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Autore: Brin    23/04/2012    1 recensioni
Non si può restare a guardare quando una mano sconosciuta porta via ciò che di più caro hai al mondo: questo è quanto Sari Kalabis sperimenta sulla propria pelle nel momento in cui uno dei pilastri della sua vita le viene strappato per sempre.
Non sa, però, che il desiderio di sapere perché la porterà su strade pericolose, lastricate di interessi a cui non dovrebbe avvicinarsi. Verso i sotterranei di un carcere da cui non si può uscire, nella pancia di un incubo folle e delirante che non dovrebbe esistere.
Genere: Fantasy, Mistero, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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13


13.

NEL BUIO DEL CAMINO


*




Namar si voltò verso la porta che dava sulla bottega; gli occhi sgranati in un’espressione stravolta. Il fabbro, ancora intrappolato nella sua presa, sorrise impercettibilmente.
«Sembra che la tua fuga sia finita qua.»
Namar fremette, la mano con cui stringeva la gola dell’elfo tremò appena. Per un istante Sari temette che volesse ucciderlo. Avrebbe voluto fermarlo, ma quando provò a muoversi non vi riuscì. Le gambe erano paralizzate per la tensione.
«Va’ a dirgli che non c’è nessuno» ordinò Namar all’elfo, che rimase muto a guardarlo con astio.
Non intendeva collaborare.
Silenzio.
Bussarono di nuovo, e Sari fu scossa da un tremito fastidioso. Alternò lo sguardo da Namar all’elfo, e in quel momento ebbe una vaga idea di come dovesse sentirsi il fuggiasco.
In trappola, disperato. E solo.
Namar perlustrò il perimetro della stanza, in cerca di qualcosa. Stava cercando di pensare, di elaborare un piano. Con un cenno del capo indicò il camino a Sari e Abidos, che lo guardarono senza capire.
Namar sbuffò, impaziente e nervoso.
«Arrampicatevi dentro la canna fumaria, e non uscite finché non ve lo dico io.»
Le sue parole lasciarono perplessi Sari e Abidos, che rimasero imbambolati a guardarlo facendogli perdere la pazienza. Sbuffò, lasciando andare l’elfo per spingere la psicologa all’interno del camino con malagrazia, ma Sari incespicò, cadendo in ginocchio sulla fuliggine che le imbrattò i pantaloni e le mani.
Represse a stento un’imprecazione.
«Aprite, questo è un ordine!» la voce del soldato, fuori dall’edificio, giunse perentoria alle orecchie di Namar, che fulminò Abidos e Sari con lo sguardo.
«Muovetevi o vi ammazzo» sibilò. E solo allora, raccolte tutte le forze di cui disponeva, Sari cominciò la scalata alla bell’e meglio. Pregò perché il cielo gliela mandasse buona. Ciò che la preoccupava era se sarebbe riuscita a resistere il tempo necessario senza scivolare e mandare a monte quello che Namar aveva in mente. Un fruscio sotto di lei le suggerì che anche Abidos doveva aver iniziato la scalata. Continuò ad aggrapparsi alle sporgenze che sentiva spuntare dalla superficie della canna fumaria, non senza fatica. La pietra era scivolosa, ricoperta di polvere che ricadeva lungo il condotto al suo passaggio.
Abidos, sotto di lei, la seguiva agile.
Sari si fermò solo quando il camino divenne abbastanza stretto da rendere impossibile il passaggio. Non vedeva nulla, se non un debole raggio di luce filtrare dalla cappa. Cercò di guardare il cielo, per quello che la fessura consentiva. Ed era completamente nero, a eccezione fatta per la presenza di qualche stella.
Dalla fucina sentì provenire dei rumori sommessi, mormorii che non riuscì a cogliere, e infine un tonfo. Pesante, sordo.
Un corpo che si accasciava inerme sul pavimento.
Sentì il cuore balzarle in gola e lì, in quel condotto buio e stretto, si sentì impotente. Guardò di sotto, cercando lo sguardo di Abidos per capire se anche lui avesse sentito.
Poi, udì dei passi che si allontanavano, diretti verso la porta della bottega.
E infine una voce.
Quando la riconobbe, il cuore le mancò di un battito.
«Chi è?»
Era il fabbro.
E Namar era il corpo a terra.
La fuga era terminata con la cattura.


