Film > The Phantom of the Opera
Segui la storia  |       
Autore: Alkimia    25/04/2012    1 recensioni
"C'era stato il tempo del dubbio, poi era venuto il tempo della speranza, poi era stata la volta della delusione, della rabbia, e infine della follia.
Erik si chiese cosa rimaneva di un uomo, una volta trascorsa anche la stagione della pazzia."

Anno 1871: non è più Parigi, non è più l'Opera Populaire, niente più angeli o muse, eppure l'uomo che si cela dietro la maschera sa che deve andare avanti, anche se non sa più il perché. Anno 1892: un giovane straniero arriva in Francia, con un vecchio diario da leggere e una storia di cui scoprire i misteri.
E sulle loro vite aleggiano i medesimi fantasmi.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Capitolo quattordicesimo
Ferite


~ Napoli, 29 aprile 1871 ~

La candela nella piccola bugia di ottone stava finendo. Si spense d'un tratto, levando una sottile spira di fumo più denso che disegnò grigie virgole a mezz'aria prima di dissolversi.
Erik, steso pigramente su un lato del letto, allungò una mano per sostituire il mozzicone di candela  ormai inservibile con quella nuova già pronta sul comodino. Sfregò lo zolfanello contro il margine della scatola, la fiamma gialla e blu scintillò nella stanza in penombra illuminando il suo viso e quello della ragazza seduta accanto a lui.
Lucia inspirò e incurvò la schiena, premendosi contro la spalliera di ciliegio.
«Cosa c'è?» chiese l'uomo distrattamente, mentre la fiamma avvolgeva lo stoppino della candela e restituiva alla camera dalle pareti azzurre un po' di luce.
La ragazza scosse piano la testa, come per dire: niente d'importante.
«Avete paura del fuoco» constatò Erik, posando nuovamente la bugia sul comodino.
Lucia annuì, ciocche ondulate dello stesso colore dell'ebano le danzarono sulla fronte. A lui piacevano quei capelli, gli piaceva stringerli tra le mani quando la prendeva o affondarvi il viso.
«Mi stavate dicendo dell'Annibale di Chalumeau all'Opera di Parigi» fece lei, tornando ad assumere una posa più rilassata.
Erik si voltò, stendendosi di schiena e fissò lo sguardo sul soffitto. La camicia mezza slacciata si apriva sul petto nudo; non era più il tempo delle formalità e delle riserve, la necessità di schermirsi e preservare le distanze era venuta meno la sera stessa in cui era tornato da lei per la seconda volta. Anche i mostri possono avere la facoltà di essere sinceri con se stessi: la ragazza era uno sfogo e non trovava ragione di negarselo. Oh, certo, non si trattava solo della pura e semplice ricerca del piacere dalla quale si era sottratto per tanto tempo, c'era qualcosa di più... semplice. Che Dio la maledica, quella ragazza aveva il pregio di essere un'ottima compagna di conversazione e la sua esperienza da attenta spettatrice di teatro rendeva il parlare con lei più che mai interessante agli occhi di Erik che era troppo amante della perfezione tecnica ed estetica per rendersi conto di quale fosse davvero il punto di vista di un semplice spettatore.
Lucia ascoltava con attenzione e avidità i suoi racconti sugli spettacoli dell'Opera, esprimeva pareri  che a volte magari si rivelavano ingenui ma i suoi discorsi non erano mai tediosi. E quando lui era in vena di ascoltare, la ragazza lo istruiva sulla cultura di Napoli, sulle vicende dell'Italia, sulla loro arte e sulla loro letteratura, per quel poco che ne conosceva.
«Sì, stavamo parlando dell'Annibale» disse Erik, il tepore della stanza come unica barriera ad arginare il gelo dei ricordi. «Vi sarebbe piaciuta la rappresentazione dell'Opera Populaire. Fu di una tale, stupefacente perfezione. Il vestito bianco di Elissa...».
La ragazza lo interruppe scuotendo il capo,
«Elissa non indossa nessun abito bianco nell'Annibale di Chalumeau» osservò arricciando le labbra.
«Quella sera ne indossava uno invece. Di tanto in tanto qualcuno riteneva che un tocco di originalità avrebbe giovato allo spettacolo e non mancava di suggerire in proposito» replicò Erik con uno strano accenno di sorriso. «E lei... lei, cioè la cantante, era davvero un angelo con quell'abito, un tale miracolo di splendore come nemmeno il Paradiso ne ha mai potuti vedere».
