Storie originali > Generale
Segui la storia  |       
Autore: UnLuckyStar    25/04/2012    7 recensioni
REVISIONE IN CORSO
Questa è la storia di Fortunata, una ragazza come tante altre, che nasconde il suo nome dietro a 'Lucky'. Lei si odia, odia il suo corpo, odia ciò che la circonda. Non sopporta le persone, fosse per lei potrebbero morire in tutti i modi che vogliono. E' sarcastica, acida nei confronti di tutti, intollerante alle persone stupide. Le uniche persone che sopporta sono Alice e qualche compagna di classe. Suo fratello è lontano, sua madre è in un centro di recupero per tossicodipendenti, suo padre è inesistente, il mondo non la capisce, non capisce la sua rabbia. Poi una mattina qualunque arrivano loro... Loro, che cambieranno tutto.
⁂⁂⁂
Dal primo capitolo:
Cammino svelta, con il mio passo vagamente saltellante, percorrendo la strada per andare a scuola.
Quel triste edificio rosso mattone, con il cancello arrugginito e dalla vernice verde scrostata.
Non poteva esistere scuola più brutta qui a Torino, soprattutto dal punto di vista di una che è all'ultimo anno.
La verità è che fa schifo. Tutto fa schifo in questo posto.
⁂⁂⁂
Da prestavolto per questa storia ho deciso di usare i bellissimi visi di Giuseppe Giofrè, Jonathan Gerlo e Nunzio Perricone.
#PeaceAndLove
Genere: Commedia, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A



L
a classica famiglia: unita e felice


«Ragazzi, questa è Fortunata, ma chiamatela Lucky, altrimenti ci mangia tutti quanti» dice Emanuele in tono gentile, ma con un po’ di presa in giro, facendo scaturire un’ondata di risatine. Anche se il fatto che mi è stato presentato da nemmeno un minuto e già si senti in diritto di prendermi in giro, mi fa leggermente irritare, ma non dico nulla. Rimango con le braccia a penzoloni, non accenno nemmeno a un sorriso. Tengo lo sguardo ancorato a terra. In questo momento probabilmente risulto fredda e sgradevole, ma la realtà è che mi sento girare la testa. Vedo il pavimento bianco, striato di grigio e marrone, muoversi sotto ai miei piedi. Anzi, no. Sono io che mi sto muovendo su di esso. Sto barcollando leggermente, ma cerco di sembrare naturale, mentre appoggio una mano sulla spalla di Emanuele, per cercare un po’ di stabilità. Sento come una voragine nello stomaco e le labbra che mi formicolano come se stessero perdendo sensibilità. Accenno a un sorriso distratto, anche se ormai ho capito che è inutile fingere, visto che tutti mi guardano in modo strano. Non è la prima volta che ho questi princìpi di svenimento, so come affrontarli. Prendo dalla tasca un pacchetto di fruitella. Ne tiro fuori una caramella e guardo con disgusto quella cosa colorata, gommosa e ricoperta di zucchero. L’idea di doverla mangiare mi fa venire il voltastomaco, ma non ho scelta. L’infilo velocemente in bocca, socchiudendo gli occhi e premendola con la lingua, contro il palato, un attimo prima di inghiottirla. Ormai è fatta, sono costretta a far assorbire al mio corpo quei disgustosi grassi e zuccheri. Questo sapore dolce, crea uno stonato contrasto con l’aroma che mi aveva lasciato la sigaretta fumata poco fa. Alzo improvvisamente lo sguardo, facendo sobbalzare il ragazzo con l’orecchino, forse per il colore innaturale dei miei occhi, dato dalle lenti a contatto. Mi stacco da Emanuele, che fino ad ora si è lasciato usare come appiglio senza replicare di nulla, mi guarda solo con uno sguardo stranito e vagamente allarmato.
«Stai bene?» mi chiede infine.
«Oh sì, sì. A volte ho dei cali di zucchero, ma è tutto sotto controllo» dico mentendo spudoratamente e cercando di essere il più convincente possibile. Il punto è che non sono brava a dire bugie, ma infondo non lo conosco, e non sono esattamente affari suoi quale sia il motivo preciso per cui mi sento male.
«Hai gli occhi rossi e le labbra viola, a me sembra che ci sia poco di cui stare tranquilli» dice il ragazzo con il ciuffo, con un tono non esattamente cordiale.
«Beh, le persone cercano di farsi ricordare, ognuno a modo loro. C’è chi fa l’idiota, e chi si sente male» rispondo in modo tutt’altro che amichevole.
Ci scambiamo una lunga occhiata. Nemmeno lo conosco, ma già non mi piace. Avete presente quando incontrate qualcuno e non vi serve intavolare una discussione per non sopportarlo, così, a pelle? Ecco, la sensazione è quella. Ha un’irritante aria da fighetto, dell’uomo vissuto, di quello che semplicemente non gli serve sentirsi dire di essere bello, per saperlo. Distolgo lo sguardo, su un punto non definito, per terra.