*


Namar guardò Sari sparire nel camino, seguita da Abidos. Solo quando non li vide più si voltò verso l’elfo, che si stava dirigendo verso la bottega nel tentativo di fuggire.
Si gettò all’inseguimento e, quando lo raggiunse, lo costrinse di nuovo contro il muro, rudemente. Il fabbro trattenne una smorfia di dolore.
Si avventò su di lui, afferrandolo per il bavero e tirandolo verso di sé.
«Te lo chiedo per l’ultima volta con le buone: vai a dire che non c’è nessuno qui» sussurrò a pochi centimetri dal viso dell’elfo, che sorrise mellifluamente.
«Sono poco incline a coprire criminali come te.»
Per tutta risposta, il sorriso folle che illuminò il viso scavato dell’evaso gli raggelò il sangue nelle vene. Sembrava capace di tutto.
«Allora passerò alle maniere forti.»
L’elfo non ebbe neppure il tempo per capire a cosa si riferisse.
Namar gli posò le mani sul capo, e quando chiuse gli occhi avvertì un forte giramento di testa. Sentì le gambe farsi molli e insensibili, così come tutto il resto del suo corpo.
Poi, per una brevissima frazione di secondo, il nulla.
Quando riprese coscienza del proprio corpo, la prima cosa che avvertì fu un forte dolore alla schiena. Avrebbe dovuto usare metodi persuasivi più delicati, la prossima volta.
Nel momento in cui aprì gli occhi, vide un corpo riverso a terra, come svenuto.
Capelli neri, spettinati e mal tenuti; un volto scavato e pallido, quasi malato. Bende sporche attorno alle mani, e vestiti logori per coprire quel corpo secco.
Stava guardando se stesso.
Sogghignò. Gli faceva sempre una strana sensazione prendere il possesso di un corpo altrui e, sebbene l’avesse già fatto altre volte, era sempre un’esperienza che non gli sarebbe mai piaciuta.
Di nuovo, bussarono alla porta.
Si guardò attorno. Passò velocemente in rassegna l’angolo più remoto della stanza per individuare un nascondiglio abbastanza sicuro per il suo corpo, che in quel momento non era altro che un involucro vuoto: lo individuò in una cassapanca massiccia, riempita di stracci asciutti. Poi trascinò il corpo per le caviglie fino al mobile, che liberò dall'ingombro dei panni, e lo caricò all'interno.
Rimettere gli stracci al loro posto fino a nascondere il contenuto della cassapanca, poi, fu l'atto finale.
Quando bussarono di nuovo, Namar abbozzò un sorrisetto sprezzante.
«Arrivo, arrivo.»