Lucia inclinò la testa lanciandogli un'occhiata penetrante che all'uomo fece lo stesso identico effetto di un pugno in pieno viso.
«Era la donna che amavate?» mormorò.
Erik sentì il respiro spezzarsi in fondo al suo petto e fu quasi con stupore che avvertì il leggero sussulto del cuore che batteva contro le costole. Perché il suo cuore poteva ancora battere... che cosa assurda e impensabile!
«Sì, è così» ammise semplicemente.
Lucia strinse le labbra, come a trattenere parole che forse era indecisa se pronunciare o meno. L'uomo sospirò; il mondo che reclamava la sua attenzione e la sua disponibilità lo irritava, talvolta lo spingeva fino alla soglia della rabbia, ma non in quella stanza, dove la necessità gli aveva imposto di abbassare le armi e lasciar cadere le maschere.
«Parlate, avanti» disse lui, senza mostrare alla ragazza quanta fatica stava impiegando per sostenere il suo sguardo. «Non avete nulla da temere da me». Per mia sfortuna...
Lucia sorrise in quel suo modo tenero, un po' complice un po' materno, e si strinse nelle spalle,
«Mi rammaricherebbe troppo far sanguinare nuovamente le vostre ferite» rispose distogliendo lo sguardo.
E quella cos'era? Una dichiarazione d'affetto? No, tra lui e la ragazza c'era un accordo sottinteso, una sorta di baratto. Se lei rappresentava uno sfogo, lui non era altro che la risposta alla necessità di Lucia di sentirsi ancora desiderabile e, probabilmente, di riuscire a fare ciò che sapeva fare meglio.
«Le mie ferite? E delle vostre, cosa mi dite?». Domanda impietosa e crudele, pronunciata in tono sprezzante. Se ne pentì un istante dopo averla formulata.
Il volto della ragazza si indurì e Lucia distolse lo sguardo puntandolo verso un angolo buio,
«Nulla che possa interessarvi. Se avete amato qualcuno che vi ha fatto soffrire immagino che qualsiasi cosa io possa raccontarvi non aggiungerebbe nulla di nuovo a quanto già avete conosciuto» disse tagliente.
Erik decise di incassare il colpo senza reagire e senza aggiungere altro.
Allungò una mano verso di lei,
«Venite qui» le disse con voce morbida.
Lucia scivolò accanto all'uomo che le posò un bacio sulle nocche delle dita.
Era buffo; quando gli capitava di pensare al tempo trascorso in quella casa di appuntamenti, gli veniva in mente uno strano paragone. Pensava ai suoi primi giorni in teatro, dopo che Madame Giry lo aveva condotto con sé all'Opera, alla curiosità di scoprire e allo stupore che seguiva ogni nuova  rivelazione su quel luogo che ai suoi occhi di bambino appariva così pieno di possibilità, che al suo cuore da esiliato, forgiato nelle lacrime e nella violenza, sembrava così sicuro e pacifico. L'intimità fisica era stata una scoperta dello stesso genere, c'era sempre qualcosa che lo stupiva e che, al di là del piacere in sé, andava a toccare la sua curiosità – caratteristica rimasta pressoché immutata da quando era nient'altro che un ragazzino spaurito.
«E il vostro piccolo progetto, come procede?» chiese Lucia.
Gli occhi di Erik si illuminarono,
«Procede. Anche se il signor Marchesi sembra sempre sull'orlo del collasso ogni volta che si fa menzione alla cosa».
«Povero Guglielmo. Non lo invidio, tra voi e il peso di tutte le responsabilità che deve portare...». Lucia ridacchiò nascondendo il viso nel materasso.
«Il signor Marchesi non si è mai lamentato della mia presenza o dei miei servigi» replicò l'uomo.
«Il signor Marchesi è troppo buono»
«E voi siete troppo sfacciata»
«Sì, e ne vado fiera» concluse la ragazza, puntellandosi sui gomiti e posando un bacio sulle labbra di Erik. Dopo qualche secondo la mano dell'uomo si posò sulla sua nuca, trattenendola contro di sé, affondando nella massa di onde corvine.
C'erano gesti e sguardi che segnavano automaticamente il punto di conclusione a ogni dialogo.
Lui le posò le mani sui fianchi e la fece sedere a cavalcioni sopra di sé, scostando l'orlo della corta camicia da notte. Era il momento che Erik detestava maggiormente, l'ultimo attimo di lucidità sprecato a pensare che da quel momento in poi sarebbe stata lei ad avere in mano le fila del gioco, perché era lei che sapeva esattamente cosa fare, come fargli dimenticare ogni cosa. E il mondo si stemperava in quella strana curva delle labbra sul volto della ragazza, a metà tra un sorriso e un gemito, quando lo accoglieva dentro di sé.

