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Autore: Beauty    27/04/2012    4 recensioni
Ciao a tutti! Questa storia è una mia personale rivisitazione de "La Bella e la Bestia", la mia favola preferita...
Catherine, diciottenne figlia di un mercante decaduto, per salvare il padre dalle grinfie di un misterioso essere incappucciato, accetta di prendere il suo posto. Ma quello che la ragazza non sa è che nelle vesti del lugubre e malvagio padrone di casa si cela un mostro, un ibrido mezzo uomo e mezzo animale. Col tempo, Catherine riuscirà a vedere oltre la mostruosità dell'essere che la tiene prigioniera, facendo breccia nel suo cuore...ma cosa succede se a turbare la felicità arrivano una matrigna crudele e un pretendente sadico e perverso?
Riuscirà il vero amore ad andare oltre le apparenze e a sconfiggere una maledizione del passato? E una bella fanciulla potrà davvero accettare l'amore di un mostro?
Genere: Dark, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Il mostro e la fanciulla'
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Lord William Montrose allontanò da sé con aria annoiata il terzo bicchiere di vino della serata. Adorava il sapore dell’alcool, era capace di berne in quantità senza sentirsi nemmeno un po’ alticcio; gli piaceva la sensazione del vino nel suo corpo, lo sentiva scorrere nelle vene, mischiarsi col sangue…era una sensazione fantastica, la stessa che aveva provato quando aveva baciato Catherine.

A quel pensiero, si rabbuiò ancora di più. Era già di malumore per quel che era successo solo il giorno prima, ma il ricordo sembrava farsi sempre più vivo, e con esso la vergogna cocente e la rabbia per essere stato rifiutato.

- Andiamo, Lord William, quella Catherine Kingston non è altro che una sgualdrina come tutte le altre!- tentò di consolarlo il suo compare, Glouster, un omaccione grande e grosso con i capelli neri e una leggera barba scura, tracannando il vino direttamente dalla bottiglia.

- Tu non puoi capire, Glouster…- rispose Lord William, cupo, fissando dall’angolo buio in cui si era seduto tutta la clientela de Il leone d’oro.

- Glouster ha ragione, Lord William…- provò ad insistere Ralph, un ometto basso e tarchiato, altro suo grande compagno di sbornia.- Non capisco perché ve la prendiate tanto…è solo una ragazza, d’altronde…

- Voi non potete capire…- ripeté Lord William, senza distogliere lo sguardo dalla scena di fronte a sé. Nessuno poteva capire…

Quella Catherine non avrebbe dovuto rappresentare niente, per lui; che cos’era, in fondo? Solo una delle tante ragazzine stupide e un po’ graziose che aveva incontrato nella sua vita, una potenziale avventura, forse, ma niente di più…E allora, perché ogni volta che la vedeva si sentiva come bruciare?

Fuoco, ecco che cos’era. Era il fuoco che aveva sentito sulla propria pelle, la prima volta che l’aveva incontrata. Catherine gli era subito sembrata una creatura ultraterrena, qualcosa di lontano e vicino al tempo stesso…Non sapeva cos’era stato, forse la sua bellezza, forse il fatto che non fosse subito caduta ai suoi piedi come tutte le altre oche che aveva conosciuto, non ne aveva idea…sapeva solo che, dal primo momento che l’aveva vista, il suo cuore non aveva più smesso di bruciare.

Catherine Kingston era diventata a poco a poco un’ossessione, per lui; si ritrovava a pensare a lei in ogni momento della giornata, prima di addormentarsi, addirittura non era passata notte che non l’avesse sognata. Immaginava in continuazione come sarebbe stato affondare il volto nei suoi capelli neri come la notte, toccarla con le proprie mani, fantasticare di tenerla fra le braccia, senza nulla addosso…

Dopo il suo rifiuto, l’ossessione era diventata, se possibile, ancora più forte.

Lei è mia…Lei deve essere mia…!

Sul volto di Lord William, serio e corrucciato, si disegnò lentamente un sorriso simile ad un ghigno, quando, dalla folla di ubriaconi e perdigiorno accalcati intorno ad un tavolo, vide alzarsi stancamente Henry Kingston. Il giovane si avviò in direzione del bancone, con un’aria depressa e preoccupata al tempo stesso, gettandovi sopra alcune monete, che l’oste si affrettò a raccogliere.

- Povero diavolo!- esclamò Ralph, vedendolo.- Continua a perdere…una sconfitta dietro l’altra, da che è arrivato…se continua così, finirà per perdere a carte l’intero patrimonio…

- A meno che non l’abbia già perso…- mormorò Lord William, senza smettere di sorridere, con lo sguardo puntato su Henry.

