Storie originali > Generale
Ricorda la storia  |       
Autore: UnLuckyStar    18/04/2012    14 recensioni
REVISIONE IN CORSO
Questa è la storia di Fortunata, una ragazza come tante altre, che nasconde il suo nome dietro a 'Lucky'. Lei si odia, odia il suo corpo, odia ciò che la circonda. Non sopporta le persone, fosse per lei potrebbero morire in tutti i modi che vogliono. E' sarcastica, acida nei confronti di tutti, intollerante alle persone stupide. Le uniche persone che sopporta sono Alice e qualche compagna di classe. Suo fratello è lontano, sua madre è in un centro di recupero per tossicodipendenti, suo padre è inesistente, il mondo non la capisce, non capisce la sua rabbia. Poi una mattina qualunque arrivano loro... Loro, che cambieranno tutto.
⁂⁂⁂
Dal primo capitolo:
Cammino svelta, con il mio passo vagamente saltellante, percorrendo la strada per andare a scuola.
Quel triste edificio rosso mattone, con il cancello arrugginito e dalla vernice verde scrostata.
Non poteva esistere scuola più brutta qui a Torino, soprattutto dal punto di vista di una che è all'ultimo anno.
La verità è che fa schifo. Tutto fa schifo in questo posto.
⁂⁂⁂
Da prestavolto per questa storia ho deciso di usare i bellissimi visi di Giuseppe Giofrè, Jonathan Gerlo e Nunzio Perricone.
#PeaceAndLove
Genere: Commedia, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A



T
ra ballo, scuola e ragazzi bassi


Potrei cominciare questa storia come fanno tante altre, con: "Era una fredda mattina di ottobre...".
E invece no. Al contrario, oggi è una mattina che spacca le pietre, per il sole che c'è. Il cielo è limpido, di un azzurro intenso, sporcato qua e là da qualche rada nuvoletta bianca, che ogni tanto ci fa il favore di ripararci dalla forte luce per qualche attimo. È una mattina particolarmente calda, tenendo conto che siamo solo a metà aprile, e questa cosa mi fotte il cervello, visti i pochi neuroni all’interno del mio cranio che si stanno lentamente surriscaldando. Cammino svelta, con il mio passo vagamente saltellante, percorrendo la strada per andare a scuola.
Quel triste edificio rosso mattone, con il cancello arrugginito e la vernice verde scrostata. Non poteva esistere scuola più brutta qui, a Torino, soprattutto dal punto di vista di una che è all'ultimo anno. Se potessi tornare indietro... non so, avrei scelto il classico, il socio-pedagogico. Di certo non avrei frequentato questa pseudo scuola, che si fa passare per un alberghiero di alto livello.
La verità è che fa schifo. Tutto fa schifo in questo posto. La strada, che non è nient'altro che una lunga serie di case addossate l'una all'altra, quasi a volersi soffocare a vicenda, svolta bruscamente verso sinistra proseguendo per un po', fino a sbucare nella piazza della chiesa. Taglio trasversalmente per attraversarla prima. La mia stupida borsa a tracolla, dentro la quale, con mia grande sorpresa, sono riuscita a far entrare la divisa di cucina e tutti i libri, ad ogni movimento sbatte contro il retro delle mie gambe, facendomi camminare più o meno come una gallina zoppa. La sposto quindi sul davanti, tenendola con la mancina per evitare che mi sia d’intralcio.

