Nel panico del momento chiusi gli occhi verdi accecati dalle lacrime, era un gesto che facevo spesso da quando Mike non era con me.
Il buio in cui i miei occhi erano soffocati tramontò e li riaprii velocemente.
Una chiazza blu, che prese poi le forme di un dipinto. Due pesci stereotipati disegnavano onde colorate su della pittura blu stesa male.
Cos’era successo? Mi ritrovai in un letto bianco, situato in una stanza bianca.
Fuori dalla porta due donne vestite di bianco, infermiere, stavano parlando con un uomo.
Ancora bianco.

In quel momento desideravo solo che qualcuno venisse e rompesse quel silenzio insopportabile.
Strinsi i denti convinto di aver ancora la mia fidata spiga tra i denti, ma l’unica cosa che era rimasta di lei era l’antipatico sapore.
“bip… bip… bip…” Il battito del mio cuore iniziò a stabilizzarsi.
Oh, ero in ospedale.
Il bisbiglio delle infermiere si trasformò in pochi secondi in un rumore insopportabile.
C’erano tutti: i miei genitori, i parenti, gli amici, i dottori. Tutti si tuffarono nella camera dell’ospedale abbracciandomi e guardandomi commossi con un accenno di compassione negli occhi.
“Come stai?” “Cosa hai passato?” “Come ti è saltato in mente di correre lì?” “Quando tornerai a scuola?”
Continuavo a fissarli e a ripetere che stavo bene, che andava tutto bene, che volevo solo riposare.
Dentro di me però mi stavo consumando. Fissavo e analizzavo ogni singola persona.
Finalmente intravidi gli occhi di mio padre, lo chiamai sbracciando con la poca forza che avevo nelle braccia e venne lì ad abbracciarmi.
“Sta venendo Mike, così potrai riabbracciare anche lui!”
Lo guardai incredulo.
Sorridendo se ne andò portando via tutti gli altri, ero confuso.
In quel momento il dottore si sedette vicino a me sorridendo gentilmente.
“Ciao Billie Joe, tutti erano in ansia per te.” Mi diede una pacca sulla spalla e riprese:  “Devi stare attento, ma questo lo sai.  Rischiavi veramente di combinarti male.”
“Ma io sto bene. Solo che non capisco. Cioè io non ero qui. Ero a casa mia, Mike non c’era più. Cos’è successo?”
Il dottore mi guardò stordito e si voltò corrugando il viso.
La freddezza dell’espressione che dipinse il suo volto ricoprì di nuvole il cielo sereno che avevo dentro.
Tensione.
La porta si aprì di scatto. Sobbalzai.
Ero concentrato a interpretare l’espressione del dottore e non appena sentii la porta aprirsi, due brividi facevano a gara di corsa sulla mia schiena.
Una testa gialla e un corpicino minuto spuntarono fuori.
La figura corse velocemente verso di me abbracciandomi per quelli che nella mia mente furono un centinaio di minuti.
Mike era con me.
Lo strinsi fortissimo e la prima lacrima di felicità dopo anni venne fuori.
Era stato tutto un incubo. Uno stupidissimo incubo.
La mie felicità era racchiusa in quella stretta.
 
Non raccontai mai a Mike dell’accaduto.

Dodici giorni dopo mi svegliai con un brutto peso sul cuore.
Mi ricordai che nel sogno, o incubo, fu proprio questo il giorno e il momento in cui arrivò la chiamata.
Il telefono squillò ancora, mia madre dormiva.
Pareva di essere ancora dentro, sembrava tutto un deja-vu.
Dissi a mia madre di rispondere,  io ne non avevo coraggio.
Si alzò tranquilla e rispose.
Ancora quell’espressione terrificante, pregai di essere ancora nel sogno.
Mi graffiai la mano con tutta la forza che avevo nel braccio.
Ero sveglio.