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Autore: FCq    24/04/2012    2 recensioni
"Non posso"... "Dimmelo"... "Qual è il problema. Il ritorno a Volterra?"... "Bella?", mi chiamò, la voce fredda come il ghiaccio. E fu in quel momento che la sentì arrivare: la consapevolezza di ciò che sarebbe stato. Lacrime calde iniziarono a rigarmi il volo e capì che non avrei più mentito. Edward doveva sapere.
Genere: Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Volturi | Coppie: Bella/Edward
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Buon pomeriggio:-D chiedo immensamente perdono 0:)per questa attesa così lunga. Avevo detto che avrei postato questo nuovo capitolo col l'html. Ma manca davvero davvero poco e avrò il pc, per non farvi aspettare ulteriormente ho deciso di postare, perché se siete curiosi solo la metà di me, allora odiate le attese. Questo è uno dei capitoli cui tengo di più e già dal prossimo inizieranno i disastri che la me sadica ama scrivere. Ora devo ringraziare davvero con tutto il cuore chi mi ha aggiunto tra le preferite, chi tra le ricordate e chi tra le seguite. Vi prego di lasciare un commento, anche piccolo per sapere cose ne pensate. Grazie a chi fin ora a recensito. Ps vi lascerò un piccolo spoiler alla fin pps la prossima volta che posterò sarà com l' html e aggiusterò tutti gli altri capitoli<3




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Nei mesi seguenti imparai cosa significasse la parola "felicità". Gli umani usavano impropriamente questo termine così tante volte senza conoscerne il vero significato, facendogli così perdere il proprio valore. Scambiavano brevi momenti di gioia e soddisfazione per la felicità. Io stessa non avevo mai conosciuto questa sensazione, eppure, a differenza degli umani, non mi ero mai permessa di considerarmi tale. In fondo cos’era la felicità? Spesso mi ero posta questa domanda e mai una volta vi avevo trovato risposta. Alcuni descrivono la felicità come una sensazione di totale appagamento e leggerezza. Altri la vedono come la pace eterna, che può essere raggiunta soltanto dopo la morte. In molti cercano la felicità nelle cose materiali, altri nella spiritualità. C’è chi pensa che la felicità non sia altro che un falso luogo comune, alcuni la ricercano per tutta una vita senza mai trovarla. Per Leopardi la felicità era un desiderio che non avrebbe mai trovato soddisfazione nell’appagamento. Mi chiedevo quale tra queste teorie fosse vera. Con il tempo avevo concluso che la risposta si trovasse nel mezzo. Nessuno poteva essere totalmente felice. Esistevano unicamente esserci dei brevi istanti di totale appagamento dello spirito, ma la vera felicità era irraggiungibile, per qualsiasi creatura. Oggi, dopo diciotto anni di monotonia e false certezze, scoprivo la felicità. Quell’ emozione vera,  così intensa nelle sue sfaccettature da farti credere di star vivendo in un sogno continuo, dal quale non vorresti assolutamente risvegliarti. Non avevo mai scoperto cosa si provasse a rimanere semplicemente senza parole, ora non ne trovavo per descrivere il mio stato d’animo in quelle settimane. I giorni erano troppo corti perché scoprissi tutto ciò che non conoscevo: troppo corti perché potessero soddisfarmi. Le mie notti erano serene, tanto da farmi sprofondare in sonni lunghi e ristoratori. Semplicemente sognavo, in un replay delle mie giornate; come se desiderassi vederne una replica per incapsulare quei ricordi nella mia mente. Mi svegliavo presto, desiderosa di vivere ancora un po’ di quella felicità di cui non riuscivo a saziarmi. Per una volta, ero riuscita a metter da parte tutte le ombre della mia vita. Il mio futuro, un vicino abisso oscuro o acque fredde che trafiggono il corpo come spilli, nella prospettiva che me lo faceva apparire buio e grigio. Tutte le tensioni si erano dissolte, in una calma placida come quella del cielo prima della tempesta...
 Non mi ero mai sentita così bene - un aggettivo inusuale per la mia vita precedente - perché con i Cullen vissi il tempo migliore della mia esistenza.
Passavo le mie giornate con la mia nuova famiglia. Amavo ognuno di loro incondizionatamente. Alice, Edward, Esme, Carlisle, Emmet, Jasper, Rosalie... Mi ero abituata alla scuola e avevo imparato a viverne ogni sfaccettatura. Trascorrevo le ore scolastiche con i miei amici umani, avvicinandoli, con un po’ di difficoltà, ai miei vampiri buoni. Ce la mettevo tutta, ma sembrava che Emmet si divertisse a farli scappare a gambe levate. Eppure, l’attrazione che esercitavo sugli umani li portava a stare spesso al mio fianco e poiché io ero sempre con i Cullen, era inevitabile...
Un quarto del mio tempo era giornalmente riservato ad Alice - la cui esistenza mi faceva comprendere come mai la maggior parte dei tornado avesse nomi di donna - che sembrava essersi addossata il compito di farmi vivere in pochi mesi un’intera vita: il ché mi sfiancava. Eppure, la sua presenza era diventata insostituibile.
Durante alcuni dei miei interminabili pomeriggi felici avevo trascorso del tempo anche con Carlsile. Lui e Edward erano rimasti sorpresi vedendo quante cose sapessi sulla medicina. Mi giustificai dicendo che avevo letto molti libri, il ché era vero. Più che altro avevo imparato a badare a me stessa, quando anche Athenodoa era costretta ad allontanarsi... non potevo rischiare, essendo circondata da vampiri, che il mio sangue dilagasse più del dovuto. Carlisle era veramente curioso di mettere alla prova le mie capacità. Mi osservava vagare per l’ospedale. Scrutava il mio atteggiamento curioso nei confronti di tutto ciò che per me costituiva una novità, come osservare così da vicino il dolore della gente...
La parte forse più infantile di me era eccitata all’idea di mettere in pratica ciò che avevo imparato con anni di teoria e lo assistevo; aiutandolo con le diagnosi, benché non avesse alcun bisogno del mio ausilio. Il suo essere vampiro, a volte, era un vantaggio per lui.
Non mi stupì che Carlisle fosse così amato in ospedale, soprattutto dalle donne. Carlsile aveva un talento naturale e non era solo quello di curare i pazienti. Se non fosse stato privato della sua vita, sarebbe stato un padre magnifico. Era comprensivo, dolce, protettivo e inspirava sicurezza con il suo fare calmo e rassicurante. Non dovevi certo temere un suo giudizio.
 Possedeva il raro dono del perdono e ti accoglieva sempre con un sorriso. Legai molto con Carlisle e lui con me. Spesso mi apostrofava come sua figlia e amava rivolgersi a me con un:  ≪Bambina mia≫.
 La prima volta che lo udì rimasi totalmente sorpresa - chiedendomi cosa avrebbe avvertito dentro di me Jasper se avesse avuto l’opportunità di percepire il mio umore - prima di aprirmi in un grande sorriso. Sia lui che Esme mi consideravo come una figlia.
Non osai mai rivolgermi a loro come facevano gli altri, con un mamma e papà. Eppure, loro per me erano questo: una madre e un padre. Li amavo come tali.
Osservavo le loro partite di baseball, invitando a prendere in considerazione anche il gioco del calcio. Mi diedero ascolto e naturalmente la partita andò a favore della squadra in cui Alice era in porta.
Ero certa che la mia felicità non sarebbe stata completa se, dell’arazzo che intesseva la mia vita, non avesse fatto parte anche Edward. Benché trascorressi molto tempo anche con gli altri, ero quasi sempre con lui. Il primissimo periodo era stato imbarazzante per entrambi, poi divenne un’abitudine. Sedevamo insieme tutti i giorni a biologia e all’uscita mi accompagnava a educazione fisica. Avevo scoperto di non avere talento per il badminton e la pallavolo. Quando glielo avevo detto aveva iniziato a spiarmi attraverso gli occhi degli altri, avendo a disposizione diversi punti di vista disponibili, e non perdeva occasione per deridermi. Ritagliavamo in questo modo il poco tempo per noi a scuola.
