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Autore: Kenshin    18/11/2006    1 recensioni
Nyleis alzò gli occhi al cielo. Era notte quando giunse alla fontana di Odrin. Quel nome nell'antica lingua significava “acqua limpida”...
Genere: Fantasy, Mistero, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 1

Capitolo 1

 

 

Neve

 

 

Nyleis alzò gli occhi al cielo. Era ormai notte quando giunse alla fontana di Odrin. Salì con cautela i primi due gradini prestando attenzione a dove poggiasse gli stivali, così consunti da poter cedere alla minima pressione. Arrivò all’altezza del calice che formava la parte superiore della fontana, perse qualche minuto per scrutarne la superficie dove un intricato disegno mostrava l’evolversi delle stagioni, e con un dito sottile spinse con sicurezza il piccolo sole che segnava l’avvicendarsi dell'autunno con l'inverno. In quel momento, ciò che prima pareva scolpito dagli anni in quella pietra prese vita, e  l'astro andò a nascondersi dietro l'immagine di Fidh, la montagna sacra per gli Ethien. Nyleis fissò la fontana mentre ruotava e si divideva in due metà, rivelando così l’accesso alla tomba delle lance. Sollevò la lunga gonna che le arrivava sino alle caviglie e cominciò a discendere lo stretto percorso verso il cuore del mausoleo, l’ultima speranza del suo popolo.

 

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Era ormai la fine della stagione calda, ma il sole ed il bel tempo non volevano lasciar spazio alle piogge, prolungando ancora, se possibile, il raccolto. Juliet riposava all’ombra del grosso ginepro nel cortile dietro casa, cullata dall'oziosa brezza del tardo pomeriggio. Indossava un paio di pantaloni a mezza gamba stretti alle estremità di color azzurro chiaro, assieme ad una fusciacca con le maniche a sbuffo e stretta in vita di color verde acqua.

 

Con la coda dell’occhio scorse un movimento alla sua destra, dietro un cespuglio che poteva a malapena nascondere una persona - Sulin -, pensò. Finse di dormire ancora per pochi secondi, e appena ebbe la certezza che quel cespuglio non s’era mosso a causa del vento, scattò immediatamente e lanciò il rospo dritto nel centro del fogliame.

 

«A-ah, ti ho preso questa volta! Non sei così furbo come credi!»

La ragazza, una graziosa diciassettenne, rise trionfante della sua vittoria dirigendosi con passo sicuro a prelevare l’amico dal cespuglio. Quando spostò le prime foglie scoprì una trappola per serpenti ed una cordicella. Uno strattone liberò quindi la chiusura della scatola e una decina di bisce le passò strisciando tra le gambe, mandandola col sedere a terra.

 

 

«Chi è che avevi preso, July?» fece eco una voce divertita.

Adirata, si cominciò a levare le foglie dai lunghi capelli neri, scompigliati dalla caduta.

«Sai che odio quel nomignolo, stupido di un ragazzo! Vieni fuori prima che ti venga a cercare!».

E così, con un salto e senza troppa fatica, un giovane alto qualche centimetro più di lei, casacca e gilet color delle foglie, pantaloni grigi e stivali marroni saltò giù proprio sul punto in cui lei fingeva di riposare.

 

Si passò una mano tra i capelli e a quel gesto la ragazza, fingendo più irritazione di quanta veramente provasse, disse: «smetti di toccarteli, tanto non ricresceranno solo perché speri lo facciano.»

 

«Oh falla finita, lo so anche io, ma non posso farci nulla se ho questo vizio da non so quanti anni e non riesco ad abituarmi ad averli tagliati» rispose.

 

Si avvicinò e le tese la mano per aiutarla ad alzarsi, ma lei la scacciò via con uno schiaffo e si sollevò da sola. Strofinandosi il dorso dolorante, il ragazzo disse «sai quanto ci tenevo ai miei capelli, erano...»

«si si, erano il tuo orgoglio, e ora nessuna ragazza ti guarderà per più di un mezzo secondo, lo so lo so» lo canzonò.

«Credi di essere spiritosa? Vorrei vedere te al mio posto!» rispose, ma senza farci troppo caso cominciò di nuovo a passarsi la mano in mezzo ai radi capelli rimasti.