- Sembrate soddisfatto, Lord William - constatò Glouster, sorridendo sornione.

- E’ così, in effetti…- confermò Lord William.

Aveva osservato attentamente il fratello di Catherine, nei giorni precedenti; un imbecille, un figlio di papà che si vantava in continuazione della sua grande abilità nel giocare a poker e a faraone, ma che usciva da ogni partita sempre sconfitto, e con sempre meno denaro in tasca. Lord William aveva il sospetto che Henry Kingston non possedesse neanche i soldi che si giocava e, se realmente era così, allora avrebbe già dovuto essere pieno di debiti fino al collo.

E, con un po’ di abilità e di fortuna, questo sarebbe potuto tornare a proprio vantaggio…

Lord William si alzò, dirigendosi con passo deciso in direzione di Henry.

- Come state, signor Kingston?- domandò, battendogli una mano sulla spalla con fare amichevole.

Henry trangugiò un sorso di whiskey, per poi sorridergli con aria ebete. Lord William non ci mise molto ad accorgersi che era ubriaco fradicio.

- Vi prego, chiamatemi Henry.

Lord William sorrise.

- Brutta giornata con le vincite, ho saputo…

Henry fece spallucce, come se si trattasse di una cosa senza importanza.

- Capita anche ai migliori, dico bene?

Lord William fece una breve risatina, prima di andare al sodo.

- Sapete, speravo proprio che io e voi potessimo fare una partita, uno di questi giorni…

- Davvero?

Lord William dovette trattenere una smorfia di disgusto alla vista dell’entusiasmo di quel damerino; cielo, quell’idiota si era giocato anche i pantaloni, eppure non ne aveva ancora abbastanza!

- E quando?

- Quando vorrete voi, Henry…sapete dove trovarmi, non mancherò…

- Potremmo fare anche subito, se per voi…

- Mi dispiace, ma ora proprio non è possibile!- lo bloccò Lord William, tranquillamente, senza smettere di ghignare.- Sono spiacente, ma ora ho un impegno improrogabile. Vedremo per la prossima volta, che ne dite?

- Oh, io…sì, certo, certo, naturalmente…arrivederci, Lord William.

- Arrivederci.

Lord William se ne tornò al proprio tavolo, sotto lo sguardo deluso e inebetito di Henry.

- Avreste dovuto accettare subito, Lord William - disse Glouster.- Era così ubriaco che gli avreste vinto tutto nel giro di pochi minuti!

- Pazienza, pazienza, mio caro Glouster…- fece Lord William, gettando un’occhiata furba ad Henry, che in quel momento si stava sedendo ad un altro tavolo, pronto forse ad una nuova, disastrosa partita.- Non m’interessa strappargli pochi soldi…bisogna che accumuli, che s’indebiti sempre di più…quando giocherà con me, sarà così disperato da essere disposto a tutto, pur di essere tirato fuori dalla melma in cui è finito…

Lord William sorrise, soddisfatto del suo piano.

Se Catherine non fosse stata sua con le buone, allora se la sarebbe presa con la forza.

 

***

 

Andrà tutto bene…

Catherine fece appena in tempo ad udire quella voce femminile, dolce e gentile, prima che il suo sogno venisse interrotto e lei fosse svegliata con un violento scossone.

- Forza, alzati! Su, in piedi!- la incitò un’altra voce, femminile anche questa, ma più dura, secca e perentoria.

Catherine mugolò, stropicciandosi gli occhi con il dorso della mano; si sentiva il capo pesante e le ossa tutte indolenzite.

- Allora, ti vuoi svegliare? O preferisci che venga il padrone a darti il buongiorno?- disse la voce, stavolta con una marcata nota beffarda.

All’improvviso, Catherine ricordò tutto: il castello, suo padre, quell’uomo incappucciato…e il senso di dolore e tristezza della sera prima la colse di nuovo. Guardò chi l’aveva svegliata: era una donna sulla quarantina, robusta, con capelli castani striati qua e là di grigio; indossava un vecchio abito consunto e rattoppato, un grembiule sporco e unticcio e una bandana logora.

- Oh, buongiorno, mia bella addormentata!- fece la donna.- Ce ne hai messo di tempo per svegliarti!

- Che…che ore sono?- domandò Catherine, e la voce le uscì stranamente roca.

- Circa le sei del mattino. E siamo già in ritardo.

- In ritardo? Per cosa?