*


Il generale Rider si trovò di fronte a un uomo alto, dalla corporatura slanciata e longilinea tipica degli elfi. Le orecchie a punta erano un’ulteriore prova della razza a cui apparteneva il fabbro, che squadrò il gruppo di soldati con stupore.
«Che cosa posso fare per voi?»
«Come mai non hai aperto subito?» domandò Rider con tono insinuante.
L’elfo sembrò non capire la domanda. Si accigliò, allungando il collo verso il generale.
«Che cosa ha detto?»
I soldati, alle spalle di Rider, ridacchiarono sommessamente.
«Come mai non hai aperto subito?» il generale chiese di nuovo, spazientito.
L’elfo si strinse nelle spalle.
«Il mio udito comincia a perdere colpi, sa com’è… Stando tutto il giorno a battere ferraglia, prima o poi va a finire che lo si perde.»
Rider ascoltò la spiegazione inarcando appena le sopracciglia, scettico. Non aveva mai sentito di elfi con l’udito scarso, neppure tra quelli che forgiavano armi. E non aveva né tempo né voglia di ascoltare le spiegazioni assurde di quell’elfo di provincia.
Lo spinse da parte rudemente, entrando nella bottega impettito e arrogante. I soldati lo seguirono, e senza perdere tempo si dispersero per l’edificio: c’era chi si diresse verso la fucina, chi perquisì il negozio.
Rider osservò con occhio critico le operazioni, le braccia conserte al petto e un sorrisetto tronfio sulle labbra.
«Che state facendo?»
Il generale inarcò le sopracciglia, guardando il fabbro. Sospirò, irritato.
«Ordinaria amministrazione. Stiamo cercando una persona che potrebbe nascondersi da qualche parte qui in città.»
«Capisco.»
Rider guardò l’elfo con la coda dell’occhio. L’espressione sul suo volto era rilassata, tipica di chi non ha nulla da temere. Probabilmente l’evaso non si nascondeva lì. O forse sì.
Aveva la vaga impressione che quella sarebbe stata la missione più fastidiosa a cui avrebbe preso parte. Non aveva la più pallida idea di che cosa Amos stesse macchinando con la Corporazione, ma non poteva fare altro se non obbedire a ogni suo minimo capriccio.
Gli serviva, così come non poteva fare a meno della mocciosa presa in ostaggio.
Il fuggiasco gli interessava ben poco, e per quello che lo riguardava poteva anche morire, ma Amos lo voleva vivo e così gliel’avrebbe portato.
Non poteva permettersi di sgarrare con il mago, non in quel frangente.
«Generale, nella bottega non c’è nessuno.»
Rider guardò gelido il soldato che gli si parò di fronte. Cominciava a non poterne più.
Quando udì dei passi provenire dalla fucina, si voltò verso il corridoio, dove fece la sua comparsa un soldato giovane, poco più che un ragazzino.
Si fermò a pochi passi dal generale, sull’attenti.
«Nella fucina non c’è nessuno, generale.»
Rider serrò i pugni, mentre una smorfia irosa gli storse le labbra. Ogni volta che perquisivano un edificio e non trovavano tracce, l’impressione di essere il protagonista di uno scherzo irritante si faceva sempre più fastidiosa, e non la tollerava.
«Maledetto, dove sei?» sibilò, le guance rosse per la rabbia.
Il fabbro, alle sue spalle, si grattò debolmente il naso. Nessuno lo vide. Fu un movimento veloce, fulmineo.
Sogghignò, nascosto dalla mano.
Quando Rider rivolse la sua attenzione su di lui, l’elfo assunse un’espressione del tutto naturale.
Sorrise cordialmente all’uomo, in silenzio.
«Scusi per il disturbo» la voce del generale fremeva «Andiamocene, qua abbiamo finito.»
I suoi uomini obbedirono, uscendo velocemente dall’edificio con ordine e precisione marziale. Anche Rider si diresse verso l’uscita, ma prima di varcarla si fermò.
Voltò appena la testa, giusto quel tanto che gli permetteva di cogliere la figura dell’elfo con la coda dell’occhio.
«Se vedete movimenti sospetti, non esitate a chiamare il C.S.M.»
L’elfo annuì, e solo dopo aver ottenuto quella risposta il generale uscì, richiudendosi la porta alle spalle.