La piazza, come al solito a quest’ora del mattino, è praticamente vuota, fatta eccezione per qualche ciclista, un barbone e un gruppo di ragazzi che balla sulle note di quelle canzonette da discoteca che non hanno un vero e proprio significato, ma che vanno di moda solo per il ritmo allegro che stimola la voglia di muoversi.
In questo momento si sta dimenando un ragazzo dalla statura media, la pelle leggermente abbronzata, e un ammasso di capelli neri che si risolve per la maggior parte in un gran ciuffo che gli cade sugli occhi. Da così lontano e con il sole che mi acceca non posso appurare di che colore siano, ma di certo sono scuri. Ha una bocca stretta, con labbra spesse che si assottigliano non appena si incurvano in un sorriso. Non è particolarmente muscoloso, ma i suoi passi, accompagnati da ‘Inside out’ di Britney Spears, trasmettono forza ed energia, a differenza del suo sguardo che principalmente comunica: “Sono figo, so di esserlo, e so che tu lo sai”.
Vedo in lontananza una ragazza. Avrà sì e no sedici anni. Ha dei capelli biondi, sicuramente tinti, occhi paurosamente verdi, ed è vestita come una bambola: pantaloncini a metà coscia rosa confetto, una maglia a mezze maniche grigia con un fiocchetto rosa sul seno destro e delle ballerine bianche. Ma da dove è uscita questa?! Non ha niente a che vedere con me e come sono conciata. Oggi indosso una gonna nera a balze, che supera di poco il ginocchio, una maglia nera con una spallina calata e una fosforescente scritta fucsia che recita: "It's not only rock’n’roll, baby!". Lasciamo perdere i miei occhi, il cui colore castano è coperto da lenti a contatto colorate. Rosse. Sì, ho il coraggio di andare in giro con delle lenti a contatto rosse, trovate a poco prezzo su eBay. Mi rendo improvvisamente conto che sia io che lei ci siamo fermate ad osservarli.
Il ragazzo che ballava poco fa adesso lascia spazio ad un altro, battendogli il cinque e incoraggiandolo a dare del suo meglio. Quest'ultimo è decisamente più muscoloso, ha la pelle più candida e i capelli di un bel castano chiaro. Il viso è leggermente allungato, e all'orecchio destro sfoggia un orecchino nero. Lancio uno sguardo lì intorno per vedere se c'è qualcosa come un cappello rovesciato – o un estathé bucato per raccogliere gli spiccioli – e invece niente. Questo mi suggerisce che sono qui solo per fare gli esibizionisti e far vedere all'intero mondo quanto possono essere bravi a muoversi, come se li stesse attraversando una scarica di corrente elettrica.
Apro la borsa; afferro la custodia mezza rotta degli occhiali da sole e il cellulare, dando una sbirciata all'ora. Sono le otto e dodici, ma se voglio copiare i compiti di alimentazione e ripassare Egar è meglio che vada. Do' un'ultima, veloce occhiata ai ragazzi, appoggio i miei Ray-Ban tarocchi sul naso e ritorno sulla mia strada, uscendo di scena con la musica di 'Titanium' alle spalle. 
L’edificio della scuola, che a me risulta più come un carcere nazista, si presenta oscurato ai miei occhi a causa degli occhiali da sole. Varco il cancello trascinando i piedi sulla ghiaia rada, provocando quello che per me è un rumore piacevole. Percorro il viale fiancheggiato da entrambi i lati da una fila di pini, che emanano un odore talmente forte da costringermi a trattenere il respiro per qualche secondo. Mi guardo intorno cercando il viso di Esmeralda. Purtroppo posso solo osservare il basso livello in cui è caduta questa scuola. Qui e là nel cortile si osservano ragazzini del primo anno, ancora talmente esaltati all’idea di aver superato l’esame di terza media che si stanno fumando allegramente delle Diana, magari senza nemmeno aspirare completamente. E tu fai il figo fumandoti le Diana? Sprecherei volentieri una delle mie Malboro rosse solo per il gusto di vederli strozzarsi con il fumo, ma io non mi confondo con i poppanti.
Mi siedo sul muretto grigio accanto alla porta e mi accendo una sigaretta, osservando disgustata una coppietta che sta giocando ad acchiappa-lingua. Non appena il sapore del fumo mi impregna la bocca sento quel leggero languore allo stomaco sparire, colmando il vuoto della fame con quel sapore sporco, che presto mi metterà K.O. Sto cercando di dimagrire, e la mia dieta consiste nel mangiare giusto quando sento che è lo stomaco che sta cominciando a mangiare me... E non rompete il cazzo dicendomi che è sbagliato e che diventerò anoressica perché mi scartavetrereste solo i coglioni, e perdereste solo tempo.
Giro distrattamente lo sguardo quando vedo Esmeralda venire verso di me, concentrata a rollare una sigaretta. Ha i capelli neri colorati sulle punte da un rosso acceso. La pelle è bianca, smorta, puntellata di lentiggini sulle guance, nettamente in contrasto con gli occhi color caffè, incorniciati da pesanti occhiaie violacee che le danno l’aria di una drogata che non dorme da giorni, e forse è vero.
«Ciao, Fo'» dice senza staccare gli occhi dalla sigaretta e leccandone la carta sottile per chiuderla. 
Odio quando le persone mi chiamano ‘Fo’, ‘Fortu’, o in generale ‘Fortunata’. Il mio nome stona in maniera imbarazzante addosso ad una ragazza che di fortunato non ha assolutamente nulla, ed è per questo che mi faccio chiamare ‘Lucky’. È la stessa cosa, ma in inglese sembra assumere un significato diverso. 
«Ciao» rispondo con la voce bassa, arrochita dalle troppe sigarette, mentre gli stampo un bacio sulla guancia e fisso con disapprovazione l’anello che gli pende dal naso. 
Il punto è che non è uno di quegli orribili piercing fatti sulla narice, quelli che a me ormai risultano da bambine. No, questo è possibilmente peggio. È il classico piercing che si fa ai tori, appeso alla striscia di cartilagine che è tra le due narici. Non ci diciamo niente; lei si limita a tirare fuori dalla tasca un piccolo accendino verde e si accende la sigaretta, ispirando a fondo, fino a non poter più riempire i polmoni. 
«Hai visto quei ragazzi in piazza?» chiedo lanciando il filtro. 
«Sì, sì. Dei gran fighi, no? Sopratutto quello basso» risponde con tono piatto, contrastante con le sue parole di apprezzamento. 
«Troppo montati, secondo il mio modesto parere» commento stringendo gli occhi e cercando in giro le mie compagne. 
Io sono l’unica che abita qui vicino; tutte le altre prendono il pullman. Sarà per questo che la mattina hanno l’aspetto di un mucchio di zombie appena risorti dalla tomba. 
«Alice li conosce, o comunque conosce uno di loro. Magari ce li presenta» continua, senza alcuna espressione nella voce. 
«Sì, magari» la assecondo. 
Sposto la tracolla sulla spalla sinistra, liberando l’altra da quel peso gravante, ed entro un attimo prima che suoni la campanella. 
Il corridoio è bianco, o per meglio dire grigio, quel grigio sporco provocato da tutte le persone che vi si sono appoggiate nel corso degli anni. Non faccio neanche in tempo ad entrare che già avverto l’odore dei cornetti caldi e delle ciambelle provenire da dietro il bancone del bar. 
Il mio primo ostacolo la mattina è quello di avere abbastanza autocontrollo da non comprare nulla. Tiro dritto, battendo pesantemente i piedi sul pavimento ricoperto di mattonelle grigio scuro. Salgo la rampa di scale, la prima di tre, visto che – per la mia gioia – la mia classe è all’ultimo piano, e a noi studenti non è permesso usare l’ascensore. Nel girare, scorgo i visi delle mie amiche, tra cui spicca quello sorridente di Alice. Sin da questa distanza posso vedere i cuoricini stampati nei suoi occhi sognanti. Forse anche lei ha intravisto i suoi amichetti ballare come degli ossessi. Continuo a salire le scale fino ad arrivare al piano più alto. Entro nella seconda aula, con la porta di legno pitturata di bianco sul quale è appeso il cartello: “5°B: Benvenuti all’Inferno”. 
Entro e saluto i miei compagni con un cenno della mano, buttando lo zaino vicino al mio posto e accasciandomi a peso morto sulla sedia di plastica blu. Alla cattedra, a scrivere sul registro, c’è già la prof. di Egar, con i capelli unti e gli occhiali calati fino alla punta del naso. Alza gli occhi dal suo meticoloso lavoro e mi lancia uno sguardo irritato, che io ricambio con un’occhiata di sufficienza, mentre incrocio le braccia al petto. La giornata si presenta pesante.