- Santa Vergine, aiutami tu!- esclamò la donna, gettando un’occhiata al cielo.- Ma il padrone non ti ha detto niente, ieri sera?

- No. Era troppo impegnato a cercare di strangolarmi - ricordò Catherine.

- Ho capito. Dovrò pensarci io. Beh, che fai ancora lì? Alzati, su! Non abbiamo mica tutto il giorno.

Catherine si alzò, tutta indolenzita.

- Scomodo, vero? Ma, tranquilla, non dormirai più qui, d’ora in avanti. Forza, seguimi.

La donna si avviò fuori dalla porta; Catherine la seguì, un po’ titubante.

Entrarono in una stanza poco più distante; non appena vi fu dentro, Catherine notò che si trattava di una camera abbastanza ampia – più lunga che larga, in effetti –, alla cui sinistra erano posti quattro letti, mentre sulla destra vi si trovava un grande camino. Un catino con dell’acqua era posto in un angolo.

La ragazza non poté fare a meno di notare che, benché le lenzuola dei letti apparentemente sembrassero abbastanza pulite, il pavimento era completamente ricoperto di polvere, le pareti trasudavano umidità e muffa, dovunque si girasse vedeva una quantità infinita di ragnatele, e il camino era incrostato e annerito. C’era il fuoco acceso, ma le fiamme erano deboli, e lì dentro faceva molto freddo.

- Tu d’ora in avanti dormirai qui con noi, nella stanza della servitù…- disse la donna.

- La stanza della servitù?

- Cosa credevi?- ridacchiò la donna.- Che il padrone ti accogliesse qui come una gran dama? Ma per favore, non prendiamoci in giro…Se vuoi stare qui, devi lavorare, mia cara.

- Quindi…io sarei una specie di…di sguattera?- sbottò Catherine, indignata.- Lui mi tiene prigioniera qui per farmi lavare i pavimenti?!

- Temo proprio di sì - rispose la donna, senza scomporsi.- In effetti, devo ammettere che sono stupita che non ti abbia lasciata marcire nelle segrete…Fossi in te, mi riterrei fortunata…

- Fortunata?!- strillò Catherine, chiedendosi se la stessero prendendo in giro o altro.- Dovrei ritenermi fortunata? Sono prigioniera, qui, in questo posto, e per di più mi tocca anche sgobbare come una serva e…

- Ehi, abbassa le ali, signorina!- l’ammonì la donna.- Te la sei cercata. Ernest mi ha raccontato tutto, lo sai? Sei tu che non hai voluto andartene quando ne hai avuta l’occasione, e il padrone non è un tipo molto magnanimo. Ma tu hai voluto restare, quindi, ora, peggio per te.

- L’ho fatto per salvare mio padre!

- Lo so, ma, come avrai capito, al padrone non interessa perché l’hai fatto. Ora sei qui e, se ci tieni alla tua salute, devi lavorare, poche storie. E ora - indicò il catino.- Lavati, che tra poco dobbiamo metterci al lavoro.

Catherine si avvicinò al catino, affondando le mani nell’acqua; era gelida. La ragazza si sciacquò velocemente il viso, mentre le dita diventavano violacee a causa del gelo.

- Purtroppo, per oggi dovrai fare a meno della colazione - continuava intanto la donna.- Sono venuta a chiamarti, un’ora fa, ma tu non ne volevi sapere di alzarti. D’ora in poi, se vuoi mangiare, la sveglia è alle cinque e mezza. Altrimenti, ti toccherà aspettare l’ora di pranzo.

Catherine non rispose; sentiva lo stomaco chiuso, non sarebbe stato un problema saltare la colazione. Ma l’infastidiva parecchio tutto ciò, l’essere stata fatta prigioniera e ridotta a fare la schiava era già abbastanza, se poi ci si mettevano anche queste assurdità, beh, allora tanto valeva rovesciarsi in testa l’intero catino d’acqua e morire assiderata. Sentiva che quel posto aveva già cominciato a odiarlo, e ogni piccola cosa non avrebbe fatto altro che aumentare tutto il suo astio.

- Perché il padrone mi tiene qui?- domandò Catherine.

- Beh, l’hai detto tu stessa. Hai voluto salvare tuo padre, c’è un prezzo per tutto, anche per quello che tu ritieni un gesto d’affetto.

- Ma perché? Insomma, perché farmi fare la serva? Avrebbe potuto lasciarmi morire in quella cella, sarei stata una bocca in meno da sfamare, no?- insistette Catherine, con sfida.

La donna scosse il capo.