Spesso sedevamo al fresco dell’albero di quel primo giorno.
Parlavamo.
Scoprimmo di avere diverse cose in comune, soprattutto la musica. Entrambi ascoltavamo classici: a Volterra non si sentiva molto Rock.
Edward aveva una passione spropositata per la musica degli anni cinquanta.
Ogni giorno m’investiva con mille domande, giustificano la sua curiosità col fatto che non potesse leggermi nel pensiero. Alcune cose che all’inizio erano causa d’imbarazzo divennero routine. Il contatto tra di noi, ad esempio, era qualcosa cui entrambi non avremmo mai rinunciato.  A volte, soprattutto quando eravamo da soli, stringevamo le nostre mani, allacciandole. Capì che amava soprattutto quando gli carezzavo il volto. Spesso lo vedevo giocare con le ciocche dei miei capelli lunghi e scuri, che adorava carezzare, perso nei pensieri che lo portavano lontano da me.
Ogni tanto esitava con lo sguardo, oppure con il tocco della mano. Erano attimi eterni. Edward sembrava essere divenuto essenziale per la mia vita. Non mi piaceva, ma non potevo farne a meno. Era suo il primo sguardo che cercavo la mattina, appena alzata o prima di andare a dormire, quando avevo qualche difficoltà. E lui ricambiava sempre con un sorriso, cercando il mo sguardo quando qualcosa lo rendeva ansioso. Entrambi cercavamo la vicinanza dell’altro.
Avevo approfittato dell’assenza di Edward, Alice e degli altri per finire i miei compiti. Naturalmente ero una studentessa eccellente. Avvertivo distintamente la presenza di Carlisle ed Esme dentro casa. Mi soffermai sui problemi di geometria, per i quali più di ogni altra cosa avrei voluto che Edward fosse là. Di solito mi aiutava con la matematica, che tra tutte le materie era la mia spina nel fianco. Si era allontanato dopo avermi carezzato una guancia e i capelli, nell’aria c’era ancora il suo profumo, di cui era impregnato il suo posto al mio fianco. A un tratto avvertì la presenza di Carlsile allontanarsi. Usciva, strano. Non doveva andare in ospedale, che io sapessi, e ormai gli altri erano lontani.
 Inoltre, erano rare le occasioni in cui lasciava da sola Esme, quando avevano la possibilità di stare insieme. Decisi di alzarmi, per accertarmi che andasse tutto bene. Avvertivo la presenza di Esme nel lato ovest del giardino. Di solito non ci andavo mai. Chissà che cosa faceva lei là? Mi sentì improvvisamente ansiosa di raggiungerla, per accertarmi che la donna che amavo come una madre fosse al sicuro. Se i Cullen avevano qualche problema ero pronta ad aiutarli, a qualsiasi costo. Sorrisi. Se Felix fosse stato lì e avesse potuto ascoltare i miei pensieri, mi avrebbe strigliato per bene. Io che ero l’unica speranza per il futuro della mia razza non potevo permettermi di anteporre la vita di altri alla mia. L’avrei ceduta volentieri per loro. Svoltai l’angolo, superando le mura immacolate dell’esterno della casa. Fu in quel momento che la vidi. Stranamente, sembrava non avermi udito, nonostante mi fossi avvicinata piuttosto rumorosamente. Un vampiro poteva essere immerso nei pensieri? Esme era immobile, imprigionata da un ricordo lontano. Il vento scompigliava i suoi boccoli color caramello e il bordo del suo vestito bianco e leggero. Era di una bellezza disumana. Il viso pallido e bellissimo era incorniciato da capelli scompigliati e selvaggi, le labbra di un rosso intenso erano leggermente socchiuse, quasi a voler trattenere quel singhiozzo che sarebbe arrivato, alla fine, a spezzarle la voce cristallina e musicale. Le fossette che tanto amavo avevano lasciato il posto a una smorfia amara di sofferenza. La fronte d’alabastro era corrugata, ma non fu tutto ciò a sorprendermi, bensì i suoi occhi. Gli occhi di Esme, fissi di fronte a un albero spoglio, malinconico e morente, erano da sempre stati un porto sicuro per me; carichi di amore e dolcezza, persino per un estranea che aveva accolto nella sua famiglia come una figlia. Adesso, quei pozzi profondi d’oro caldo erano freddi e distanti, intaccati da un dolore che affondava in lei come i piedi sulla sabbia. Nelle loro profondità potevo scorgere un dolore straziante, difficile da affrontare e dimenticare. Un dolore che avrebbe ucciso qualsiasi essere umano, ma non un vampiro. Un immortale non poteva morire di dolore, né poteva trovare alcun tipo di pace. Il riposo eterno non era concesso, e questo, da solo era sufficiente perché la condizione da vita immortale diventasse una prigione. Non avrei mai potuto immaginare che Esme nascondesse un dolore tanto profondo e struggente. In confronto, ogni mia sofferenza svaniva. Sentivo il bisogno di rassicurarla, in qualche modo. Eppure, una parte di me era contenta di aver rimesso a posto i pezzi. Adesso mi era chiaro cosa avesse dato a quella donna tanta forza. Dover reggere sulle proprie spalle un dolore del genere ti faceva diventare forte. Potevi decidere di soccombere ad esso, oppure lottare. Decidere di costruirti una famiglia e amarla: amare per non provare odio, per non soffrire. Non c’era neanche un ramoscello, nel giardino perfetto di Esme, che potessi calpestare per sbaglio, in modo da preannunciarle in qualche modo la mia presenza. Il mio respiro fu sufficiente. Esme mi udì e si voltò di scatto, improvvisamente all’erta. Quando mi vide rimase sorpresa. La sua esitazione durò soltanto un istante, velocemente si aprì in un sorriso. La smorfia di dolore fu sostituita dalle fossette che tanto amavo, ma quel sorriso non accese i suoi occhi. Quando notò che la fissavo si voltò, ritornando a scrutare l’albero spoglio. Seguì il suo sguardo e per la prima volta mi soffermai sull’arbusto che sembrava aver risvegliato in lei quelle atroci sofferenze. Non avevo mai notato quell’albero prima d’ora. Non mi ero mai avventurata oltre il mio spiazzo verde e tranquillo: lì, i raggi del sole rendevano la pelle di Edward simile al diamante. I rami erano secchi e privi di foglie. La vita lo lasciava lentamente. Concentrarmi sulla pianta mi creava un enorme voragine nel petto e un groppo in gola. L’albero sembrava comprendere il dolore di Esme, per incredibile che fosse, e lo portava a se, come se volesse liberarla da quella sofferenza. I raggi del sole, nascosto dietro le nuvole grigie cui ormai ero abituata, non lambivano la zona che delimitava l’arbusto. La pianta era immersa nel buio. Era un’immagine orribile e spaventosa. Sentì un brivido corrermi lungo tutta la schiena. Adesso il dolore di Esme era il mio. Mi avvicinai, nonostante il dolore mi mozzasse il fiato. Avanzai lentamente e cautamente. Quando fui al suo fianco, Esme non si voltò. Continuava a fissare l’arbusto. Andai oltre e mi portai vicino al tronco dell’albero. Il vento lo colpiva come se volesse abbatterlo. Eppure l’albero resisteva, nonostante fosse ormai agli sgoccioli. Posai la mano sul tronco e mi parve di percepire lo scorrere fluido della linfa sotto i miei polpastrelli. Il dolore era troppo intenso, fui costretta a sfilare la mano, come se mi fossi appena scottata. Esme continuava a non prestarmi attenzione. Mi voltai nella sua direzioni e scrutai attentamente il suo volto, finché la donna non si decise a guardarmi. Non c’era consolazione possibile per quel dolore. Esme sorrise ancora. Fu un sorriso tirato e stanco.
≪Conosci la mia storia?≫, chiese.