Juliet si diresse quindi verso il retro della casa con il suo amico. Erano passati quasi nove mesi dalla scomparsa dei suoi genitori.

«Aspettami qui mentre mi cambio, se non vuoi che oltre alla mano ti diventi rossa anche la faccia.»

 

Senza farselo ripetere il ragazzo andò a sistemarsi sopra una botte all'ingresso sul retro, vicino ad una grossa ruota per carro con un raggio rotto. Sospirando, la toccò. Voleva aggiustarla, ma non se la sentiva di prendere l'iniziativa.

 John e Susie erano abili nelle riparazioni, e assieme portavano avanti casa e negozio senza dimenticare le necessità della figlia. Quello era uno dei loro ultimi lavori, e non se la sentiva di mettervi mano di sua spontanea volontà. La ragazza ora sola cercava di imparare quel che poteva e applicare ciò che ricordava. Anche se il lavoro era diminuito, per lei era sufficiente.

 «Vuoi forse stare tutto il giorno su quella botte?» disse tornando nel cortile. Sulin osservò la lunga gonna da cavallerizza  marrone, gli alti stivali al ginocchio e la giubba in lana a maniche lunghe che ora indossava. Alzandosi sapeva già che lo attendeva una bella ramanzina dalla madre, come se fosse lui quello che decideva che doveva indossare l'amica. Senza dire nulla si diressero verso la taverna del villaggio, gestita dal padre del ragazzo. Percorsero le strade semideserte e silenziose del piccolo insediamento, formato in maggior parte da minatori troppo distanti da casa per tornarvi ogni sera, e cresciuto con il passare degli anni. Ora includeva una taverna, qualche fattoria, un fabbro e un maniscalco. Una fioca luce filtrata dalle ante del locale ne illuminava appena il davanti. Superato l'ingresso, un brusio concitato diede il cambio al silenzio che regnava sino a qualche attimo prima lungo le strade di Corhinsen.

 

Il locale era come sempre affollato, per la maggior parte da minatori o contadini ancora in tuta da lavoro. Un paio di cameriere si avvicendavano trai i tavoli, mentre dietro il bancone una corpulenta signora era intenta a spillare della birra da una botte. Appena li scorse, fece un grosso sorriso alla ragazza e al tempo stesso gettò un’occhiataccia al figlio, che con molta naturalezza guardava verso il centro della sala.

 

«Salve signora Tyres, posso darle una mano?»

 

«Oh Juliet, sai che qua sei un’ospite! Nel mentre che Sulin ti porta una ciotola di stufato mettiti pure comoda, vuoi cara?»

 

Sorridendole di rimando, Juliet andò a prendere posto al tavolo in fondo alla sala, da dove poteva vedere chiunque si trovasse nel locale e l'ingresso. Al villaggio tutti la conoscevano e la ragazza non poté far altro che salutare ogni persona sul suo tragitto, elargendo sorrisi e abbracci in egual misura.

 

La taverna era l’edificio più grosso del villaggio, costruita dapprima solo ad un piano, poi a due ed infine arrivata a tre quando la famiglia dei gestori decise che in fondo stabilirsi là poteva essere una buona idea. Al piano terra si trovava la sala comune con tavoli, panche e un grosso camino nell’angolo opposto all’ingresso delle cucine. A sinistra dell’entrata vi era il bancone che serviva cinque sgabelli, mentre al fondo sala si trovavano le scale per i piani superiori.

 

Sulin arrivò con due piatti di stufato, ne mise uno fumante davanti alla ragazza, accompagnato da tre forme di pane caldo e un grosso boccale di birra, assieme a due più piccoli.

«Ecco qua».

I due si conoscevano fin dall'infanzia, e come spesso accade nei villaggi, le nozze tra loro venivano date per scontate. Si volevano molto bene, anche se apertamente non facevano altro che stuzzicarsi e litigare. Per la madre erano ancora piccoli, mentre secondo loro erano fin troppo maturi.

 

«Dovresti farmi riparare quella vecchia ruota, lo sai vero?» disse Sulin senza alzare gli occhi dal piatto.

 

Sentì il cucchiaio della ragazza poggiarsi sul bordo del suo, e sapeva che ciò non preannunciava nulla di buono, perché voleva dire che stava pensando seriamente a dargli una risposta, e più tempo passava nel dargliela più sarebbe stata una risposta che non voleva sentirsi dire.