- Non chiedere mai al padrone il perché di qualcosa, questa è una delle regole che devi ricordare.

- Regole? Chiedere il perché è vietato? Ma chi si crede di essere il tuo caro padrone? Perché io dovrei ubbidirgli?

- Non sfidare mai il padrone, ragazza. Sarebbe il più grande errore che tu possa commettere. Con lui devi solo tenere la testa bassa e ubbidire a tutto quello che ti dice. Non tentare mai di contraddirlo, o peggio ancora, di scappare. Non te la farebbe passare liscia, stanne certa.

La donna aveva parlato in tono dimesso, pacato, quasi stesse facendo un commento su un tempo piovoso. Tutta quella rassegnazione, quell’accettazione passiva, diede sui nervi a Catherine, che però non ebbe il tempo di ribattere, perché la donna l’aveva attirata a sé, l’aveva fatta voltare e aveva iniziato a sbottonarle i bottoni sulla schiena dell’abito.

- Che state facendo?- fece la ragazza, un po’ sorpresa.

- Devi cambiarti d’abito, ordini del padrone. D’altra parte, non credo che questo sia molto indicato per lavorare…

Il vestito verde smeraldo scivolò a terra, afflosciandosi ai piedi di Catherine, la quale, rimasta solo in sottana e corpetto, rabbrividì di freddo.

- Scavalca il tuo bell’abitino.

La ragazza ubbidì, un po’ titubante.

- E dammi del tu, d’ora in avanti. Siamo alla pari. Io mi chiamo Constance.

- Io sono Catherine.

Constance raccolse l’abito da terra, esaminandolo con cura.

- Che peccato. Un vero spreco - commentò, prima di gettare il vestito nel fuoco.

Le fiamme ebbero un guizzo, cominciando a consumare e a bruciare la stoffa.

- Ehi, ma…- provò a protestare Catherine, osservando impotente l’intero tessuto mentre andava in cenere.

- Ordini del padrone - ripeté Constance, calma. Catherine pensò che doveva trattarsi della sua frase preferita.- Non ti agitare, tanto non ti servirà più, d’ora in poi…

Catherine si voltò, e vide che Constance le stava indicando degli altri abiti piegati ordinatamente su uno dei letti. La ragazza li indossò con foga, in modo che quella donna vedesse – e riferisse! – quanto era arrabbiata.

Si trattava di un abito da lavoro, liso e scucito, così pieno di buchi e di toppe come Catherine non ne aveva mai visti. Dalla vita in su era bianco, con i bordi cascanti, e lasciava le spalle scoperte; la gonna era marrone chiaro, anche se delle toppe rosse e blu molto stinte ormai rendevano quasi impossibile distinguere il tessuto originario da quello aggiunto, e sul lato sinistro da metà coscia era presente un largo spacco, di certo non per questioni di moda, ma solo per trasandatezza. Un grembiule sudicio e bucherellato completava il quadro.

- Ne avrai anche un altro per cambio, il padrone esige che tu lo tenga in perfetto ordine. Io ti presterò una delle mie camicie da notte per dormire - continuò Constance, sempre con voce piatta, apparentemente noncurante dello sguardo disperato e furioso della ragazza.

La porta si aprì di colpo, e un ragazzino sui tredici anni, vestito di cenci sbrindellati, entrò nella stanza di corsa.

- Ehi, mamma, hai visto il mio…

- Peter!- sbottò Constance.- Quante volte te lo devo dire che non bisogna entrare senza prima aver bussato?

- Ciao!- salutò allegramente il ragazzino, senza prestare ascolto ai rimproveri della madre.- Tu sei quella nuova, giusto?

- Immagino di sì…- rispose Catherine, con un sorrisetto amaro.- E tu, chi saresti?

- Mi chiamo Peter, e tu?

- Catherine, piacere di conoscerti.

- Peter è mio figlio - disse Constance, prima che la porta si aprisse nuovamente.

- Ah, siete qui…- fece un vecchio alto con barba e capelli bianchi.

- Ma sì, certo, entrate pure, qui l’educazione non esiste più…- sospirò Constance, lanciando un’occhiataccia al vecchio.- Ernest, per favore, passi per Peter, ma tu almeno dovresti sapere che non è il caso di entrare in una stanza dove due donne…

- E piantala di scocciare, Constance!

- E’ tuo marito?- domandò Catherine a Constance, la quale, a sentirla, si aprì in una risata sgangherata.