 La sua voce, se possibile, era ancor più distante e stanca del suo sorriso. Riconoscevo il dolore nelle incrinature del suo timbro basso e pacato. Scossi il capo. Esme mi guardò per un lungo istante, prima di ritornare a fissare l’albero. Parlò come se non fosse al mio fianco, bensì persa in un epoca lontana e buia. Il suo controllo sopraffatto dalla sua sofferenza infinita.
≪Avevo venticinque anni e vivevo in un epoca molto diversa da quella che conosci tu, Bella. All’ora, l’unica cosa che contasse realmente era il matrimonio. Le donne avevano semplicemente il ruolo di madri e mogli. Capitava spesso che i genitori combinassero dei matrimoni, a volte per interesse, oppure per saldare un debito. E non c’era nulla che tu potessi fare, se non obbedire al volere di tuo padre e degli altri uomini in casa. Devi sapere che all’epoca era importante che ci si sposasse in età molto giovane. E io ero fuori tempo massimo. Avevo visto le mie amiche convolare a nozze una dopo l’altra. Sposavano uomini che a mala pena conoscevano e dopo poco tempo rimanevano incinte, formando nuove famiglie. Non era un caso che io fossi ancora nubile...
Ero stata presentata a decine di uomini. Non passava giorno che mio padre e mia madre non mi ricordassero che ero la loro unica figlia e che sarei rimasta sola per sempre. Tante volte mi avevano detto che ero una delusione per loro, eppure io sopportavo ogni cosa. Perché io avevo già trovato l’amore, ma purtroppo i miei genitori non avrebbero mai accettato colui che io amavo. Eravamo una famiglia modestamente agiata, ma loro volevano di più. A sedici anni avevano iniziato a farmi conoscere i figli dei loro amici, quelli che contavano. Non avevo mai prestato loro attenzione. Non c’era nulla che mi attraesse nelle schiere di giovani figli di papà, circondati da lusso e ignari della miseria. Poi arrivò lui e le cose certamente non cambiarono, almeno non come avrebbe sperato mio padre.
Si chiamava Charles. I miei occhi erano accecati da lui. Charles era veramente bello. Aveva capelli scuri e occhi castani. Il suo viso era bellissimo. Perfettamente simmetrico, squadrato; lo ricordo come se fosse oggi. Un giorno stavo uscendo dalla messa. Vivevo nei pressi di Akron, Ohio, e amavo la mia città. Ogni domenica, dopo che la funzione era terminata fuggivo, dicendo ai miei genitori che sarei ritornata a casa a piedi. Amavo passeggiare per i vecchi vicoli pieni di storia. Studiavo gli antichi palazzi e ciò che si celava dietro ogni pietra e ogni mattone. Durante una delle mie passeggiate domenicali conobbi un architetto. All’epoca stavo spesso con il naso rivolto all’insù, ad ammirare il cielo e la grandezza delle costruzioni. Mi chiedevo se un giorno qualcuno avrebbe costruito un muro abbastanza alto da toccare il cielo. All’epoca sentivo di poter scalare qualsiasi muro. La mia vita era serena, nonostante i miei genitori gettassero ombre sul mio futuro. M’importava poco di loro. Fu una domenica di maggio che, troppo presa a osservare  il cielo, andai a sbattere contro l’architetto di cui ti parlavo prima. Lui sembrava sorpreso e divertito al tempo stesso. Mi disse, con voce roca e virile:
≪Cosa ci fa una signorina in giro per questi vicoli, con il naso rivolto al cielo. Dovresti imparare a stare con i piedi per terra≫.
Sorrise, divertita dal ricordo.
≪Io all’epoca ero molto suscettibile. Posai una mano sul mio fianco e risposi, con tono fermo e deciso:
≪Io preferisco di gran lunga osservare il cielo, piuttosto che la triste terra. L’unica cosa che c’è di bello sono questi palazzi, la loro storia e la loro perfezione. Mattone su mattone, sono il risultato della fatica degli uomini. In sé racchiudono generazioni e generazioni. E lei, signore, chi è per dirmi che una signorina non dovrebbe ammirare queste bellezze. Per sua informazione, sono capace di badare a me stessa≫.
 L’uomo rise sonoramente. Da quel giorno mi prese come sua allieva. All’ora, quando accettai, non sapevo che mister Jonson avesse un altro apprendista... Naturalmente i miei genitori non sapevano nulla di tutto questo, non avrebbero mai accettato che io lavorassi e recassi così loro altro disonore≫.
 Si fermò per un attimo e capì che stavamo arrivando al punto cruciale della storia.
≪Jonson non era un uomo ricco ma onesto. E la sua onestà non gli fruttava molto. Stimavo quell’uomo. Divenni molto brava con il tempo nel mio lavoro. Un giorno, a casa del mio maestro incontrai lui. Fu amore a prima vista. Ci frequentavamo di nascosto, neanche il nostro maestro sapeva della nostra storia. Eravamo bravi attori...≫, un sorriso ironico le si dipinse sul volto, del quale non compresi il significato.
≪Anche se, oggi, ripensandoci, ho come il sospetto che il maestro sospettasse qualcosa . Dopo un paio di mesi capì di essere incinta. Il mondo mi crollò addosso. Era un disonore enorme rimanere incinte senza essere prima sposate, all’epoca. Lo dissi a mia madre, chiedendole di non riferirlo a mio padre. Naturalmente lei gli disse tutto. Mio padre mi schiaffeggiò e iniziò a sbraitare:
≪Ora capisco perché non hai accettato nessuno dei figli dei miei amici. Sei un svergognata. Dimmi chi é costui e io lo ucciderò con le mie mani. Possiamo ancora riparare al torto, nulla è perso≫.
 A quel punto iniziò a fare congetture. Intendeva farmi sposare qualcuno e fingere che il bambino fosse il suo o farmi partorire e dire che era di mia madre. Uccidere mio figlio. A quelle parole mi raggelai. Strinsi forte le braccia intorno al mio ventre, istintivamente≫.
Mentre parlava la vidi stringere le braccia intorno al suo ventre piatto e tonico. Vuoto.
≪Fino a quel momento non avevo realizzato quanto amassi il bambino che portavo in grembo, ma alle parole di mio padre l’istinto materno prese il sopravvento. Amavo quel bambino e lo avrei protetto. Iniziai ad urlare che non potevano fare del male al mio bambino. Mio padre mi scosse per le spalle, io ero in lacrime. Continuava a chiedermi chi fosse il padre e io non rispondevo. Semplicemente piangevo e li pregavo di non fare del male al bambino. In fine, mio padre mi diede un’ ultimatum: dirgli chi era il padre, oppure andare via. Scelsi la seconda opzione≫.
Rimase in silenzio per un altro istante prima di proseguire.
≪Decisi di andare da Charles, chiedendomi durante il tragitto perché non mi avesse raggiunto a casa mia come aveva promesso. Quando arrivai a casa del nostro maestro gli chiesi del ragazzo e lui rispose che se n’era andato. Era rimasto sorpreso dalla mia espressione e dalle mie lacrime imrpovvise. Gli spiegai tutto e lui si prese cura di me, come avrebbe dovuto fare mio padre. Non mi giudicò mai... Ero distrutta. Charles non era con me, mi aveva abbandonato. E non avevo idea di come mi sarei presa cura del mio bambino. Per la prima volta nella mia vita anche io vedevo il buio quando guardavo il mio futuro. Mi aggrappai al bimbo nel mio grembo; era l’unica cosa che mi fosse rimasta. Optai per due nomi: se fosse stato maschio, Daniel, come il signor Jonson, se fosse stata femmina Mary, come sua nonna, alla quale io ero legatissima fin da piccola≫.
 Un’altro istante di pausa, un sorriso e la sua voce si spezzò.
≪Nove mesi dopo nacque Daniel. Era bellissimo. Aveva i capelli come i miei, gli occhi e il viso erano del padre. Ero felice, per la prima volta nella mia vita. Non contava più nulla, soltanto il mio piccolino. Suo nonno, Jonson voleva che il bambino lo considerasse tale, ci ospitò. Io avrei lavorato come architetto insieme a lui e mi sarei presa cura del mio bambino≫.
