andare completamente.

Pian piano, i suoi occhi si abituarono all’oscurità. Catherine vide che si trovava in una lunga e stretta galleria, con il pavimento di terriccio e dei muri umidi che gocciolavano acqua dai mattoni di pietra, trasudanti di muffa.

C’era una puzza asfissiante, la ragazza dovette tapparsi il naso con le dita per non svenire.

Cominciò ad avanzare, lentamente, costeggiando il muro con una mano e rialzando il cappuccio sul capo per proteggersi dalle fastidiose gocce d’acqua.

- C’è nessuno?- chiamò dopo un po’, ma l’unica cosa che udì fu l’eco della propria voce che rimbombava sulle pareti.

Continuò a camminare, seguendo la direzione della galleria; si accorse che, qua e là, alcune manette con delle catene erano infisse al muro. Probabilmente doveva trattarsi di una vecchia prigione, si disse.

Sentì un fruscio, quindi dei rumori di passetti sul terriccio. Catherine si bloccò, trattenendo il fiato. All’improvviso, qualcosa le passò accanto correndo alla velocità della luce, sfiorandole per un secondo un lembo della gonna e dileguandosi subito dopo alle sue spalle; Catherine lanciò un breve gridolino, dandosi immediatamente della stupida non appena si accorse che si trattava soltanto di un topo.

Si riscosse, riprendendo a camminare; dopo qualche istante, alla fine della galleria, la ragazza scorse una flebile luce.

- C’è qualcuno qui?- chiamò.- Papà?

Nessuna risposta.

Procedette più velocemente, avvicinandosi sempre di più alla luce.

- Papà?

Udì un mugolio sommesso, quindi un rumore di catene. Catherine corse in direzione di quel suono, ritrovandosi ben presto in una stanzetta squadrata, piccola e umida, illuminata solo da una torcia appesa in un angolo. E, all’angolo opposto, seminascosto dal buio, Catherine vide il mercante che giaceva abbandonato sul pavimento di pietra, con le gambe allungate di fronte a sé, il mantello sbrindellato e gli abiti sudici; infilata in un taschino della camicia, c’era una rosa rossa, molto bella, ma che stava appassendo. Le braccia erano sollevate sulla sua testa, i polsi imprigionati in due grosse manette di metallo affisse al muro. Sembrava invecchiato di mille anni, era dimagrito paurosamente, e, sul volto pallido e stanco, Catherine scorse un livido scuro all’altezza dello zigomo.

- Papà!- esclamò, sollevata di trovarlo ancora vivo ma anche sconvolta da quella scena.

Il mercante, che per tutto quel tempo aveva tenuto lo sguardo fisso sulla parete alla sua destra, quasi fosse stato lobotomizzato, parve riscuotersi all’improvviso.

- Catherine…- boccheggiò, con la voce roca, scorgendo la figura della figlia nella penombra.

La ragazza gli corse incontro, inginocchiandosi accanto a lui. Gli prese il viso fra le mani, schioccandogli un sonoro bacio su una guancia.

- Catherine…- ripeté il mercante, con un’espressione strana, a metà fra il felice e il terrorizzato.- Catherine, ma…ma come hai fatto a…ad arrivare qui?

- Credimi papà, non lo so neanch’io…ora quello che importa è andarcene…

- No!- fece il mercante, quasi urlando.- No, Catherine, ascoltami…

- Ma che ti è successo?- domandò la ragazza, cercando di forzare le manette.- Papà, che cosa è successo? Chi ti ha fatto questo?

- Catherine, ti prego, ascolta, è molto importante…

La ragazza non diede segno di averlo udito, continuando a tentare di forzare la serratura.

- Maledizione! Questi affari sono più duri di quanto pensassi!

- No, Catherine, ascoltami…

- Aspetta, dovrei avere una forcina da qualche parte, speriamo che funzioni…

- Catherine, devi andartene via da qui subito!- sbottò il mercante.

- Perché? Che cosa…?

La ragazza si sentì afferrare per il mantello; lanciò un grido di sorpresa, mentre lo sconosciuto la strattonava con violenza, per poi scaraventarla contro la parete opposta.

Catherine finì seduta sul pavimento, frastornata, guardandosi intorno con gli occhi verdi spalancati dallo spavento.

- Ti sei portato un’amica?- sibilò l’uomo di fronte a lei. Catherine, lo osservò, ansimando per riprendere fiato. Era un uomo molto alto, doveva essere all’incirca un metro e novanta, slanciato ma con delle spalle robuste. Indossava dei pantaloni neri e degli stivali in pelle dello stesso colore, così come lo era la camicia. Le mani erano coperte accuratamente con dei guanti scuri. Un lungo mantello nero ne nascondeva quasi del tutto il resto del corpo, mentre il cappuccio calato ne celava completamente il viso.