- Mio marito?! Questo vecchio rimbambito? Ma per favore…ho già avuto un marito, e mi è bastato per tutta la vita…non voglio più saperne di uomini, con tutto quel che mi ha fatto passare quel gran figlio di…

- Mamma, non cominciare…- gemette Peter.

- Non abbiamo del lavoro da fare?- buttò lì Ernest.

Constance sembrò risvegliarsi da un sonno profondo.

- Oh, è vero. Dobbiamo sbrigarci…il padrone lo saprà subito se non ci diamo da fare…

- Il padrone lo saprà subito?- fece eco Catherine, seguendo la donna fuori dal dormitorio, con Ernest e Peter alle calcagna.

- Va bene, Catherine, quello che devi fare è molto semplice - cominciò a spiegare Constance, mentre scendevano velocemente al piano terra, percorrendo il grande scalone sudicio.- Tu devi solo svolgere i compiti che ti sono assegnati, come tutti noi. La sveglia è alle cinque e mezza, la colazione alle sei, se arrivi in ritardo, allora dovrai aspettare l’ora di pranzo per mangiare. Ordini del padrone - Constance aprì uno sgabuzzino e ne estrasse vari oggetti: scope, stracci, secchi, due o tra grembiuli…E li distribuì a ciascuno. Catherine si ritrovò con un secchio e un vecchio strofinaccio.- Il padrone comunica a me la sera quali sono i compiti per l’indomani - proseguì Constance, parlando velocemente, quasi agitata o in ansia.- Tu, Catherine, oggi dovrai lavare le finestre del primo piano, lucidare l’argenteria, pulire l’intero scalone e aiutarmi a preparare la cena. Tutto entro stasera, s’intende.

- Cosa?- boccheggiò Catherine.- Non ce la farò mai a finire tutto entro stasera!

- Meglio per te che tu ci riesca…- le sussurrò Peter, a metà fra il preoccupato e il complice.

- Il padrone non accetta scuse - aggiunse Ernest.- E sa sempre se fai bene il tuo lavoro o meno…

- Dov’è ora il padrone?- chiese Catherine, sentendo il cuore farle un salto nel petto al pensiero di quell’uomo incappucciato.

- Nelle sue stanze. Lui non esce mai da lì per tutto il giorno - spiegò Peter.- Colazione e pranzo gli vengono serviti lì. Solo per la cena scende in sala da pranzo…

- E come fa a sapere quello che facciamo, se se ne sta sempre chiuso nella sua camera?

Nessuno rispose; Peter ed Ernest abbassarono lo sguardo, mentre Constance riprese immediatamente a chiacchierare:- Noi pranziamo verso le tre del pomeriggio, dopo il padrone. Ma non dura molto, perché lui non vuole che perdiamo tempo. Si lavora fino all’ora di cena, poi – sempre dopo il padrone, chiaramente – abbiamo il diritto di mangiare anche noi. Quindi, possiamo andare a letto.

Catherine non rispose; sapeva che, in qualità di sguattera, avrebbe dovuto cambiare radicalmente il suo regime di vita, ma non si era aspettata regole e orari così ferrei e intransigenti. Ricordò che – almeno in casa sua – Lydia non aveva mai dovuto rispettare certi regimi militareschi, e nemmeno il resto della servitù, quando c’era stata, si era mai trovata in quella situazione. Anzi, suo padre era sempre stato molto comprensivo nei suoi confronti; ma, a quel che aveva capito, il padrone di quel castello non doveva essere molto magnanimo.

Constance, Peter ed Ernest si allontanarono, diretti verso le loro mansioni. Catherine sospirò, guardandosi intorno indecisa da dove cominciare; non aveva la minima idea di dove mettere le mani. Alla fine, si risolse dal cominciare a pulire lo scalone, che le era parso il compito più gravoso.

Iniziò dal basso, salendo verso l’alto; Constance non le aveva dato altro che uno straccio e un secchio d’acqua, quindi dovette inginocchiarsi per pulire.

Cacciò con furia lo straccio nell’acqua, per poi iniziare a strofinare con foga; non era perché sapeva che il padrone di casa la stava osservando – anche se il cielo solo sapeva come! – ma era un modo per dare sfogo a tutta la sua rabbia e la sua frustrazione. Inoltre, concentrarsi tanto sul lavoro l’aiutava a non pensare alla propria situazione, al fatto che fosse schiava e prigioniera, che non avrebbe mai più rivisto suo padre e Rosalie…

Quel pensiero le fece salire le lacrime agli occhi, e iniziò a strofinare con più foga; man mano che lavava, il pavimento diveniva sempre più pulito, ma le nocche le facevano ogni minuto più male, le ginocchia imploravano pietà e la sua schiena usciva sempre più provata ad ogni gradino.