Esme si avvicinò all’albero e posò una mano sul tronco, come me.
≪Nel piccolo giardino del signor Jonson, nel nostro giardino, c’era un albero di ciliegio: era slendido. Ricordo ancora il suo profumo e  il suono del vento tra i rami. Con il mio bambino assistetti allo spettacolo più bello che avessi mai visto: la pioggia di petali di ciliegio. Jonson, mio padre... costruì una sedia a dondolo per me e la portò sotto l’albero. E là, tutti i giorni, cullavo il mio bambino. Furono le settimane più belle della mia vita, ma non durarono molto. Un giorno Daniel si ammalò. Lo stavo cullando sotto il nostro albero e mi accorsi che aveva la febbre≫. Ebbe un attimo di esitazione e strinse gli occhi come ad accertarsi di un pensiero appena avuto.
≪Ricordo che prima di entrare in casa un petalo rosa cadde e si posò sulla sua fronte morbida e bianca... ≫.
≪Chiamammo un medico, ma non ci fu niente da fare. Il mio bimbo morì dopo ventiquattro ore. E io morì con lui. Il dolore mi distrusse. Ero in stato catatonico.
Un pomeriggio decisi di uscire... il tempo non era dei migliori. Diluviava, ma non m’importava. Camminai sotto la pioggia, seguendo il rumore del mare. E poi, senza accorgermene, mi ritrovai su di una scogliera. Non riflettei sul mio gesto successivo, ma le onde del mare promettevano di cancellare il mio dolore, che si infrangeva sul mio cuore come le onde del mare sulle rocce. Volevo la pace, volevo raggiungere il mio bambino. Mi buttai dalla scogliera e la mia vita finì quel giorno.
Avevo davvero creduto di essere morta, sai?≫.
Un sorriso le spiegò le labbra.
≪Quando aprì i miei nuovi occhi e vidi Carlisle, lo scambiai per un angelo, tanto da indurmi a credere di essere davvero morto e assunta in paradiso≫.  La sua risata musicale riempì il silenzio.
≪Mi avevano portato direttamente all’obitorio, ma il mio cuore batteva ancora. In quel momento Carlisle mi trovò. Non ci pensò più di tanto e mi morse. Con lui ed Edward iniziai una nuova vita, senza mai dimenticare del tutto quello vecchia≫.
Esme sospirò, tracciando con il palmo della mano le venature scure del tronco dell’albero. Rimasi in silenzio, non si udiva alcun suono, a parte il rumore del vento tra le fronde dell’albero. Adesso mi era tutto chiaro. Capivo quale legame la univa a quella pianta dai caratteri inusuali, e quale dolore rivangasse nella sua memoria. Quella tristezza infinita che leggevo nei suoi occhi era normale. Non c’era dolore più grande per una madre che perdere il proprio figlio. Soprattutto quando quel bambino è l’unica cosa che hai. La cosa alla quale ti sei aggrappata fin dall’inizio per sopravvivere alla perdita di tutto il resto. Sfiorai nuovamente il tronco dell’albero. Adesso che ne conoscevo l’origine, la sofferenza irradiata da Esme, alla pianta e a me, come fossimo un’unica persona, sembrava molto più sensato. Avevo capito fin da piccola di possedere la capacità di percepire la sofferenza delle altre persone come fosse la mia. Non ero semplicemente ipersensibile, questo era un dono, ma anche una maledizione.
Con il passare degli anni la mia diversità si faceva sentire in modo sempre più pesante, ma la cosa non mi aveva mai colpito più di tanto. Non sarei mai riuscita a vedere me stessa in modo diverso da ciò che ero.
≪Avrei voluto dire addio a mio padre, il signor Jonson. Carlsile mi ha detto che lui c’era, quando io sono finita all’obitorio. Non meritava tutta quella sofferenza. Non meritava di perdere una figlia e un nipote, così all’improvviso≫.
La sua voce si fece sempre più bassa, fino a spegnersi del tutto. Sentivo un pesante groppo in gola. Quando Esme si voltò nella mia direzione, rimase sorpresa. Sbatté le palpebre un paio di volte e s’incupì. In un attimo fu di fronte a me, le mie mani tra le sue. Carezzò dolcemente la mia guancia, raccogliendo sulla punta del dito una gocciolina trasparente: una lacrima. Piangevo. Non mi ero neanche accorta che il groppo in gola stava tentando di uscire dai miei occhi sotto forma di lacrime. Quella sofferenza che sentivo nella mia anima era insopportabile. Come poteva Esme  riuscire a sostenere un dolore del genere senza sentire il desiderio di versare qualche lacrima? Perché il suo corpo immortale non le permetteva neanche di liberarsi di quel peso attraverso il pianto? Lo trovavo ingiusto, come tutto quello che le era successo. Una persona come Esme non meritava una cosa del genere. Ma, forse, non sarebbero bastate tutte le lacrime di questo mondo per liberarla da quel tormento, che ora era diventato anche il mio.
≪Tesoro, non piangere. Mi dispiace: non volevo renderti triste≫.
Scossi energicamente la testa, allontanando dal mio volto anche le ultime lacrime.
≪Non dirlo: non dire che ti dispiace. Non avrei mai pensato che... e solo che sono un po’ come Jasper per certe cose. Riesco ad avvertire il dolore degli altri, soltanto le loro sofferenze. So quello che provi≫.
Un singhiozzo mi scosse e quando alzai lo sguardo, fui sorpresa di vedere un sorriso sereno sul volto di Esme.
≪Piccola mia, non dimenticherò mai la mia vecchia vita, il mio Daniel. Ma adesso ho una nuova vita. Ho trovato Carlisle, sto con l’uomo che amo. L’uomo più meraviglioso del mondo≫.
 Annuì, tutt’altro che in disaccordo.
≪E ho voi, sei meravigliosi figli. Tutti diversi, eppure tutti così meravigliosi. Dopo molti anni, mi ritengo una donna fortunata≫.
Le sue parole e l’improvviso assestamento del dolore mi fecero rinsavire. Esme si allontanò, ritornando a scrutare l’albero, ma questa volta con un’espressione diversa. Serena.
≪Edward è stato il mio primo figlio, dopo Daniel. Inoltre, lui è il più piccolo di tutti, non posso fare a meno di amarlo. Come non posso fare a  meno di amare tutti voi≫.
La sua espressione ritornò improvvisamente triste, quasi delusa.
≪Ogni tanto vengo sotto questo albero e parlo con il mio angioletto. Io, come Carlisle, credo fermamente in un aldilà. D’ altronde non posso non credere che il mio bambino esista, da qualche parte del mondo. Quando mi trovo sotto questi rami spogli mi sento più vicina a lui. Può anche sembrare ridicolo, ma per me è importante. Ho provato a piantarne uno e a farlo crescere anche qui, ma non ci riesco. O provato tutto quello che potevo, ma evidentemente non è destino. I petali non riescano a sbocciare. Mi piacerebbe rivedere di nuovo la pioggia dei petali di ciliegio...≫.
 Esme sospirò, poi mi guardò e sorrise.
≪Rientriamo, inizia a fare davvero freddo≫.
 Annuì e insieme ci avviammo verso casa. Improvvisamente ricordai il motivo per cui mi ero avvicinata a lei.
≪Esme, posso chiederti perché Carlisle è andato via? E’ successo qualcosa?≫.
≪No, sta tranquilla. Non è successo niente, solo... dopodomani è il mio compleanno e allora...≫.
≪Carlisle è andato a comprarti un regalo≫. Esme sbuffò.
≪Dopo tutti questi anni crede ancora che io non sappia cosa fa. E gli altri, bé conosci Alice. Lei avrà già tutto pronto da un pezzo≫.