 

«Senti, brutto stu...» si fermò a metà frase, mentre la sua attenzione fu catturata da una figura che sapeva di non conoscere, entrata nella locanda. Lui fu grato del nuovo arrivato, e si girò per dargli il benvenuto fino a che non ci ripensò. Forse non era una buona idea, si disse.

 

L’uomo, se di uomo si trattava, era alto ben oltre la statura normale per quelle zone, il ché lo portò ad abbassarsi per entrare nel locale. Indossava un mantello da pioggia nero pece con il cappuccio tirato sino a nascondere il viso, ma Sulin non si era accorto che fosse cominciato a piovere. Una delle cameriere, Keyla, si diresse dal nuovo arrivato per fargli strada verso un tavolo vuoto, ma questi la scansò spingendola di lato bruscamente, tanto da farla cadere addosso ad un tavolo e rovesciare quel che stavano consumando i due minatori presenti.

 

Grand e Mitod, due grossi uomini di quarant’anni, si alzarono in piedi intenti a ricevere delle ottime scuse ed una nuova cena, gratuita, dal forestiero, se non ché persero completamente la voglia quando dalle pieghe del suo mantello scorsero una lunga spada con la lama divisa in due al centro e con una grossa gemma color argento grande come un pugno incastonata all’altezza dell’elsa. «U..uu..nn.. Un Garjin!» fu tutto quel che riuscì a dire Grand, e subito chiunque si trovava nella locanda si alzò in piedi cercando di mettere più distanza possibile tra la figura e loro.

Il presunto Garjin si diresse verso loro due, e Sulin non poté fare a meno di passarsi una mano tra i capelli, mentre sorrideva, pronto a scattare al primo accenno di pericolo.

 

Il Garjin estrasse dalla cintura la spada senza fodero, producendo un fischio assordante come lo stridire di migliaia di insetti, tanto forte che più di una persona cadde in ginocchio tenendosi la testa tra le mani. Si mise a correre per annullare la poca distanza che lo separava dai due ragazzi e quando ormai gli era addosso, Sulin scalciò il tavolo verso di lui senza pensarci troppo e spinse via la ragazza un attimo prima che la spada del Senza Respiro spaccasse in due tavolo e parte del pavimento su cui poggiava.

 

I due fuggirono all’impazzata fuori dalla finestra, con lui che tirava per mano lei, infilandosi nelle strade dietro la taverna e chiedendosi perché mai un essere che era fino a poco tempo fa una leggenda o forse qualcosa di più, tanto da non credere proprio che fosse esistito, si trovasse nella loro taverna, nel punto abitato forse più a sud possibile dalla grande fenditura, davanti a loro e per di più con l’intenzione di aprirne un'altra nel suo torace.

 

«O quelli della legione dormono o è successo qualcosa al di là del valico» mormorò Sulin.

 

Juliet inciampò negli stivali e cadde.

 

«Questa maledetta gonna lunga, sapevo che non avrei dovuto indossarla, e tutto per fare piacere a tua madre!» il ragazzo quasi sorrise all’idea di vederla con gli abiti che avrebbero veramente fatto piacere alla madre, ma accantonò subito quell’immagine, consapevole che non si sarebbe mai realizzata, e pressato da un pericolo più imminente.

 

«Ma tu ci credi?» Chiese mentre ripresero a correre.

 

«A cosa? Ad un uomo che con una strana spada, probabilmente un frangilama troppo cresciuto, abbia provato a dividerci in due? O l’ho sognato?» rispose lei, quasi sorridendo.

 

«Smettila di scherzare, almeno non farlo in un momento come questo». Corsero fino a svoltare in una stretta stradina che portava ad un ponte all’uscita nord del villaggio.

 

«Secondo te ce l’aveva con noi?» chiese Juliet.

 

«E come faccio a saperlo? Ora quel che mi interessa conoscere è se dover andare nei boschi, offrendomi spontaneamente ai lupi se mai ce ne fosse già qualcuno in anticipo per svernare, o se dirigerci verso casa tua».