Arrivò alla fine della prima rampa con le braccia e le spalle doloranti, e i palmi delle mani bordeaux per il troppo strofinare. Aveva il fiato corto; si passò una mano sulla fronte, scoprendola impregnata di sudore.

Si alzò in piedi, in modo da far trovare un po’ di sollievo alle ossa. Era al primo piano; ricordò che avrebbe dovuto lavare anche le finestre di quel piano. Beh, se non altro, si disse, potrò riposare un po’ la schiena.

Raccolse lo straccio e il secchio, e si avvicinò ad una finestra. Era una finestra in stile gotico, stretta e incredibilmente alta; per la parte inferiore, d’accordo, ma come diavolo avrebbe fatto poi ad arrivare in cima?

Catherine cominciò a pulire le vetrate più in basso, ma ben presto si accorse che l’acqua mista a sapone nel secchiello cominciava a scarseggiare. E adesso?

Sentì dei passi alla sua sinistra; Ernest si stava avvicinando, con in mano un secchiello e uno spazzolone.

- Tutto bene?- domandò, con un sorriso bonario.

- Ehm…c’è la domanda di riserva?

Ernest ridacchiò, ma amaramente. Gettò un’occhiata al secchiello vuoto di Catherine.

- Hai finito l’acqua?

- Già. Sai dove posso trovarne dell’altra? Mi occorrerebbe anche una scala…- mormorò la ragazza, gettando un’occhiata sconsolata alla finestra. Ernest fece il suo solito sorriso bonario.

- C’è un pozzo in giardino, l’acqua la prendiamo sempre da lì. Per quanto riguarda il sapone, lo trovi in cucina. Aspetta…- le prese il secchio vuoto dalle mani. - Tanto devo comunque scendere, te la procuro io…Per la scala, puoi provare a guardare là dentro…- e indicò uno sgabuzzino poco distante.

- Grazie.

Mentre Ernest scendeva, Catherine si avvicinò allo sgabuzzino; lo aprì, tirando con forza la porta tarlata, e stupendosi di quanto fosse polveroso e sudicio. C’era una scala a pioli appoggiata al muro; la ragazza si sporse per prenderla, ritrovandosi nel giro di pochi secondi con cumuli di ragnatele avvinghiate ai capelli. Cercò di scostarsele dagli occhi, ma questo le fece perdere l’equilibrio, e cadde a terra trascinandosi dietro la scala.

In men che non si dica, parte del pavimento e alcuni gradini già puliti si ritrovarono nuovamente coperti di polvere. Catherine gemette di disperazione, guardando quello scempio che aveva combinato, finché Ernest, ritornato, non tentò di sollevarla da terra per un braccio.

- Ehi, tutto a posto?

- No - rispose lei, afferrando con furia lo straccio e rimettendosi a strofinare.- Guarda che disastro! Dannazione, avevo appena pulito, e quella stupida scala…- si fermò di colpo, sentendo le lacrime salirle agli occhi.- Ma che ci faccio io qui?!- sbottò.- Se il tuo padrone voleva una serva, allora poteva benissimo assumerne una! Io non ho fatto niente! Non merito di stare qui, non merito di essere schiavizzata in questo modo, solo perché ho cercato di…- non terminò la frase, cominciando a singhiozzare.

Ernest sospirò, posandole dolcemente una mano sulla spalla.

- Non fare così…vedrai che con il tempo tutto si sistemerà…Tu non hai niente di cui colpevolizzarti, hai solo cercato di salvare tuo padre…sei stata molto coraggiosa, Natalie…

- Natalie?- fece Catherine, asciugandosi gli occhi, sorpresa che Ernest l’avesse chiamata con quel nome.

Il vecchio arrossì fin nella punta della barba.

- Io…scusami, è che…non volevo, mi dispiace…io non…qui c’è l’acqua…- disse, posandole accanto al secchio.- Io…sarà meglio che torni al lavoro…ci vediamo più tardi, d’accordo?

E si allontanò.

Catherine si asciugò ancora gli occhi, quindi si alzò, imponendosi di non comportarsi come una bambina. Riprese in mano lo straccio.

- Ehi, Ernest!- gridò, mentre il vecchio era già a metà scala.- Quante finestre ci sono su questo piano?

- Centoventi.