≪Oh≫, risposi. Dovevo strigliare per bene Alice, perché non mi aveva detto del compleanno di Esme? I miei soldi non sarebbero stati utilizzati in maniera migliore se non per comprarle un regalo: mi avrebbe fatto piacere. Potevo chiedere a Alice di accompagnarmi... Eppure, mi sembrava così poco. Probabilmente Esme possedeva già gioielli di svariato valore commerciale e altrettanti abiti di marca. Volevo qualcosa di speciale per lei, qualcosa che già non avesse e che desiderava più di qualsiasi altra cosa... In quel momento un’idea mi balenò in mente e fui certa di non averne mai avuta una più geniale o azzeccata. Mentre Esme mi trascinava in casa mi guardai alle spalle, un ghigno compiaciuto sul mio volto. Forse c’era un regalo adatto alle mie richieste, qualcosa di mio e che lei desiderava ardentemente: rivivere un ricordo. Prima di sparire dentro casa lanciai un ultimo sguardo all’albero spoglio, due giorni sarebbero stati sufficienti...
Mi guardai intorno, sciabolando gli occhi da una parte all’altra del giardino. Non c’era nessuno in vista. Sospirai, scuotendo il capo. In quell’istante mi sentì ridicola. Avevo tutta l’intenzione di mettere in atto il piano che avevo studiato il giorno prima, subito dopo aver saputo del compleanno di Esme. Ed ero ben consapevole che nessuno doveva venire a conoscenza della mia idea, perciò dovevo agire con cautela e segretezza. Gli altri erano distanti, in casa, impegnati a confabulare tra loro all’insaputa di Esme. Percorsi silenziosamente il giardino, girando dietro la casa. Quando fui davanti all’arbusto spoglio ma maestoso, trattenni il fiato. Mi sentì invadere dalla tristezza, la stessa che il giorno prima mi aveva fatta piangere. Posai una mano sull’albero e carezzai il tronco ruvido, seguendone le venature con le dita. Chiusi gli occhi e inspirai. Avvertì immediatamente il mio sguardo mutare e fui consapevole come non mai della vita che scorreva silenziosa in quella grande pianta. I fiori erano forse gli esseri viventi più meritevoli di esser considerati tali. Potevo quasi vedere, oltre lo spesso strato di legno chiaro e muschio del tronco e dei rami, la linfa che scorreva dal terreno all’albero, in uno scambio continuo. Esme avrebbe potuto fare tutti gli sforzi di questo mondo, ma non sarebbe mai riuscita a recuperarlo. Ci voleva qualcosa di più, un’imposizione ai miei occhi, un miracolo agli occhi di tutti gli altri. Non avevo parlato con nessuno, neanche con Edward, del mio dono più spaventoso e inquietate. Mi ero sempre tenuta alla larga dal mio potere di decidere della vita e della morte. Ero ancora troppo “giovane” per poter utilizzare questo mio inquietante dono sulle persone -  benché in realtà non avessi mai avuto alcuna intenzione di farlo, non sentendomi in grado, né in diritto di decidere qualcosa di così importante e fuori dalla mia portata - perciò mi allenavo, quando ero obbligata a farlo, sulle piccole margherite bianche che crescevano nel giardino di Palazzo Priori. Nonostante tutto, non mi sentivo tranquilla.
Avevo provato il mio potere soltanto su vegetali di piccole dimensioni, ed era già abbastanza faticoso, ma mai su un albero. E se non ci fossi riuscita? Tirai su col naso. Dovevo farcela. Avrei utilizzato il dono che di più, tra tutti, odiavo, per fare del bene a una persona cui tenevo. Presi un profondo respiro e mi sedetti, incrociando le gambe e posandovi un libro. Dovevo pur fingere di star facendo qualcosa, in caso qualcuno avesse chiesto! Con nonchalance, posai una mano sull’albero, fingendo un gesto casuale. Con la mia vista migliore lo analizzai in modo più approfondito e puntiglioso. Un getto di vento improvviso mi scosse, sollevando i miei capelli scuri come un mantello. Ero abituata a questo, ma sussultai ugualmente. Dalla mia mano la forza cresceva nell’arbusto, rendendolo più vivo di minuto in minuto. Sapevo perfettamente cosa stava succedendo in quel momento alla mia vista. Il mio occhio destro, dall’acceso rosso rubino, avrebbe assunto la colorazione dell’arcobaleno. O almeno così era visto da chiunque avesse la “fortuna” di assistere. Questo dono, in fatti, era utilizzato per lo più in privato dalla mia razza, essendo un momento molto intimo e personale. Ma io vi ero abituata, a causa dei continui spettatori alle mie sessioni di allenamento. Aro mi aveva spiegato cosa vedeva un osservatore esterno guardando il mio occhio destro in quel preciso momento. Lui stesso ne era stato testimone, sperimenatandolo sulla propria pelle. Era come vedere al di là dei confini della terra, nello spazio immenso. Nei miei occhi c’era la verità, la conoscenza. Era strano e al tempo stesso un’esperienza unica, testuali parole, l’effetto che questo mio potere aveva su di me. Ero un tutt’uno con il vegetale. La mia vita e la sua erano collegate a doppio filo, come se fossi la linfa che scorreva nella sua corteccia.
La mia massima resistenza era di due ore, avrei dovuto far molto di meglio.
Non ero totalmente certa di quanto tempo fosse trascorso, forse minuti, forse ore, stava di fatto che, a un certo punto, avvertì la stanchezza sopraggiungere. Di scatto aprì gli occhi. Il respiro affannato, ansimavo. Sentì dei brividi incontrollabili scuotere il mio corpo. Mi sentivo tremare fin nelle ossa. Non riuscivo a calmare il tremore delle mani e delle braccia, che tra tutti, era il più evidente. Annaspavo, sbuffando tra i denti serrati per lo sforzo. La pianta era totalmente cambiata da quando avevo iniziato la mia missione di salvataggio. Era decisamente più forte e più viva. Mi alzai, nonostante tremassi ancora come un pulcino. A fatica riuscì a stabilizzarmi sulle gambe. Internamente la pianta era sana ma esternamente? Per un attimo, al primo impatto visivo con l’albero, pensai di aver fallito. Poi, il mio occhio destro riuscì a intravedere tra il mucchio rinvigorito di rami ancora spogli un piccolo petalo rosa. L’albero stava fiorendo. Sorrisi, stanca ma soddisfatta, passando la manica della maglietta sulla mia fronte, nel tentativo di cancellare il sudore che la imperlava. Ero più forte di quanto pensassi.
Rientrai in casa, pensando tra me e me quale fosse la strategia migliore da attuare. Come avrei mostrato l’albero ad Esme? Avevo bisogno di qualche altro istante per velocizzare la fioritura della pianta, non potevo attendere che la natura facesse il suo corso se volevo che la mia sorpresa riuscisse! Facendo un veloce calcolo mentale, valutai che avrei avuto bisogno di tre minuti circa per completare l’opera... Le mie supposizioni furono interrotte dall’arrivo di una presenza luminosa. Alzai gli occhi e sorrisi, fin troppo consapevole dello sguardo che avrei incrociato. Edward fece capolino in salotto, il suo sorriso mutò in un’espressione ansiosa. In un attimo mi fu davanti, la fronte dal’alabastro corrucciata. Carezzò la mia guancia e mi stupì notando che la sua mano non mi sembrava affatto fredda...
≪Sei fredda, pallida e tremi≫, mi fece notare.
 Capì perché il suo tocco non mi apparisse più freddo o ghiacciato, ma normale. La mia pelle aveva assunto la stessa temperatura della sua, il ché era tutto dire.
≪Sto bene≫, lo rassicurai, carezzandogli il volto con un gesto automatico della mano.
 Edward si posò sul mio palmo. ≪Non credo≫, rispose, testardo come al solito.
≪Dimmi la verità Bella, ti senti girare la testa, forse è un calo di zuccheri?≫.
≪Non ti arrendi mai, vero?≫, lo rimbeccai.
≪No≫, disse e mi trascinò con se in cucina.