*


Sari non riusciva a capire.
Era stremata, i muscoli delle braccia le tremavano, e aveva il terrore di produrre anche il più flebile rumore. Ma nonostante tutto, aveva mantenuto le orecchie ben tese.
Aveva sentito ogni cosa, e non riusciva a spiegarsi come fosse possibile che l’elfo non li avesse consegnati a Rider. Doveva ragionare, e velocemente anche.
Non aveva la più pallida idea di che fine avesse fatto Namar, e nonostante l’elfo li avesse in qualche modo protetti, non poteva contare su di lui.
La contraddizione tra ciò che si era prefissata di fare e il desiderio di aiutare il fuggiasco la colpì di nuovo, ma quello non era né il momento né il luogo per lasciarsi andare a elucubrazioni mentali di quel tipo.
Doveva pensare a come muoversi.
Namar le aveva detto che non doveva uscire fino a quando non gliel’avrebbe detto lui, ma molto probabilmente in quel momento era ben lontano dal poter fare una cosa del genere. Doveva agire, doveva capire cos’era accaduto e regolarsi di conseguenza.
L’unica cosa possibile da fare, in quella posizione nella canna fumaria, era discendere dal camino.
Guardò sotto di sé e individuò nel buio la sagoma di Abidos. Cercò di attirare la sua attenzione sussurrando il suo nome, e solo dopo un paio di tentativi avvertì un fruscio: un movimento nel buio.
Abidos la stava guardando.
«Scendi» gli sussurrò a bassa voce, ma il ragazzo non sembrò convinto. Rimase lì, fermo, immobile. Sari scosse la testa, sbuffando. Perché nessuno faceva mai ciò che lei chiedeva?
In quel momento avvertì distintamente dei rumori provenire dalla fucina. Rumori di natura diversa mischiati assieme, in sequenza. Passi, fruscii, poi il silenzio per alcuni brevi istanti.
Poi, un nuovo tonfo.
Cominciava a non capirci davvero più niente. Provava timore, eppure era maledettamente curiosa di sapere che cosa stesse accadendo lì sotto.
Al diavolo, ora basta.
Cercò un appiglio con la mano, con movimenti lenti e controllati. Ricordava di averne trovato uno più in basso quando stava salendo, doveva solo individuare il punto esatto. Andò a tastoni finché non avvertì una sporgenza nel muro.
Quindi fu la volta del piede, che scivolò contro la parete per cercare una roccia protuberante a cui potersi appoggiare.
Chiuse gli occhi, pregando di non scivolare.
Una scia di polvere cadde verso il basso sfiorando il viso di Abidos, che sollevò lo sguardo verso Sari.
«Che stai facendo? Non è ancora il momento, stai ferma e aspetta!» sussurrò, cercando di farla desistere dall’intento di calarsi a terra.
Sari fece per rispondergli, ma mise il piede in fallo. Da lì, cadere fu un attimo.
Scivolarono giù, le mani che strisciavano contro il muro nella ricerca disperata di un appiglio che non trovarono. Caddero a terra di schianto, in un polverone nero e soffocante. I loro polmoni furono invasi dalla fuliggine, e Sari tossì finché non li sentì liberi.
Non riuscì a rendersi immediatamente conto della situazione. La prima cosa di cui si accorse fu qualcosa di morbido sotto di lei. Quando riuscì a capire che cosa fosse, scivolò giù dal corpo di Abidos.
«Tutto bene?» domandò con aria colpevole e preoccupata. Il ragazzo mugolò di dolore, e si mise a sedere lentamente. Solo allora, Sari distolse l’attenzione da lui: c’era qualcos’altro che aveva attirato il suo interesse. La prima cosa che vide furono due stivali consunti, poi un vestito logoro, una zazzera nera, e infine due occhi grigi.
Namar troneggiava su di lei, le braccia conserte al petto e un’espressione di sufficienza stampata in faccia.
«Che stai combinando?»
Sari sostenne il suo sguardo, e sbuffò.
«Sono scivolata» biascicò controvoglia quella che infondo era una mezza verità.
Namar sgranò gli occhi, un’espressione che non mancava mai di far vedere agli altri. Chinò il capo di lato.
Sembrava che volesse prendersi gioco di lei, a giudicare da come la guardava.
«Ma dai?»
«Tu piuttosto: mi vuoi dire che è successo? Ho sentito un tonfo, e poi la voce dell’…»
Si interruppe a metà. L’elfo. Lo cercò con lo sguardo, e lo trovò sdraiato in mezzo alla stanza, apparentemente immobile. Come se fosse morto.
Guardò Namar senza capire cosa fosse successo, accigliata. Aveva timore a domandare, e ancor di più a sapere che cos’era accaduto al fabbro. Il sorrisetto ambiguo del ricercato non le sembrò per nulla rassicurante.
«Dormirà per un po’. Piuttosto, la prossima volta ti sarei grado se non tentassi di ammazzare la mia guida» aggiunse, inginocchiandosi di fronte ad Abidos.
Il ragazzo lo guardò negli occhi e non oppose resistenza quando Namar gli afferrò il mento, alzandolo per esaminare il suo viso con occhio critico.
«A quanto sembra sei vivo. Che ne dici di rimanerci fino a quando non saremo fuori da questo sputo di terra?» mormorò, con un sogghigno che non suggeriva nulla di buono. Abidos lo guardò senza battere ciglio. Guardò Sari, poi di nuovo il fuggiasco.
«Dobbiamo fuggire ora, è un’occasione perfetta dal momento che hanno già perquisito la fucina.»
Sari annuì.
Namar lo guardò con insistenza, senza lasciare la presa dal suo mento.
«Niente scherzi ragazzo. Ti tengo d’occhio.»
Abidos non rispose. Si limitò a sostenere lo sguardo di Namar e riuscì ad alzarsi solo quando il fuggiasco si sollevò in piedi.
Sari rimase in silenzio, guardando Namar e seguendone i movimenti con diffidenza. Aveva evitato di rispondere alla domanda, o almeno non aveva dato la spiegazione che lei si aspettava. Aveva glissato apposta, per evitare di dover affrontare un argomento che doveva rimanere segreto. Perché? Che cosa nascondeva?
Chi sei veramente?
Il fuggiasco guardò prima lei, poi Abidos. Nessuno osava pronunciare una singola sillaba.
Sorrise divertito. Allargò le braccia con fare teatrale.
Sul viso, un sorriso esaltato.
«È ora di muoversi.»


   
 
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