Per poco non svenne. Ma s’impose di essere forte. Il padrone di casa la voleva come schiava? Ebbene, non gli avrebbe dato la soddisfazione di mostrarsi una sguattera scadente. Raccolse malamente i capelli in uno chignon, si passò nuovamente la mano sulla fronte imperlata di sudore e riprese a strofinare con decisione.

 

***

 

Il pranzo lo consumarono sui gradini dello scalone, loro quattro insieme. Pane e cipolla, con un pezzetto di formaggio.

- Abituatici - disse Peter, azzannando la propria porzione.- Sarà così tutti i giorni.

- Evviva - commentò sarcastica Catherine, cedendo volentieri la cipolla al ragazzo.

- Mangiate in fretta, al padrone non piace che perdiamo tempo - li incitò Constance.

- Il padrone forse pretende un po’ troppo - borbottò Catherine.

Constance le aveva detto che la cena sarebbe stata servita per le nove in punto, e lei era indietro con il lavoro in maniera paurosa. Non aveva ancora finito di pulire tutte e centoventi le finestre del primo piano ed era solo alla prima rampa di scale, per non parlare poi di tutta l’argenteria ancora da lucidare…

Quella sera, avrebbe incontrato di nuovo il padrone di casa, l’uomo che le aveva rubato la vita ma che non aveva mai visto in faccia.

- Perché il padrone non si toglie mai quel cappuccio?- chiese all’improvviso.

Non ricevette risposta; tutti e tre parvero improvvisamente interessati chi al pavimento, chi al proprio pranzo, chi al soffitto.

Catherine provò ad insistere, ma ogni tentativo fu vano.

 

***

 

- CATHERINE!

La ragazza sollevò lo sguardo dal pavimento. Constance la raggiunse di corsa.

- Catherine, forza, sono già le otto, dobbiamo…ma…non hai ancora finito?- fece incredula la donna.

La ragazza abbassò lo sguardo, colpevole. Quello scalone era infinito, e lei probabilmente non era nemmeno arrivata a metà.

- E le finestre?- incalzò Constance.

- Quelle le ho terminate.

- Grazie al cielo…non hai lucidato l’argenteria, vero?

- Non ce l’ho fatta, Constance, mi dispiace…

- Oh, mamma mia…beh, speriamo che non se ne accorga…Vieni, ora, devi aiutarmi…

La fece alzare dal pavimento, trascinandola in cucina quasi di corsa.

- Ecco…- disse, indicando il pentolone e la tavola, mentre sollevava fra le braccia una tovaglia, tovaglioli, piatti e forchette, barcollando pericolosamente in direzione della porta.- Dobbiamo sbrigarci…E’ già tutto pronto, solo la minestra sta cuocendo…mi raccomando, controlla che abbia un buon sapore…

Constance uscì, e Catherine rimase in piedi di fronte al pentolone. Vi si avvicinò, sollevando il coperchio e immergendovi un mestolo. Soffiò brevemente sulla minestra, prima di assaggiarla.

- Beh, com’è?- chiese Peter, facendo capolino sulla porta, trafelato.

- Insipida. Non ha sapore - rispose la ragazza con una smorfia.

- Aggiungiamoci del sale - propose il ragazzino e, senza aspettare replica, afferrò l’intero vasetto e ne versò dentro la metà.

- No, Peter…- mormorò Catherine, ma ormai era troppo tardi.

- Ecco qui!- Constance era tornata.- Peter, va’ a cercare Ernest! Catherine, vieni, è ora di servire la cena…

 

***

 

Catherine era in piedi contro una parete della sala da pranzo, accanto a Constance, reggendo in mano il vassoio con il piatto di minestra. Tutti e quattro attendevano l’arrivo del padrone nella grande sala, occupata quasi interamente da un lungo tavolo di legno con una tovaglia bianca. Dalla parte opposta alla loro c’era un camino con un bel fuoco acceso, accanto ad una finestra dai tendaggi rosso sangue.

Catherine fissava preoccupata il piatto di minestra, senza riuscire a togliersi dalla testa l’immagine di tutto il sale che Peter ci aveva fatto cadere dentro.

La porta si spalancò, e tutti trattennero istintivamente il fiato. Il padrone entrò con passo svelto, senza degnarsi di guardarli, sedendosi a capotavola. Catherine notò che aveva addosso sempre gli stessi abiti scuri, con quel mantello nero il cui cappuccio nascondeva completamente il volto dell’uomo.

- Ho visto il lavoro che hai fatto, ragazza…- tuonò, rivolto a Catherine, la quale si sentì rimpicciolire.- Anche se chiamarlo lavoro è essere gentili. Quando ho detto di pulire lo scalone intendevo tutto, non solo metà. Il resto ti faceva schifo, per caso?