Anche la seconda candela si era ormai spenta. Lucia crollò sul petto di Erik, stringendo tra le dita i lembi della sua camicia.
Dopo qualche minuto, la ragazza si scansò e andò a sistemarsi sotto le lenzuola. Erik la imitò, stendendosi in silenzio accanto a lei, giocando ad avvolgere i suoi ricci sulla punta dell'indice.
«Verrete a vedere lo spettacolo, la prossima settimana?» le chiese dopo qualche minuto.
«Non mi perderei una cosa del genere per niente al mondo, signore» rispose.
«Bene, pensavo di mettervi nel palco centrale con il duca e il signor Marchesi».
Lucia si stropicciò il viso con la mano e scosse il capo. Erik la fissò inarcando un sopracciglio,
«Qualcosa in contrario?» domandò.
«Non dovete chiederlo a me, dovete chiederlo a loro».
Lui sbuffò, a sottolineare quanto la cosa gli sembrasse di scarsa rilevanza. Insomma, quella ragazza aveva frequentato il San Carlo al braccio degli uomini più in vista della città, Guglielmo e il duca non sarebbero stati così ipocriti da avere qualcosa da ridire.
«Ad ogni modo, vi assicuro che un posto sul loggione andrà benissimo» aggiunse lei, distogliendo lo sguardo come se si sentisse imbarazzata.
Che Lucia fosse incline all'imbarazzo era una cosa che Erik davvero non credeva possibile.
«Anzi, veramente, lo preferirei» aggiunse in un filo di voce.
Lui sgranò gli occhi,
«Niente affatto» replicò corrugando la fronte, in un tono che non ammetteva repliche. «Il loggione... come vi saltano in mente certe sciocchezze?».