 Si muoveva velocemente, tanto che  non riuscivo a seguire i suoi spostamenti, perciò ci rinunciai. Libera da ogni pensiero notai che le preoccupazioni di Edward non erano infondate. Mi sentivo davvero stanca e prosciugata: come se fossi stata privata di tutte le mie forze. Edward ritornò e mi porse il suo giubbino. Mi aiutò ad infilarlo e mi costrinse a sedermi. Pian piano, i suoi scatti frenetici in cucina mi costrinsero a chiudere le palpebre, come se i suoi movimenti mi stessero ipnotizzando. A uno dei suo scatti repentini ed eleganti, infine, persi conoscenza.
Le mie palpebre tremolarono, infastidite dalla debole luce grigia e fioca che somigliava spaventosamente a quella dell’alba. Mi sentivo indolenzita e mi girava un po’ la testa, ma non era nulla che non potessi sopportare. Lentamente aprì le palpebre. Non realizzai immediatamente dove mi trovassi, ogni mattina, quando aprivo gli occhi, avevo il timore di aver sognato tutto. Eppure, questa volta, ciò da cui temevo di risvegliarmi somigliava più a un incubo. Ricordavo di essermi sentita piuttosto debole prima di perdere i sensi, il pomeriggio precedente. In quell’istante realizzai che mi ero addormentata, cullata dal movimento costante di Edward, sul divano del salotto. Spalancai di scatto gli occhi, drizzandomi sulla schiena con uno scatto tanto improvviso da farmi girare la testa. Se due blocchi freddi di ferro non mi avessero sorretto sarei ricaduta tra i cuscini. Reazione immediata, la mia vista cambiò colore e la mia mente scandagliò la zona nel raggio di parecchi chilometri. Eppure, ciò che m’interessava, era la presenza al mio fianco, che continuava a sorreggermi con le sue forti braccia fredde. Mi bastò un istante per realizzare di chi si trattasse. I miei occhi incrociarono due pozzi profondi d’oro caldo. Balbettai, nel tentativo di dire qualcosa, ma non riuscì a emettere alcun suono. Edward si allontanò con un sorriso imbarazzato, dopo essersi accertato che riuscivo a stare dritta senza il sostegno delle sue braccia.
≪Scusa≫, mormorò.
≪E’ solo che ci hai fatto morire di paura Belle, ti sei addormentata all’improvviso. Eri sfiancata.  La prima cosa che ho pensato è stata che una sanguisuga ti si fosse davvero appesa al collo. Eri pallida, fredda, tremavi e poi... mi hai fatto prendere un colpo. Ti ho portata nella tua stanza, dopo aver chiesto a Carlisle di visitarti. Ha detto che avevi soltanto bisogno di riposo, ma che potevi peggiorare, perciò sono rimasto qui ad assicurarmi che non...≫.
 Prese un profondo respiro, aveva parlato velocemente come quando era agitato. Era adorabile quando era in difficoltà. Non potei evitarmi di sorridere, trattenendo a stento una risata.
≪Che cosa c’è≫, chiese.
≪Sei davvero, davvero carino quando ti agiti≫, sputai, senza il minimo pudore.
Lui rimase sorpreso per un istante, prima di aprirsi in un grande sorriso. ≪Perciò non sei arrabbiata?≫.
≪Perché ti sei preso cura di me?≫, risposi retorica, ≪no≫.
 Edward annuì, sembrava sollevato.
≪Quanto ho dormito?≫, chiesi, ancora disorientata.
≪Tutto il resto del pomeriggio e della notte. E’ l’alba≫.  Annuì, seria. Non avevo dimenticato il mio compito... Mi alzai, tentando di mantenermi in equilibrio. Edward si alzò dalla sedia su cui pareva aver trascorso la notte, forse pensava che avessi bisogno di aiuto. Quando fui stabile, Edward fece per andarsene, ancora visibilmente in imbarazzo. Anche se lo desideravo, non gli avrei mai chiesto di rimanere con me.
≪Edward?≫ chiesi.
Lui si voltò, una strana luce nei suoi occhi ambrati, speranza? Scossi il capo e mi avvicinai a lui. Edward s’irrigidì, per poi sciogliersi completamente. Per un momento, un solo istante, rimasi a fissare le sue labbra piene a pochi centimetri dalle mie, per poi riprendere il controllo. Mi alzai sulle punte per sussurrare al suo orecchio: ≪A che ora festeggiamo il compleanno di Esme?≫.
 Edward esitò per un istante, poi si chinò per mormorare al mio orecchio. Il suo alito fresco mi fece rabbrividire.
≪Le daremo i nostri regali a un segnale di Alice, quando Carlisle sarò tornato dall’ospedale. A Alice piace fare le cose in grande e con teatralità≫, sapevo che stava alzando gli occhi al cielo.
Edward aprì la porta della camera e io mi morsi il labbro inferiore. Al diavolo, pensai.
≪Edward?≫, il ragazzo si voltò ed io feci un altro di quei gesti istintivi di cui non sapevo affrontare le conseguenze. Poggiai un lieve bacio sulla sua guancia destra. Le mie labbra calde e morbide sulla sua pelle fredda e marmorea. Un brivido mi scosse da capo a piedi.
≪Grazie≫, sussurrai.
Edward sembrava sorpreso, si allontanò quasi barcollando, ma rimaneva agile e aggraziato come una pantera.
Quando scesi di sotto diverse presenze agitate mi vennero incontro, Edward non c’era. Esme ed Alice mi strinsero in un abbraccio stritolatore. ≪Bambina mia, stai bene≫, disse Esme, mentre Alice aggiungeva: ≪Bella, ci hai fatto prendere uno spavento≫.
≪Adesso sto bene, non preoccupatevi≫, le rassicurai.
≪Questa mattina fai colazione, non voglio obiezioni≫, alzai gli occhi al cielo e mi feci trascinare in cucina.
Ero attenta ad ogni possibile segnale da parte di Alice. Carlisle era appena tornato e la mia migliore amica era imprevedibile, volevo avere la mia occasione di dare ad Esme il mio regalo. A un tratto vidi Alice lanciare un’occhiata piena di significato a Edward ed Emmet. Entrambi annuirono e sparirono di sopra. Alice lanciò uno sguardo anche a me, prima di sparire anche lei, con Rosalie, per le scale. Jasper le seguì a ruota. Non passò neanche un minuto che tutti, a parte Alice, erano di ritorno. I ragazzi portavano i regali, Rosalie gli addobbi. Aiutai Rosalie ad aggiustare la tavola, mentre lei riempiva la stanza di candele profumate e metteva in sottofondo alcune delle canzoni preferite di Esme. I pacchettini erano tanti e di svariate misure, mi sentivo un po’ a disagio, ma presto anche io avrei mostrato il mio regalo. Carlisle era bellissimo, così felice. Sembrava molto più luminoso del sole, il suo sorriso era brillante. A un tratto Alice spuntò dalle scale tenendo per mano una sorridente Esme. Si guardò intorno, catturata dal profumo irradiato dalle candele, per poi osservare uno a uno i nostri volti sorridenti. Alzò gli occhi al cielo e scosse la testa, come per dire:≪Avete esagerato come al solito≫.
Ma tutto sommato sembrava contenta.
 Carlsile le andò incontro e le tese la mano, da vero gentiluomo. Lei l’afferrò, guardandolo negli occhi per un lungo istante. Erano bellissimi. Quel momento era soltanto per loro. Quando Esme allontanò il suo sguardo da Carlisle, incrociò uno a uno quello dei suoi figli. Finse irritazione per qualche istante prima di aprirsi in un sorriso a trentadue denti e correre ad abbracciare uno alla volta tutti noi.
≪Non smetterò mai di ripetervelo, non m’interessa festeggiare il mio compleanno a me bastate voi≫. Sembrava emozionata. I suoi figli risposero in coro.
≪E noi ti rispondiamo ogni volta che devi rassegnarti, perché continueremo a festeggiare il tuo compleanno per questo e per tutti gli anni a venire≫. Esme rise, riempiendo la stanza di un suono simile a quello di campane in festa. Alice le fu al fianco in un istante: ≪Ottimo, adesso apriamo i regali≫.