Catherine aprì la bocca per ribattere, ma Constance le diede una gomitata e le ordinò con lo sguardo insieme di tacere e di portare la cena al padrone. La ragazza gli pose di fronte il piatto di minestra, senza osare alzare lo sguardo.

- Mi passa quasi la fame, a vedere questa porcheria…- commentò il padrone, osservando il cucchiaio d’argento non lucidato, ma infine si risolse a mangiare.

Catherine tremò quando vide il cucchiaio colmo di minestra avanzare verso il cappuccio, e quindi verso la bocca del padrone.

Questi, infatti, scattò immediatamente in piedi, con un ringhio di disgusto, fissando i quattro domestici con ferocia.

- Questo che cos’è?!- urlò. - Come osate presentarmi una cosa simile? Chi ha cucinato questo schifo?

Peter si fece rosso in volto, e cominciò ad alzare lentamente la mano.

- Io!- scattò all’improvviso Catherine, impietosita.

Peter rimase a bocca aperta. Constance ed Ernest la fissarono con il fiato sospeso.

Il padrone di casa la guardò per qualche istante, quindi afferrò il piatto di minestra e glielo scaraventò addosso. Il brodo la colpì in pieno viso, mentre il piatto si fracassò sul pavimento sparpagliando i cocci dovunque. Catherine tossì, cercando di asciugarsi la faccia con il grembiule, ma il padrone la raggiunse e la costrinse ad inginocchiarsi a terra con uno spintone.

- Pulisci, razza di scansafatiche!- tuonò.

Catherine, mortificata e furiosa al tempo stesso, cominciò a raccattare i cocci di porcellana.

- Stupida, insulsa ragazza!- l’insultò il padrone.- Dannata buona a nulla, sapevo che avrei dovuto lasciarti crepare nelle segrete, non sei neanche in grado di…

- Se non vi sta bene come pulisco o come cucino, perché non lo fate voi?- Catherine scattò in piedi, calpestando i cocci del piatto e guardando il padrone negli occhi, come a volerlo sfidare.

Constance gemette, Peter si strinse a lei. Ernest abbassò lo sguardo con rassegnazione.

Il padrone ringhiò, la scrollò violentemente per un braccio, strappandole un grido di dolore; la trascinò fuori dalla sala da pranzo quasi di peso, mentre lei urlava e cercava di divincolarsi.

La condusse sino alla stanza in cui aveva dormito la notte prima, spingendocela dentro con tanta forza da farla finire distesa sul pavimento di pietra.

- Finché non imparerai a comportarti, finché non porterai un po’ di rispetto, allora puoi anche scordarti un letto e del cibo!

Catherine si rialzò a fatica.

- Siete un mostro!- strillò.- Siete l’essere più spregevole che abbia mai incontrato in vita mia! Siete una bestia, un mostro!

Il padrone non sembrò scomporsi.

- D’ora in avanti ti terrò d’occhio. E non te la farò passare liscia finché non ti comporterai come si deve!

Se ne andò, chiudendo la porta a chiave; Catherine vi sferrò un calcio, prima di lasciarsi cadere sul pagliericcio e incominciare a piangere a dirotto. Pianse talmente tanto che, quando riuscì a smettere, era così sfinita che si addormentò in capo a due minuti.

Quella notte fece un bel sogno.

Non sapeva bene dove si trovasse, ma si sentiva felice, tutti intorno a lei erano allegri e gioviali. E, in mezzo a tanta confusione, distingueva solo una persona, un giovane alto, bello, con dei meravigliosi occhi azzurri, che le tendeva una mano con un sorriso dolce dipinto sulle labbra.

 

Angolo Autrice: Ciao a tutti! Stranamente non ho niente da sproloquiare in merito a questo capitolo…J. So che la “bestia” qui è parecchio cattivo, ma presto migliorerà…

Dunque, nel prossimo capitolo scopriremo cosa si cela sotto il cappuccio del misterioso padrone di casa…Finalmente!, direte voi J. Come sarà il suo volto, e perché lo nasconde? Cosa c’è di così terribile? E come reagirà la nostra Cathy nel vederlo? E ancora, cos’ha in mente il perfido Lord William? Nell’attesa di scoprirlo, ringrazio chi legge, La ragazza in BlueJeans per aver aggiunto questa storia fra le seguite, desyyy per averla aggiunta alle seguite e alle preferite ed Ellyra per aver recensito.

Ciao a tutti, al prossimo capitolo!

  
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