<> <> <>

Non so come spiegare la meravigliosa sensazione che scaturisce in me all’udire il suono della campanella che decreta la fine delle lezioni. Sebbene sia identica a quella che ne segna l’inizio, quella dell’ultima ora ha un suono più dolce, soave, che nemmeno la più bella sinfonia riesce a suscitare in me le stesse piacevoli emozioni. Afferro la mia borsa viola, pronta già da un quarto d’ora, ed esco dalla classe fiancheggiata da Esme, Alice, Federica e Debora. Purtroppo, nella nostra classe di ben ventitré persone ci sono solo cinque femmine.
Supero la porta d’ingresso, uscendo all’aria aperta, che già odora di tabacco ed erba. Prendo una sigaretta e l’accendo; le altre fanno lo stesso, mentre ci incamminiamo verso la piazza della chiesa. O almeno, io sono diretta lì, le altre devono andare alla fermata. Camminiamo avvolte da una nuvola di fumo; ci scambiamo solo qualche parola. Non siamo ragazze che amano parlare allo sfinimento, specialmente quando non c’è niente da dire. Arriviamo ad un vicolo, troppo stretto per camminare tutte l’una affianco all’altra. Le altre, quindi, si spostano dietro di me; solo Alice rimane al mio fianco. Oggi ha i capelli color miele raccolti in una crocchia bassa, da cui spuntano dei ciuffi lisci. I suoi occhi sono cangianti: non hanno un colore preciso, ma in questo momento sono verde acido. Indossa una maglia bianca, con la semplice scritta: “I love me more”, dei jeans neri a sigaretta e delle Adidas bianche. È incredibilmente bella. Le sue labbra, poco più rosate del resto del viso, sono sempre incurvate in un sorriso perfetto che dà alla sua faccia tonda un aspetto gioviale.