- Cosa credevi, che questa specie di sgualdrinella avrebbe potuto liberarti? Davvero sei stato così stupido?- continuò l’uomo, con una voce calda e profonda, ma anche stranamente inquietante, rivolgendosi a suo padre.

- Non farle del male!- implorò il mercante, quasi sul punto di mettersi a piangere.

- Non sta a te decidere cosa ne farò di lei.

Detto questo, l’uomo afferrò un’ancora frastornata Catherine per la gola, sollevandola dal pavimento. La ragazza tossì, cercando di divincolarsi.

- Chi sei? Come hai fatto ad entrare qui?- tuonò.

Catherine non riuscì a rispondere, sentendo che il respiro le si era mozzato in gola.

- Allora? Forse se stringo più forte ti tornerà la memoria, che ne dici?- e aumentò ancora di più la stretta.

- Lasciala!- urlò il mercante, dimenandosi nel tentativo di liberarsi.- Non toccare mia figlia, mostro!

- Tua figlia?- fece eco l’uomo, lasciando immediatamente Catherine, la quale finì inginocchiata al suolo, cominciando a tossire. L’uomo ridacchiò brevemente, volgendosi a guardare il mercante.- Già, è vero, durante i tuoi piagnistei mi avevi detto di avere una famiglia…

Catherine trovò la forza di alzarsi in piedi. Abbassò lentamente il cappuccio, fissando quell’uomo che, invece, sembrava non avere nessuna intenzione di fare altrettanto.

- Sì, sono sua figlia - disse, cercando di mantenere la calma.- E non intendo andarmene da qui senza mio padre.

- Ma che commovente!- la sbeffeggiò l’uomo. - Non te ne vuoi andare senza il tuo caro papà? Che dolce…

- Liberatelo!- ringhiò Catherine.- Liberatelo immediatamente!

- Cosa?! Come osi, tu, darmi degli ordini?- ululò l’uomo, avanzando verso di lei con aria minacciosa.- Sono io il padrone qui, decido io se liberarlo o no! E poi, perché sei tanto sicura che lascerò andare te?- l’afferrò per un braccio, stringendoglielo fino a farle male.

- Io non me ne vado di qui senza mio padre!- ripeté Catherine, ostinata.

- Tu non te ne andrai da qui comunque!

- No!- uggiolò il mercante.

- Taci tu!- tuonò l’uomo.

- No, ti prego…mia figlia no…ha diciotto anni…- implorò il mercante.

- Credi davvero che mi lascerò commuovere da tutte le tue moine?

- Ti prego…- supplicò il mercante, quasi piangendo.- Ti prego…lei non ti ha fatto niente…è venuta qui solo per cercare me…

L’uomo non rispose, continuando a guardarlo. Anche Catherine smise di cercare di divincolarsi, tenendo lo sguardo fisso su suo padre.

- E’ venuta per me…- singhiozzò il mercante.- Non sapeva…non voleva fare niente di male…sono io che ho sbagliato, va bene? Io ho sbagliato, e pagherò il mio errore…ma lascia andare mia figlia…

L’uomo rimase qualche istante immobile, quasi pensando al da fare. Alla fine, lasciò andare la presa, liberando il braccio di Catherine.

- E va bene…- sospirò, con un ringhio sommesso.- Vattene!

- No!- rispose la ragazza, massaggiandosi il braccio.

- Finiscila di fare l’eroina dei poveri!- ululò l’uomo. - Non credi che tuo padre si sia già umiliato abbastanza, per te? Ho detto di andartene!

- No, non senza mio padre.

- Vattene, sparisci dalla mia vista, prima che cambi idea!

- Ma che cosa vi ha fatto?- sbottò Catherine.- Che cosa vi ha fatto, per meritare tutto questo?

- Cosa ha fatto?- ripeté l’uomo, con una lieve nota di beffa nella voce. - Vuoi sapere che cos’ha fatto il tuo caro dolce papà? E’ entrato in casa mia, si è ingozzato con il mio cibo e infine mi ha anche derubato!

- Derubato?- fece eco Catherine, incredula.

Vide al di sopra della spalla dell’uomo suo padre che abbassava il capo sconsolato, gettando un’occhiata alla rosa rossa appassita al suo petto. La ragazza si avvicinò lentamente al mercante, inginocchiandosi di fronte a lui.

- Mi dispiace, Catherine…- soffiò il mercante, cercando di ricacciare indietro una lacrima che gli stava solcando una guancia.

- Finché avrà con sé quella rosa, dovrà pagare per quello che ha fatto…- ringhiò l’uomo incappucciato.