*

Lucia fu svegliata dal dondolio del materasso accanto a sé. Era l'alba, doveva esserlo per forza, perché Erik si stava svegliando e lui si svegliava sempre all'alba.
Durante le prime sere, la ragazza era stata quasi propensa a credere che quell'uomo non dormisse affatto, poi una notte si era svegliata e aveva constato che anche lui dormiva. Anche se, quando lo aveva visto, più che crederlo addormentato, lo aveva creduto morto. Erik riposava immobile, con le braccia aperte e scomposte sul cuscino, senza muovere nemmeno un muscolo, respirando impercettibilmente. Solo fissandolo attentamente e a lungo, Lucia aveva notato gli scatti delle palpebre che si serravano e poi si rilassavano, come se immagini ora scurissime ora intensamente luminose si alternassero nei suoi sogni.
Chissà cosa sognano gli uomini come Erik, si era chiesta. Chissà quali e quanti fantasmi mormorano nella loro mente mentre sono addormentati.
Ad ogni modo, stava davvero albeggiando. In quell'ultima settimana la ragazza si era abituata a quelle destate così mattiniere, del resto, aveva tempo per riposare durante il giorno. Non capiva come Erik reggesse quei ritmi assurdi, ma non era un suo problema.
Al risveglio il rito si ripeteva sempre uguale, come la prima volta. Lei indossava la sua vestaglia, salutava il suo ospite con un bacio e lo lasciava solo a ricomporsi, sgusciando nelle cucine a vedere se era rimasto un po' di caffè dalla sera precedente – di solito, in quello, aveva fortuna. Alle volte, dopo che lui se ne era andato, Lucia tornava in camera e si rimetteva a dormire, altre volte ne approfittava per andare al mercato di buon'ora e comprare la frutta e la verdura migliori, prima che si facesse la solita ressa mattutina attorno ai bancali. Di tanto in tanto, aveva anche la fortuna di incappare in un rigattiere che, in mezzo alle sue cianfrusaglie, portava anche qualche vecchio libro usato che vendeva per pochi spiccioli.
Ad ogni modo, quella mattina, la consuetudine subì un'inattesa variazione.
La ragazza si allacciò la cintura di raso sotto al seno, indugiò un attimo davanti allo specchio per ravvivarsi i capelli e fece per uscire, ma Erik la trattenne.
«Aspettate un attimo, Lucia» disse alzandosi. «Ho una cosa per voi, ho dimenticato di darvela ieri sera».
Lei non volle mostrarsi troppo sorpresa, ma davvero non credeva che Erik fosse tipo da fare regali.
L'uomo prese il soprabito posato sulla spalliera della sedia e ne frugò la tasca interna, estraendone un libretto lungo come quello delle banche che porse alla ragazza.
Lucia prese l'oggetto con aria curiosa e ne sfogliò le pagine di spessa carta stampata.
«State scherzando?» borbottò dopo qualche secondo. Domanda stupida; Erik che scherzava, figurarsi!
«No, affatto» fece lui cominciando a sistemarsi la camicia.
La ragazza si rigirò ancora una volta tra le mani il libretto. Era una carnet con i biglietti di tutti gli spettacoli del San Carlo, fino alla fine della stagione.
«È molto generoso da parte vostra, vi ringrazio di cuore» disse chinando il capo per nascondere il fatto che stava arrossendo. Era un regalo davvero bello per lei ma Erik di certo non poteva sapere e sicuramente le aveva portato quei biglietti armato delle migliori intenzioni, tuttavia...
«Ma non posso accettarlo» aggiunse.
«No, sono io che non posso accettare un vostro rifiuto» la rimbeccò lui con una certa durezza.
Ah, santo cielo! Ci mancava solo che si mettesse a fare il caparbio con lei.
«Erik...» tentò di dire, ma lui la zittì posandole un dito sulle labbra.
«Insisto» dichiarò con un po' più di dolcezza.
D'accordo, avrebbe tenuto il maledetto libretto, se era quello che lui voleva, del resto non poteva certo obbligarla ad andare a vedere gli spettacoli, giusto? Beh, pensandoci, era sicura che Erik avrebbe trovato il modo di obbligare anche Vittorio Emanuele a cedergli la corona se si fosse messo di impegno.  
«Va bene, va bene... come volete!» concluse, andando a posare il libretto sullo scrittoio.
«Non capisco perché ogni tanto nella vostra bella testa si insinuino idee così stupide» fece lui a mezza voce. «Prima la storia del loggione e adesso questo...».
«State forse facendo dell'ironia? Impressionante, forse entro stasera verrà a nevicare».
Lei gli aveva usato la gentilezza di non indugiare sulle sue vecchie ferite; non gli avrebbe permesso di scoprire le proprie quindi continuò semplicemente a sorridere con fare canzonatorio.
«E il giorno che voi smetterete di fare del sarcasmo, temo che esploderà il Vesuvio» replicò l'uomo.
«Così mi incentivate a continuare»
«Sono certo che alla vostra lingua lunga non occorra alcun incentivo».
Lucia ridacchiò,
«Non sarei me stessa altrimenti» osservò con fare impertinente.
«E tutti noi ne soffriremmo molto» concluse lui, canzonatorio.
Mamm'do Carmine*, si era svegliato allegro!