 

 Senza esitare Juliet prese il sentiero che portava verso l’abitazione, oltrepassando il ponte che cavalcava un fiume - appena un rigagnolo a causa del tardare delle piogge - con Sulin  che la seguì senza dire nulla, ma continuando a guardarsi alle spalle. Giunti al porticato della vecchia abitazione, Sulin tirò Juliet per la mano tanto bruscamente da farla fermare, provocandole un’esclamazione soffocata per il colpo di frusta alla spalla.

 

«Sulin, se domani avrò un livido giuro che tmpf...» il ragazzo le mise una mano sulla bocca.

 

«Ssssh parla a voce bassa.La nostra preoccupazione ora è di arrivarci a domani, guarda» indicò alcune impronte quasi invisibili sulla polvere delle assi all’ingresso della casa.

 

«E allora? Possono essere di chiunque! Le nostre...o magari Grim o Edin sono venuti a vedere a che punto sono con i loro lavori o...». Grim ed Edin erano i giovani figli di un fattore che aveva i propri campi poco al di là del fiume. Brave persone si disse.

 

«Fai attenzione. Guarda, quelle sono le mie» indicò alcune impronte più grosse, che si fermavano davanti alla botte. «Quelle le tue» ne indicò altre, dall’albero al cespuglio alla casa, «Cosa noti?» chiese.

 

«Cosa vuoi che noti, stupido di un bue con le maniere di un...» si interruppe, facendo più attenzione alle impronte. «Non escono..» disse soffocando un’esclamazione.

 

«Esatto, entrano ma non escono. Chiunque ne sia padrone è ancora dentro, e la luce spenta mi dice che non vuole farsi annunciare.»

 

 «Io devo entrare là dentro Sulin, devo prendere il mio ciondolo».

 

 Si riferiva ad un regalo di sua madre, o meglio la sua eredità prima di morire. Di certo non voleva andare chissà dove nel bosco lasciando il suo ciondolo in casa, ora che qualcuno si trovava all’interno dell’abitazione, al buio e che con ogni probabilità era un ladro e aveva l'intenzione di rubare ciò che riteneva di qualche valore.

 

Si accostò ai gradini, poggiando i piedi nelle zone che sapeva non avrebbero scricchiolato, evitando accuratamente le assi più vecchie lasciate apposta così da avvisare in anticipo se qualcuno si avvicinava alla porta di casa. Una tattica utilizzata per non farsi cogliere da Sulin e dai suoi stupidi scherzi. - Almeno una volta mi sarà utile -, pensò. Spinse leggermente l’uscio della porta e guardò nel salone principale alla ricerca di un segnale che indicasse la presenza di qualcuno all’interno dell'abitazione.

 

La tenue luce della luna che entrava dalla finestre e dalla porta rivelava che nulla fosse stato toccato, né le piccole figure intagliate nel legno sopra al camino né le sedie riposte in un angolo della stanza, né pentole, posate o i bicchieri sistemati con ordine all’interno della credenza. Entrò silenziosamente nella stanza principale seguita da Sulin, senza notare la presenza di estranei.

 

 Ridendo, si girò verso il compagno «Sei troppo diffidente Sulin, vedi un uomo probabilmente ubriaco con una strana spada e ti basta per pensare subito ad un mito, in più per qualche impronta impolverata, ora pensi che qualcuno sia dentro casa mia, pur sapendo che non c’è niente da rubare».

 

«Un uomo normale non porta un mantello da pioggia quando fuori fa caldo e non piove, né estrae una spada del genere e ti salta addosso come se fosse la cosa più naturale del mondo» disse lui.

 

 «probabilmente il tuo uomo ora è stato già fermato da qualche avventore e giace con un gran bel bernoccolo in qualche abbeveratoio per cavalli, a schiarirsi meglio le idee.»

 

Juliet si avvicinò e raccolse da un cofanetto intagliato in morbido legno da sopra il camino il piccolo ciondolo della madre e se lo mise al collo. Appena venne aperto il minuscolo contenitore una leggera melodia, come l’aria di una ninna nanna, cominciò a diffondersi per la stanza, e ricordò come la madre fosse solita raccontargli una favola prima di addormentarsi, a quel suono. Il piccolo gioiello era formato da un unico ciondolo di color azzurro opaco, come velato da una nebbia e infilato in una esile catenella d’argento su cui tutt’attorno vi era inciso, in morbide lettere che non era in grado di comprendere, quella che la madre diceva fosse parte di un’antica storia. Il ragazzo tuttavia non pareva fosse più rassicurato di prima.