«Dai, dimenticate quello che è successo» dico infine, facendo un gesto con la mano, come per scacciare un cattivo pensiero.
«Okay. Allora… Loro sono Sebastiano…» dice indicando il ragazzo con l’orecchino.
«Alessandro…» riprende, puntando il dito verso quell’essere con il ciuffo.
«E Mattia» conclude riferendosi a un ragazzo dai capelli biondo cenere, rasati. E’ seduto per terra, con le cuffie infilare nelle orecchie, da cui si sentono distintamente le parole di ‘Somebody that I used to know’ di Gotye. Indossa degli occhiali da sole a specchio, quindi non posso sapere di che colore abbia gli occhi.
Sorrido a tutti. E’ un momento piuttosto imbarazzante, quello in cui non hai niente da dire a dei perfetti estranei, ma non ho voglia di tornare a casa, lì mi aspetterebbe solo il silenzio e mio padre con i suoi occhi assenti, che legge il giornale. Preferisco rimanere qui.

«Perché siete qui?» chiedo sedendomi e tenendomi il lembo della gonna con una mano, per evitare qualche inconveniente.
«Perché, non possiamo starci?» ribatte Alessandro.
«Mamma mia, Ale, come sei acido!» interviene Emanuele con tono comunque affettuoso. Ho sempre pensato che le persone basse fossero le migliori, e questo ragazzo ne è la conferma. Ha l’adorabile tic di mordersi il labbro inferiore, ma non di lato, come fanno alcuni ragazzi per risultare più sexy. No, lui se lo morde centralmente, come fanno i bambini. Adesso capisco perché Alice avesse i cuoricini stampati negli occhi. Risulta davvero difficile non trovarlo tenero dal primo momento.
Non c’è un’atmosfera tesa, ma nemmeno piacevole, grazie alla presenza di Alessandro. E’ fastidioso in ogni cosa che fa: è fastidioso quando si sistema i capelli, quando si lecca le labbra, quando mastica la gomma e quando si asciuga il sudore dalla fronte.
Improvvisamente le campane cominciano a suonare. Din don diiin.
Si fermano a tre rintocchi dandomi l’opportunità perfetta per dileguarmi con una scusa banale.