«Lucky, se c’è ancora, ti presento un mio amico» dice, guardandomi sorridente, un attimo prima di spegnere il mozzicone di una delle sue Winston contro la parete gialla di una casa, lasciandovi un segno nero.
«Sì, va bene»
Le persone che si aspettano da me un commento esaudente ad ogni cosa rimarranno molto deluse. Ormai le mie compagne ci hanno fatto l’abitudine, ma le persone esterne, quelle che non conoscono una sega di me, confondono la mia semplice voglia di godermi il silenzio con l’idea che io mi senta superiore. Ma non ho nessuna intenzione di cambiare solo per farmi sembrare più amichevole agli occhi insulsi degli altri. Preferisco avere pochi amici, ma che sono amici veri, piuttosto che averne tanti che aspettano solo un mio momento di debolezza per piantarmi un coltello in mezzo alla schiena. In poco tempo siamo in quello spazio circolare delimitato da panchine, in cui tutti abbiamo avuto occasione di vedere quei ragazzi esibirsi. Sono ancora lì, ma adesso, a far vedere la sua bravura, c’è un ragazzo un po’ basso, dagli occhi intelligenti un po’ a palla e una barbetta incolta. Ha i capelli rasati ai lati, che si risolvono in una piccola cresta centrale. Seppur sia di piccola statura, è capace di fare salti strabilianti sulle note di ‘Fix you’ dei Coldplay. Mentre finisce di ballare per lasciare spazio a qualcun altro, sento i brividi percorrermi ovunque per i suoi movimenti fluidi ma energici allo stesso tempo. 
«Ciao!» esclama Alice, tutta contenta, non appena lui smette di muoversi. 
Nonostante sia sudaticcio, lei gli butta le braccia al collo e lo stringe, cosa che fa anche lui a sua volta. 
«Ciao piccolina» risponde, dandogli un bacio sulla fronte. 
«Ti ricordo che sono più grande di te!» ribatte lei, dandogli un buffetto. 
No, aspettate, riavvolgete il nastro. Alice è più grande di lui? Lei ha diciotto anni, io diciannove e, vista la mia bocciatura dell’anno scorso, ci siamo ritrovate nella stessa classe. Ma questo significa che quel nanetto ha… diciassette, sedici anni? 
«Fo’, lui è Emanuele» annuncia facendomi un cenno. 
«Piacere Ema» dico battendogli il cinque, come lui aspettava che facessi. 
«Fo'? Che nome è?» chiede lui, spostando lo sguardo da me ad Alice. 
«Mi chiamo Fortunata, ma chiamami Lucky, se non vuoi farmi diventare una bestia» rispondo, lanciando occhiate di fuoco verso la mia ‘cara’ amica. 
«Va bene, Lucky. Vieni, un’amica di Alice è anche amica mia. Vuoi conoscere gli altri?»
Non attende nemmeno la mia risposta e mi prende per il braccio, trascinandomi verso gli altri ragazzi. Ma chi cavolo gli dà tutta questa confidenza? 
«Io vado. Ciao!» esclama Alice alle nostre spalle. 
Si solleva un coro di ‘Ciao, Al’ e in un attimo mi ritrovo sola con quelli che per me sono degli sconosciuti. 
Ali, è meglio se non vieni domani a scuola, perché potrei ammazzarti.

 

Il tempo di una sigaretta:
Bene bene... Ciao a tutte!
Finalmente il capitolo infinito è terminato. So di essermi dilungata molto, ma a me piace leggere le storie che hanno capitoli  un po' lunghi. Ho scritto questa storia perchè sono stanca di leggere quelle ff in cui la vita di tutti è dannatamente perfetta (lo dico senza chiamare in causa nessuno, ovviamente ;)), quindi ho deciso di scrivere qualcosa che possa avvicinarsi un po' alla vita reale di una ragazza che non accetta se stessa. Se avete apprezzato questo tentativo di storia, vi prego di recensire. Se avete consigli da darmi sul mio modo di scrivere, datemeli. Sono pronta a tutto. Ringrazio chi leggerà, anche senza recensire.
#BaciBaci, UnLuckyStar.
P.s. A chi interessa, cercatemi su Twitter: @Un_Lucky_Star

 


PRESTAVOLTO:
 Alessandro
 Alice
Emanuele
 Lucky/Fortunata (capelli chiaramente tinti)
 Mattia
 Sebastiano

   
 
Leggi le 14 recensioni
Ricorda la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Generale / Vai alla pagina dell'autore: UnLuckyStar