*******

~ Parigi, 11 maggio 1892 ~

Il cocchiere diede uno strattone deciso alle redini e la carrozza si fermò davanti all'ingresso del palazzo con le ruote che stridevano sulla ghiaia.
Il cielo era di un bell'azzurro lucido e un vento tiepido soffiava nell'aria l'odore dei fiori e dell'erba del giardino.
Christine prese un gran respiro e si sporse dal finestrino della vettura, con il viso in direzione del sole, godendosi il tepore di quella bella giornata di primavera come una carezza. Poi tornò a guardare dentro; sul sedile di fronte a lei i due ragazzi dormivano, appoggiati l'uno contro la spalla dell'altro. Erano così teneramente buffi e dovevano essere parecchio stanchi e provati da crollare addormentati dopo i primi minuti di viaggio.
Non era stato così facile convincere il giovane Louis a venire con lei e suo figlio, quel benedetto ragazzo era caparbio e anche eccessivamente beneducato; sembrava davvero convinto che avrebbe potuto arrecare qualche disturbo – «Quale disturbo, caro? Saremmo più che lieti di avervi come nostro ospite, siamo solo in tre e quella casa è così grande». E si era preoccupato persino di quello che avrebbe detto il visconte – «Mio marito non potrà che essere contento, siete così caro al nostro Gustave...». Insomma, alla fine, dopo molte insistenze, e dopo fiumi di parole per blandirlo, si era deciso a prendere le sue cose e a seguirli a casa De Chagny. Christine ne era veramente lieta, intanto perché il ragazzo le stava simpatico e la incuriosiva, in secondo luogo perché il suo istinto materno non le avrebbe dato pace se avesse lasciato un giovane in preda a un qualsivoglia malessere abbandonato a se stesso, in una città straniera, lontano da casa. Certo, perché che cosa era effettivamente successo al povero Louis, madame De Chagny ancora non era stato in grado di capirlo, Gustave si era solo limitato a dirle che il suo amico aveva letto una notizia che lo aveva, a giusta ragione, sconvolto e lui le aveva suggerito di non fare domande perché la questione era molto delicata e Louis avrebbe potuto non avere voglia di parlarne. A Christine era sembrato più che lecito.
Se la questione non fosse stata legata alle pene di un caro giovane, la viscontessa avrebbe trovato la faccenda persino piacevole e divertente: qualcuno di nuovo in giro per casa, qualcuno che suonava il violino, per giunta – ah, prima o poi avrebbe vinto la ritrosia del suo ospite e lo avrebbe convinto a suonare.
Il cocchiere le porse la mano per aiutarla a scendere dalla carrozza. Christine non fece in tempo a posare il piede in terra che Raoul comparve sotto l'uscio del portone e si diresse verso di lei a grandi passi, camminando con così tanta veemenza che i sassolini di ghiaia schizzavano come scintille sotto la suola delle sue scarpe.
«Per l'amor del cielo!» esclamò il nobile. «Nostro figlio che manda biglietti di notte, tu che sparisci... che succede?! Gustave dov'è? Sta bene?».
La donna gli posò una mano sul braccio con fare rassicurante e gli sorrise facendogli cenno di abbassare la voce.
Raoul si sporse a guardare dentro la vettura della carrozza, scorgendo i due ragazzi ancora addormentati.
«Oh, che visione deliziosa e romantica!» borbottò sarcastico, con uno sbuffo che sembrò far tremare i baffi biondi come nappe di una tenda. «E tutto ciò è dovuto a cosa, esattamente?».
Christine gli riassunse brevemente l'accaduto,
«Sono certa che non avrai niente in contrario a tenere il ragazzo con noi per qualche giorno» concluse. «Mi è sembrata la cosa migliore da fare, non me la sento di lasciarlo da solo».
Il visconte annuì,
«Ma certo che il piccolo Paganini può restare con noi» dichiarò. «Però tu e nostro figlio mi avete fatto prendere un colpo».
«Sì, hai ragione, ti chiedo scusa. Ma era un'emergenza».
L'uomo tirò un lungo sospiro,
«D'accordo, adesso che siamo tutti qui sani e salvi, direi di svegliare Giulietta e Romeo»
«Certo, tu porta dentro i ragazzi, io vado a dire alle cameriere di preparare una stanza per Louis e di aggiungere un posto in più a tavola per il pranzo».