 

 «E’ proprio perché non c’è niente da rubare che mi preoccupo, Juliet» insisté, guardandosi attorno.

 

Imbronciata, non sapendo se doversi sentire offesa o spaventata, la ragazza si diresse verso la camera da letto.

 

 «Beh, ladro o no, io vado a cambiarmi dopo questa sudata inattesa. Tu rimani là, nel caso il tuo Senza Respiro ubriaco decida di venire a farti un saluto, per colpa tua mi sono rovesciata lo stufato addosso».

 

 La ragazza non fece in tempo neanche a voltarsi che la porta d’ingresso venne divelta con uno schianto come di ossa rotte e finì contro l’amico buttandolo a terra, in stato di semi-incoscienza. Lo strano uomo era di nuovo davanti a loro, questa volta con la spada macchiata di sangue tra le mani e il mantello nero immobile seppur fuori il vento soffiasse tanto da piegare i rami degli alberi più piccoli.

 

 «Chi sei? Come osi fare una cosa del genere, brutto stupido idiota che non sei altro? Aspetta che lo venga a sapere il sindaco e verrai portato davanti alle guardie di Mikein, e allora finirai a marcire nelle prigioni della capitale fino a che non ripagherai sino all’ultima moneta d’argento la mia porta!».

 

 Juliet corse verso l’amico con uno sguardo talmente infuriato che pochi nel villaggio le avrebbero rivolto la parola, conoscendola. Certo esistevano gli sciocchi. L’uomo incappucciato  non si mosse, mentre pareva stesse pensando a cosa fare di loro due. Juliet si inchinò verso Sulin, poggiandogli una mano sopra la spalla ferita, dove la camicia era stata strappata e un taglio macchiava di rosso  la manica. Estraendo la piccola pietra che le faceva da ciondolo, la accostò lievemente alla spalla dell’amico mormorando piano alcune parole, fino a che la luce non cominciò a intensificarsi attorno alla gemma per venire come risucchiata da essa, aumentando e andando poi a riversarsi nel taglio sulla spalla, cicatrizzando la ferita. La figura si mosse d'improvviso verso la ragazza, senza produrre alcun rumore di passi se non il raschiare del proprio respiro, come un rettile.

 

«Dammi quell’oggetto donna, ssse non vuoi che mi prenda anche la tua vita» disse.

 

«Non ascoltarlo July, scappa...» riuscì a dire Sulin.

 

Incurante di lui, il Garjin avanzò verso la ragazza,  che si strinse la pietra al petto ed indietreggiò strisciando sino a toccare la parete, in trappola. L’uomo posò il piede sulla spalla del ragazzo, schiacciandolo a terra e facendolo urlare dal dolore. Il Garjin era ormai a pochi passi da lei, con la spada in mano ma ancora abbassata, mentre una mano guantata di metallo sporgeva oltre la manica del suo mantello, protendendosi verso la gemma.

 

«La pietra, ragazza, altrimenti mi prenderò la vita del tuo amico» disse. Juliet non sapeva che fare. Teneva alla pietra e non capiva perché questo tizio la volesse così intensamente, tanto da minacciare Sulin. Cercò di rimettersi in piedi seppur con difficoltà, appoggiandosi al davanzale della finestra ma senza successo. Non poteva fuggire, si disse, altrimenti Sulin sarebbe stato ucciso dal Garjin, e lei non lo voleva.

 

«Non dargli niente, non può prendertelo se tu non glielo dai!» proruppe una voce femminile.

 

 All’improvviso, dalla camera da letto spuntò fuori una giovane donna di qualche anno più grande di lei, alta e snella, con un vestito color cremisi bordato d’oro, il colletto alto cinto dal merletto e stretto sino al mento e una grande gonna ricamata in pizzo che arrivava sino a terra, nascondendo gli stivali. La donna era probabilmente la più bella che avesse mai visto, con il volto impassibile e gli occhi duri, molto più severi di quello che l’età avrebbe a suo parere permesso. I lunghi capelli erano raccolti dietro la testa ed una coda le ricadeva giù dalle spalle. Due treccioline bionde platino partivano dalle tempie sino a legarsi sulla nuca assieme, mentre sul lato sinistro una terza treccia cadeva sino al mento, bloccata da un piccolo ditale d’oro che recava le incisioni di una foglia di Myr. Indossava inoltre una tiara intrecciata tra i capelli assieme a piccole gemme azzurre, in netto contrasto con il vestito ma che facevano risaltare il colore dei suoi occhi.