«Sono già le tre… E’ meglio se vado a casa. Grazie per avermi sopportata, magari ci rivedremo insieme alle altre. Ciao!» esclamo, alzandomi in maniera più naturale possibile e sistemandomi la tracolla su una spalla.
Tra tutti i “ciao” di risposta, afferro le parole “ciao Fortunata”, e non ho bisogno di vedere le labbra carnose di Alessandro, per sapere che è stato lui. Odioso. Non mi serve conoscerlo da una vita per odiarlo, infondo, ci siamo scambiati due parole nel giro di dieci minuti e già si è fatto spazio nella mia lista nera. In realtà, non ho una lista nera, ma ho letto in molti libri che le ragazze dicono così quando non sopportano qualcuno. Mentre mi incammino dalla parte opposta della piazza, sento la voce di un altro ragazzo, magari di Sebastiano, che rimprovera Alessandro per il suo comportamento da zitella inacidita. Sorrido compiaciuta, a quanto pare lui è l’unico che ha problemi con me, che fra l’altro non ho fatto nulla per innemicarmelo.  Mi infiltro nella stradina di case, che ormai conosco bene, e penso alla tristezza che trasmettono. Non sono di colori “fuori dall’ordinario”, come un verde chiaro o un rosa pallido. Sono tutte bianche, grigie o gialle, ma sperare in qualche cambiamento da queste parti, è come chiedere la moltiplicazione del pane e dei pesci ad un cane. Nel giro di pochi minuti apro il cancelletto grigio, che delimita il cortile della casa rossa in cui abito. Il giardino non è curato, non vi sono piantati girasoli, né rose, né tulipani. Vi sono solo erbacce, che mio padre ripromette sempre di sradicare, ma so che non lo farà mai, e per quanto mi interessa, in quella zolla di terra potrebbe anche piantarci marijuana per venderla al miglior offerente. Lo stretto percorso di pietra battuta, mi conduce fino alla porta. Prendo le chiavi dalla tasca esterna della borsa, infilandole nella toppa e girandola, facendo scattare la porta dall’interno. Entro e mi tolgo le scarpe, lasciandole lì, sul tappetino marrone.