Catherine guardò brevemente suo padre, per poi concentrarsi sul fiore; ne sfiorò lievemente i petali, maledicendolo con tutta se stessa. No, non avrebbe permesso che suo padre marcisse in prigione per una tale sciocchezza.

Finché avrà con sé quella rosa, dovrà pagare per quello che ha fatto…

Catherine prese un bel respiro; sapeva quello che stava per fare, oh, eccome se lo sapeva. Santo cielo, voleva dire rinunciare completamente alla sua vita, voleva dire…Ma suo padre era tutto ciò che le rimaneva…

- Allora, sei ancora qui?- ringhiò l’uomo.

Catherine inspirò di nuovo, quindi si tuffò. Sotto gli occhi increduli e inorriditi del mercante, la ragazza gli sfilò la rosa dal petto; gli sfiorò lievemente una guancia con una carezza, rivolgendogli un ultimo sorriso, prima di infilare la rosa nella tasca del proprio mantello.

- No…- soffiò il mercante, mentre la ragazza si rialzava, voltandosi a guardare l’individuo incappucciato.

Questi, non appena la vide, scoppiò in una sonora risata.

- Non fare la stupida, non ho tempo per certe scene da melodramma…

- Sono serissima…- sottolineò Catherine, senza smettere di guardarlo.

- Senti, finiscila con questa scena, vattene e non farti mai più vedere.

- No.

- Cosa?

- Avete detto che mio padre avrebbe pagato il suo errore finché avesse avuto con sé la rosa. Beh, ora ce l’ho io.

L’uomo ammutolì, distogliendo lo sguardo dalla ragazza e ignorando le suppliche sommesse di suo padre.

- Mi stai dicendo…mi stai dicendo che prenderesti il suo posto?- chiese infine; sembrava quasi imbarazzato, in difficoltà, ma Catherine non ci badò.

- Sì - rispose la ragazza.

- Ernest!- chiamò l’uomo.

Da una porticina in un angolo fece capolino, tutto tremante, un vecchio con una barba bianca vestito di stracci.

- Sì, padrone?- gracchiò.

- Liberalo!- l’uomo indicò il mercante con un cenno del capo.

Ernest sfoderò un mazzo di chiavi, lanciò una breve occhiata di compassione a Catherine e prese ad aprire le serrature delle manette.

- No!- implorò il mercante.- No, ti prego, no…

- Portalo via! E - si rivolse al mercante.- Se ti azzardi a mettere piede qui un’altra volta, ammazzo sia te che tua figlia, ricordatelo bene!

- No…- il mercante, ormai libero, strisciò fino a Catherine, afferrandole i polsi e costringendola ad abbassarsi al suo livello. La ragazza lo guardò, sforzandosi di non piangere.

- No…Catherine…perché l’hai fatto? Perché l’hai fatto?

- Andrà tutto bene, papà, stai tranquillo…

- No…Catherine, tu non ti rendi conto… lui non è quello che sembra…

- Papà, non…

- Catherine - il mercante l’afferrò per le spalle.- Catherine, non capisci, non sai quello che stai facendo…lui non è un uomo…non è un uomo…

- Basta, portalo via, subito!- tuonò l’essere incappucciato.

Ernest prese il mercante per un braccio, trascinandolo via dalla cella; l’uomo cercò di opporsi, ma il vecchio pareva avere una forza straordinaria.

- No…Catherine…non è un uomo, Catherine…lui è un mostro…è un mostro…Catherine…

Catherine si accasciò sul pavimento di pietra, abbassando lo sguardo sulle proprie mani e cercando di non ascoltare le suppliche disperate di suo padre, che le giungevano sempre più lontane.

- Catherine…no…

La ragazza strinse i denti, mentre sentiva che le lacrime avevano cominciato a scorrere.

- Catherine!

Il rumore sordo di una porta che sbatteva. Poi, silenzio.

Trascorsero diversi minuti, un tempo che alla ragazza parve durare un secolo. L’uomo incappucciato accanto a lei non aveva detto una parola. D’un tratto, la ragazza udì un profondo sospiro, poi, l’uomo l’afferrò per un braccio e la tirò in piedi, ma senza forza, quasi fosse stato un gesto meccanico.

Catherine lo guardò; avrebbe voluto almeno poter vedere in faccia quell’essere spregevole, ma il cappuccio ne nascondeva completamente il viso.

- Che hai da guardare, ragazza?- ringhiò l’uomo.

- Non mi è più concesso nemmeno di guardare?- replicò lei, con sfida, ma la voce le uscì stranamente incolore.