 

 «Non dargli nulla ragazza o il tuo amico sarà davvero perduto, non farà niente fino a che hai il gioiello».

 

 La donna era sicura di se, e le infondeva sicurezza. Era adirata, di questo ne era certa. Il Garjin alzò la mano guantata sino a sollevare il cappuccio, mostrando un viso piatto e ricoperto da scaglie, bianco e con gli occhi di color rosso, con le palpebre che si chiudevano in modo innaturale, verticalmente rispetto a quelle di una normale persona. La sua voce gutturale rivelava una fila di denti molto più numerosa di quella di un essere umano, aguzzi e grandi, capaci probabilmente di strappare con un morso un braccio od una gamba senza tanti problemi.

 

Il Garjin avanzò sollevando la propria spada sopra la testa e caricando la donna che lo scansò inchinandosi, un attimo prima che la lama spaccasse in due il fregio sopra il camino di pietra dello stanzone. Risollevandosi, ebbe appena il tempo di evitare un altro attacco, mentre riuscì a fare inciampare il suo aggressore, spingendolo contro uno sgabello. Di nuovo in piedi, la donna dispose entrambe le mani con i palmi rivolti a quell’essere, uno in direzione della lama ed uno verso il suo capo.

 

Juliet notò che alla mano sinistra portava due anelli, uno all’anulare, assolutamente bianco tranne che per una piccola e sinuosa linea di color nero che ne percorreva tutto il bordo... una linea che per qualche strano motivo non era in grado di seguire senza perderla. L’altro anello, di diversa fattura e di un materiale che lei non conosceva, rivestiva metà del pollice della donna, e risplendeva di una fioca luce color azzurro chiaro.

 

«Con la sinistra, Annullamento» disse tenendo fisso lo sguardo sull'avversario. Cominciò poi a ruotare in senso antiorario la mano che indicava la spada, seguita come da un fantasma dal movimento del polso nemico, che torcendosi fece eco alla sua voce con un secco rumore d'ossa infrante e con il clangore della lama mentre questa si abbandonava sul pavimento.

 

«Con la mano destra, Dispersione». Ne rivolse l'indice verso il basso, poi lo risollevò tracciando nell'aria un piccolo arco luminoso in senso orario. Le parole così espresse materializzarono due simboli, come se li avesse vergati la sua voce nell'aria in cui sono stati pronunciati. Portò quindi entrambe le mani all’altezza del petto e ne unì palmi e simboli.«Con entrambe, Divieto», mormorò.

 

 Quando le due mani si separarono, un flusso di azzurra energia simile a piccoli fulmini continuava a tenerle unite, formando al centro dove essi convergevano, una piccola sfera bianca e luminosa. La creatura, immobile, sibilava rabbiosamente verso la donna, non riuscendo a muovere un solo muscolo.

 

«Ora, sparisci!», disse con disgusto e, con uno scatto di entrambi i polsi, la sfera si diresse con uno schianto verso il petto della Figura, assorbendo il nero del mantello  e con esso ciò che vi era contenuto, lasciando posto per un attimo ad un bagliore più intenso della luce del sole, per poi far piombare nuovamente tutto nell'oscurità.

 

 

 

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A poco a poco Juliet riacquistò la vista, abituando gli occhi alla penombra. Tutto era come prima, non lo aveva quindi sognato: il tavolo rovesciato, il camino scheggiato e la donna in tessuto cremisi, calma, in piedi davanti a lei. L’unica cosa che non c’era più era quell'essere, dissolto assieme alla piccola sfera di luce che quella donna gli aveva lanciato contro. Sicuramente non era meno pericolosa, se era riuscita a sconfiggere una leggenda con tanta facilità. La guardò sottecchi, e lei gli rispose con un sorriso che, notò, non  raggiungeva tuttavia gli occhi.

  
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