«Papà, sono tornata.»
Non ricevo alcuna risposta, se non per un grugnito proveniente dalla cucina. Supero il corridoio di entrata e guardo verso la cucina, e come immaginavo, mio padre sta leggendo il giornale, con i suoi occhi acquosi, nascosti dietro ai suoi occhiali dalle lenti spesse. Quando dico “occhi acquosi” non intendo azzurri, e nemmeno grigi. In effetti, non c’entra nulla con il loro colore, ma semplicemente perché da quando mia madre è andata in un centro di recupero per tossicodipendenti, hanno perso la poca personalità che vi era rimasta, lavata via, lasciandovi solo uno sguardo assente e appannato. All’inizio provavo rabbia nei confronti di quella sua snervante apatia, ma adesso non posso far altro che provare pietà e un vago senso di tristezza nei suoi confronti.
«Dove sei stata fino ad ora?» domanda con voce burbera.
«Fuori» rispondo secca. Non ho voglia di dare spiegazioni per il mio ritardo, quindi batto in ritirata, in camera mia. Non è di certo la stanza più grande della casa, ma a me risulta enorme, soprattutto da quando non la occupo più con mio fratello Giacomo. Ha solo un anno più di me, e se n’è andato di casa da nemmeno un mese. Era immischiato in brutti giri, gli serviva cambiare aria.
Ogni tanto mi manda un messaggio, un’e-mail, per ricordarmi che è vivo e che mi pensa spesso. Lui è stato probabilmente la persona che ho amato di più nella vita, in lui era concentrato il mio migliore amico, il mio ragazzo, e per ultimo, mio fratello. Mi ricordo di quando avevo dieci, e tutte le mie amiche avevano un fidanzatino, reale o immaginario che fosse, e io mi sentivo strana, l’unica che non lo aveva. Fu allora che gli chiesi di diventare il mio ragazzo. Ovviamente non avevo idea che non fosse normale chiedere al proprio fratello di diventare il proprio fidanzato, ma non ero aggiornata su come funzionassero quel genere di cose. Rimasi comunque piacevolmente sorpresa quando lui mi strinse in un abbraccio e mi rispose di sì. Credo di aver cominciato ad “amarlo” da allora, e anche se lentamente mi sono resa conto che lui non era davvero il mio ragazzo, e che non avrebbe mai potuto esserlo, continuai a nutrire per lui una sorta di innamoramento. Ma il pezzo forte arriva quando circa un mese fa non è tornato a dormire a casa. Non era una cosa strana, e nemmeno troppo allarmante, fino a che il giorno dopo non mi ha inviato un sms con scritto che se n’era andato, e di stare tranquilli, perché lui stava bene. Ecco, quel messaggio di tre righe è stato capace di farmi crollare tutto addosso. Ho sempre avuto una certa ribellione verso le regole e la disciplina, lui era l’unico che riusciva a farmi desistere dal combinare cazzate. Da allora ho cominciato con le prime canne, le prime sbronze, le prime nottate fuori… E i primi pasti saltati. Ciò che più mi mandava in bestia era l’indifferenza di mio padre. Mi aspettava sveglio fino a notte fonda, sulla vecchia poltrona di pelle beige del salotto, ma non chiedeva alcuna spiegazione appena varcavo la porta di casa alle tre o alle quattro del mattino, di ritorno dal ‘Blackout’. Si limitava a bere un bicchiere d’acqua e ad andare a dormire, trascinando lentamente i piedi sul pavimento e farfugliando qualcosa di indistinto.
Tutti hanno la convinzione che sia l’odio l’opposto dell’amore, io invece credo che sia l’indifferenza, quando non ti frega proprio niente di qualcuno. Pensare a Giacomo mi ricorda di controllare i messaggi. Prendo il cellulare, che ho sepolto tra i libri e la divisa spiegazzata. Nessun messaggio. Nessuna chiamata. L’attesa di un suo sms è snervante, ma al contempo piacevole. E’ sempre bella l’attesa di qualcosa che sai che ti renderà felice.
Apro il primo cassetto del comodino in legno, che è accanto al mio letto. Ne tiro fuori un cambio di biancheria intima ed esco dalla camera, andando in bagno.
Chiudo la porta a chiave alle mie spalle, per poi spogliarmi. Fisso la mia immagine riflessa nello specchio, con aria sconvolta. Il mio corpo non presenta nessun miglioramento, è rimasto il medesimo, se non in alcuni punti, non sia addirittura ingrassato. E’ una cosa impossibile, sono stata attenta nell’ultima settimana a mangiare poco, mi sono iscritta in palestra, ci vado tre volte a settimana, insomma, mi sono impegnata, ma a quanto pare non basta.