≪E quest’anno dovrai dire qual è quello che ti piace di più. Non voglio sentire le solite scuse≫.
≪Il regalo migliore siete voi≫, disse, sfiorando leggermente la punta del naso della piccola Alice, che rise nel suo modo acuto e cristallino.
La festa fu un vero successo. Esme era felicissima, Jasper le gravitava attorno come un satellite, distribuendo serenità in tutta la stanza. Nonostante i suoi tentennamenti iniziali, Esme sfoderò un buonumore sorprendente, mentre Alice le danzava intorno incitandola ad aprire i pacchettini, benché conoscesse in anticipo ogni sua espressione. I regali non erano semplicemente di valore incommensurabile, ma anche personali. Io rimasi quasi sempre sullo sfondo, silenziosa. Un sorriso accennato sulle labbra. La mia posa doveva somigliare molto a quella di un soldato in riga. Non ero parte integrante della famiglia, mi resi conto con rammarico. Non dovevo mai dimenticare qual’era il mio posto, il mio destino. La mia vita era legata a Volterra, non ai Cullen. Nonostante l’affetto che provavo per loro non sarei mai stata parte integrante della loro famiglia. Mi sentivo un’intrusa che si era intrufolata nel loro privato. In fondo, non potevo dimenticare che i Cullen non avevano avuto altra scelta se non quella di prendermi con se. A un tratto Alice annunciò, con la sua voce acuta da soprano, il taglio della torta. Rimasi interdetta per un attimo, il tempo necessario ad Alice per prendere la torta e ritornare in un battito di ciglia. Era abbastanza grande considerando che nessuno in quella casa mangiava, a parte me... La torta era ricoperta di candeline.
≪Sono centosette≫, trillò Alice.
≪Devi spegnerli≫.
 Così dicendo accese le candeline con uno scatto quasi invisibile della mano. Esme sorrise e si chinò per soffiare sulle candeline. Il volto diafano illuminato dalla luce fioca del fuoco sottile. Ricacciò una ciocca dei boccoli color caramello dietro l’orecchio e soffiò... Ciò che avvenne dopo, mi lasciò totalmente stupefatta. Alice mi chiamò a voce alta, perché ero dall’altra parte della stanza, urlando che dovevo avvicinarmi a prendere la torta.
≪Perché credi che abbia comprato una torta in una casa di vampiri, se non per te≫, mi rimproverò, vedendo la mia esitazione.
Esme notò la mia espressione e il mio stare in disparte, corrugò le sopracciglia e poi si aprì in un grande sorriso. Si avvicinò a me, prendendomi per mano, in modo da rendermi più partecipe.
≪“Dimmi che non sei avversa alle feste, ti prego≫, disse Alice, con un’aria terrorizzata sul volto adorabile.
≪Un po’≫, le risposi.
≪Ti farò cambiare idea≫, si ripromise.
Sorrisi e afferrai l’enorme pezzo di torta dell’aspetto invitante che mi aveva portato Esme. Teneva il piatto tra le mani, un sorriso meraviglioso e splendente sul volto. La sua espressione era la cosa più dolce che avessi mai visto. Abbassai la testa, guardando a terra e decisi che quello era il momento giusto. Posai il piatto sul tavolo ed Alice s’intristì.
≪Non ti piace?≫.
≪No, certo che mi piace. Grazie per il pensiero. Ma c’è una cosa più importate prima... anch’io ho un regalo per la festeggiata≫.
Nonostante i nostri fossero stati semplici sussurri tutti i presenti ci avevano udito e adesso, mi guardavano con occhi pieni di curiosità. Esme era la più sorpresa di tutti, Alice sembrava pensierosa.
≪Piccola, non dovevi≫, iniziò Esme, ma la fermai prima che continuasse.
≪L’ho fatto con piacere, spero soltanto che ti piaccia≫.
≪Mi piacerà di sicuro≫, rispose Esme, sorridendo.
≪Ma quando hai comprato un  regalo?≫, mi chiese Alice, non le piaceva essere colta alla sprovvista.
Solitamente sapeva sempre tutto, ma io, per lei, ero un’incognita.
≪Non l’ho comprato, in realtà è qualcosa che ho fatto io, più o meno..≫”, la mia voce si affievolì fino a sparire.
≪Ora sono curiosa≫, disse Esme, ≪di che si tratta?≫.
≪Lo vedrai in diretta≫, dissi prendendola per mano e trascinandola fuori con me.
≪Il regalo non è finito, perciò dovresti chiudere gli occhi≫.
≪Ok≫, balbettò eccitata.
Mi seguì docile, mentre gli altri ci venivano dietro, mantenendosi a debita distanza.
≪Ma il regalo è fuori?≫.
≪Si≫, risposi rimanendo sul vago.
La sua impazienza mi faceva sentire più fiduciosa. Chiamai Alice in un sussurro e lei si avvicinò a passo di danza.
≪Non farla sbirciare e, qualunque cosa succeda, non permetterle di aprire gli occhi finché non te lo dirò io≫, annuì solenne.
La curiosità evidente nei suoi occhi ambrati. Incurante degli spettatori che ci seguivano, incuriositi dal velo di mistero che ricopriva la mia sorpresa inaspettata, presi un respiro profondo e mi avvicinai all’arbusto. Sentì qualcuno trattenere il fiato, non mi girai per vedere di chi si trattasse. Posai una mano sul tronco dell’albero, dandogli un paio di colpetti. Era forte, vivo, lo sentivo chiaramente anche senza utilizzare la mia vista migliore. Chiusi gli occhi e di nuovo, fui una cosa sola con l’albero. Avvertivo la sensazione del sole sulla pelle allo stesso modo in cui il vegetale percepiva il suo calore sulla corteccia. Le gocce di rugiada sui rami erano una bella sensazione. Il vento lieve che soffiava dalla foresta non mi scalfiva, non sarei caduta sotto il suo peso. All’improvviso un vento nuovo mi scosse, aprì gli occhi nel momento in cui sentì i miei capelli ricadere sulle mie spalle. Mantenni il mio sguardo arcobaleno fisso sui tronchi dell’albero, in attesa di veder spuntare piccoli petali rosa. Apparvero lentamente, a piccoli gruppi; riempiendo prima uno, poi un altro spazio dell’albero non più vuoto. Era uno spettacolo meraviglioso; ero orgogliosa di me stessa. Avvertì una strana sensazione nel mio cuore. Ne avevo un ricordo molto vago, lontano. Era la sensazione di star concedendo la vita. Mi chiesi per un attimo se fosse paragonabile ai sentimenti provati da una madre che mette al mondo il proprio figlio. Senza il preconcetto che avevo sempre dato a questo mio strano potere, la vidi come una cosa del tutto naturale, come una parte di me. C’era un lato buono nel fardello che era questo mio potere. Se veniva utilizzato per fini nobili. Allo scadere dei tre minuti l’albero era rigoglioso, ricoperto di petali rosa che irradiavano un profumo meraviglioso. Alle mie spalle, sentì Esme inspirare e poi, trattenere il respiro. Orgogliosa, mi guardai alle spalle. Erano tutti impietriti, a bocca aperta. Osservavano l’albero come se avessero appena assistito a un miracolo, il ché non era molto lontano dalla verità. Sorrisi e lanciai uno sguardo pieno di significato ad Alice. Lei rimase impietrita per qualche altro istante, prima di abbassare lo sguardo su di me e liberare, con gesti automatici, la vista di Esme. I miei occhi erano fissi nel suo sguardo sbarrato e indecifrabile. Rimase immobile per un paio di minuti, mentre il mio disagio cresceva. La mia sorpresa le era piaciuta? Avevo forse commesso un madornale errore? I suoi occhi non mi dicevano niente. Avrei voluto poter chiedere ad Edward cosa stava pensando, ma non riuscivo a muovere neanche un muscolo. Poi... avvertì un balbettio senza senso provenire da Esme. Pian piano, il suo sussurro si trasformò in una frase di senso compiuto e comprensibile e udì un:
≪E’ bellissimo≫.