*

Era tutto così dannatamente assurdo!
Louis tirò un pugno contro il materasso e scosse il capo. Madame De Chagny era stata oltremodo gentile e premurosa a convincerlo ad andare a stare da loro, a preoccuparsi di non lasciarlo solo, ma non era quello il suo posto. Il suo posto sarebbe stato su un treno, diretto verso casa, ad affrontare sua madre.
Sua madre, Louis ne era convinto, era la persona che al mondo lo amava maggiormente. E allora come aveva potuto permettere che lui si ritrovasse da solo ad affrontare quell'orrore?
Il ragazzo ancora non trovava una risposta.
L'idea di lasciare Parigi, prendere il primo treno e tornare a casa continuava a ronzargli in testa. Nella sua città lo aspettavano facce familiari e un posto di tutto rispetto nell'orchestra del San Carlo. Mancavano ancora molte pagine alla fine del diario, ma ora non era più così sicuro di volerle leggere. Suo padre, l'uomo che lo aveva cresciuto, era solo un'ombra lontana e indistinta, probabilmente niente di più concreto di un miraggio. Quel diario apparteneva a una persona che Louis non conosceva, che non aveva mai conosciuto davvero e che senso poteva avere continuare a leggere le memorie di un estraneo?
La sua mente non si sarebbe mai abituata all'idea. Poteva davvero essere in grado di odiare Erik adesso che lui non c'era più?
La testa gli sarebbe esplosa a furia di fare domande destinate a rimanere senza risposte.
Si andò a sciacquare il viso nel catino, imponendosi di riacquistare il controllo di se stesso e dei propri pensieri. Adesso era ospite di una rispettabile famiglia di nobili e loro erano stati già troppo gentili a volerlo ospitare senza che lui gli imponesse anche la presenza di un rottame.
Forse, in compagnia di Gustave e dei suoi genitori avrebbe potuto fingere di dimenticare.

Louis stava guardando la roba che aveva portato con sé dalla mansarda, qualche domestico l'aveva accantonata sul sofà nell'angolo. La custodia del violino se ne stava appoggiata contro il bracciolo di velluto.
«Louis, è permesso?». Il visconte De Chagny stava bussando alla sua porta.
Il ragazzo si affrettò ad andare ad aprire.
Raoul gli sorrise gentile sotto i suoi curati baffi biondi, gli occhi chiari limpidi come laghi di montanga.
«Come vi sentite?» gli chiese.
Oh Dio del cielo, fa' che non si metta a fare domande...
«Bene, monsieur, vi ringrazio. E vi sono più che mai grato della vostra ospitalità. Vostra moglie ha insistito così tanto ma non vorrei mai esservi di peso...».
L'uomo agitò le mani,
«No, no! Non mettetevi a fare cerimonie con me. L'importante è che voi ora vi riprendiate da... qualsiasi cosa sia accaduta».
Louis si sentì avvampare, era ingiusto non fornire nemmeno una spiegazione ai genitori di Gustave che erano stati così premurosi nei suoi riguardi, conoscendolo così poco.
«Visconte, io credo di dovervi qualche giustificazione...» mormorò.
«Non mi dovete niente, figliolo».
Raoul De Chagny gli batté la mano sulla spalla. Il ragazzo sospirò.
Ah, perché suo padre non era stato come lui, come quell'uomo? Così limpido e gentile e sorridente...
«In realtà, pensandoci, c'è una cosa che potreste fare per noi tutti» fece il visconte dopo qualche secondo.
«Qualsiasi cosa, monsieur»
«Tra tre giorni cade il compleanno di Gustave, sia lui che mia moglie vi sarebbero immensamente grati se poteste allietarci la serata con il vostro violino».
Il padrone di casa aveva pronunciato quelle parole come se gli pesassero.
«Vostro figlio e vostra moglie, monsieur? Perché ho la sensazione che per voi la cosa non sarebbe affatto gradita?» domandò il ragazzo.
«Non amo la musica» ammise De Chagny con una certa gravità. «Ma questo è un mio problema che non deve in alcun modo mettervi a disagio. Dopotutto il compleanno è di Gustave»
«E io sarò ben felice di accontentarlo».

______________________________________________

* Mamm'do Carmine, equivalerebbe a “Oh, Madonna”, per la precisione la Madonna del Carmelo, il cui culto a Napoli fu diffuso durante la dominazione spagnola e rimane tutt'ora.


Al solito, la prossima settimana potrei non essere a casa e quindi non riuscire a postare. Ma dato che il capitolo nuovo è già pronto, se non succedono imprevisti... ci si legge il prossimo mercoledì ^^
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Film > The Phantom of the Opera / Vai alla pagina dell'autore: Alkimia