L’ansia mi assale. Apro il rubinetto dell’acqua e me ne butto un po’ in faccia, fregandomene della matita e del mascara. Che colino pure, ormai non ha senso fingere di essere carina. Mi volto e faccio scorrere la porta semitrasparente della doccia ed entro nella cabina, aprendo l’acqua dalla parte rossa. Un getto di acqua calda mi bagna i capelli, talmente bollente da sembrare fredda, al primo impatto, intorpidendomi tutto il corpo, donandomi una sensazione quasi piacevole, fino a che non sento la pelle pizzicarmi. Mi lavo, e ci metto molto tempo, come al solito, facendo scorrere a lungo l’acqua su di me. Mi piace stare lì nella doccia, magari a piangere senza rendermene conto. Non chiedetemi perché piango spesso, perché non lo so nemmeno io. Forse per la mia vita, per la piega che sta prendendo, magari per le persone che la popolano, o perché mi manca Giacomo e mia madre. Sono tutti ottimi motivi per piangere, ma non sono sicura che sia per uno di questi. Esco dalla doccia in una nuvola di vapore che sale al soffitto e appanna lo specchio. Non ce la faccio nemmeno a guardarmi, infilo semplicemente la biancheria, e faccio scattare la porta, aprendola e sgattaiolando in camera mia. Devo fare qualcosa, non posso continuare a ingrassare in maniera improponibile. Con riluttanza e un po’ di paura, apro il cassetto della scrivania davanti al mio letto e ne tiro fuori un pezzetto di carta riciclata azzurra e stropicciata, una biro nera a cui manca il tappo e un metro da sarta. E’ arrivato il momento del mio controllo settimanale. Srotolo il metro e metto in contatto la plastica fredda con il mio petto, che reagisce con un’ondata di brividi. “82 cm” è ciò che scrivo sul retro del foglio. Procedo nello stesso modo anche per addome, fianchi, coscia, polpaccio e avambraccio. Misuro scrupolosamente ogni parte del mio corpo, imprecando a bassa voce contro quei centimetri in più che non dovrebbero esserci. Rimango in piedi accanto al letto, seminuda e con quel foglio stretto tra le mani, mentre leggo quei numeri esorbitanti, con la paura di un confronto e trovare qualche numero aumentato. Per un attimo un’ondata di panico mi assale, e posso sentire la piacevole sensazione dell’adrenalina rilasciata nelle vene. Con uno scatto veloce e deciso, volto il foglio, scorrendo velocemente i numeri con lo sguardo. Petto: 81 cm, addome: 74 cm, fianchi: 82 cm, coscia: 47 cm, polpaccio 30 cm e avambraccio: 23 cm.
Giro ripetutamente il foglio da una parte e dall’altra, in modo da confrontare i numeri segnati una settimana prima, e quelli recenti dall’altro lato.
Alcune parti del mio corpo sono rimaste invariate come il petto, i fianchi e i polpacci, a differenza delle altre che sono sensibilmente diminuite di duo o tre centimetri. Tiro un sospiro di sollievo. Questi pezzetti di carta riciclata, che tengo ben conservati nel cassetto della scrivania, ormai sono l’unica cosa che mi fa tenere i piedi ancorati a terra, impedendomi di dare troppa importanza a quella voce interiore che mi dice che sono ingrassata, e i miei occhi malati che me lo provano.
Sento un’innata felicità partirmi dal petto, facendomi spuntare sulle labbra un sorriso appena accennato, volgo lo sguardo al cielo, quasi in segno di ringraziamento a quel “qualcuno” lassù, che ogni tanto fa il favore di ascoltare anche le mie preghiere. Sono felice, ma non completamente soddisfatta, forse perché non sono dimagrita molto e dappertutto, forse dovevo impegnarmi di più in palestra, forse dovevo mangiare di meno, o forse… No, troppi forse, e troppa ansia. Sembra che il mio cervello non sia più capace di spegnersi, e me lo dimostrano le notti insonni, in cui nel migliore dei casi riesco a dormire per cinque o sei ore filate. E’ stressante, faticoso, quasi doloroso alzarsi e tentare di tenere gli occhi aperti la mattina, più difficile da affrontare di una giornata di scuola. Ma di certo è meglio alzarsi e uscire, piuttosto che rimanere in casa con mio padre che brontola tutto il tempo, fino a che non lo chiama l’impresa di pulizie.
Mi passo una mano tra i capelli ancora bagnati, mi infilo la tuta grigia e blu della “Fila”, che mi sta tre volte, e mi infilo nel letto. Sono solo le 16:30, ma se vado al letto adesso, ho una scusa per non mangiare e ho la probabilità di dormire per più tempo e recuperare le energie che dovrò spendere per godermi questa fottuta vita. Chiudo gli occhi e non posso far altro che aspettare che il mio respiro diventi regolare e che la mia mente smetta di fare calcoli e fissare obbiettivi.



Il tempo di una sigaretta:
Okay ragazzi, non sono molto soddisfatta di questo capitolo perchè... Non so, sento che manca qualcosa... E' una mia impressione o è davvero così? Ditemelo per favore perchè ne esco matta.
Ringrazio tanto Freakyyep e rosegarden per ever recensito! Vi amo ;)
Ringrazio anche chi ha semplicemente letto, sono arrivata a 150 visite :D
Un bacione, 
UnLuckyStar
Twitter: @Un_Lucky_Star


PRESTAVOLTO:
 Alessandro 
 Alice 
Emanuele
 Lucky/Fortunata (capelli chiaramente tinti)
 Mattia
 Sebastiano

   
 
Leggi le 7 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Generale / Vai alla pagina dell'autore: UnLuckyStar