 Il mio sorriso in risposta fu abbagliante. Esme tentava di trattenere i singhiozzi, sbattendo le palpebre sugli occhi che non potevano più versare le lacrime che desiderava. Forte del suo consenso decisi di proseguire. Lanciando un veloce sguardo complice all’arbusto, gli diedi il mio ultimo, piccolo aiuto. E tutti, compreso il resto della famiglia che si era avvicinato, fummo invasi da una pioggia di petali rosa. Mi allontanai dall’albero, ormai totalmente rinvigorito e, come gli altri, osservai incantata quello spettacolo meraviglioso. I petali delicati, sollevati dalla brezza leggera, cadevano atterra creando un manto rosa  a chiazze verdi intorno all’albero.  D’un tratto due braccia forti mi strinsero, decise e delicate al tempo stesso.
≪Grazie≫, sussurrò Esme al mio orecchio.
≪Prego≫, risposi, cingendola con le mie braccia calde e fragili.
≪Adesso potrai venire qui a parlare con il tuo Daniel ogni volta che ne senti il bisogno. Questo è’ il vostro posto ed è il mio regalo per te≫.
Fu così che i Cullen vennero a conoscenza anche del lato più oscuro e spaventoso della mia razza, di me. Le loro reazioni furono diverse e completamente differenti da ciò che avevo immaginato. Lasciarono che Esme si godesse il suo regalo per qualche altro minuto, prima d’inondarmi delle loro domande. Rientrando in casa, incrociai lo sguardo pieno di gratitudine di Carlisle: aveva apprezzato il mio gesto, forse ancor più di Esme. Perché loro due erano una cosa sola, la felicità di uno era automaticamente anche dell’altro.
Diversamente da quanto avevo immaginato, il mio potere non li terrorizzava, ai loro occhi non apparivo come un mostro. Carlisle era il più interessato di tutti. Insieme a Jasper si lasciò andare a una conversazione sulle potenzialità di questo mio dono. Naturalmente Carlisle pensava a quanto sarebbe stato utile il mio dono in campo medico. Nei suoi sogni idilliaci immaginava di poter salvare la vita ad ogni paziente. Capì che, soltanto adesso, avevano realmente compreso le potenzialità di un prescelto. Nei loro occhi c’era persino devozione e riverenza. Jasper visualizzava il mio dono come un’ottima capacità offensiva. Visualizzava la possibilità di uccidere con il semplice tocco della mano. Spiegai loro che non ero ancora assolutamente capace di fare una cosa del genere, ma ciò non smorzò il loro entusiasmo. Esme, Edward ed Alice mi guardavano, gongolando. Emmet, dopo essersi lamentato che il mio regalo avrebbe battuto di certo il rudere che aveva comprato nelle vicinanze perché Esme potesse divertirsi a ricostruirlo, si era lasciato andare a uno sproloquio fantasioso sui modi più interessanti di utilizzare il mio potere.
≪Emmet, non è così facile≫, dissi.
≪E’ già difficile con un albero, mi sfianca. Perciò non mi lascerei andare in questa maniera≫.
 Emmet sbuffò, mettendo il broncio. Esme sussultò. Ci voltammo tutti nella sua direzione.
≪Per questo motivo sei stata male, ieri? Bella, devi promettermi che non lo rifarai mai più≫.
 Il suo sguardo ansioso era insostenibile.
≪Non posso prometterti una cosa del genere, Esme≫, sussurrai.
≪Questi doni costituiscono ciò che sono e io non posso smettere. Fanno parte di me, anche questo fardello≫.
 Esme non replicò nulla, ma sembrava in disaccordo.
≪Ma un giorno potresti essere in grado di farlo con un vampiro, farlo ritornare un essere umano intendo?≫, chiese Rosalie, gli occhi le brillavano di una strana luce.
Il silenzio calò nella stanza, tutti chinarono il capo alle sue parole. Probabilmente era desiderio di tutti i Cullen avere una vita umana, ma michiesi perché fosse stata proprio Rosalie a pormi la domanda. Lei che mi parlava raramente. Non capì, ma risposi ugualmente.
≪Un giorno, potrei, molto probabilmente. Ma il tutto dipende dal vampiro Rosalie. Non ho mai chiesto ad Aro e la documentazione a riguardo è poca. Se si trattasse di un neonato, un vampiro appena creato, non ci sarebbero problemi. Ma un vampiro anziano, di ottanta, centocinquanta anni potrebbe ritornare semplicemente...≫
≪Cenere o ossa≫, mi interruppe lei.
Emmet la strinse al suo petto.   
≪Devo ammettere che i tuoi poteri, in mano ai Volturi, li rendono invincibili≫, rimuginò Jasper, per spezzare l’atmosfera che si era venuta a creare.
Sorrisi.
≪Io ho il mio libero arbitrio, Jasper. Non utilizzerò una forza del genere se non per il bene. Non ho alcuna sete di potere≫.
≪Sì, non lo metto in dubbio. Ma sei una guardia, Bella. E una guardia ha il dovere di obbedire≫.
≪Ma io non sono una guardia qualsiasi, Jasper. Io non sono un vampiro, benché sia immortale. E questo, Aro lo sa bene≫.
 Jasper annuì, rimuginando. Vidi Edward lanciargli una strana occhiata, prima di assumere la stessa aria pensierosa. Non potei osservarli allungo, perché l’uragano Alice mi venne incontro, tra le dita stringeva una rosa rossa. Mi guardò, con sguardo implorante e io alzai gli occhi al cielo.
≪Se non è troppo faticoso≫, implorò.
Annuì e lei mi abbagliò con un sorriso, porgendomi la rosa.
≪Un fiorellino non è niente, dopo quello che ho fatto ieri. Adesso sono molto più forte di quanto fossi quando ero a Volterra≫.
≪Ottimo, allora, facci vedere≫.
 Tutti gli occhi puntarono immediatamente il mio volto, arrossì e abbassai il capo. Concentrai la mia attenzione sulla splendida rosa color rubino.
≪Togliere la vita è molto meno stancante che restituirla. Ma le sensazioni sono diverse. Provo un certo compiacimento nel far vivere, ma uccidere è quasi doloroso. Sento la vita che lascia il proprio contenitore. Perché gli esseri viventi sono dei contenitori. Ogni essere che vive, possiede un’anima. Anche se bisognerebbe dare una definizione più corretta a ciò che è la vita. Gli umani, che non sanno della nostra esistenza, hanno dato una loro definizione. Noi, che abbiamo una conoscenza maggiore, ne diamo un’altra≫, spiegai, osservando nel dettaglio il fiore e la sua bellezza.
Il colore abbagliante dei suoi petali sottili e delicati. Avvertì, senza sussultare, un vento di pura energia fuoriuscire dal mio corpo e sollevarmi i capelli, in quell’istante alzai gli occhi, così che gli altri potessero vedere, fin troppo consapevole del colore che avevano assunto. Li vidi trattenere il respiro, e avvicinarsi, quasi inconsapevolmente. Velocemente la rosa appassì, si spense. Avvertì la vita che la lasciva e i suoi petali cadere ai miei piedi, grigi. Vederli così incantati era divertente. Come fossi un prestigiatore da quattro soldi, feci scorrere la mano davanti al fiore, lentamente. Quando raggiunse il capo opposto e il fiore ritornò visibile, l’immagine si presentò diversa ai loro occhi: la rosa era di nuovo viva e splendida. La portai al naso, ispirando il suo profumo inebriante, mentre i miei occhi riacquistavano la loro naturale vista migliore e il mio occhio destro, color rosso rubino, incatenava i loro sguardi.

Spoiler**7difficile***

"Cosa vedi Alice", le chiesi, improvvisamente ansiosa... "Penso che sentir parlare di neonati gli abbia riportato alla mente il suo passato... "Edward", urlò. Il volto contratto dall'orrore. "Jasper"...
  
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