L’uomo ringhiò di nuovo, aumentando la stretta. Con grande sorpresa di Catherine, la spintonò malamente fuori da quella specie di cella, passando attraverso la porticina da cui poco prima era uscito il vecchio. La strattonò lungo una ripida scala a chiocciola, e poi più su, per altre scale. La ragazza si rese conto solo vagamente che stavano attraversando una serie di lunghi e cupi corridoi, polverosi, costellati da statue e figure simili a quelle che aveva visto all’esterno. Era troppo stanca e troppo scossa per poter prestare attenzione e, quando l’uomo aprì una porticina all’ultimo piano del palazzo, quasi non si accorse che ce la stava spingendo dentro.

- Tu stanotte dormi qui dentro - sentenziò.

Solo in quel momento Catherine si accorse che si trovavano in una stanzetta piccola e buia, molto stretta, ad uno dei cui angoli era ammassato un pagliericcio umido con una coperta mezza bucherellata. L’unica fonte di luce era quella che filtrava da una finestrella sulla parete opposta.

- Credevo che sarei rimasta nella cella…- mormorò Catherine, sempre con voce incolore.

- Si può sempre tornare lì, se vuoi…- ghignò l’uomo.

Dopo qualche altro istante di silenzio, lui disse:

- Mi servi, chiaro? Ti ho risparmiato le catene solo per questo.

- Che onore!- commentò sarcastica la ragazza.

Questo lo fece imbestialire ancora di più. L’uomo l’afferrò per la gola, ma la lasciò andare subito, scaraventandola sul giaciglio di paglia.

- Non fare la spiritosa con me, non ti conviene!- la minacciò.

Catherine, per tutta risposta, si sedette rannicchiandosi su se stessa, abbracciando le proprie ginocchia.

- Cosa c’è, credevi di venire qui a fare la signora? Sei stupida e presuntuosa come tuo padre! Meglio che ti riposi stanotte, perché domani mattina comincerà il vero lavoro. E guai a te se provi a farmi qualche scherzo, hai capito? Io sono il padrone, qui, e pretendo rispetto.

- Come pretendete che porti rispetto ad un uomo che non ha nemmeno il coraggio di mostrare il proprio volto?- replicò Catherine, lanciandogli un’occhiata carica d’odio e disprezzo.

Lui non rispose; si limitò a ringhiare nuovamente in maniera sommessa, prima di andarsene sbattendo la porta.

Catherine rimase da sola, al buio.

Era prigioniera, si disse. Aveva detto addio alla sua vita, per suo padre. Sperava solo che ora lui fosse sano e salvo.

La ragazza prese la rosa dalla tasca del mantello, cominciando a rigirarsela fra le mani.

Era tutta colpa sua, se ora la sua vita era rovinata per sempre, solo colpa sua.

Tutta colpa di uno stupido fiore.

Catherine incominciò a piangere, silenziosamente, lasciando che le lacrime scorressero da sole, rigandole le guance. Da quanto tempo non piangeva?

L’ultima volta che ricordava di averlo fatto era stato quando sua madre era scomparsa; in seguito, si era sempre raccomandata di essere forte, di non lasciarsi andare in inutili piagnistei. Dopo la morte di sua madre, suo padre si era completamente affidato a lei; lei si era trovata a pensare a tutto e a tutti, a suo padre che era rimasto solo, a Rosalie che aveva un carattere più debole…Si era dovuta occupare della casa, e costretta a star dietro a mille cose, ai suoi studi, alle commissioni, a correre appresso a Henry perché si tenesse lontano dai guai. Poi era arrivata Lady Julia, e tutto si era complicato ancora di più.

Non c’era mai stato tempo per le lacrime.

Ma ora tutto era diverso. Quella vita non c’era più, e non ci sarebbe mai più stata. Non avrebbe mai più rivisto suo padre, Rosalie, Lydia, e anche Henry a cui, in fondo, voleva bene.

Ora era prigioniera; prigioniera e vittima di un essere che le avrebbe reso l’esistenza un inferno, magari utilizzandola per i più spregevoli e abbietti fini.

Presa dalla rabbia, Catherine distrusse la rosa, frantumandola con le dita.

Continuò a piangere disperatamente, mentre i petali rossi e appassiti del fiore si sparpagliavano lentamente sul pavimento di pietra.

 

Angolo Autrice: Ok, so che molti di voi vorranno linciarmi per non aver svelato il volto del misterioso essere incappucciato, ma tranquilli, ogni cosa a suo tempo, e non dovrete aspettare ancora molto. Questo capitolo non mi è piaciuto molto, ancora una volta non sono per niente soddisfatta, ma abbiate pazienza, cercherò di migliorare…

Dunque, cos’avrà in mente il padrone di casa per la povera Catherine?

In attesa di scoprirlo, ringrazio tutti coloro che leggono, in particolare Lisa95 per aver aggiunto questa ff alle seguite, cola23 per averla aggiunta alle preferite ed Ellyra per aver recensito.

Ciao a tutti, al prossimo capitolo!

Dora93

  
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